Boredom, vice and need

elwyn x dom

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    ELWYN HUXLEY
    Esisteva una netta distinzione tra il commettere involontariamente lo stesso errore e persistere, invece, nella vana speranza di ottenere un risultato diverso; una linea di confine che per l’Huxley risultava così sottile da non comprendere quante volte fosse lecito perseverare prima che questo venisse considerato diabolico – o masochista, nel suo caso specifico. Perché pur continuando a ripetere di non trarre alcun piacere dalla frequentazione del Lilum (e, soprattutto, dal perdere ogni scontro verbale con Margaret), doveva ammettere di trascorrervi più tempo del previsto. Ci era stato nel giorno della grande riapertura, attirato da una campagna pubblicitaria che aveva reso impraticabili le vie di Diagon Alley – con boa piumati ad avvolgere i passanti, maschere incantate in modo da aderire al volto di chiunque tentasse di evitarle, una pioggia di preservativi tuttigusti+1, delicati frustini pronti a castigare i malcapitati, una spropositata quantità di capi di abbigliamento intimo e dei sobri manifesti in grande formato, per avere la certezza che ogni centimetro quadrato di quelle strade rimandasse all’inaugurazione del locale a luci rosse. Ci era stato nel giorno in cui aveva dovuto pagare il suo debito con Svetlana, e aveva attraversato quei corridoi con lo stato d’animo di un condannato a morte; non diverso da ciò che provava ogni giorno, invero, preda della melodrammatica convinzione che l’intero universo cospirasse alle sue spalle e lui non fosse altro che vittima degli eventi. Ci era stato in altre sporadiche occasioni e ci era tornato, quella sera, per assistere all’esibizione esclusiva cui era stato invitato. Ma prima, «Un bottiglia di whisky incendiario.» si rivolse al barman, mentre se ne stava con il gomito appoggiato sul bancone, il busto proteso in avanti e la mano leggermente sollevata per attirare l’attenzione dell’uomo. «Offre la signorina Piper.» si affrettò ad aggiungere, pur sapendo che non solo Margaret gli avrebbe fatto pagare quella bottiglia fino all’ultimo zellino, ma avrebbe applicato interessi variabili che oscillavano tra un’umiliazione verbale e una punizione fisica – e no, non del genere che l’Huxley avrebbe potuto gradire. Tuttavia, aveva bisogno di alcol per affrontare (la vita e) qualunque trappola si celasse dietro l’inaspettata proposta da parte della donna – perché doveva esserci una trappola dal momento che non riusciva a pensare ad un solo motivo per cui qualcuno avrebbe dovuto decidere, consapevolmente e lucidamente, di godere della sua compagnia. A parte Zac, ma l’amico era un essere speciale biologicamente incapace di provare sentimenti negativi persino nei confronti di individui dalla discutibile moralità – se avesse potuto, avrebbe donato ai mangiamorte uno dei terribili vestiti da lui creati, avrebbe messo loro un imbarazzante cappellino e li avrebbe stretti in un abbraccio fino a – convincerli per sfinimento, tecnica già collaudata con il mercenario, e – convertirli al lato chiaro della forza. Quindi no, il Milkobitch non faceva testo.
    Osservò il barman, il cui volto era coperto da una maschera in pizzo, e ne registrò la riluttanza a sciogliere la presa attorno al collo della bottiglia. Sorrise, Elwyn, consapevole che avrebbe dovuto fare molto di più per dare consistenza a quelle frottole, e proseguì. «Sono suo ospite. Ho qui l’invito.» infilò la mano all’interno del giubbotto in pelle, tirò fuori un pezzo di carta e lo appoggiò sul bancone, facendolo scorrere sulla superficie fino a permettere al dipendente del Lilum di leggerne i caratteri stampati con un elegante corsivo. Non c’era alcun accenno ad alcol o consumazioni gratuite, ma confidava nel fatto che quel biglietto fosse esclusivo al punto da far apparire l’ex-corvonero come un cliente da trattare con un certo riguardo. O che, nel dubbio, l’uomo avrebbe ceduto per non rischiare di rovinare gli affari del suo capo.
    Tuttavia, non sembrava ancora convinto. «Sono qui per presentarle un nuovo dipendente. È già qui, è...» diede le spalle al suo interlocutore e fece scorrere lo sguardo sui tavoli disposti attorno al palco, nella speranza di individuare un soggetto che potesse permettergli di continuare la messinscena. Si sforzò di distinguere i profili scarsamente illuminati e passò in rassegna una trentina di uomini, da coloro che avevano più rughe che capelli ad altri il cui fisico non rientrava nei rigidi standard del locale, da clienti che avevano già trovato la compagnia della serata a «… lui. È seduto lì.» allungò il braccio e lasciò che l’indice puntasse verso una delle postazioni con la miglior visuale, concludendo che il soggetto in questione dovesse essere un frequentatore talmente assiduo da aver speso ben ottocento galeoni per godere di quello spettacolo – giusto ottocento in più di quanto Elwyn sarebbe mai stato disposto a sborsare. Tronfio, si voltò nuovamente verso il barman. «Può tenere l’invito e chiedere a lei, quando finirà di ballare.» picchiettò con le dita sul biglietto, fece l’occhiolino all’uomo e afferrò la bottiglia di whisky prima che potesse sollevare un’altra obiezione.
    Inebriato da quell’effimero senso di onnipotenza e pronto a gustarsi il breve lasso di tempo tra la costruzione di una delle sue storie e l’inevitabile momento in cui sarebbe stato smascherato, si fece strada tra i tavoli e si accomodò accanto al suo ignaro complice. «È libero qu– Dominic?» quel Dominic Cavendish? Lo stesso corvonero con cui, per anni, aveva condiviso lo spogliatoio, il ruolo di battitore e le fatiche degli allenamenti? Lo stesso che avrebbe potuto definire amico se l’Huxley non avesse tagliato i ponti con tutti, dopo essere stato espulso dalle Holyhead Harpies? Sorpreso, lo squadrò con attenzione – quel tanto che bastava per registrare i cambiamenti sul suo viso e, insieme, non permettere al ragazzo di aggiungere aggettivi sgradevoli a quelli con cui avrebbe potuto apostrofarlo di lì a poco – e si sporse nella direzione dell’ex-compagno per essere sicuro che le sue parole non venissero sovrastate dalla musica in sottofondo. «Ti dispiacerebbe voltarti e fare un cenno al barista?» e poiché non si sarebbe aspettato nulla di diverso rispetto ad un’espressione confusa, continuò a fissarlo, serio, in attesa che compisse quel gesto tanto insolito quanto apparentemente innocente. «Potrei avergli detto che sei qui per un provino da spogliarellista.» aggiunse, soltanto in seguito, cercando di studiare la sua reazione e comprendere quante possibilità ci fossero di continuare insieme quella recita. Dopotutto, l’ex-corvonero aveva un bel fisico, era giovane e di bell’aspetto, requisiti che avrebbero potuto indurre Svetlana a prendere in considerazione quella (finta) proposta lavorativa. E se il biondo fosse stato fortunato, avrebbe potuto persino sperare di fissare il provino per un giorno differente (dubitava, l’Huxley, che l’ex-serpeverde avrebbe permesso loro di abbandonare il locale senza alcuna garanzia, ma non ne avrebbe fatto menzione al minore) ed evitare poi di presentarsi all'appuntamento. In caso contrario, Dominic avrebbe dovuto soltanto improvvisare un sensuale striptease davanti alla proprietaria del Lilum e non morire nel mentre; un piccolo sacrificio per garantire ad entrambi una dose di alcol completamente gratuita.
    Svitò il tappo della bottiglia, avvicinò i due bicchieri e portò le iridi chiare in quelle del ragazzo. Poi, per la prima volta, gli sorrise. «Whisky?»
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    «Dominic?» aveva la testa china sulla bottiglia di vino quando si sentì richiamare, impegnato a leggere data e luogo di produzione, annata e caratteristiche della bevanda scelta; non ne capiva assolutamente nulla di vini ma di fronte a quell’etichetta fece schioccare la lingua contro il palato e mimò un “not bad” come se fosse un grande intenditore. Si stupì, prima di tutto, perché non era abituato a essere riconosciuto in quel locale, di solito non familiarizzava con gli altri uomini lì presenti e non dava troppa corda a chi cercava un appoggio maschio e macho per commentare le esibizioni delle spogliarelliste; e si stupì, subito dopo, perché quando alzò lo sguardo i suoi occhi incontrarono lo sguardo di Elwyn Huxley. Erano passati – quanti? – troppi (!!) anni dall’ultima volta che aveva incontrato l’ex compagno di casata e di spogliatoio, il suo mentore sul campo da Quidditch e il suo idolo sportivo. Erano stati amici dai, ma prima di tutto Dom era stato suo fan sfegatato da quando aveva messo piede per la prima volta a Hogwarts: il suo modo di fare abbastanza menefreghista, il suo atteggiamento così imprevedibilmente geniale e caotico, il suo essere così diverso dall’attenzione maniacale ma allo stesso tempo maldestra del biondo, l’avevano sempre in un certo senso affascinato – ma in senso amichevole, non partiamo in quarta – e aveva iniziato un vero e proprio culto dell’ex compagno di squadra. Aveva collezionato articoli di giornale, poster, figurine magiche, maglie che usavano durante gli allenamenti, oltre un’inquantificabile serie di ricordi e aneddoti (per niente eccezionali, bisogna ammetterlo, ma estremamente significativi per lui) nella sua mente. Con tali premesse ci si sarebbe aspettata una reazione del tutto differente da parte di Dominic, eppure rimase assolutamente immobile, la schiena compressa contro la pelle della poltrona sul quale era seduto e la bocca dischiusa in quello che sembrava puro stupore, ma non escludiamo che potesse essere anche una smorfia d'inizio di un doloroso arresto cardiaco. Ammettiamolo, non sarebbe stata per niente una reazione esagerata, visto il soggetto, eppure, il rossore sulle sue guance suggeriva che la sua reazione fosse dettata più dall’imbarazzo che dalla sua cieca venerazione dell’Huxley: lo stesso imbarazzo che avrebbe provato un bambino colto con le mani nel sacco a sfogliare una rivista di Playboy. Aveva paura che Elwyn pensasse di lui che era lì per motivi assolutamente diversi da quella che era la realtà e cioè che magari fosse diventato uno di quegli uomini ricchi di mezza età che non hanno speranza con le donne e si lanciano in traffici discutibili per avere l’attenzione dell’altro sesso. E non era così? Non proprio. Era infatti lì, Dominic Cavendish, non perché fosse terribilmente disperato con le donne (forse un po’), non perché avesse kink particolari da voyeur (magari un paio), né perché avesse centinaia di galeoni da spendere in modi più disparati e bizzarri possibile (ah no?), era lì perché in quei piccoli momenti di rituale preparazione allo spettacolo riusciva a vedersi non più come un giovane adulto con la testa ancora tra le nuvole e la barba cresciuta troppo in fretta, bensì come un vero adulto, uno di quelli che hanno le idee chiare su cosa fare, sempre un piano prestabilito, la schiena dritta, il petto in fuori e un bastone intagliato a cui reggersi anche se non hanno alcun deficit deambulatorio ma lo usano ugualmente per puro sfoggio estetico. In pratica, gli piaceva il Lilum – e aveva di conseguenza sottoscritto un abbonamento premium che costava fior di quattrini – più per la sensazione di realizzazione che gli provocava che per gli spettacoli in sé. Insomma, alziamo le mani di fronte al duro lavoro della Piper che metteva su spettacoli veramente invidiabili, le sue dipendenti erano forse le migliori in circolazione, ma Dominic non era lì proprio per quello, si poteva persino affermare che si sentisse a disagio così tanto circondato da ragazze coperte da pochi stracci e nient’altro; perlopiù era uno sguardo disagiato e spaesato tra i tanti sguardi famelici degli uomini che affollavano quel locale. Non che ci sia davvero bisogno di dirlo, ma non aveva mai guardato Svetlana negli occhi, aveva paura che se l’avesse fatto si sarebbe immediatamente trasformato in pietra, figurarsi se avesse mai osato guardarla durante uno dei suoi spettacoli in solitaria. L’ex corvonero evitava sistematicamente gli occhi dell’imprenditrice e di qualsiasi altra spogliarellista e piuttosto si concentrava su… altro, e no, non per forza il loro corpo, quello lo guardava solo fugacemente, altro tipo il vino nel suo bicchiere, o le reazioni dei presenti, i boa piumati e qualsiasi altro elemento di arredo. Lui, lui era un elemento di arredo in quel posto, eppure continuava ad andarci, sorrideva al buttafuori e al suo puntualissimo «Buonasera Mr Cavendish», ma pur frequentando ormai regolarmente il locale non si era ancora trasformato in un vero adulto e camminava ancora senza l’aiuto del bastone intagliato – che disdetta.
