and some things you just can't speak about

[ouroblivion-02] @aetas, libera

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    poor e. wp
    Tu...Tu...Tu...Tu- Click.
    «...poor?»
    La voce metallica proveniente dall’altro lato del telefono, scossa e piegata dalle interferenze magiche, fece più male di quanto fosse lecito o sensato. Deglutì a vuoto un paio di volte, il capo chinato per incassare il colpo senza perdere terreno. Affondò i gomiti sulle ginocchia, strizzando le palpebre fino a sentire un principio di emicrania al centro esatto del cervello. Post sbronza, si concesse ironico, impossibilitato a crederci ma bisognoso di farlo. Edmund non era mai stato un grande ammiratore di quel sordido malessere che gli esperti, dove con esperti si intendeva soggetti umorali come sua sorella, definivano come tristezza, melanconia. Le emozioni forti non facevano per lui, un ragazzo che da tutta, e per tutta, una vita, amava affidarsi alla superficialità dell’essere. Perchè cercava di non pensarci, e talvolta si convinceva anche di esserci riuscito, ma in cuor suo era perfettamente cosciente che l’apparenza fosse tutto ciò che lo mantenesse integro. Un contenitore intatto – perfino impeccabile, grazie tante - per centinaia di migliaia di cose rotte: il povero, povero, Edmund. Aveva quasi vent’anni, ed ancora non era riuscito a staccarsi completamente dallo sguardo pietoso della maestra Moore quando sua madre non si era presentata alla sua recita scolastica, e suo padre non l’aveva accompagnato a scuola il suo primo giorno, ed alla fine nessuno dei due era mai tornato a prenderlo quando tutti gli altri bambini erano tornati a casa. Povero Edmund, che girava con vestiti strappati fingendo fosse tendenza; povero Edmund, che nei panini non riusciva mai a mettere la maionese perché troppo piccolo per arrivare all’ultima mensola della cucina. L’aveva sentito così spesso, che per anni si era dimenticato di avere un altro nome, oltre a Poor: «edmund!!!»
    Inspirò secco dal naso, ignorando il pungente odore di sangue ed il vago bruciore proveniente dalle ferite ancora fresche. Tendeva a non ricadere mai nell’infame tranello del passato, ed era piuttosto bravo a fingere di esserci riuscito: stringeva un braccio sulle spalle degli stronzi che fino a qualche anno prima lo prendevano per il culo scrivendo su instagram serata w/ friendz; sorrideva e faceva spallucce quando gli domandavano, dopo anni in cui avevano perso ogni contatto, quale potere avesse piuttosto di come stesse. Non aveva mai sopportato l’accondiscendenza e la compassione, tanto quanto aveva mal tollerato le offese ed i maltrattamenti: per entrambe le situazioni, era troppo intelligente. Troppo superiore per darci - apparentemente - un peso, troppo impertinente per lasciar scorrere senza ritorcere quesiti ai quali il proprio interlocutore non sapeva come ribattere. Aveva imparato presto che far domande era il modo migliore di mettere a tacere gli uni o gli altri, e che avere l’ultima parola non era solo un vezzo ma necessità; quel ch’era diventato a diciannove anni suonati, se l’era guadagnato e meritato.
    Nel bene, e nel male. Le ragazze che l’avevano respinto, si accontentavano delle briciole che ora era magnanimamente disposto a concedere; i coetanei che piuttosto che farmi vedere in giro con te, mi uccido, lo invitavano tutte le sere per andare al pub insieme: i miracoli dell’allenamento, dell’apparecchio per i denti, e degli occhi scuri che così neri non erano mai parsi, quando ad indossarli era stato un Serpeverde fottuto solo a metà. L’intelligenza c’era sempre stata, così come il desiderio di poterla usare: erano state le competenze, a mancare al più giovane Poor. La giusta dose di applicazione e cazzo-mene-sono-un-capo-cannoniere. L’abuso di un mondo crudele che si divertiva, nel grande gioco della vita, a spostare la sua pedina sempre nel momento e nel luogo più sbagliato: quando in ballo c’era tutto, bisognava bluffare vittoria anche con carte basse.
