I wish I could say I'll regret it (but I probably won't even remember it)

Hans & Narah || ponte coperto

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    «Questo vuole dire che abbiamo un sacco di tempo per fare serata cinema e rivedere i migliori momenti della lezione!» la voce di Mr. Henderson rieccheggiò nell'aula piena zeppa di special, un pubblico SfinitoTM, chi più chi meno, che probabilmente non vedeva l'ora di tornare ad essere libero per cercare di dare un senso a quella lezione o capire ~dove fossero.
    O magari non era il mood generale ma solo quello di qualcuno, di un pirocineta nello specifico, lo stesso pirocineta che qualche minuto prima si era svegliato ancora più confuso di quanto non fosse stato al suo arrivo Nydiaville. Accanto a lui c'era ancora la capra e - un momento. Accanto a lui c'era la capra! Se l'erano portati dietro! Quindi non era stato un sogno (bold of you to credere che Hans abbia sentito una sola parola di quello che Nathaniel aveva detto al loro risveglio) se Pastina II era lì con loro. O forse la stava immaginando... insomma, non sarebbe stata la prima volta per lui. Non intendo la prima volta che immaginava di vedere una capra, ovvio, ma che vedeva /cose/ più in generale e basta. Forse doveva fare come Barry e mandare giù meno droghe ma #whatever
    Per farla breve, comunque, la capra era lì accanto a lui e, in maniera del tutto out of character per i suoi canoni, Hans alzò la testa per cercare Bri e sorriderle come a dire "siamo vivi! la capra è viva!" ma al suo fianco non c'era la meteorologa (cit.) ma qualcun altro - e lui sapeva a malapena i nomi della skwad, quindi ciao persona sconosciuta.
    Deluso da quella scoperta e senza avere davvero poi tanta voglia di incontrare lo sguardo di altre persone in quel preciso momento, e più semplicemente sfinito dalla vita, decise di rinunciare a cercare altri volti familiare e anche che non aveva motivo alcuno per rimanere a vedere il resoconto della nottata (la scena più bella, lui e Bri che chiudevano Beltè nei laboratori era stata cancellata, tu pensa, mai una gioia.) e così, con un movimento silenzioso e reso svelto dalla pratica costante (nemmeno il fantasma della fucilata alla gamba poteva fermarlo), si alzò in piedi e, approfittando della distrazione generale dovuta a Nathaniel e alla sua idea di cinema d'intrattenimento, scivolò via dall'aula, nel buio dei corridoi semideserti della scuola, diretto verso Different Lodge. Non aveva voglia di rivivere nessuno di quei momenti, men che meno da sobrio o relativamente tale; il suo corpo si sentiva tradito e scombussolato da quella nottata che era passata solo in una realtà artificiale dove Hans aveva gradualmente smaltito la sbronza e le droghe che gli offuscavano la mente per poi scoprire che erano passate a malapena un paio di ore da quando era entrato (per sbaglio, decisamente per sbaglio) nell'aula di controllo dei poteri. Inutile dire che si sentiva frastornato, sottosopra, confuso - non che non fossero mood tipici per il sedicenne ma, insomma, quello era troppo anche per i suoi standard. Così, una volta a Different Lodge aveva subito cercato un modo per stare meglio che, nel suo vocabolario, voleva dire non sentire affatto e, velocemente, era tornato a vivere le giornate secondo le proprie abitudini, già dimentico di ciò che era riuscito a fare a lezione e no, non sto parlando del rasoio di fuoco, anche se pure quello era un traguardo per lui, ma di come si fosse aperto nei confronti di altre persone al punto da fidarsi di loro - e, in cambio, ricevere altrettanta fiducia (spoiler: male, malissimo).

    Il resto della settimana tornò quindi a scorrere per lui come ogni altra settimana al castello: si alzava, mandava giù qualcosa prima di colazione poi se era fortunato e se lo ricordava davvero faceva addirittura colazione e... niente, passava così le giornate, Hans Belby, a fare niente. O, piuttosto, magari qualcosa la faceva ma sempre senza pensarci troppo o senza ricordarla. Se si soffermava a chiacchierare con qualcuno di solito succedeva che interveniva all'improvviso nella conversazione per dire qualcosa di totalmente random e fuori luogo, probabilmente, per poi sparire così come era arrivato. Chiacchierava con i quadri o con i fantasmi, a volte, ma era difficile capire chi tra le due parti fosse più fuori di testa. Aveva degli hobby ma mai abbastanza costanza per praticarli e se iniziava una cosa spesso finiva con il lasciarla a metà perché distratto da qualche altro evento. E inoltre il tutto dipendeva fortemente da come trascorreva la notte e, di conseguenza, come si alzava la mattina.