    Dopo qualche attimo di straniamento e apnea, comunque, l’infermiere tornò a respirare e sembrò preso da una certa smania. Se fosse stato così poco se stesso probabilmente sarebbe saltato in braccio al mercenario e avrebbe iniziato a tirare urletti. Una reazione alla Chelsey, per intenderci. Ma non lo fece, si sforzò di rimanere sobrio e sembrare poco sovraeccitato, ma non poteva fare nulla per smascherare la confusione totale sul suo viso (ma confidava che la luce soffusa avrebbe aiutato almeno in quello). «Ewlyn ommiodd-» eh, cercava di restare cool ma per lui era un lavoraccio quello. Si schiarì la voce con un colpetto di tosse poi tornò a parlare «Il barista?!» era confuso, ma in realtà non si fece troppe domande, se l’Huxley gli chiedeva di fare un cenno al barista, lui faceva un cenno al barista e basta, anche se quel cenno gli sarebbe costato la vita. Voltò il mezzobusto verso il bancone, quindi, e fece il sovracitato cenno col capo al barista, aspettò che questi ricambiasse e poté tornare a dedicare la sua completa attenzione all’amico. «Ah, un provino, okay» ripeté ridacchiando e intanto si mise comodo sulla poltrona, ma non distolse lo sguardo da Elwyn; aprì di nuovo la bocca, facendo per dirgli qualcosa, tipo chiedergli – a raffica – come stesse, che stesse combinando della sua vita, dov’era finito, se aveva visto quella partita, se avesse saputo che anche quell’anno corvonero non aveva vinto la coppa del Quidditch (magari, con l’aggiunta di un mesto “eh, da quando non ci sei più tu non siamo più tornati ai vertici”), fargli i complimenti per questa o quella cosa, quando l’altro gli offrì del whiskey. Guardò la sua bottiglia di vino – quella sera aveva optato per un pinot nero – poi fece scorrere lo sguardo sulla bottiglia di alcolico nelle mani di lui, come combattuto tra la scelta delle due bevande, ma ci pensò giusto un paio di secondi perché infine scrollò le spalle «Ma sì dai, il vino non mi piace neanche tanto» – e allora perché l’hai ordinato? Evabeh, perché fa fico e di classe, no? – Concluse prendendo tra le mani il bicchiere che l’ormai ex battitore aveva appena riempito e fece prima ondeggiare lentamente il liquido tra le pareti di vetro del bicchiere, poi, dopo il dovuto cin, ne riversò un bel sorso in gola. «Potrei avergli detto che sei qui per un provino da spogliarellista.» ripensò a quelle parole solo allora, e quasi finì per strozzarsi con il whiskey. Staccò le labbra dal bicchiere solo per strabuzzare gli occhi e tossire più e più volte, con la gola che bruciava un po’ per la gradazione alcolica elevata un po’ perché, evidentemente, doveva essere andato giù storto; ruotò il mezzobusto verso Elwyn e lo guardò quasi in preda al panico. «In che senso un provino? Ma da spogliarellista? Ho un provino da spogliarellista?» pausa «Perché ho un provino da spogliarellista?» e infine «Ma io non ho neanche messo i boxer da spogliarellista» e per chi si stesse chiedendo come siano fatti dei boxer da spogliarellista, google saprà rispondere abbondantemente. Per un rapido momento, messo da parte il panico, si sentì quasi lusingato che l’Huxley potesse aver pensato a lui come un possibile spogliarellista; magari, pensava, dopo la carriera da giocatore di Quidditch aveva optato per diventare scopritore di talenti e doveva aver ricordato di quanto fosse bravo a spogliarsi nello spogliatoio, forse?!?! Ma Svetlana, d’altra parte, non sembrava aver mai mostrato troppo interesse al corpo del biondino, non in senso strettamente lucrativo, perlomeno, quindi fu un pensiero fugace, una lampadina accesa e subito dopo fulminata. «No dai, stai scherzando Elwyn» se ne autoconvinse, ridendo e mettendosi di nuovo comodo sulla poltrona «Un provino da spogliarellista» ripeté ancora, schioccando la lingua sotto il palato e denegando leggermente con la testa con fare alquanto divertito, poi afferrò nuovamente il bicchiere di whiskey. «Sei sempre uno spasso, non cambi mai»
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    Edited by cigârette - 7/4/2021, 16:35
     
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    ELWYN HUXLEY
    Per un attimo, un folle istante amplificato dalle sue paranoie, Elwyn Huxley si era convinto che il biondo avrebbe afferrato la bottiglia di vino e utilizzato il cranio del mercenario come prua di una nave al momento del varo. Un pensiero fugace, innescato dall’indecifrabile smorfia comparsa sul volto del giovane e alimentato dalla valanga di motivazioni che la sua mente era stata in grado di addurre – tra cui il fatto che sebbene considerasse Dominic come una delle creature più innocue, imbranate e gentili che avesse mai conosciuto, non aveva la certezza che fosse rimasta la stessa persona con cui aveva trascorso i suoi anni ad Hogwarts. E non era pronto, Elwyn, a gestire le conseguenze di un’imprevista rimpatriata e affrontare un ventaglio di emozioni negative cui, di norma, si sottraeva risolvendo il problema a monte: evitando la gente nella sua totalità. Per questo aveva agito in fretta, occupando un posto che non gli spettava, saltando i convenevoli, trasformando la serata del suo interlocutore in un incubo a occhi aperti e servendo un whisky – che considerava suo, di diritto – ma di cui apparentemente si era appropriato in modo indebito: per impedirgli di metabolizzare la sua presenza. E, per tutta risposta, l’infermiere aveva condensato le sue reazioni in un ristretto lasso temporale, passando dallo stupore (imbarazzo? Sintomi di almeno una manciata di preoccupanti patologie? In compenso, sembrava non esserci alcuna traccia di rabbia o rancore sul suo viso) all’assecondare di buon grado ogni sua richiesta (insolito, indubbiamente, ma non avrebbe potuto chiedere di meglio) fino a realizzare ciò cui aveva appena acconsentito. E solo in quel momento, l’Huxley aveva avuto la certezza di avere davanti a sé il Dominic che conosceva.
    E su cui poteva lavorare.
    «Sei sempre uno spasso» sorrise davanti a quel principio di attacco di panico, tentando di nascondere quanto quel «non cambi mai» lo avesse profondamente colpito. Mandò giù un sorso di whisky, appoggiò il bicchiere sul tavolo e rimase in silenzio per qualche istante – le dita strette attorno alla superficie in vetro, il capo leggermente chino e lo sguardo fisso su quel liquido ambrato, come se contenesse tutte le risposte di cui Elwyn sembrava aver bisogno. E sarebbe stato plausibile se solo fosse esistita un’arte divinatoria capace di leggere quella bevanda, al pari dei fondi di caffè, o se fossero arrivati alla conclusione della serata, la bottiglia vuota e la mente del mercenario talmente offuscata dall’alcol da poter fornire persino la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto; e se non quella, qualcosa sarebbe certamente venuto fuori.
    «Siamo in guerra, Dominic.» appunto.
    Si era chiesto, l’Huxley, in che modo avrebbe potuto rivelare al biondo di “averlo incastrato in un potenziale provino da spogliarellista pur di – infastidire la proprietaria del Lilum e – non pagare una bottiglia di whisky che credeva di meritare” senza però ripetere quelle esatte parole, né ricorrere a sinonimi o avvicinarcisi lontanamente. E la risposta era semplice: non poteva, per nessuna ragione al mondo. Di conseguenza, al termine di quei lunghi istanti di meditazione alcolica, l'ex-corvonero era giunto alla conclusione di dover proporre una versione della storia che sarebbe stata tanto vaga da confondere il giovane e, allo stesso tempo, sufficientemente vicina alla realtà dei fatti da non smascherare il mercenario. E non aveva mentito sul fatto che fossero in guerra. Magari non loro, nello specifico, ma la comunità magica lo era, da sempre e per sempre. E ne facevano parte fino a prova contraria.
    Sollevò lo sguardo, incrociò quello del Cavendish e si concesse, poi, un momento per scrutare l'ambiente circostante e accertarsi che nessun altro fosse all’ascolto. «Non parlo di violenza o spargimento di sangue. – perché non aveva alcuna intenzione di farlo scappare a gambe levate prospettandogli un’improvvisa chiamata alle armi. – È una guerra psicologica.» continuò, con tono serio e compassato, alludendo a quello che credeva fosse il suo rapporto con Margaret e lasciando che la mente del biondo vagasse tra ipotetici scontri ideologici tra chissà quali fazioni. O brancolasse nel buio. A pensarci bene, sarebbe stato perfetto se il suo interlocutore non avesse capito assolutamente nulla di quel discorso. Perché ad Elwyn non serviva che il Cavendish conoscesse tutti i dettagli; gli sarebbe bastato ricevere la sua piena, incondizionata e mal riposta stima. Sarebbe bastato un «E so di potermi fidare di te.» per fargli avvertire il peso di quell'atto di fede e lasciare che il biondo venisse pervaso da un senso di responsabilità tale da non poter fare a meno di abbracciare la missione. Quale? «Devo rimediare ad un torto subito.» mossa rischiosa, quella di spostare la vicenda su un piano personale, ma non avrebbe potuto fare altrimenti: sebbene confidasse nel fatto che la profonda e incrollabile ammirazione del minore nei suoi confronti fosse sufficiente a schermare ogni calunnia che sarebbe stata rivolta al mercenario, era ben intenzionato a disseminare una serie di parole chiave per prepararlo ad un'eventuale conversazione con il barista, o con Margaret. «E potremmo evitare che succeda anche ad altri.» concluse, tentando di lasciar trasparire che 1) contava davvero sull’aiuto dell’infermiere, 2) era l’Elwyn di sempre, che non amava farsi mettere i piedi in testa da nessuno, ma che puntualmente finiva per perdere ogni scontro 3) aveva a cuore la questione, e ne conosceva la gravità, al punto da considerarla un problema per l'intera popolazione. Mandò giù un altro sorso di whisky, mostrandosi combattuto nel rivelare determinate informazioni, mentre, in realtà, stava solo pensando a come continuare la messinscena. «Non posso entrare nel merito» no, non poteva, ma ci tenne ad aggiungere un «al momento per dare l'impressione che avrebbe disperatamente voluto metterlo al corrente dei fatti e che la colpa di quell’apparente esclusione fosse da imputare ad eventi, individui o cause al di fuori del suo controllo. «Quindi facciamo un esempio» assolutamente non pertinente con le vicende reali. «Se mi invitassi da te, mi faresti sentire una presenza gradita, giusto?» no, troppo ambiguo. «Quello che voglio dire è che mi tratteresti da ospite, non mi faresti, che ne so, sedere per terra.» o sullo scomodo sgabello del bar e con la sola compagnia di un tristissimo bicchiere d'acqua, per assistere ad uno spettacolo messo in scena a metri e metri di distanza. Ad esempio. «È questo il bandolo della matassa.» quella con cui aveva avvolto la mente del biondo, bombardandolo di informazioni assolutamente irrilevanti. «Il rispetto, Dom.» pausa tattica, sguardo fisso in quello del suo interlocutore e leggero picchiettio dell’indice sul tavolo per sottolineare il concetto. «Hanno cercato di diffamarmi per anni, lo sai e non perché l'infermiere fosse vagamente ossessionato dalla sua persona e avesse aperto un sito web in cui raccogliere ogni dettaglio della sua vita, quanto perché tutte le idiozie di cui il mercenario si era reso protagonista erano finite sulle prime pagine dei giornali locali. «Hanno cercato anche di farmi i conti in tasca. Guarda – prese una manciata di galeoni e li sparse sul tavolo, sperando che nessuna delle ballerine li vedesse come un potenziale guadagno e si fiondasse su di lui per appropriarsene. – ti sembra che non possa permettermi, non lo so, questo whisky?» certo che avrebbe potuto permetterselo; ciò non escludeva il fatto che non volesse pagarlo. Afferrò la bottiglia, finse di leggerne l’etichetta e la mostrò per un attimo all’amico, prima di allargare le braccia e concludere che «Eppure è quello che potresti sentire!» assurdo, vere e proprie maldicenze.
