Tu...Tu...Tu...Tu- Click. «...poor?» La voce metallica proveniente dall’altro lato del telefono, scossa e piegata dalle interferenze magiche, fece più male di quanto fosse lecito o sensato. Deglutì a vuoto un paio di volte, il capo chinato per incassare il colpo senza perdere terreno. Affondò i gomiti sulle ginocchia, strizzando le palpebre fino a sentire un principio di emicrania al centro esatto del cervello. Post sbronza, si concesse ironico, impossibilitato a crederci ma bisognoso di farlo. Edmund non era mai stato un grande ammiratore di quel sordido malessere che gli esperti, dove con esperti si intendeva soggetti umorali come sua sorella, definivano come tristezza, melanconia. Le emozioni forti non facevano per lui, un ragazzo che da tutta, e per tutta, una vita, amava affidarsi alla superficialità dell’essere. Perchè cercava di non pensarci, e talvolta si convinceva anche di esserci riuscito, ma in cuor suo era perfettamente cosciente che l’apparenza fosse tutto ciò che lo mantenesse integro. Un contenitore intatto – perfino impeccabile, grazie tante - per centinaia di migliaia di cose rotte: il povero, povero, Edmund. Aveva quasi vent’anni, ed ancora non era riuscito a staccarsi completamente dallo sguardo pietoso della maestra Moore quando sua madre non si era presentata alla sua recita scolastica, e suo padre non l’aveva accompagnato a scuola il suo primo giorno, ed alla fine nessuno dei due era mai tornato a prenderlo quando tutti gli altri bambini erano tornati a casa. Povero Edmund, che girava con vestiti strappati fingendo fosse tendenza; povero Edmund, che nei panini non riusciva mai a mettere la maionese perché troppo piccolo per arrivare all’ultima mensola della cucina. L’aveva sentito così spesso, che per anni si era dimenticato di avere un altro nome, oltre a Poor: «edmund!!!» Inspirò secco dal naso, ignorando il pungente odore di sangue ed il vago bruciore proveniente dalle ferite ancora fresche. Tendeva a non ricadere mai nell’infame tranello del passato, ed era piuttosto bravo a fingere di esserci riuscito: stringeva un braccio sulle spalle degli stronzi che fino a qualche anno prima lo prendevano per il culo scrivendo su instagram serata w/ friendz; sorrideva e faceva spallucce quando gli domandavano, dopo anni in cui avevano perso ogni contatto, quale potere avesse piuttosto di come stesse. Non aveva mai sopportato l’accondiscendenza e la compassione, tanto quanto aveva mal tollerato le offese ed i maltrattamenti: per entrambe le situazioni, era troppo intelligente. Troppo superiore per darci - apparentemente - un peso, troppo impertinente per lasciar scorrere senza ritorcere quesiti ai quali il proprio interlocutore non sapeva come ribattere. Aveva imparato presto che far domande era il modo migliore di mettere a tacere gli uni o gli altri, e che avere l’ultima parola non era solo un vezzo ma necessità; quel ch’era diventato a diciannove anni suonati, se l’era guadagnato e meritato. Nel bene, e nel male. Le ragazze che l’avevano respinto, si accontentavano delle briciole che ora era magnanimamente disposto a concedere; i coetanei che piuttosto che farmi vedere in giro con te, mi uccido, lo invitavano tutte le sere per andare al pub insieme: i miracoli dell’allenamento, dell’apparecchio per i denti, e degli occhi scuri che così neri non erano mai parsi, quando ad indossarli era stato un Serpeverde fottuto solo a metà. L’intelligenza c’era sempre stata, così come il desiderio di poterla usare: erano state le competenze, a mancare al più giovane Poor. La giusta dose di applicazione e cazzo-mene-sono-un-capo-cannoniere. L’abuso