    «ce l’hai fatta?» suonò debole, e mortificante, e avrebbe davvero dovuto fermarsi al terzo bicchiere perché l’alcool non l’aveva mai tollerato. Premette il telefono fra la guancia e la spalla, aprendo con i denti la busta di briciole che si era portato appositamente dall’ultimo locale. «ce l’ho fatta!! era decisamente più facile del previsto, non pensavo che -» «taglia corto, non hai molto tempo» e con quale ironia maledetta, la voce di Poor si spaccò a metà. Ridacchiò fra sé, ben conscio di avere un senso dell’umorismo discutibile, prendendo una manciata di briciole per lanciarle nella fontana. ”Ai pesci?” Una domanda che riceveva spesso, seguita da un docile ”perchè guarda che non ci sono pesci in questa fontana, eh” al quale replicava con un ah no? fingendosi l’idiota che credevano, e che meritavano di continuare a credere, fosse. Meglio lo pensassero stupido, che sapere fosse stupido sadico abbastanza da lanciare briciole ai piccioni perché si divertiva a vederli sporgersi indignati dal bordo di marmo (che poi, manco a dirlo, dava da mangiare agli uccellini anche sulla terraferma: era un bravo, cattivo ragazzo). «ah è vero, accipicchia. cos’è che dovevo dire??»
    tante
    troppe
    un fottio
    di cose.
    Non fece in tempo ad aggiungere altro. Mentre le briciole, da che il pugno era stretto, si conficcavano nel palmo, Poor non fece di nuovo in tempo a dire qualcosa, arrivando di nuovo tardi.
    Di nuovo incapace di - «segreteriadinathanabelardwithpotatoes, lasciate un messaggio dopo il bip!»
    Sentì la propria voce mimare un colpo di tosse, ed - ancora - la imitò. «giusto. p.s. grazie bro per avermi aiutato, sei il best, sai che queste cos-»
    Biiiiip.
    Chiuse il messaggio prima che potesse registrare il suono denso e sinistramente liquido del suo respiro. Lo tenne fra le cosce, incastrato fra i palmi ed i jeans, ed aprì gli occhi fissandoli sul cielo nero e piatto di Hogsmeade. Perchè ti fai questo - non lo sapeva. C’erano giornate, e nello specifico serate, in cui toccare il fondo non gli bastava, ed allora doveva mettersi a scavare di più, a farsi più male, a spargere sale sulle ferite e respirare limone e acqua di mare. Si diceva, sadico e disperato, di non aver sofferto abbastanza; di dover, in qualche modo, pagare il proprio debito d’assenza. Era arrivato tardi, per elaborare il lutto e la perdita dell’unica famiglia che conoscesse. Era arrivato così tardi, che al suo ritorno loro avevano elaborato ed erano andati avanti: Darden e Isaac erano in giro per il mondo, Gemes era fidanzato ufficialmente, Idem si era aggiustata incollandosi pezzi di scotch colorato e sembrava essere felice, Mabel conviveva.
    Gli stessi Mabel e Idem che erano finiti nei laboratori come lui, e che pure di lui non avevano avuto alcuna memoria: spazzato via dalle loro menti e pensieri così che non mancasse a nessuno. Non avevano pianto la sua sparizione; non l’avevano pensato, né cercato, e – non gli avevano tenuto una sedia libera, lì su quel prato, al funerale di April e Nathan Withpotatoes. Il lutto era una roba strana, sapete? A volte non ci pensavi per ore, per giorni, magari settimane, e bastava un secondo di debolezza per sentire… sentire cosa? Rabbia. Frustrazione.
    Senso di colpa.
    Mi dispiace.
    Ed ancora furia, ed ancora angoscia, ed ancora sollievo perché almeno April non si ricordava che poco prima che sparisse avevano litigato, e poi di nuovo fottuto dolore perché non l’aveva ricordato punto. Era egoista, sentir bruciare gli occhi perché fossero morti senza ricordarlo? Senza sapere che fosse esistito, che ogni notte pregasse perché lo trovassero.