    C'erano giorni sopportabili e poi c'erano quelli in cui persino abbandonare il letto sembrava essere un'impresa epica - e per questo molto spesso non lo faceva.
    Proprio come avrebbe voluto fare quella mattina, o forse era pomeriggio non ne aveva idea: aveva aperto gli occhi verso le tre del mattino per colpa dell'ennesimo incubo e non era più riuscito a prendere sonno. Non era servito a nulla stringere il cuscino sulla faccia e rannicchiarsi sotto le coperte, l'incubo si ripeteva ogni singola volta che chiudeva gli occhi. Sebbene fosse arrivato al punto da vivere simili momenti persino da sveglio, la notte rimaneva il momento peggiore della giornata se non cadeva in un sonno profondo e innaturale. Non riusciva proprio a vincerli, quegli incubi, e aveva smesso di combatterli già da tempo. Sapeva quale era l'unica cosa da fare.

    Infatti, solo dopo quelle che sembravano ore aveva finalmente sentito il piacevole effetto della pastiglia invadere il suo corpo - ma non abbastanza in fretta da impedirgli di registrare la Sirena che faceva le prove per la nuova coreografia negli spazi comuni del loro rifugio. Avrebbe voluto dirle di piantarla, cazzo Cassie (Carrie? Cammie? Insomma, vabbe)(ciao Callie sei bellissima tvb) vai a fare l'arcobaleno altrove, ma non aveva le forze nemmeno per quello. Preferì quindi alzarsi dal divano dove era tristemente strisciato ore prima e incamminarsi diretto chissà dove.
    Non aveva una meta in mente - edit: non aveva nulla in mente - e lasciò che i suoi piedi lo guidassero per minuti, forse ore, prima di realizzare dove fosse finito: davanti a lui c'era solo l'orizzonte (una veloce occhiata alle sue spalle e anche lì, solo l'orizzonte) e se non fosse stato per la balaustra di legno stretta sotto le sue mani e le arcate del ponte non avrebbe faticato a credere che stava volando. E in un certo senso stava volando davvero #dontdodrugskids
    Socchiuse gli occhi e ispirò profondamente, lasciando che il vento fresco gli sferzasse il volto, gli abbassasse il cappuccio della felpa e scompigliasse i capelli che, già in condizioni normali, sembravano quelli di Edward Mani di Forbice.
    Pace.
    Avere accanto Hans in quei momenti sarebbe stata la gioia di un qualsiasi Legilimens o telepate poco pratico nel gestire il proprio potere perché la sua mente era totalmente vuota: si riempiva di pensieri random, ogni tanto, ma erano fugaci e spesso sciocchi e senza reale significato e per la maggior parte del tempo l'unica cosa che si poteva udire era il silenzio.
    Quelli erano, tra l'altro, i momenti che lui preferiva, dove non doveva scendere a compromessi con i fantasmi del passato o con i sensi di colpa e dove provare qualcosa non era contemplato e, per questo, lui stava benissimo.
    Non aveva abbastanza #fucks da sperperare in giro ma se li avesse avuti avrebbe volentieri detto a chi lo giudicava di prendere i propri pareri e metterseli dove non batteva il sole perché lui non aveva bisogno dei loro continui rimproveri, dei loro "dovresti cambiare atteggiamento, Johannes" e dei loro sguardi accondiscendenti e pieni di pietà per "quel poverino che dalla vita non aveva ricevuto nient'altro che sfighe". Non ne aveva davvero, davvero bisogno, e non gli sembrava di certo che andasse in giro a chiederli, i loro pareri, no?! Perché darli quando non richiesti? Cosa ne sapevano loro di come era la sua vita? Di cosa avesse patito negli ultimi dieci anni?
    «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.» Gli aveva detto zia Catherine l'inverno precedente citando sicuramente uno dei suoi libri preferiti, ma che ne voleva sapere lei? La famiglia Belby non era infelice (forse un po' sfigata ma non infelice) o quanto meno non lo era mai stata prima dell'incidente. Tutti gli sfortunati eventi che erano successi in quel decennio avevano un punto di origine comune e, quel punto, era proprio lui. Quindi no, non centrava niente l'infelicità, lì era questione di sbagli che avevano fatto prendere al destino quella spiacevole piega.
    Tutto partiva da lui e da quel maledetto fuoco.
    Quindi come potevano giudicarlo se quello era l'unico modo che avesse mai conosciuto per mettere a tacere sia le voci che la fiamma che ardeva in lui? Come potevano dirgli che era sbagliato? Perché non pensavano alla loro cazzo di vita invece che tormentare la sua?!
    «Oh.»