    Appoggiò il whisky sul tavolo e rimase in silenzio per qualche istante, per concedere all’altro la possibilità di metabolizzare ciò che aveva ascoltato, di porsi una serie di domande che non avrebbero avuto risposta e – sperava – di scegliere di tenerle per sé per non ammettere di non aver capito. Poi, abbandonò quell’aria tenebrosa e assunse un atteggiamento più disinvolto. «Non dobbiamo fare nulla, Dom, solo goderci la serata, come sempre.» sentiva, il mercenario, che dopo (non) avergli spiegato ciò con cui avrebbe avuto a che fare, era necessario fornirgli ulteriori rassicurazioni. «Quella dello spogliarellista è una copertura» strano a dirsi di un mestiere che puntava a rimuovere strati di tessuto piuttosto che aggiungerne. «E non preoccuparti per i boxer.» si trattenne dal chiedergli se avesse davvero degli indumenti adatti, quando li avesse acquistati e per quale assurdo motivo, per poi riflettere sul fatto che niente sarebbe stato più strano dello spiegare perché, a sua volta, avesse indossato tacchi e calze a rete. «Possiamo avere una parola d'ordine, se ti fa stare meglio. Come casa» vaga e facilmente confondibile all'interno di un discorso più ampio. «o chihuahua. O una a tua scelta.» continuò, tentando non soltanto di farlo sentire parte del progetto, ma dimostrandogli che avrebbe potuto averne il pieno controllo. E «Quando non ci andrà di continuare, basterà pronunciarla e l'altro interverrà. Garantito.» e appoggiò la mano sul cuore, come se quel gesto potesse confermare le sue parole. Ed era sincero, il mercenario. Perché sebbene non si fosse fatto alcun problema ad interrompere la serata del giovane – cui, a proposito, avrebbe dovuto chiedere cosa ci facesse al Lilum – e trascinarlo in una situazione che avrebbe messo a dura prova i suoi nervi, non aveva intenzione di lasciare che passasse a miglior vita – anche se farlo circondato da donne nude non sarebbe stato poi il peggior modo di morire. «L'importante è non far saltare le coperture. Per nessuna ragione.»
    A quel punto, spostò lo sguardò sul palco, incentivato da un cambio di musica che preannunciava l'imminente inizio dello spettacolo, e tornò a concentrarsi sull'amico. «Ci stai?»
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    dominic cavendish
    L’ex compagno di squadra, lo ricordava bene, aveva sempre avuto il callo per fare scherzi simili al minore, colpirlo dove sapeva avrebbe potuto creargli più tic nervosi e totale smarrimento e poi svelare che stava solo fingendo, allo stesso modo in cui il cugino più grande sfida il più piccolo a fare qualcosa che avrebbe messo a dura prova i nervi del bambino, che l’avrebbe mandato profondamente in crisi, solo per testare fino a che punto si sarebbe spinto e quando fosse veramente forte; tipo mangiare un sandwich con le formiche e raggiungere la tanto agognata stima del cugino maggiore oppure declinare lo spuntino e rimanere un poppante. Nel caso particolare, comunque, bisogna ammettere che Elwyn non era mai stato così spietato e non gli aveva mai chiesto di mangiare un sandwich con le formiche (tuttavia, non era del tutto sicuro che non glielo stesse domandando in quel momento dato che gli era sfuggita la richiesta principale), anche perché per mandare in crisi e in iperventilazione il biondo non era necessario arrivare a tanto. La lista di cose che gli provocavano ansie e preoccupazioni era aumentata crescendo, in un’escalation di situazioni che andavano dalle più comuni (“ho messo il sale nell’acqua?”) alle più surreali (“ma in caso di apocalisse zombie sarebbe meglio uccidersi sparandosi in testa e quindi uccidendo i tessuti del cervello o tagliarsi la testa e staccarla dal resto del sistema nervoso?”), ma in verità i primi segnali di simili problematiche si erano già manifestati in tenera età ed erano poi andati peggiorando: con il gameboy in mano da più di 40 minuti ricordava di aver vomitato al momento della scelta del Pokémon starter e di averla rimandata per settimane – tolto Bulbasaur, che ad occhio non gli ispirava troppa fiducia, la scelta era ridotta a Charmander e Squirtle e ok che Charmander era più figo, un drago che sputava fuoco, un sinonimo di forza e carisma, ma Squirtle invece era così carino, una tartarughina dolcissima, e i Pokémon di tipo acqua gli piacevano così tanto. Alla fine aveva optato per l’ultimo, e se ne era pentito? Non sa ancora dare una risposta precisa, ma continua a scegliere Pokémon di tipo acqua. Più avanti, i quesiti che lo facevano sudare erano diventati di tipo amoroso: Jess o Logan? Ah come lo metteva in crisi quella domanda, nella vita. Era meglio un amore altalenante che ti regala picchi di emozioni fortissime (tristezza compresa) oppure la lotta caparbia per il proprio amore, contro le aspettative di tutti? Non aveva saputo rispondere, aveva terminato la serie senza prendere una posizione e continuava a farlo – anche se Logan un po’ gli somigliava, quindi gli stava simpatico a prescindere. E poi: bianco e oro o nero e blu? con la carbonara meglio i bucatini o i rigatoni? team Cap o team Stark? David Gilmour o Roger Waters? Fino ad arrivare al quesito ultimo che gli ronzava nella testa in quegli istanti: fidarsi o non fidarsi di Elwyn Huxley?
    Schioccò la lingua sotto al palato e si strinse nelle spalle, lanciando un fugace sguardo a quello che stava accadendo – o stava per accadere – sul palco, prima di tornare con gli occhi sulla figura del mercenario accanto a lui «ho letto qualcosa sui giornali sui ribelli, forse si stanno organizzando un po’ meglio ma credo che il governo sia abbastanza pronto a fronteggiarli, non credo che sia ancora arrivato il momento di parlare di guerra vera e propria» in realtà non era granché aggiornato sulle questioni politiche e il discorso l’aveva colto di sorpresa perché di certo non si aspettava dall’amico che volesse affrontare certe tematiche. Aveva mentito, quindi, non sapeva assolutamente niente di eventuali nuove riunioni dei ribelli e dei loro piani, ma si augurava che, come aveva azzardato nella risposta, la guerra non fosse così vicina e cercò di scongiurare quella sorta di reclutamento che sembrava stesse compiendo l’ex corvonero. «Non parlo di violenza o spargimento di sangue» strabuzzò un po’ gli occhi, schiena leggermente piegata in avanti a formare un angolo poco più acuto dei 90° canonici – facciamo 75 – e mano aperta a metà aria all’altezza del petto, nella tipica espressione di un esponente di estrema destra che, preso alla sprovvista, fa una plateale figura di merda in diretta televisiva. «ah no?» un po’ era sollevato, perché, nonostante sentisse che avrebbe seguito Elwyn anche in guerra se fosse stato necessario (insomma be the Bucky to my Steve o cose simili), sentiva anche di non essere abbastanza pronto a morire per una causa che non sposava pienamente. Deglutì nervosamente e sentì lo stomaco chiudersi in un nodo di fiamme e fuoco, perché quella manifestazione di piena fiducia nei suoi confronti da parte dell’ex compagno di casata gli sortiva lo stesso effetto della schermata dei Pokémon starter a sette anni. Tra una spiegazione e l’altra di Elwyn, l’infermiere si limitò ad annuire passivamente, ogni tanto accennava espressioni di sdegno e stupore, ma non stava veramente prestando attenzione a quelle parole. Lo sapeva che non era una questione di cosa e perché, non aveva bisogno di giustificazioni o vere e proprie motivazioni per seguire quello che era pian piano diventato il suo idolo, l’avrebbe fatto comunque – e questa era l’unica risposta che probabilmente interessava all’Huxley – doveva solo prepararsi mentalmente e fisicamente, arrivare alla completa rassegnazione accettazione.
    Come avrebbe detto poco tempo più avanti in un folle San Valentino in presenza di un altro Huxley, per fare una cosa del genere c’era bisogno di alcool quindi visto che era lì e gli toccava guadagnarsela, afferrò la bottiglia di whiskey e riempì il bicchiere, per poi versare il contenuto giù per l’ugola velocemente, come se quel liquido gli servisse per spegnere l’incendio che avvampava nel suo stomaco. Si mise di nuovo dritto sulla sedia e poi annuì, tornando a guardare il moro con fare più convinto – ma non meno terrorizzato.
    What can make you move? «chihuahua» ripeté tra sé e sé, convincendosi sempre di più.
    Can you feel the groove? «chihuahua» le parole dell’altro gli erano parse vaghe e confuse, ma sinceramente piene di verve. In sostanza, Dominic non aveva capito cosa gli stesse chiedendo di fare Elwyn, né aveva idea del perché, non aveva capito se la guerra era tra due fazioni nemiche, o tra lui e qualcun altro – a tal proposito, ipotizzò velocemente che gli stesse chiedendo di prendere parte a qualche veloce rissa che avrebbe scatenato di lì a qualche minuto con qualcuno nel locale – ma stava per imbarcarsi ugualmente perché quei discorsi pieni di intensità avevano la capacità di risvegliare quella fierezza che tendeva a nascondere il più delle volte.