    Povero, povero Edmund.
    «patetico.» ad alta voce e fra denti digrignati, perché era uno di quei troppo che non riusciva a contenere nell’involucro senza spezzarlo e perderne il contenuto – tutte le cose rotte. Battè le palpebre sui cespugli scuri dell’aetas, dondolando le gambe per riempire il silenzio con il suono del tessuto dei pantaloni a sfregare contro il legno della panchina. Aveva tanti difetti: era bugiardo, (patetico), ipocrita, (patetico), insolente, (patetico), presuntuoso, (patetico) ma non si sarebbe concesso di essere patetico – non più (non in pubblico). Era troppo furbo e affascinante, per...quello, qualunque cosa fosse. Amava essere al centro dell’attenzione, ed era decisamente una drama queen, ma...non di drama vero, capite? Il suo sogno era diventare famoso, ma non aveva davvero talenti: non cantava, non suonava né recitava; voleva fare il belloccio a temptation island, far scattare lo skandalo, e diventare ospite fisso di barbara d’urso. Quel genere di serietà (la realtà) non...faceva per lui. Voleva le luci dello spettacolo, perché t’impedivano di vedere tutto il resto.
    Non aveva avuto tempo per elaborare. Per capire. Al suo ritorno, anziché braccia allargate e sorrisi commossi, aveva trovato lapidi e occhiate dubbiose ed imbarazzate: ci conosciamo?
    Sobbalzò, quando il telefono iniziò a squillare. Non ebbe bisogno di guardare chi fosse, per schiarirsi la voce ed esordire con un allegro «sorellona, qual buon vento!» e ricevere da Idem il sospiro che meritava. Era lei, d'altronde, a conservare i loro telefoni. «poor...» No. ENNE O. Era stato un momento di debolezza, ok? Non voleva parlarne, soprattutto non con lei, e non voleva sorbirsi la paternale, soprattutto non da lei, né sentirsi dire tutto quello su cui Idem avrebbe avuto ragione: odiava, che qualcun altro oltre a lui avesse ragione. «mi è partita la chiamata per errore» mentì leggero, il tono divertito a non tradirlo, strascinando le lettere per far credere di aver bevuto più di quanto non avesse fatto.
    Un altro sospiro.
    «ti voglio bene. Lo sai, vero?»
    No, non lo sapeva – non più.
    «come potresti non volermene? Sono meraviglioso» ci vollero credere entrambi, alle risate che ne seguirono. E ci credettero poco, come dimostrò il fatto che Idem, malgrado quanto detto e malgrado l’ora, fosse rimasta al telefono con lui, e Poor gliel’avesse lasciato fare, deglutendo sollievo ad ogni respiro.
    «vado» sussurrò solo, nel tono incerto che concedeva a pochi. «domani vieni a fare colazione con noi?» Chiuse gli occhi e li riaprì, rilassando la schiena contro la panchina. «certo, lo sai che non ho – soldi. - cereali» sorrise.
    Mantenne il sorriso anche quando cadde la linea, e non rimase altro se non il fruscio dei jeans e dei cespugli. Uno s’aspettava che di notte i parchi fossero pieni di tossici e *boyle’s voice* mMMMAFIA, ma la verità era che non c’era un cazzo di nessuno.
    Attese.
    E attese, conscio che la notte l’avrebbe passata esattamente in quel punto – Poor dormiva di giorno, non di notte; diceva fosse fico, che era comunque meglio di ammettere il terrore del buio – sbottando infine un inarticolato «comunque puoi uscire da lì, eh.» al nulla, come se avesse sempre saputo che ci fosse qualcuno in ascolto.
    ...cosa non vera, ma voleva dirlo almeno una (1) volta nella vita.