    Successe come quando ti desti all'improvviso da un sogno perché sembra che stai cadendo e poi invece scopri che sei ancora disteso nel letto: l'unica differenza era che il piede in fallo Hans lo aveva messo davvero e la caduta, da lassù, non sarebbe stata poi così piacevole.
    Aprì gli occhi all'improvviso e guardò giù ma i suoi occhi videro solo il vuoto e nope, non una bella caduta.
    Se si era accorto di essere salito in piedi sulla balaustra e di essersi improvvisato funambolo? Ovvio che no, lo aveva appena realizzato e solo dopo aver avuto la sensazione di cadere - che era stata ben più di una sensazione. Per qualche assurdo motivo la cosa gli aveva persino provocato una risata.
    E no, non guardatelo così, non stava cercando di buttarsi giù, non era un suicida, era semplicemente... Hans.
    Allargò le braccia e lasciò cadere la testa all'indietro, già dimentico dei pensieri che lo avevano assillato pochi momenti prima, sebbene quelli trovassero sempre il modo di raggiungerlo ancora e ancora e ancora.
    Non sarebbe stato bellissimo potersi fingere un uccello e passare la vita a librarsi in volo senza preoccupazione alcuna?
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    C’era una volta una piccola special, pronta (si fa per dire) ad affacciarsi al mondo.
    E con una sola frase abbiamo riassunto la situazione di Narah, in procintissimo di lasciare Hogwarts e Different Lodge per entrare nella realtà degli adulti. Facile, eh? Be’, no, quantomeno non per la piccola – e disagiata – special in questione. Come aveva confessato a Behan Tryhard tempo prima, in un’intensissima seduta di skincare a base di lacrime e penne glitterate, Narah aveva paura. Di cosa? Facendo una rapida stima, almeno di un triliardo di cose arrotondando per difetto.
    Le giornate passavano, il prom era sempre più vicino e quell’evento avrebbe sancito per sempre la sua dipartita dal castello in cui, nel bene e nel male, aveva vissuto dall’età di undici anni: e d’accordo, un paio di volte a settimana sarebbe tornata per le lezioni del prof Henderson – e per fortuna, non voleva non rivedere più l’uomo che in un certo senso l’aveva sostenuta e vista crescere! –, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Avrebbe dovuto lasciare Jane e Fitz, svuotare l’armadio pieno delle sue strambe collezioni, dei vestiti e dei quaderni, salutare il corridoio in cui aveva incontrato la Darko per la prima volta e poi le serre di erbologia, che in quegli anni avevano rappresentato un porto sicuro, dove rifugiarsi quando c’era qualcosa che non andava, e tempo dopo dove aveva conosciuto il ragazzo che si era guadagnato un posto speciale in quello stupido cuore di panna che si ritrovava. Si era resa conto, la Bloodworth, che la sua adolescenza stava per finire, e che le sarebbe mancata. Non era mai stata una tipa pessimista, e aveva sempre visto tutto ciò che di Hogwarts le piaceva, ma rendersi conto che quel periodo della sua vita era prossimo a finire la faceva sentire disorientata come mai, quasi non riuscisse a crederci. Sette anni erano tanti, soprattutto se, come i suoi, erano stati belli intensi e insospettabilmente importanti.
    Se ci pensava, le sembrava quasi impossibile. E Narah ci aveva pensato spesso, in quelle settimane in cui aveva abbracciato più del solito Jane ignorando i suoi mugugni esasperati – «L’idea del tuo letto vuoto inizia a piacermi, sai?» CHE KATTIVAAA, tanto lo sapeva che le sarebbe mancata e che sotto sotto le sue attenzioni le piacevano, doveva sempre fare la dUrA?? –, e seguito Fitz in tutte le imprese bizzarre in cui si era cacciata – non si era mai resa conto di quante fosse capace di farne fino a quando non le aveva vissute sulla propria pelle. Aveva chiacchierato più spesso con Gideon, passando del tempo senza pretese con lui come ai vecchi tempi, che fosse in biblioteca, ai Tre Manici o dovunque capitasse. Perché sapeva che quella rassicurante quotidianità stava per finire, e non voleva farsi cogliere dai rimpianti per aver sprecato quelli che tra sé e sé reputava gli ultimi momenti di serenità. Sapeva che dopo ci avrebbe messo un po’ per abituarsi al nuovo alloggio – che tanto nuovo non era, dato che ci capitava ogni estate ma di volta in volta in stanze diverse – e aveva finalmente ragionato per bene sulle opzioni lavorative. Adesso gli special potevano ambire a più lavori rispetto a un anno fa, ed era un lato positivo considerando che non avrebbe potuto limitarsi a fare la ballerina al Lilum per tutta la vita. Non serviva più un garante, e positivo lo era pure quello, cavolo se nel suo caso lo era! Insomma, aveva pensato che il tirocinio come giornalista le era piaciuto e scrivere era un suo hobby, quindi perché non tentare conoscendo già Friday deThirteenth?? Aveva messo un altro tassello a posto nella propria mente, nonostante sapesse che tra i programmi e la realtà c’era sempre una bella differenza, era quasi una legge, un po’ come era successo nella sua relazione con Gideon.