    What can make you dance? «chihuahua» lo ripeté per l’ultima volta per fissare bene in mente l’unica parola a cui, eventualmente, si sarebbe potuto aggrappare in caso di necessità, poi sospirò pesantemente. Non poteva essere tanto male, non c’era di che preoccuparsi alla fine, no? Non sarebbe mica morto. Si passò una mano tra i capelli e versò nuovamente un paio di dita di whiskey nel bicchiere. E poi Elwyn si fidava, pensò, non poteva deluderlo. «okay, okay» scandì molto lentamente, mentre le luci che si abbassavano attiravano la sua attenzione e il suo sguardo sul palco. Quelli erano forse i momenti più belli all’interno del locale: si percepiva tra i presenti un’insolita comunione nella concitata attesa che lo spettacolo iniziasse, che uscissero le ballerine (e i ballerini) e potessero dare sfogo ai loro famelici sguardi animaleschi; erano anche i momenti, pochi, in cui lo sguardo di Dominic era fisso sul palco, ancora vuoto, senza nessun corpo mezzo nudo che potesse farlo sentire di troppo, senza nessuno sguardo ammiccante che lo mettesse in imbarazzo. Si portò il bicchiere alle labbra, ma prima di prendere un sorso ci ripensò «ma cosa- cos- cosa dovrei fare esattamente?» perché la guerra, il torto subito, il rispetto, il whiskey costoso e i boxer avevano davvero poche cose in comune e aveva il sospetto, Dominic, di non aver capito ancora quale fosse il suo ruolo.
    ooh, chihuahua.
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    Non era mai stata in ansia prima di uno spettacolo, troppo perfezionista per poter salire sul palco senza aver prima padroneggiato una coreografia e resa parte di sé al punto da rendere ogni gesto naturale, quasi il suo corpo fosse stato creato solo per quello scopo, solo per compiere quell’esatto movimento in quel preciso arco temporale.
    Eppure eccola lì, Svetlana, davanti al boudoir del suo camerino, a dubitare dell’immagine che lo specchio le rimandava. Aveva fallito e questo, al posto di irritarla, l’aveva resa vulnerabile in un modo completamente inaspettato.
    Non poteva dire di non averci almeno provato, certo, ma non era il tipo di persona che accettava facilmente una sconfitta. Si era detta che sarebbe stata una cosa da poco, un valutare quanto tempo aveva sprecato dietro l’unica persona che sembrava non provare per lei neanche un briciolo di attrazione. La stessa che sembrava facesse il possibile per scappare da lei e che volesse evitare in tutti modi la sua presenza, anche quando si trattava di questioni lavorative.
    Se fosse stata onesta con se stessa, avrebbe definito quella situazione – che durava da ben due anni – piuttosto frustrante. Certo, avrebbe potuto esporsi di più, mandare messaggi con meno sottotesti e non confidare – nella maniera più assoluta – nell’acume dell’ex Corvonero.
    Svetlana odiava la sconfitta, perché non era abituata a non ottenere risultati che non fossero una schiacciante vittoria, e salire la terza volta sul palco con la consapevolezza che il suo invito fosse stato rifiutato non era certo quello che si aspettava per quella serata.
    In realtà non sapeva neanche cosa si aspettasse davvero da quell’invito, fatto in un probabile momento di debolezza e che l’aveva portata a scegliere con cura ogni dettaglio dei suoi tre outfit. Ma a che pro? Per l’ennesima volta, aveva sprecato solo il suo tempo e quella era una scommessa – con se stessa - che non era destinata a vincere.
    Controllò l’orologio sulla parete e si rese conto che aveva ancora tempo per cambiarsi, mettendo da parte tutto quello che aveva preparato per rendere quella notte speciale ogni esibizione e indossare quello che più si addiceva al suo ruolo, quello che più si confacesse a Svetlana e non a lei. Poteva non essere in grado di far battere cuori, ma avrebbe decisamente fatto pulsare altro, solo e soltanto con il suo corpo.

    Le luci erano ormai calate nella sala quando salì sul palco, posizionandosi esattamente di fronte al palo, dando le spalle al pubblico. Non appena si accese il primo faro, portò in alto un braccio, smuovendo appena la lunga vestaglia trasparente che la copriva e su cui la luce si rifletteva sui toni dell’oro. Un’altra nota e questa venne giù a ritmo di musica, lentamente, rivelando – qualora non fosse stato ben visibile a occhio nudo - i pochi fili dorati che coprivano il suo corpo e che non lasciavano nulla all’immaginazione.
    I tacchi risaltavano le lunghe gambe della bionda mentre si avvicinava al palo e, soltanto prima di stringere le mani attorno il freddo metallo, si voltò verso il pubblico, lo sguardo diretto verso il bancone del bar, dove in quel momento non c’era nessuno. Doveva pur aspettarselo. Iniziò a ballare attorno allo strumento di scena senza ascoltare realmente, la musica, lasciando che il suo corpo andasse a memoria. Spesso si ritrovava in quella sorta di trance in cui la sua mente si dissociava da ciò che la circondava, lasciando che i suoi muscoli seguissero involontariamente quel copione ben rodato, ripetendo quei movimenti che ormai compiva anche ad occhi chiusi e in totale assenza di musica.
    Poi, però, mentre ruotava attorno al palo, il suo sguardo fu catturato da un broncio familiare in primissima fila e, piuttosto che domandarsi perché non fosse al suo posto e come mai la security lo avesse fatto sedere così vicino e al tavolo di uno dei suoi clienti più affezionati, sorrise.
    Tornò a sentire la musica, a percepire il freddo metallo tra le gambe, a vivere ogni nota restante della canzone perché aveva ancora qualcosa da dimostrare.
    La danza per lei era seduzione e ogni movimento era volto a valorizzare e esaltare ogni curva. Quelli che per altri potevano essere passi da manuale, tra le sue mani potevano diventare strumenti di piacere o di tortura.
    Sapeva di star infrangendo il suo personalissimo codice di condotta, ma aveva puntato le sue iridi di ghiaccio sull’Huxley, sfidandolo a reggere la pressione del suo sguardo.
    Si muoveva sinuosamente lungo tutta la lunghezza del palo, arcuando la schiena e mostrando più di quanto non fosse disposta ad ammettere. Ogni gesto, ogni movimento delle gambe era una pennellata su quella tela fatta di desiderio e seduzione.
    Si avviluppava attorno al metallo quasi fosse al contempo il serpente tentatore e il frutto proibito, non lasciando a nessuno, in quella sala, alcun margine di errore sull’interpretazione di nessuno dei suoi movimenti.
    I capelli color grano ricadevano morbidi sulla schiena, esaltando le sue forme, e le labbra accompagnarono peccaminose tutta la coreografia, seguendo il ritmo di quella traccia che partiva lenta e sensuale e proseguiva in continuo crescendo fino ad arrivare all’acme di quell’intercorso simulato tra Svetlana, la musica e lo spettatore, che culminava quasi all’improvviso, nel momento di massima eccitazione in cui lei lasciava andare le mani dal palo, allargando le gambe fino a toccare il pavimento.
    Il buio calò per qualche istante nel locale per il tempo necessario di raccogliere la vestaglia e smaterializzarsi in camerino. Le orecchie le pulsavano al punto che non sentiva neanche il vocalist alla consolle o il chiacchiericcio dei ballerini del Lilum in attesa di salire sul palco per il loro spettacolo.
    Chiuse gli occhi e poggiò la fronte contro la liscia superficie della porta, chiedendosi cosa avesse appena fatto. Non era uno spettacolo privato, l’Huxley non aveva pagato per quell’esibizione, era arrivato in ritardo – nonostante non avesse scritto nessun orario sull’invito – e si era seduto sotto il palco, quando doveva stare il più lontano possibile perché così avrebbe avuto modo di ingannare il pubblico. Il trucco era sempre quello di far sì che tutti i presenti credessero che stesse guardando ognuno di loro e non… beh, solo uno. Senza contare che, una parte di lei, non voleva che la vedesse così, completamente esposta e senza la possibilità di scoprire man mano le sue carte. Ok, potevano essere più o meno pari perché lei lo aveva già visto nudo una volta, ma voleva preservare un certo vantaggio. Non che avesse qualcosa di cui vergognarsi, sul suo corpo aveva costruito il suo impero ma… avrebbe preferito non approfondire la questione, soprattutto con sé stessa.
    Doveva fargliela pagare.
    Avrebbe potuto cogliere l’occasione per cambiarsi, per mettere qualcosa di più consono, ma non lo fece, non quando poteva comunque sfruttare quella situazione per poter mantenere una parvenza di controllo qualora non fosse andato via. Qualora fosse ancora lì e non avesse preferito continuare a ignorarla e/o limitarsi a qualche incontro lavorativo.
    Dopo aver annodato la vestaglia in vita, ritornò nel cuore pulsante del suo locale mentre la musica riempiva l’aria, abbandonando l’idea di salire nel suo privé e dirigendosi, con passo studiato, verso le sue prede.
    “Dominic!” trillò entusiasta, facendo scivolare le mani sulle spalle dell’uomo in un abbraccio, per quanto fosse possibile con lui ancora seduto sul divanetto. “Che piacere vederti qui.” Accompagnò le parole poggiando le labbra sul volto ben rasato del Cavendish, pericolosamente vicino alla sua bocca, chinandosi strategicamente in avanti per fare in modo che la morbida stoffa trasparente che provava invano di coprirla lasciasse intravedere il suo seno, lo sguardo puntato sul suo accompagnatore. “Non credo di poter dire lo stesso di te, vero?” Domandò insinuandosi con grazia nella seduta e accomodandosi tra le gambe del Cavendish come se qualcuno l’avesse invitata ad unirsi a loro – il locale era pur sempre suo – e ignorando che il biondo potesse andare in iperventilazione da un momento all’altro.
    “Questa bottiglia è ancora mia o hai intenzione di pagarla?” sfiorò con la punta delle dita il vetro, ruotandolo delicatamente affinché potesse leggere l’etichetta di quello che aveva imparato fosse uno dei whiskey incendiari preferiti dall’Huxley. "Piaciuto lo spettacolo?" Chiese con disinvoluta, riempiendo i due bicchieri presenti sul tavo, lo mentre un sorriso divertito – molto più simile a un ghigno che ad altro – iniziò ad incurvarle le labbra. Si impossessò del bicchiere di Elwyn e, prima che questi potesse avanzare pretese e continuando a studiare ogni suo movimento e ogni sua possibile reazione a quelle leggere provocazioni, cinse con un braccio la spalla del Cavendish, dandosi così l’opportunità di essergli ancora più vicina. “Allora, a cosa brindiamo questa sera?”
    Margaret "Maggie" Piper | Svetlana
    Former Slytherin
    14.02.96 | 25 Y.O.
    L i l u m


    Edited by ReLoad - 4/5/2021, 19:04
     
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    ELWYN HUXLEY
    Sorrise, Elwyn Huxley, mostrando entusiasmo a sufficienza da compensare quel palese desiderio di morte che trasudava dalle parole del biondo. Non era necessario attendere le sue domande, o saper leggere le decine di espressioni susseguitesi sul suo volto, per comprendere quanto l’insolita, contorta e confusa richiesta del mercenario lo avesse lasciato profondamente interdetto; e non era necessario conoscere il Cavendish per rendersi conto di averlo gettato in uno stato di agitazione tale da scavalcare a piè pari la fase del disagio e assestarsi nella zona dell’iperventilazione, a ridosso di quello stadio che prevedeva la risalita della cena della sera precedente, gli attacchi di panico e, infine, la prematura dipartita – per capirlo, bastava constatare la rapidità con cui l’infermiere aveva mandato giù gli ultimi due bicchieri di whiskey, costringendo l’Huxley a chiedersi se ci fosse il rischio di vederlo mostrare le sue nudità ancor prima di decidere se sfruttare o meno l’arma dello spogliarello.