    [verse 1]
    Keep
    your helmet,
    keep
    your life, son
    gifs
    i panic! at (a lot of places besides) the disco
    i see it, i like it, i want it, i got it



    una canzone molto allegra


     
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    gemes hamilton
    «gemes»
    «no», a prescindere. Era ormai un’abitudine che si portava dietro dal lontano settembre del duemilaquindici, quella di replicare d’istinto alla voce di Heidrun che lo chiamava con un secco dissenso. La maggior parte delle volte, faceva bene e con cognizione di causa; altre, seppur legittimate dai precedenti della storia che condividevano, il monosillabo usciva automatico ed involontario – ed era abbastanza certo che anche il giorno delle loro nozze, quando l’officiante gli avrebbe chiesto se volesse prenderla come sua sposa, avrebbe risposto in tal modo, salvo poi correggersi.
    Forse.
    Altre volte ancora, come quella, lo faceva mentre dormiva, rimanendo con la faccia premuta contro il cuscino e fingendo di non aver sentito alcunché. Aveva un sonno leggero, Gemes Hamilton, e l’aveva sempre preferito rispetto all’ipotesi di dormire tanto profondamente da non percepire quel che gli succedesse attorno, ma i tentativi della Crane di stremargli l’anima (che non aveva, per inciso, il che rendeva ancor più encomiabile la perseveranza della ragazza) di rado erano in grado di svegliarlo. Il fatto che spesso e volentieri i suoi motivi erano talmente idioti da non meritare l’attenzione del trentenne era, ovviamente, la ragione principale per cui falliva così miseramente, ma non l’unica.
    L’altra, era un qualcosa di decisamente più intimo ed estraneo allo stesso Hamilton, al punto di non riuscire davvero a riconoscerlo e riconoscerselo. Era che, stando al fianco di Run – con la testa di lei premuta contro il petto, il fiato caldo e delicato del suo respiro a solleticargli la pelle, le proprie mani perse nei capelli castani e le gambe aggrovigliate tra di loro –, non sentiva la necessità di aprire gli occhi al minimo disturbo. O il bisogno di stare all’erta, di scattare se un minimo segnale suggeriva l’incedere di un possibile pericolo.
    C’era un motivo, tra i tantissimi altri, che gli aveva sempre fatto credere fosse sbagliato amare qualcuno nella maniera in cui aveva scoperto di amare lei: quel tipo di sentimento, rendeva le persone deboli e più soggette agli errori, agli sbagli, a tutte quelle situazioni che un più viscerale istinto di sopravvivenza avrebbe potuto evitare.
    L’amore faceva stupidamente sentire le persone al sicuro, anche quando il mondo intero crollava loro attorno; dava quell’illusione che nonostante tutto andasse in malora, restava comunque qualcosa alla quale aggrapparsi.
    Gemes non ne aveva mai avuto bisogno, e non aveva mai cercato quel benessere tanto agognato dagli altri: l’unica cosa di cui era sicuro era se stesso, così come l’unica cosa che lo faceva sentire al sicuro.
    Eppure, Heidrun Crane lo faceva sentire al sicuro. In un modo che non capiva e non condivideva, e di cui certo non faceva vanto – né con lei, né con chicchessia.
    E quello, gli permetteva di dormire un po’ di più. Un po’ più sereno.
    «gemes...» ad ogni modo, quella volta si trattava semplicemente di lei che rompeva le palle e di lui che, seppure ormai desto e vigile, si rifiutava di darle retta. «hamilton, stai dormendo?» una citazione di tempi ormai belli che andati, ma che comunque gli faceva piegare l’angolo delle labbra nascosto dal cuscino.
    «sì»
    «io no» e si chiese, lui, se desiderasse un applauso. «okay» rispose soltanto, non dicendole né di smetterla di assillarlo, né di tornare a dormire: era una donna adulta – almeno anagraficamente –, non poteva né voleva controllare la sua vita, ma sapeva anche quali sarebbero state le conseguenze casomai avesse deciso di continuare. «però vorrei farlo» «e allora fallo» grugnì e si girò di lato, così da poterla ignorare ancora meglio. Come immaginava, non funzionò. «come faccio -» «chiudendo gli occhi e smettendo di parlare, funziona» «- se il tuo telefono continua a squillare da minuti» «mac.» il breve silenzio che ne seguì, rotto solo dalla vibrazione del cellulare, confuse entrambi. «intendevo: spegnilo» lapsus.