di un mondo crudele che si divertiva, nel grande gioco della vita, a spostare la sua pedina sempre nel momento e nel luogo più sbagliato: quando in ballo c’era tutto, bisognava bluffare vittoria anche con carte basse. «ce l’hai fatta?» suonò debole, e mortificante, e avrebbe davvero dovuto fermarsi al terzo bicchiere perché l’alcool non l’aveva mai tollerato. Premette il telefono fra la guancia e la spalla, aprendo con i denti la busta di briciole che si era portato appositamente dall’ultimo locale. «ce l’ho fatta!! era decisamente più facile del previsto, non pensavo che -» «taglia corto, non hai molto tempo» e con quale ironia maledetta, la voce di Poor si spaccò a metà. Ridacchiò fra sé, ben conscio di avere un senso dell’umorismo discutibile, prendendo una manciata di briciole per lanciarle nella fontana. ”Ai pesci?” Una domanda che riceveva spesso, seguita da un docile ”perchè guarda che non ci sono pesci in questa fontana, eh” al quale replicava con un ah no? fingendosi l’idiota che credevano, e che meritavano di continuare a credere, fosse. Meglio lo pensassero stupido, che sapere fosse stupido sadico abbastanza da lanciare briciole ai piccioni perché si divertiva a vederli sporgersi indignati dal bordo di marmo (che poi, manco a dirlo, dava da mangiare agli uccellini anche sulla terraferma: era un bravo, cattivo ragazzo). «ah è vero, accipicchia. cos’è che dovevo dire??» tante troppe un fottio di cose. Non fece in tempo ad aggiungere altro. Mentre le briciole, da che il pugno era stretto, si conficcavano nel palmo, Poor non fece di nuovo in tempo a dire qualcosa, arrivando di nuovo tardi. Di nuovo incapace di - «segreteriadinathanabelardwithpotatoes, lasciate un messaggio dopo il bip!» Sentì la propria voce mimare un colpo di tosse, ed - ancora - la imitò. «giusto. p.s. grazie bro per avermi aiutato, sei il best, sai che queste cos-» Biiiiip. Chiuse il messaggio prima che potesse registrare il suono denso e sinistramente liquido del suo respiro. Lo tenne fra le cosce, incastrato fra i palmi ed i jeans, ed aprì gli occhi fissandoli sul cielo nero e piatto di Hogsmeade. Perchè ti fai questo - non lo sapeva. C’erano giornate, e nello specifico serate, in cui toccare il fondo non gli bastava, ed allora doveva mettersi a scavare di più, a farsi più male, a spargere sale sulle ferite e respirare limone e acqua di mare. Si diceva, sadico e disperato, di non aver sofferto abbastanza; di dover, in qualche modo, pagare il proprio debito d’assenza. Era arrivato tardi, per elaborare il lutto e la perdita dell’unica famiglia che conoscesse. Era arrivato così tardi, che al suo ritorno loro avevano elaborato ed erano andati avanti: Darden e Isaac erano in giro per il mondo, Gemes era fidanzato ufficialmente, Idem si era aggiustata incollandosi pezzi di scotch colorato e sembrava essere felice, Mabel conviveva. Gli stessi Mabel e Idem che erano finiti nei laboratori come lui, e che pure di lui non avevano avuto alcuna memoria: spazzato via dalle loro menti e pensieri così che non mancasse a nessuno. Non avevano pianto la sua sparizione; non l’avevano pensato, né cercato, e – non gli avevano tenuto una sedia libera, lì su quel prato, al funerale di April e Nathan Withpotatoes. Il lutto era una roba strana, sapete? A volte non ci pensavi per ore, per giorni, magari settimane, e bastava un secondo di debolezza per sentire… sentire cosa? Rabbia. Frustrazione. Senso di colpa. Mi dispiace. Ed ancora furia, ed ancora angoscia, ed ancora sollievo perché almeno April non si ricordava che poco prima che sparisse avevano litigato, e poi di nuovo