    «Te l’ho detto, Dom, non dobbiamo fare niente di particolare. Osservare. Stare al gioco. Divertirci.» tentò di utilizzare un tono quanto più naturale possibile e avvicinò il bicchiere a quello dell’amico prima che quest’ultimo continuasse con le sue bevute in solitaria. Era sinceramente contento che il Cavendish avesse accettato di accompagnarlo in quel terreno minato ed egoisticamente deciso a ignorare quella voce che continuava a ricordargli come il biondo, non avendo la minima idea di cosa sarebbe successo di lì a poco, avesse acconsentito a quella richiesta sol perché guidato da un’immotivata fiducia nei confronti del maggiore. Poco male, se lo sarebbe fatto bastare. «Non è detto che useremo la scusa dello spogliarello.» proseguì, presentandola come una remota possibilità tra gli infiniti, ordinari e tranquilli scenari che si sarebbero potuti verificare quella sera. Una possibilità più che concreta, a onor del vero, ma il mercenario preferì – non condividere quel dettaglio e – aggrapparsi alla confessione sui boxer di cui l’infermiere era in possesso, illudendosi che avesse già avuto una simile esperienza e che fosse in grado di uscirne – più o meno – illeso. Anche questo, più che sufficiente per proseguire la messinscena. «Ma giusto così, per tenerci pronti: diciamo che, parlando tra noi, è venuto fuori che potresti essere interessato ad un provino per lavorare qui.» ed Elwyn sarebbe stato una sorta di talent scout per spogliarellisti? Il suo personal coach? Un sostegno morale? Ci avrebbero pensato. «E se volessimo andare via» o, meglio, se la situazione si fosse rivelata insostenibile, se il biondo fosse diventato pallido come un cencio e avesse iniziato a manifestare difficoltà respiratorie, se gocce di sudore freddo fossero comparse sulla sua fronte, se un’espressione di pure terrore si fosse dipinta sul suo viso, se avesse lamentato dolori chiaramente riconducibili ad un imminente attacco di cuore, repetita iuvant «chihuahua» ma non sarebbe stato il caso di elencare ad alta voce quelle catastrofiche prospettive – che era sicuro avessero già attraversato la mente dell’infermiere – né forzare la situazione fino a quel punto. Non aveva intenzione di avere l’ex-corvonero sulla coscienza, neppure per una costosa e simbolica bottiglia di whiskey.
    «Dimmi,» esordì nuovamente, concedendosi poi qualche istante per apprezzare l’inizio dello spettacolo. Mantenne lo sguardo verso il palco, le iridi impegnate ad approfittare della luce di quell’unico faretto per andare oltre il tessuto della vestaglia indossata da Svetlana, e lasciò che le parole uscissero dalla sua bocca senza prestarci la dovuta attenzione. «venire qui è una sorta di terapia d’urto per te?» non riusciva a pensare a un solo motivo – diverso dal tentare di superare quel profondo e costante imbarazzo che sembrava impossessarsi del biondo in presenza di un esemplare dell’altro sesso – per cui avrebbe dovuto spendere fior fior di galeoni per un tavolo al Lilum. E non riuscì a pensare a nulla, in generale, dal momento in cui quella vestaglia venne abbandonata per rivelare il corpo dell’ex-serpeverde. Concesse giusto un ultimo sguardo all’amico, per – cercare sostegno e – assicurarsi che quei primi secondi di spettacolo non lo avessero fatto secco. «E– non sembra stia funzionando, sai?» ci tenne ad aggiungere, constatando come l’interesse del giovane nei confronti del palco fosse svanito al momento dell’ingresso di Svetlana e fosse stato proiettato verso dettagli assolutamente irrilevanti quali l’etichetta della bottiglia di whisky, le venature del tavolo in legno o il livello di pulizia delle sue scarpe – nessuno dei quali sarebbe stato percepibile nell’oscurità della sala; nessuno dei quali sarebbe stato comprensibile, agli occhi di Elwyn, davanti a quello spettacolo.
    Tuttavia, decise di accantonare temporaneamente le bizzarrie del Cavendish e tornò a concentrarsi sull’ex-serpeverde, passando, in un attimo, dal complimentarsi con se stesso per aver accettato l’invito al pentirsi di ogni scelta di vita fatta fino a quell’istante. Perché quando la donna si accorse della sua presenza e inchiodò le iridi nelle sue, Elwyn capì di essere condannato. Curvò gli angoli della bocca in un sorriso – reazione spontanea a quello della proprietaria del Lilum e, insieme, espediente necessario a nascondere il fatto che il suo stato d’animo si fosse allineato a quello dell’infermiere. Voleva morire. Non d’infarto, se possibile; non voleva darle la soddisfazione di credere che quella visione lo avesse sopraffatto al punto da tirare le cuoia. Non avrebbe potuto confidare neppure in una rissa e in una maledizione vagante, dal momento che nessun cliente, all’interno del locale, era provvisto di bacchetta. Non gli restava che sperare che la Piper avesse deciso di giocare quell’asso nella manica bruciato in passato, aggiungendo al whiskey un veleno del quale sarebbe stato possibile scorgere gli effetti nell’arco di pochi minuti.
    Se avesse tralasciato, per un attimo, il fatto che quell’attenzione esclusiva non gli avrebbe concesso alcuna via di fuga dal suo personalissimo inferno, ne sarebbe stato lusingato; solo, non comprendeva appieno il motivo di quell’interesse. Sapeva di esercitare un certo fascino sulle donne, soprattutto quando evitava di aprire bocca e il suo passato rimaneva un mistero tra lui, i giornali e il resto della popolazione magica. E non era così stupido da non accorgersi dell’interesse di Margaret, da non sentire la tensione aumentare ad ogni incontro e costringerlo, di volta in volta, ad uno sforzo maggiore per mantenere l’autocontrollo. Tuttavia, non poteva fare a meno di chiedersi se dietro quelle battute, quelle provocazioni, quelle attenzioni, non si nascondesse l’ostinata volontà di dimostrare che nessun uomo, né tantomeno un Elwyn Huxley qualunque, avrebbe potuto resisterle; di dimostrare che, ancora una volta, sarebbe stata lei ad uscirne vincitrice.
    Scacciò quel pensiero e tentò di concentrare tutte le energie a sua disposizione nel disumano sforzo di non abbandonarsi a pensieri talmente vividi da rendere palese quanto apprezzasse ciò a cui stava assistendo. Avrebbe voluto smettere, ad esempio, di immaginarsi al posto di quel palo di metallo o di scansionare forme che avrebbe difficilmente dimenticato, e lasciarsi invece sopraffare dall’incontestabile e deprimente certezza di essersi comportato da perfetto imbecille. Perché aveva avuto a disposizione due anni per fare un passo nella direzione dell'ex-serpeverde.
    Due anni.
    Settecentrotrenta giorni.
    Diciassettemilacinquecentoventi ore.
    Un milione e– okay, non sarebbe mai riuscito a calcolare le cifre esatte, ma pensare a qualcosa di complesso, noioso e raccapricciante quanto la matematica (non) lo aiutava (per niente) a ridurre l'afflusso di sangue lì dove soltanto il suo potere di metamorfomagus avrebbe potuto permettergli di minimizzare le conseguenze.
    Due anni – una cifra di fronte alla quale diventava piuttosto complesso accampare giustificazioni.
    Quando si spensero le luci, l’Huxley mantenne lo sguardo in direzione del palco, come se, da un momento all’altro, si aspettasse di veder ricomparire la donna. Sapeva, il mercenario, che la serata non era che all’inizio; restava solo da capire quanti minuti di tregua sarebbero stati concessi agli ex-corvonero. Versò due dita di whiskey nel bicchiere, mandò giù un sorso veloce e adottò la tecnica del Cavendish del concentrare la propria attenzione su dettagli irrilevanti, prima di voltarsi verso una voce familiare. «Dominic! Che piacere vederti qui.» rimase in silenzio, Elwyn, tentando di valutare il livello di intimità tra i due; e a giudicare dalle prime reazioni dell’infermiere di fronte a quell’entusiasmo, allo slancio con cui gli si era fiondata addosso e all’improvviso azzeramento di ogni distanza di sicurezza, concluse che non dovevano aver avuto poi tante interazioni – non del tipo cui il mercenario era più interessato.
    Seguì i movimenti di Margaret, soffermandosi sulle mani poggiate sulle spalle del biondo, sulle labbra pericolosamente vicine a quelle del Cavendish, sulle gambe tra le sue, su quella scollatura che non sarebbe stato in grado di ignorare neppure se avesse voluto e che gli sarebbe costata un ghigno compiaciuto, una volta incrociate nuovamente le iridi della donna. «Non credo di poter dire lo stesso di te, vero?» corrugò la fronte e dischiuse la bocca, come se quell’insinuazione e la disparità di trattamento lo avessero profondamente ferito. Tuttavia, preferì non farglielo notare apertamente: non soltanto perché la posizione del Cavendish era tutt’altro che invidiabile – ed Elwyn aveva già subito la sua buona dose di torture psicologiche –, ma perché non voleva rischiare di stuzzicarla al punto da far diventare quell’incontro una questione a tre – sebbene fosse convinto che l’infermiere sarebbe stato il partner maschile perfetto dal momento che sarebbe svenuto già solo all’idea di un simile risvolto. «Strano modo di salutare un ospite. Strano quanto non inserire un orario sull'invito.» aggiunse in tono leggero, senza un reale intento polemico. In altre circostanze, sarebbe stato indeciso se credere si trattasse di un test per valutare le intenzioni del mercenario oppure di un contorto meccanismo di autodifesa, messo in atto dal suo inconscio, per sabotare la proposta che lei stessa aveva formulato; conoscendola – e conoscendo se stesso – avrebbe scommesso sulla prima opzione. «Comunque è un piacere anche per me.» avrebbe voluto aggiungere un per il momento e riservarsi la possibilità di ritrattare quell’affermazione, ma le rivolse un sorriso sincero e scelse di proseguire. «E non vorrei mai impedirti di fare gli onori di casa e di offrirci il whiskey.» suvvia, dov’erano finite le buone maniere? Aveva tentato di depistarlo sull’orario dell’esibizione, gli aveva riservato un posto che era l’equivalente della cavea destinata ai plebei e lo aveva trattato come un membro degli alcolisti anonimi! «Oh, e lo spettacolo è stato...» si umettò le labbra, fece vagare lo sguardo verso l’altro e lo riportò poi sulla sua interlocutrice. «… secondo soltanto a quello di burlesque.» avrebbe potuto lasciarsi andare in una serie di complimenti e commenti sinceri, ma (non ne era capace e) preferì ripiegare su quella nota di autoironia che l’ex-serpeverde avrebbe considerato altrettanto insolita – e, insieme, un chiaro segnale di tregua.
    Osservò Margaret prendere possesso del suo bicchiere e considerò la possibilità di suggerirle di utilizzare quello del Cavendish – che non ne avrebbe avuto bisogno perché sarebbe rimasto immobile fino alla conclusione della serata; o per sempre, se si fosse spinta troppo oltre e lo avesse ucciso prima –, ma concluse che la sua replica sarebbe risultata una banale manifestazione di gelosia; in più, gli sarebbe stato ricordato che Dominic aveva pagato fior di galeoni per bere in quel locale. Vagliò altre opzioni, tra cui quella di tornare dal suo amico barista, di chiedere aiuto ad una cameriera cui non avrebbe dato mancia e che, di conseguenza, avrebbe sputato nel nuovo bicchiere, di appropriarsi del whiskey dell’infermiere, di sfruttare il suo calice di vino oppure, ancora, di attaccarsi alla bottiglia; per il momento, tuttavia, decise di stare al gioco – in parte perché tecnicamente rimaneva di proprietà del Lilum, in parte perché Elwyn aveva già scroccato la sua dose di alcol gratuita, in parte perché non si trattava di una categoria, come quella dei dolci, per la quale avrebbe combattuto strenuamente. Incrociò le braccia, appoggiò gli avambracci sul tavolo e incurvò verso l'alto gli angoli della bocca. «Brinderei a noi.» due? Tre?