    Una soluzione così semplice, in teoria.
    In pratica, invece: «è idem.»
    «oh no.»
    Premette la faccia sul guanciale, respirando contro lo stesso, per poi spingere con i palmi sul materasso e mettersi a sedere. Con un occhio ancora chiuso e l’altro aperto abbastanza da far scivolare un guizzo azzurro sul telefono, osservò per prima cosa l’orario: troppo presto. Sospirò, provato dall’esistenza, prima di far scivolare il dito sullo schermo ed accettare la chiamata.
    «gemes! scus-»
    «chi è morto?» nemmeno fece finire la sorella di parlare, sopprimendo uno sbadiglio nel pugno chiuso; da quella posizione, poteva chiaramente sentire lo sguardo smeraldo della mimetica premergli contro la schiena – confusa, forse, ma era abbastanza sicuro che perlopiù fosse assonnata: le dava due secondi, prima di sentirla nuovamente ronfare alle sue spalle.
    Per quanto glielo dicesse poco spesso, a Gemes faceva sempre piacere sentire la voce della Withpotatoes dall’altra parte della cornetta; talvolta, fingeva addirittura di sbagliare numero di telefono così che fosse costretta a rispondere prima di riattaccare, concedendogli un istante della propria giornata, o settimana, o mese che fosse. Era una certezza, nonostante tutto e nonostante tutti. Ma a notte fonda, non era sempre così piacevole.
    Soprattutto perché, le ultime volte che aveva ricevuto sue notizie a quell’ora tarda, non erano mai state buone nuove: dopo Nathan e April avevano avuto un po’ di tregua, ma poi se n’era andato Isaac, e Darden era partita per chissà dove, e Poor era tornato e loro – lui – si era scordato della sua esistenza; non voleva sentire che l’avessero ritrovato da qualche parte, o che Mabel sparisse di nuovo senza lasciare alcuna traccia. Né voleva sentire qualcuno che non fosse Idem, dal suo telefono, a dirgli qualcosa di stupido come mi dispiace; non esisteva.
    «cosa? no, non è morto nessuno!» sospirò, massaggiandosi metà faccia con la mano libera. Si sentì tirare la t-shirt da una Crane già nel mondo dei sogni, e sapendo già quel che volesse domandargli girò appena la testa sopra la spalla, rivolgendole una mezza occhiata. «ancora tutti vivi» eh, assurdo. Tornando poi alla chiamata: «che succede, allora? sono le… non lo so, è notte fonda» se avesse già dimenticato l’orario? Sì, certo: puntava di tornare sotto le lenzuola nel giro di qualche secondo e dimenticare anche di esistere per le prossime ore.
    «tranquillo, non credo… nulla? si tratta di poor, l’ho appena sentito...»

    Allerta spoiler: non era tornato a dormire.
    «comunque puoi uscire da lì, eh.»
    Gemes Hamilton, con le mani sepolte nelle tasche del lungo cappotto nero, mosse qualche passo sull’erba secca dell’Aetas, con l’ombra di un mezzo sorriso dipinto sul volto. Non era nelle sue intenzioni essere notato, almeno inizialmente, e se avesse voluto sarebbe potuto tranquillamente restare dietro quell’albero per ore senza che Edmund si accorgesse della sua presenza; un vero peccato, che avesse accidentalmente calpestato un ramoscello caduto a terra, rivelandosi come un principiante qualunque.
    Idem non gli aveva spiegato molto, come al solito: un po’ perché non sapeva bene cosa dire, ed un po’ perché non ce n’era davvero bisogno. Aveva anche sostenuto di avere bisogno di un suo parere, o di un suo consiglio, quando era chiaro al telecineta che in realtà l’unico bisogno della sorella fosse di parlarne – forse, per lo stesso senso di colpa che ogni tanto attanagliava la sua gola. Sapevano entrambi non ce ne fosse la necessità, che tutto sommato loro colpe non ne avevano, ma.