fottuto dolore perché non l’aveva ricordato punto. Era egoista, sentir bruciare gli occhi perché fossero morti senza ricordarlo? Senza sapere che fosse esistito, che ogni notte pregasse perché lo trovassero. Povero, povero Edmund. «patetico.» ad alta voce e fra denti digrignati, perché era uno di quei troppo che non riusciva a contenere nell’involucro senza spezzarlo e perderne il contenuto – tutte le cose rotte. Battè le palpebre sui cespugli scuri dell’aetas, dondolando le gambe per riempire il silenzio con il suono del tessuto dei pantaloni a sfregare contro il legno della panchina. Aveva tanti difetti: era bugiardo, (patetico), ipocrita, (patetico), insolente, (patetico), presuntuoso, (patetico) ma non si sarebbe concesso di essere patetico – non più (non in pubblico). Era troppo furbo e affascinante, per...quello, qualunque cosa fosse. Amava essere al centro dell’attenzione, ed era decisamente una drama queen, ma...non di drama vero, capite? Il suo sogno era diventare famoso, ma non aveva davvero talenti: non cantava, non suonava né recitava; voleva fare il belloccio a temptation island, far scattare lo skandalo, e diventare ospite fisso di barbara d’urso. Quel genere di serietà (la realtà) non...faceva per lui. Voleva le luci dello spettacolo, perché t’impedivano di vedere tutto il resto. Non aveva avuto tempo per elaborare. Per capire. Al suo ritorno, anziché braccia allargate e sorrisi commossi, aveva trovato lapidi e occhiate dubbiose ed imbarazzate: ci conosciamo? Sobbalzò, quando il telefono iniziò a squillare. Non ebbe bisogno di guardare chi fosse, per schiarirsi la voce ed esordire con un allegro «sorellona, qual buon vento!» e ricevere da Idem il sospiro che meritava. Era lei, d'altronde, a conservare i loro telefoni. «poor...» No. ENNE O. Era stato un momento di debolezza, ok? Non voleva parlarne, soprattutto non con lei, e non voleva sorbirsi la paternale, soprattutto non da lei, né sentirsi dire tutto quello su cui Idem avrebbe avuto ragione: odiava, che qualcun altro oltre a lui avesse ragione. «mi è partita la chiamata per errore» mentì leggero, il tono divertito a non tradirlo, strascinando le lettere per far credere di aver bevuto più di quanto non avesse fatto. Un altro sospiro. «ti voglio bene. Lo sai, vero?» No, non lo sapeva – non più. «come potresti non volermene? Sono meraviglioso» ci vollero credere entrambi, alle risate che ne seguirono. E ci credettero poco, come dimostrò il fatto che Idem, malgrado quanto detto e malgrado l’ora, fosse rimasta al telefono con lui, e Poor gliel’avesse lasciato fare, deglutendo sollievo ad ogni respiro. «vado» sussurrò solo, nel tono incerto che concedeva a pochi. «domani vieni a fare colazione con noi?» Chiuse gli occhi e li riaprì, rilassando la schiena contro la panchina. «certo, lo sai che non ho – soldi. - cereali» sorrise. Mantenne il sorriso anche quando cadde la linea, e non rimase altro se non il fruscio dei jeans e dei cespugli. Uno s’aspettava che di notte i parchi fossero pieni di tossici e *boyle’s voice* mMMMAFIA, ma la verità era che non c’era un cazzo di nessuno. Attese. E attese, conscio che la notte l’avrebbe passata esattamente in quel punto – Poor dormiva di giorno, non di notte; diceva fosse fico, che era comunque meglio di ammettere il terrore del buio – sbottando infine un inarticolato «comunque puoi uscire da lì, eh.» al nulla, come se avesse sempre saputo che ci fosse qualcuno in ascolto. ...cosa non vera, ma voleva dirlo almeno una (1) volta nella vita. | [verse 1] Keep your helmet, keep your life, son
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