    [verse 1]
    i whisper
    "what the fuck"
    to myself
    50 times a day.
    gifs
    i panic! at (a lot of places besides) the disco
    i see it, i like it, i want it, i got it
     
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    «Te l’ho detto, Dom, non dobbiamo fare niente di particolare. Osservare. Stare al gioco. Divertirci.» Mmh no, in realtà non gliel’aveva detto, ma non sarebbe stato Dominic a contraddirlo. Annuì lentamente come se tutto avesse senso, come avesse capito e accettato il proprio ruolo nel mondo, quando in realtà ancora stava cercando di capire se l’etichetta del whiskey fosse in un inglese arcaico, o avesse semplicemente bisogno di occhiali da lettura. Era proprio vero che dopo i vent’anni fosse tutto in discesa. «Non è detto che useremo la scusa dello spogliarello.» Oh no. Non era particolarmente propenso all’idea di esibirsi al Lilum senza (i boxer da spogliarellista!!) aver fatto neanche delle prove - magari poteva portarsi la chitarra e…? Entrare in scena nel ruolo del cowboy, un filo d’erba in bocca e solo il cappello indosso, mentre la chitarra copriva le sue grazie e…? Boh, suonare un pezzo della Swift? Oh @tswift give me strenght – ma almeno era… qualcosa. Poteva improvvisare, sapendo cosa aspettarsi. Andiamo, si era diplomato ed aveva un lavoro, certo che era bravo ad improvvisare, ma così… alla cieca…? Il fatto che Elwyn si fidasse così tanto di lui da pensare potesse essere il generale della sua guerra, indipendentemente dal fatto che tal generale non fosse informato del campo di battaglia (né dei soldati, né del nemico, né ...beh, della guerra in corso), lo metteva più in soggezione dell’idea di dover fare un provino come spogliarellista. Aveva forse sbagliato? Negli anni gli aveva dato qualche… standard? Pensava fosse pronto per quel genere di responsabilità? OKAY! OKAY. Se Elwyn lo reputava degno, lo sarebbe stato.
    Fino alla fine.
    «Ma giusto così, per tenerci pronti: diciamo che, parlando tra noi, è venuto fuori che potresti essere interessato ad un provino per lavorare qui.» Bene. Perfetto. Fantastico. Era del tutto plausibile che fosse capitata l’occasione per un discorso simile, chi non andava dai propri idoli a confessare di voler scuotere l’anaconda di fronte a dozzine di clienti? Certamente non Dominic Cavendish. «era un venerdì. Di luglio» annuì, aggiungendo dettagli superflui, ma necessari, al piano, fingendo così di poter davvero dare un contributo alla causa, ed essere del tutto affidabile. Notice me senpai MY BODY IS READY. «chihuahua.» ripetè, dimostrando di aver capito.
    Narratore: come Sara, non aveva capito.
    «Dimmi, venire qui è una sorta di terapia d’urto per te?» Guardò l’ex Corvonero, felice di avere qualcosa da guardare che non fossero le movenze della proprietaria sul palo del Lilum. Non perché non fosse brava, Dio ce ne scampasse, ma perché lo fosse un po’ troppo, e giusto poco prima i loro sguardi si erano accidentalmente incrociati, ed il Cavendish ancora si sentiva come quando a lezione di Pozioni la Queen lo beccava disattento, e gli faceva una domanda di cui non sapesse la risposta. Il sangue aveva abbandonato il cervello per concentrarsi (.no) nelle mani, ora sudaticce ed impegnate a stringere il bicchiere, il cuore a rimbalzare nello sterno come quello di Bugs Bunny nei dintorni di Lola, ed un espressione forzatamente pensosa e adulta su un volto che di pensoso ed adulto non aveva nulla. «mi piace la musica» davvero sara Dom? Questo è il meglio che sai fare? Arricciò il naso e puntellò la lingua sull’interno della guancia, stringendosi nelle spalle con un mezzo sorriso che avrebbe lasciato interpretare ad Elwyn, perché lui non lo sapeva cosa significasse (.). Si sarebbe fatto andare bene qualunque lettura, se fosse stato l’Huxley a farla, anzi, sarebbe stato più che felice se l’ex Corvonero gli avesse dato tutte le risposte senza gravarlo della responsibilità di doverci pensare da solo - non così, non quando c’erano solo loro due e l’abisso di venerazione del minore nei confronti del maggiore, dove ogni salto nel vuoto poteva essere il salto che avrebbe reso consapevole Elwyn che Dom non meritasse il posto di capo del suo fanclub segreto, di cui entrambi fingevano di non esserne a conoscenza, e se lo meritasse maggiormente Chelsey: voleva bene alla ex Grifondoro, ma non così tanto.
    Aveva della Dignità TM.
    E poi accadde.
    Un minimo cambiamento nelle luci, nella sfera terrestre, nell’allineamento dei pianeti – perché di certo il Cavendish non stava guardando i più piccoli e terreni cambiamenti nel proprio compagno ma sara si: sara lo sa. - ma accadde qualcosa che rese tutte le chiacchiere di prima aria ad un mulino a vento. Una tensione concreta, tangibile sotto i polpastrelli che aveva lasciato sospesi a pochi centimetri dal vetro del bicchiere - «la guerra» bisbigliò in un sussurro, capendo solo in quel momento cosa il compagno avesse inteso con tutte quelle parole sulla preparazione, e sul piano, e su Dominic sei bravissimo, sono fiero di te, siamo amici e se avrò un figlio lo chiamerò come te (in che senso non l’aveva detto? Era implicito. Fra le righe. Jeez, bisogna dirvi tutto.). Era quella, la guerra.
    Sguardo verso le telecamere, zoom tattico, e parole riservate solamente ai posteri, inudibili dai suoi compagni di avventura: quello sarebbe stato il sottotitolo della sua biografia. «non pensavo sarebbe mai arrivato il momento in cui elwyn huxley mi avrebbe usato per entrare nelle mutande di qualcuno, ma se questo è il mio scopo nella sua vita, così sia.» in regalo insieme al Morsmordre, affrettatevi!&&
    Bastarono pochi imbarazzanti, terrificanti, minuti in cui il Cavendish aveva desiderato essere (quasi) ovunque eccetto che lì, per renderlo tristemente consapevole di essersi sopravvalutato: non era il generale di quella guerra, era la merce di scambio. Era il figlio rimbalzato dai genitori separati che non avevano ancora firmato le carte del divorzio perché la sexual tension li spingeva sempre alla notte in più cantata da Adam Levine.
    Quasi si commosse: troppo bello. Mio Dio aiuto è terribile.
    «mi piace l’arredamento, molto chic» non aveva capito le regole di quel gioco, e tanto fece intendere con una rapida, MA NON TROPPO SGAMO…, occhiata all’Huxley, il labbro inferiore sporto all’infuori nel lasciargli le redini della partita: se aveva bisogno di un cavallo, sarebbe stato il suo cavallo. Si irrigidì alla vicinanza di Svetlana, respirando rapido dalle narici – wrong move, chissà che profumo afrodisiaci usavano al Lilum: meglio la bocca – e cercando di mantenere una parvenza di rispettabilità nel roteare il liquido ambrato nel bicchiere. Era sicuro che la mossa di non far portare bacchette al Lilum, fosse una violenza psicologica per tutti i clienti: non avevano nessuna scusa né skerzone con cui giustificare certe naturali espressioni del corpo. Dominic pensò intensamente a tutte le cose brutte e cattive del mondo – gli hipster che non si curavano la barba, ad esempio: ho capito che bio e vegano e natura ma amico, amico, mai sentito parlare di balsamo? Usalo. - ed occupò la bocca bevendo un altro sorso del liquore che non aveva capito chi avrebbe pagato, ma avrebbe preferito non essere lui: faceva l’infermiere ad Hogwarts, era praticamente volontariato. «sì, brindiamo...» a noi? A voi? ….Elwyn aiuto non ho capito.
    Brindò.
    «bello il vestito» Tono solenne, spalle dritte, assolutamente distaccato e professionale. Assottigliò le palpebre, umettando le labbra. «di entrambi» tentò, sistemando le maniche della camicia: non voleva prendere parti, nè offendere il suo guru – e comunque era vero.
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    EBBENE SI
    L'HO FATTO DAVVERO
    SCUSATE
    NON HO CAPITO MA è STATO BELLISSIMO GRAZIE ALE DAVVERO UN'ESPERIENZA insomma scusate se non è dominic ma ... beh, non sono ale, quindi insomma PERò DAVVERO UNA MERAVIGLIA L'HO GIà DETTO? CHE EMOZIONE.


    tra l'altro ho avuto l'ufficiale permesso di una ale ubriaca, secondo me è un po' stupro. ciao ale
     
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    Le dita della mano scorrevano placidamente sulla pelle esposta del Cavendish, accarezzandone delicatamente il collo per tutta la durata di quello scambio di battute, interrompendosi solo per un istante, lo stesso in cui si levarono impercettibilmente le sue sopracciglia e le labbra si serrarono in un sorriso teso, volto a sigillare la sua bocca per impedire che quel “non c’è mai stato un noi” uscisse piccato dalle sue labbra. Per quanto vero, per quanto reale e tangibile, non poteva permettere a sé stessa di esporsi più di quanto non avesse già fatto quella sera, facendo dunque quel passo indietro che li avrebbe riportati tutti allo stesso piano: il ricco e annoiato Cavendish che pagava fior di galeoni per un tavolo in prima fila per godere di uno spettacolo che non avrebbe mai visto, né apprezzato, il mercenario Huxley che credeva erroneamente che lavorare con lei e portare a termine determinate missioni gli concedesse il diritto di andare al Lilum per bere gratis e, infine, la bella Piper che era brava solo ad aprire le gambe e a far girare qualche testa quando era la sua serata. Tre persone distinte di cui soltanto due potevano vantare un passato in comune e, decisamente, lei non rientrava in nessuna equazione, avendo agito sempre in solitaria e avendo frequentato giri diversi anche a Hogwarts: non era stata Corvonero, non le era mai interessato più di tanto il Quidditch - se non qualche giocatore che ricopriva incarichi importanti anche al di fuori della squadra - e non si era mai schierata in quella psycho faida che in quegli anni imperversava nel Castello, convinta del fatto che Elwyn e Morley fossero stati insieme e che tutto quel parlare di loro non faceva altro che renderli ancora più insopportabili.
    Non aveva visto nulla nel giovane Huxley e avrebbe dovuto considerare il fatto che non ci fosse nulla di interessante nella sua versione adulta. Il suo era stato solo un abbaglio, dettato da un momento di vulnerabilità, e niente più, il resto era solo una grandissima perdita di tempo e l’averne preso consapevolezza era solo il primo passo per l’accettazione di quella sconfitta, di quel calcolo erroneo che l’aveva spinta a credere che l’ex giocatore fosse diverso, che avessero qualcosa in comune, anche solo un minimo punto di contatto.