    Gli aveva anche detto che “ma sì, non preoccuparti, tanto ha detto che domattina viene a casa a fare colazione, il mio era solo un pretesto per sentirti SALUTAMI RUN!”, ma a quel punto l’Hamilton era fin troppo sveglio per restarsene con le mani in mano a guardare il soffitto e ad ascoltare il russare della fidanzata; la medium non gli aveva espressamente chiesto di fare qualcosa, ma per caso aveva già rintracciato la posizione del fratello minore e gliel’aveva inoltrata appena terminata la chiamata.
    Praticamente due (2) minuti dopo che si erano sentiti Idem e Poor, il terzo incomodo che non aveva mai chiesto a nessuno di essere inserito nei drammi di famiglia ma che, per volere divino, ci finiva sempre e comunque in mezzo, si era teletrasportato da casa sua al parchetto dove i macchinari mistici di cui si serviva la Mystery avevano triangolato il metamorfo.
    Ad essere onesti, non sapeva cosa ci facesse lì. Per quanto volesse bene al ragazzo, Gemes peccava di un elemento fondamentale che la Withpotatoes continuava a credere lui avesse: l’empatia. Voleva controllare fosse ancora vivo? Quello sì, di sicuro: non avevano bisogno che sparisse di nuovo, che si dimenticassero ancora di lui, o che (finisse in un universo alternativo) morisse.
    Voleva fare il fratello? Oh, Dio santissimo, no.
    Allora perché ti sei fatto sentire, Gemes?
    Si avvicinò alla panchina, restando poi alle sue spalle per osservare il ragazzo sdraiato è sdraiato? Per me sì, ma insomma... su di essa. «sembri un barbone, poor.» rimase a guardarlo con giudizio, per sporgersi poco dopo ed annusarlo. Si ritrasse, accendendosi poi una sigaretta. «puzzi anche come un barbone.»
    Un uomo di poche parole, Gemes Hamilton. Soprattutto, sapeva sempre quali fossero quelle giuste. «davi da mangiare i pesci o volevi prendere per il culo i piccioni?» così, per sapere se denunciarlo all’autorità massima dei piccioni – sì, Sinclair Hansen. Proprio lui.
    pastor @satan_buddy
    can i sell my feelings on ebay?
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    Si era aspettato che ad uscire dall’anfratto buio dell’Aetas fosse uno spacciatore, un assassino, o, nella migliore delle ipotesi, uno di quei guardoni che giravano come anime in pena per i parchi sperando di cogliere momenti intimi di qualche affiatata coppietta: non era neanche nella sua lista di statistiche e probabilità che, a far capolino presso la sua panchina, potesse arrivare un Gemes Hamilton - eppure. Sorpreso, osservò l’uomo battendo rapido le palpebre, veloce nell’abbandonare la posizione supina e sedersi con la schiena dritta, e le mani abbandonate in grembo con innocenza. Se fossero apparsi Idem o Mabel, Poor avrebbe continuato la propria ironica auto commiserazione lasciando che l’uno o l’altro gli offrissero, rispettivamente, un abbraccio ed un bicchiere di whiskey, cura ad ogni male, ma.. Gemes? Suscitava un genere di pressione sociale diversa, l’Hamilton – come Darden, ma essendo una presenza maggiormente mistica rispetto alla Larson, un po’ di più – e Poor voleva...voleva? Impressionarlo? Dopo una decade, ancora puntava a conquistare l’inavvicinabile fratello maggiore dei Randagi?
    Ebbene.
    Gemes Hamilton era sempre stato, per motivi sconosciuti ai più considerando le minime quantità di tempo passate insieme, il punto di riferimento di Edmund, l’ideale di quello che avrebbe voluto diventare. Il perchè, davvero, non avrebbe saputo dirlo, ma Poor non era tipo da farsi domande: troppo complesso, troppo impegnativo. Si schiarì la voce e lisciò gli abiti sgualciti, offrendo al maggiore un sopracciglio arcuato ed un mezzo sorriso. Non era… non era stupido quanto gli piaceva far credere di essere. Era superficiale, pratico, pigro e volatile, ma non era un’idiota; sapeva benissimo che non poteva essere una coincidenza il fatto che il telecineta si fosse trovato esattamente lì, in quel parco ed a quell’ora, dopo una confusa e disperata chiamata ad Idem. Strinse la guancia fra i denti, colpevoli occhi scuri puntati sui propri piedi. «non puzzo.» bofonchiò, allungando il collo per annusarsi e volgere poi un’offesa occhiata al moro. «il look da barbone è il nuovo trend, dicono aiuti a collegarsi con l’intero sistema» chiuse gli occhi ed inspirò allargando zen le braccia. «sentire tutto, capisci?» Strisciò sulla panchina per lasciare posto all’altro di sedersi, sorridendo morbido e fasullo alla fontana di fronte a sé. «dovresti aggiornarti» concluse quindi, espirando una risata roca prima di abbandonarsi contro lo schienale. «davi da mangiare i pesci o volevi prendere per il culo i piccioni?» Il fatto che nonostante tutto, e nonostante loro, ricordasse le futili, ed alquanto discutibili, abitudini del Withpotatoes minore, bastò a fargli strizzare un sorriso ruvido fra le labbra, un grumo caldo fisso sulla bocca della gola. Non era una reale intenzione, quella di Poor di allontanare le persone e mantenerle su un piano superficialmente conoscitivo; era semplicemente quel che faceva, innato quanto respirare o assottigliare le palpebre per mettere a fuoco qualcosa di troppo lontano, ed era tanto avvezzo all’essere sconosciuto ai più che rimaneva sempre… smarrito, e stupito, nel rendersi conto che per alcuni fosse un libro aperto. Non era certo di esserne felice, ma non poteva neanche dire fosse del tutto sgradito. Era ..strano, esistere per qualcuno e non solo per se stessi. «entrambi?» tentò, abbozzando un sorriso ed offrendo le briciole anche all’altro: non esistevano età e status sociali, quando si trattava di perculare dei piccioni.
    ...o dare da mangiare ai pesci, certamente.
    Non disse nulla per minuti – o forse ore, o forse tutta una vita- facendo dilatare il silenzio fino a che non divenne troppo ovvio che fosse forzato, e non naturale. Gli piaceva, il silenzio; solitamente, lo trovava confortante, privo d’impegno come faceva al caso suo, ma c’era qualcosa di… qualcosa di troppo denso, di troppo non detto, in quello a pendere fra loro. Si risolse a sospirare, pollice ed indice a massaggiare le palpebre. Aprì la bocca per fare, si conosceva abbastanza da saperlo, qualche domanda scomoda che potesse metterlo a disagio quanto si sentiva lui in quel momento, tipo ma quando divento zio, tipo ma nel far west c’era l’elettricità, tipo ma quando parti per il medioevo, tipo abbiamo perso qualcun altro o per quest’anno siamo a posto, ed invece «non c’era bisogno venissi» morbido, delicato, appena sussurrato fra labbra chiuse. Roteò le spalle ed inspirò dal naso, espirando poi a bocca aperta. «idem esagera sempre» corrugò le sopracciglia, conscio che fosse una menzogna e poco intenzionato ad aggiustarla. Idem era tante cose, ma non un bugiarda né una che tendesse ad ingrandire i problemi: li arrotondava, al massimo, stringendoli fra le mani fino a che non diventavano un po’ più caldi e malleabili. «non mi piacciono le cose complicate» fece guizzare la lingua sul labbro inferiore, sforzandosi, per pura testardaggine ed amor proprio, ad alzare lo sguardo cercando quello di Gemes. «ma a volte le cose sono, complicate» un sordido ghigno di scuse storse le labbra del metamorfo, mani alzate in segno di resa e spalle lievemente ingobbite. «capisci?»
    Gemes, un intellettuale: no.
    [verse 1]
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