    Si era fatta distrarre da quella piacevole sensazione di essere capita, in quell’unica volta in cui aveva scelto di abbassare le difese, di mettere da parte qualche maschera per essere vista. Forse avrebbe dovuto pentirsi di quello che aveva fatto, di aver dato all’Huxley quell’unico vantaggio che avrebbe potuto fare la differenza tra lui e il resto delle persone che frequentava. Più ci pensava e, invece, più si convinceva del fatto che se non glielo avesse concesso, non si sarebbe resa conto di quanto a lui non importasse di lei. Si era messa in gioco, aveva provato ad andare oltre le provocazioni e le frecciatine, a darsi un’unica chance di cambiare le carte in tavola dopo anni in cui lo schema era sempre lo stesso. Era iniziato tutto come un gioco, un darsi la caccia a vicenda per capire quale dei due predatori fosse, in realtà, la preda, per vedere fino a che punto fossero riusciti a spingere l’altro oltre il limite… ma arrivava anche il momento in cui bisognava accettare la sconfitta e ritirarsi quando ancora si aveva la dignità e l’orgoglio per farlo.
    Non voleva sapere perché proprio Elwyn, né cosa l’avesse spinta in primo luogo a volgere lo sguardo nella sua direzione, non quando le eventuali risposte avessero comunque portato a fare un buco nell’acqua.
    E quel buco nell’acqua, l’ennesimo, sarebbe stata la naturale conseguenza del suo aprir bocca, di quel controbattere portando avanti una causa il cui esito le era fin troppo chiaro, come quel “noi” che, in realtà, agli occhi dell’ex Serpeverde era un “voi”, per auto-estromissione.
    Poggiò il mento sulla mano libera, mentre l’altra continuava a giocare con le estremità dei capelli di Dominic, ponderando bene ogni parola, sentendosi braccata più da se stessa che dai due uomini che erano con lei, da quello che avrebbe voluto dire e da quello che poi filtrò dalle sue labbra. “Al Lilum, che ci ha fatto rincontrare.” Perché era pur sempre vero e perché era sempre un buon momento per brindare a quel posto che per lei significava così tanto. “Non avrei mai pensato che fosse il posto ideale per una reunion.” Continuò facendo appena schioccare la lingua sul palato, prima di sollevare il bicchiere e berne un sorso, lasciando che il liquido le incendiasse il corpo al suo passaggio. “Né che volessi proporre una sfida di burlesque, spero Dominic voglia unirsi per poi poter superare il grande maestro.” Sorrise al ricordo di quello spettacolo, una delle poche volte in cui aveva riso di gusto negli ultimi anni, uno di quei pochi momenti in cui si era davvero divertita, sola nel suo privé, senza dover contenersi o compiacere qualcuno. Spinse il bicchiere, ancora mezzo pieno, verso Elwyn, in un gesto che poteva interpretare come la concessione di una tregua, una resa, o qualsiasi altra cosa volesse vederci dietro. Non che non le importasse, ma ormai non faceva più alcuna differenza e non ci voleva un genio per capirlo.
    “Conoscete gli orari del Lilum e i suoi spettacoli, con un po’ di preavviso, il palco è vostro… tranne quando mi esibisco io.” Non ci provò neanche a nascondere la frecciatina. Avrebbe potuto aggiungere che in giornate come quella, dedicate agli accessi esclusivi con la platinum card, lo schema degli spettacoli era sempre quello, che ci sarebbero sempre state tre esibizioni singole, sempre agli stessi orari e che stava ad Elwyn scegliere se presentarsi o meno, se vederne uno o tutti e tre o nessuno, ma non lo fece. Non era alla disperata ricerca di attenzioni, né avrebbe supplicato qualcuno per sopportare la sua presenza più del dovuto.
    “A proposito di vestiti...” scosse piano la testa davanti all’innocenza del Cavendish, sperando che prima o poi qualcuno lo portasse sulla retta via, “devo aiutare dietro le quinte con i preparativi per l’esibizione finale.” Cui non avrebbe preso parte perché corale, ma questi erano dettagli che a loro non importavano. “Anton vi porterà il conto a fine serata. Tranne il prossimo giro. Quello lo offro io.”
    Liberò Dominic dalla sua presenza, meravigliandosi respirasse ancora, e sparì così come era arrivata, tornando nel suo mondo, il mondo che aveva scelto, fatto di lustrini, cipria, e ultimi ritocchi prima di salire sul palcoscenico.
    Margaret "Maggie" Piper | Svetlana
    Former Slytherin
    14.02.96 | 25 Y.O.
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    Edited by ReLoad - 29/8/2021, 19:31
     
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    ELWYN HUXLEY
    Aveva immaginato mille scenari diversi per quella serata, condizionati dalla sua capacità di compiere sempre la scelta sbagliata al momento sbagliato, dall’imprevedibilità della proprietaria del Lilum e dalle precarie condizioni di salute di Dominic: era passato dall’accarezzare l’idea di mantenere la copertura il più a lungo possibile a temere di dover calcare nuovamente quel palcoscenico, dal fantasticare su un risvolto piacevole – che lui stesso evitava da tempo – al convincersi che, di lì a poco, avrebbe notato l’amico accasciarsi al suolo e avrebbe dovuto trascorrere il resto della nottata con lui, al San Mungo. Nessuno di questi, però, vedeva il mercenario pronunciare un sorpreso «Vai già via?» e osservare quelle parole cadere nel vuoto, mentre le iridi chiare seguivano la figura della donna allontanarsi dal tavolo occupato dai due ex-corvonero.
    «Cos’è appena successo?» avevano conversato per un lasso di tempo così breve da rendere quasi impossibile scatenare una simile reazione. Era forse riuscito, l’Huxley, a stabilire un nuovo record personale e mandare tutto all’aria nel giro di pochi minuti? Eppure, gli era sembrato di essere stato meno (insopportabile) (permaloso) (antisociale) Elwyn del solito. Aveva persino fatto dell’autoironia – evento raro quanto il passaggio di una cometa periodica. E aveva ammesso di essere contento di trovarsi nel luogo che lo aveva visto perdere un’altra fetta di dignità. Cosa si aspettava Margaret da lui? Avrebbe dovuto sfrerrare un pugno a Dominic, prendere in braccio l’ex-serpeverde e portarla nel suo studio come un cavernicolo qualunque, per dimostrare di aver apprezzato l’esibizione? Ovviamente no, e conosceva la risposta a quella domanda; tuttavia, dare forma ad un simile pensiero presupponeva una serie di ammissioni scomode su cui non era certo di voler indugiare. «Ho–» stava per farlo? Stava per farlo. Si schiarì la voce, corrugò la fronte e spostò lo sguardo sull’amico, constatando il fatto che fosse sopravvissuto all’incontro ravvicinato con Svetlana. «Ho sbagliato qualcosa?» tutto, neanche a dirlo. E sì, non soltanto aveva considerato l'eventualità di aver commesso un errore, ma aveva appena chiesto all’infermiere un consiglio sulle donne. Lui, proclamato da Dominic e Isaac come un guru in materia – e il mercenario non si era mai curato di ridimensionare quel titolo; non voleva certo deludere i suoi fan più accaniti. Lui che, grazie ai mesi trascorsi tra le Arpies, aveva trovato risposta a domande esistenziali come “perché le donne vanno sempre in bagno in coppia”. Lui che conosceva ogni riga del sacro libro sull’arte della conquista – il Playbook di Barney Stinson, ovviamente – e che si era convinto di saper padroneggiare quell’arte sottile – sebbene la vita gli avesse dato dimostrazioni contrarie in più occasioni. Lui, Elwyn Huxley, stava chiedendo aiuto a qualcuno che, davanti a un fisico mozzafiato, non era stato in grado di sollevare lo sguardo dalla bottiglia di vino. Eppure, e mai avrebbe pensato di dirlo, la questione era più vicina (alla sensibilità e) alle competenze di Dominic. Perché se Margaret fosse stata per lui soltanto quello, un bel corpo, l'ex-giocatore di Quidditch avrebbe saputo esattamente come comportarsi – o quantomeno avrebbe creduto di saperlo. Invece «È complicato.» no, non lo era. E nessuno glielo aveva chiesto, ma scelse di proseguire ugualmente, dopo aver trascorso gli ultimi istanti a mandare giù l’ennesimo sorso di whiskey e poi fissare il fondo del bicchiere stretto attorno alle dita – avrebbe dovuto pagarlo, tanto valeva finirlo. «È–» vagliò la lista delle pessime metafore che gli erano venute in mente e scelse saggiamente di tenerle per sé; era una persona creativa, il mercenario, ma ci sapeva fare più con la pittura che con le parole. «Sai, pensi che all'inizio sarà fantastico» non solo: era convinto che la realtà avrebbe superato di gran lunga le sue più rosee aspettative. «Però, poi?» era quello il problema. Non c’era mai stato un poi per il mercenario – non un secondo incontro, non un interesse che andasse oltre l’aspetto fisico – e il fatto che ne intravedesse uno – che fosse certo che non sarebbe stata la parentesi di una notte – lo terrorizzava più di quanto non fosse disposto ad ammettere. Perché erano bastate poche ore, quella sera, per sentirsi compreso e, insieme, completamente vulnerabile. Per sentire il desiderio di conoscerla e l’impulso di scappare lontano da se stesso. «Cancella tutto.» agitò le mani davanti a sé, come a voler diradare le parole sconclusionate che aveva appena partorito, e si appoggiò contro lo schienale del divanetto – il capo all’indietro, le mani tra i capelli e lo sguardo rivolto verso il soffitto. Si era già esposto fin troppo, con l’infermiere. E non sapeva, quest’ultimo, che fornire consigli all’Huxley non era un onore, bensì un percorso tortuoso attraverso un campo disseminato di ordigni inesplosi. Elwyn non voleva un parere onesto, voleva sentire esattamente ciò che sperava gli venisse detto. Eresie come “sei innamorato di lei”, ad esempio, lo avrebbero costretto a ribaltare il tavolo sull’ex-battitore.
    «Tu che problemi hai?» ok, gli era uscita decisamente male. Si tirò su, appoggiò i gomiti sul tavolo e riprese a fissare il suo interlocutore. «Scusa, non fraintendermi.» perché, no, non stava brutalmente insistendo per conoscere il reale motivo per cui l’ex-corvonero avesse speso un’esagerata quantità di galeoni soltanto per fissare le fughe del pavimento – e va bene, non gli sarebbe dispiaciuto sapere anche quello. «In generale intendo, nella vita» anche peggio? Dannazione, voleva solo che Dominic gli raccontasse drammi personali più o meno significativi per trovare conforto nelle difficoltà altrui e dimenticare, per un attimo, di essere un perfetto imbecille. Chinò il capo e sollevò la mano, per bloccare l’amico e chiedergli qualche istante per trovare parole che non suonassero terribilmente offensive. «Come te la passi?» prima che la combo Elwyn-Svetlana rischiasse di ucciderlo, s’intende.
    [verse 1]
    i whisper
    "what the fuck"
    to myself
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    i panic! at (a lot of places besides) the disco
    i see it, i like it, i want it, i got it
     
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    dominic cavendish
    La confusione non lo spaventava, ci era abituato, e ormai la abbracciava e la inglobava nella sua persona con una facilità stoica e a tratti preoccupante; aveva tante domande su cosa era accaduto e cosa stava accadendo, e se c’era il pericolo che accadesse anche dell’altro, ma non ne pose nessuna. Non trovava le parole giuste, perse in quello scambio di battute fuorvianti tra i due a cui faceva da divisore, e anche per questo non riusciva a cogliere il momento giusto, quell’istante in cui i partecipanti di una conversazione percepiscono uno stallo e con un colpetto di tosse possono arrischiare un «beh, allora, che si dice?» e cambiare completamente discorso, cosa che in quel caso non era mai avvenuta. Anche quando Elwyn e Svetlana non sembravano star parlando, nello spazio tra i due si creava una sorta di coagulo pieno di tensione pronto a scoppiare da un momento all’altro, e a quel punto era difficile – e rischioso – intromettersi.
    E ovviamente nello spazio tra i due, proprio al di sotto del minaccioso coagulo, sedeva Dominic, costretto non solo a dover guardare inerme e confuso quella scena, cercando di frenare il suo istinto dal fare domande scomode, ma anche a cercare di mantenere un certo autocontrollo, di far funzionare correttamente tutti gli organi all’interno delle sue membra, e di non soccombere sotto la troppa pressione che gli premeva sulle tempie e rischiava di farlo andare in blackout totale.
    Perché, in effetti, oltre ad essere il centro della forza tensiva tra l’ex serpeverde e l’ex compagno di squadra – cosa che lo metteva comunque in gran disagio, ma in un certo senso lo faceva sentire quasi onorato –, era il fulcro anche di un altro tipo di tensione, quella che gli stava facendo bruciare la pelle del collo sotto il tocco della bionda, che gli aveva fatto raddrizzare le spalle, e lo costringeva a stringere il bicchiere di vetro con la mano al punto da far sbiancare anche le nocche della stessa. Quello, e la sua rigidità, gli occhi puntati sulla trama veramente poco interessante del tavolo, la mascella serrata, e le guance arrossate, poteva quasi far sembrare che Dominic non apprezzasse quelle attenzioni rivoltegli dalla proprietaria del locale, che avrebbe preferito essere da tutt’altra parte – e in effetti la voglia di scappare del Cavendish in quel momento era pressoché pari a quella che lo assaliva negli afosi pomeriggi estivi in cui da bambino andavano a trovare la zia Rose e questa lo sollevava per farlo sedere sulle sue coscione sudaticce e lo riempiva di coccole e di baci. Con questo non stava assolutamente paragonando la vicinanza della Piper a quella della sua ultrasettantenne zia grassoccia e sudaticcia, tutt’altro: Svetlana era più giovane, più bella, più bionda, aveva le labbra più morbide e meno appiccicose, aveva le gambe più lunghe ed esattamente poggiate tra le sue gambe, aveva le dita più affusolate proprio sulla sua pelle scoperta, aveva una vestaglia decisamente più sensuale, e aveva una scollatura più… – ah, damn. Chiuse gli occhi, un po’ maledicendosi per aver ceduto così facilmente, e affondò i denti nell’interno del labbro inferiore. In sostanza, Svetlana non era affatto come sua zia Rose, e non negava che in un certo senso gli piaceva l’ex serpeverde (perché insomma dai, okay tutto… ma degli occhi li aveva comunque), decisamente più di sua zia, gli piacevano molto anche le attenzioni che gli stava dedicando, che in un contesto diverso e con una persona diversa avrebbe anche ricambiato, ma c’era una cosa che univa le due donne, così fortunatamente diverse: il disagio che Dominic provava.
    Perché se quelle dita tra i suoi capelli – secondo lui uno dei gesti più sensuali e intimi, secondo solo alla concessione regale e l’atto di fede di potergli fare la barba – gli provocavano un certo piacere estatico, allo stesso tempo lo facevano arrossire imbarazzato, e guardarsi intorno continuamente con occhiate intimidite, perché sapeva che a) tutti gli altri clienti, vedendo quella scena, avrebbero pensato che fosse un privilegiato o che, peggio, doveva aver pagato una fortuna (cosa vera) per ricevere quel trattamento speciale proprio da Svetlana (cosa non vera), e che b) quelle attenzioni in realtà riguardavano qualcosa di più grande di lui. Ora, non era un grande pensatore, e neanche un grande calcolatore, ma 2+2 sapeva ancora farlo, e se univa quella tensione tangibile tra Elwyn e Svetlana a quelle coccole non richieste fatte alla sua persona… beh, era ovvio che la tensione crescesse.
    Dove la tensione di “la tensione crescesse” può significare tante cose, sì.
    Gonfiò le guance visibilmente provato da quella situazione, e poi sospirò e riaprì gli occhi. «al Lilum» convenne con la proprietaria del locale, prima di concedersi quel brindisi assolutamente necessario; invece di sorseggiare il bicchiere di whiskey lo buttò tutto giù, sentendo in quel momento il bisogno di quella bevanda più di quanto non ne sentisse durante le solite serate passate nel locale. Il risultato, non solo dell’aver tracannato l’alcolico ma delle successive parole della bionda, fu un tossicchiare insistentemente sull’orlo del soffocamento, per poi lanciare uno sguardo – velocissimo – a Svetlana, e subito dopo a Elwyn. «in che… senso… il palco è nostro…?» gesticolò vagamente con le mani per formare un cerchio che comprendeva quello strano circoletto che si era venuto a formare. «nostro, oppure» un altro, piccolo, cerchio con la mano includeva solo la figura dell’ex serpeverde «nostro?» che nella lingua dei sani di mente che non erano allo stesso tempo nel panico più totale, in uno strano stato di rigidità corporea, e in procinto di avere un ictus, significava “ci sta chiedendo di esibirci in uno spettacolo di burlesque, o ci sta invitando a uno spettacolo di burlesque?”, che posta così sarebbe stata una domanda molto più semplice e chiara, ma avrebbe anche messo in evidenza la sua totalmente sbagliata interpretazione dell’offerta gli aveva fatto Elwyn prima che entrasse in scena – letteralmente – la Piper e portasse chaos non solo nel locale con la sua esibizione, ma anche in quel duo formato dagli ex corvonero.
    Per quanto paradossale possa sembrare, l’infermiere fu sollevato quando le grazie di Svetlana si allontanarono da lui, e infatti riprese a respirare, rilassò le spalle, e poi si aggiustò meglio sulla seduta, prendendo di nuovo possesso delle sue gambe e delle sue funzioni vitali. E finalmente, ormai distante, si decise a guardare la bionda di spalle mentre si allontanava, una visione che senza alcun dubbio lo metteva meno in soggezione rispetto al contatto ravvicinato avvenuto poco prima.
    Eppure, improvvisamente avvampò ugualmente, ma stavolta per altri motivi.
    Deglutì vistosamente e si voltò verso Elwyn con una certa urgenza. «non succede spesso…» anzi «cioè… non è mai successo; io non… pago per questo» si affrettò ad aggiungere, convinto che l’ex concasato si riferisse all’improvviso affetto che la proprietaria del Lilum aveva dimostrato nei suoi confronti «non pago neanche per gli spettacoli in realtà, io- è più una cosa che…» si bloccò con le labbra ancora dischiuse e quella giustificazione a morire lì, prima ancora di essere pronunciata.
    «Ho sbagliato qualcosa?» sapeva che fosse una domanda trabocchetto, che qualsiasi cosa avrebbe risposto non sarebbe stata la risposta giusta, quella che Elwyn voleva; eppure forse Dominic aveva nelle sue corde la risposta che a Elwyn serviva, era solo difficile da renderla un discorso, e perché Dominic non sapeva assolutamente quale fosse la situazione tra l’ex giocatore di Quidditch e la spogliarellist-imprenditrice, scusa, e perché non sapeva neanche come articolare per bene un discorso senza balbettare e tirare in mezzo citazioni di Morrissey, o, peggio ancora, di Shrek. «owh» nel momento in cui si rese conto che non stavano né parlando del suo rapporto con la Piper, né del fantomatico spettacolo di burlesque «mh» nel momento in cui afferrò che l’Huxley gli stava veramente chiedendo un consiglio di quel tipo «beh» nel momento in cui si rese conto di non avere una risposta pronta, e finalmente «diciamo che…» iniziò, quando il ripasso della lezione sui monosillabi fu finito, quella che voleva essere una saggia lezione sulla vita di coppia, o sulla psicologia femminile. Perché se da Elwyn (non) aveva imparato l’arte della seduzione, la sua sensibilità l’aveva costretto col tempo a cercare di comprendere l’altro sesso, di avvicinarsi alla loro prospettiva. «non sbaglia mai uno solo, c’è sempre un concorso di colpa» – cioè ma guardatelo, anche i paroloni – «però se lei si è comportata così forse vuole fartela pagare, quindi potrebbe essere, forse, per caso, che tu abbia sbagliato qualcosa in passato, o che non abbia fatto abbastanza per non sembrare colpevole anche in questa situazione e…» sì, strano ma vero, sembrava abbastanza sicuro di sé mentre parlava di quegli argomenti, poteva finalmente sfoggiare anni e anni di osservazione del comportamento femminile e dati empirici raccolti a suon di rifiuti accumulati. Ma non concluse quello che aveva in mente, lasciò che Elwyn prendesse di nuovo la parola e concordò con lui. «sì, è complicato». Rimase in silenzio, limitandosi a guardarlo con una puntina di emozione, perché non era un semplice amico che si stava piano piano aprendo e provando a sfogarsi, era Elwyn Huxley che lo stava facendo, era molto più di quello: una giornata da segnare sul calendario con una stellina. Annuì lentamente, approvando tutto quello che il maggiore diceva, e quando svuotò il contenuto del bicchiere gliene versò ancora un po’, shentendo che ne avesse bisogno per andare avanti, ma l’Huxley si fermò ugualmente.
    «io?» fu un po’ stupito di ricevere quella domanda, e nel vagliare le possibili risposte si rese conto che avrebbe preferito di gran lunga continuare ad ascoltare i drammi di Elwyn. Di problemi ne aveva tanti, da tempo, questioni irrisolte con se stesso e con altri, inadeguatezze e insicurezze con cui avrebbe prima o poi dovuto fare i conti, ma sapeva che l’ex compagno di casata non si riferiva a quello, sapeva che non voleva psicanalizzare Dominic, voleva solo qualche fatto concreto su cui ridere per distrarsi dai suoi problemi. Per i suoi drammi personali, comunque, il mercenario sarebbe dovuto passare più in là, quando l’incontro con Nice l’avrebbe messo in difficoltà, la scoperta del 2043 l’avrebbe sconvolto, e ancora più in avanti quando un misterioso virus avrebbe tentato di ucciderlo; per il momento, non aveva molto da raccontare e le tre ipotesi tra cui si trovò a scegliere ponevano l’accento sulla vita incredibilmente noiosa e monotona che si trovava a vivere:
    a) tiriamo avanti
    b) non ci lamentiamo
    c) l’importante è che ci sia la salute
    proprio così, con questo stesso plurale maiestatis che solitamente segnava l’avvicinamento dell’età pensionabile e la demenza senile. Ma infine scosse la testa, sbarrando mentalmente quella piccola lista, e aggiungendo un’opzione del tutto nuova ed inedita; si strinse nelle spalle e distese le labbra in un sorriso. «mah, sai, la vita al castello è sempre la stessa» chissà se Elwyn sapeva che Dominic si era dato alla medicina, ma daremo per scontato di sì «i corvonero quest’anno hanno una squadra simpatica, un po’ bizzarra; una è sempre arrabbiata e vuole picchiarli tutti, un altro è un po’ bassino per la sua età poverino spero che col tempo migliori, sono un po’ strani, però il battitore è forte» lo guardò curvando l’angolo delle labbra in un sorriso più divertito, poi avvicinò il suo bicchiere a quello dell’altro per un brindisi non richiesto. «ma nulla in confronto a quando c’eri tu in campo» la v e r i t à, ma anche il boost di autostima di cui probabilmente Elwyn aveva bisogno dopo la parentesi Svetlana; e Dominic era un buon amico e un attentissimo fan, quindi avrebbe fatto quello ed altro
    (anche il balletto di burlesque)(o forse no).
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