    Qui, un altro punto cruciale, che Nah non era così ipocrita da ignorare e accantonare come se niente fosse. Quando Gid l’aveva lasciata, Narah si era scontrata ancora una volta con se stessa. E non era solo per Gideon, ma un tratto caratteriale che la accompagnava da diciassette anni: – pausa per aumentare la suspence #wat – la fragilità. Narah più di tutti pensava che la fragilità non fosse un difetto, ma spesso si comportava come tale. Non le era piaciuto come si era comportata e, anche qui, si era fatta un’altra promessa, ovvero che sarebbe migliorata. Avrebbe tentato di modificare almeno un po’ il proprio approccio agli eventi, ben sapendo che probabilmente ci sarebbe riuscita solo in parte perché diciamocelo, lei di magie faceva solo quelle riguardo la telepatia!! (?????) Intendiamoci, Narah non voleva digievolversi o qualcosa di simile, in fondo si andava bene così: voleva solo usare quella fragilità in modo migliore! Avrebbe fallito miseramente? Può darsi Chissà.
    Quel giorno nello specifico, con le lezioni ormai giunte al termine, Narah si era ritrovata senza compagnia e senza piani precisi. Nemmeno una promposal cui partecipare, anzi, nemmeno mezza!!!! Ci stava prendendo gusto a partecipare alle proposte assurde dei suoi compagni special e non, e all’atmosfera tutta elettrizzata che precedeva il ballo di fine anno. A conti fatti per lei sarebbe stata una giornata come le altre, fatta eccezione che già non sapeva che pesci pigliare con l’abito e si sarebbe fatta aiutare da Jess chiedendoglielo disperata, ma era bello e confortante vedere che, invece, altre persone ci tenevano davvero tanto!! Però no, a questo giro niente cose strane da organizzare, c’erano solo lei e il silenzio dei corridoi – che fine avevano fatto tutti?? Boh –: allora Nah aveva optato per una camminata random in lungo e in largo per il castello nei primi vestiti-non-divisa che aveva scovato dal guardaroba, e già che c’era, visto che era sempre divertente riflettere su questioni psicologicamente sfiancanti, si era persa a pensare – come innegabilmente capitava abbastanza spesso – a Gid.
    E girovagando in automatico dovunque i piedi decidessero di portarla, si era ritrovata a sorridere con una punta di rassegnazione che in genere non le apparteneva. Lei, Narah Bloodworth, naturalmente e prevedibilmente noiosa, ricambiata. Le era parsa un’utopia prima di mettersi con il Corvonero, e gliela pareva tuttora. Forse era stata veramente ingenua a non immaginare che la rottura sarebbe arrivata, oppure a non smettere di provare quel sentimento per lui, ma non era nemmeno su questo che si era soffermata a pensare. Magari Gid non la pensava come lei, o forse sì, non lo sapeva, ma era del parere che per un momento difficile della loro – brevissima #sad – storia ce ne fossero stati almeno dieci bellissimi e perfetti. Ecco, voleva custodire tutti quei momenti – anche quelli negativi!! – senza portare alcun rancore nei confronti del McPherson, che non aveva fatto nulla se non capire di non essere più innamorato. Non capitava certo tutti i giorni ci fosse-
    Hans sulla balaustra del ponte. Non voleva finire così la frase eh, un po’ perché sospettava che in effetti accadesse tutti i giorni sul serio, ma CHE STAVA SUCCEDENDO. Le ci era voluto un secondo di ritardo per sbattere le ciglia una, poi due volte e rendersi conto che non si stava sognando tutto. E sprofondò nell’ansia completa; cosa avevamo detto della fragilità??????? Niente? Meglio così.
    Aveva inconsciamente smesso di camminare, il respiro inceppatosi all’improvviso mentre tentava di non pensare subito al peggio e- mamma mia, sudare freddo vedendo il piede del pirocineta finire nel vuoto prima che questo recuperasse l’equilibrio. Si poteva sapere che stava combinando??? Ma poi stava davvero ridendo per essere quasi caduto?? Stava ridendo. Che cactus ridi!!1!111 Mentre scrutava il ragazzo senza dire una parola, con tutti i sensi in allerta, cercò di capire cosa stesse facendo lassù; non si rese neanche conto di aver già attivato un legame tra la propria mente e quella dell’altro, sapete, nel caso in cui avesse davvero dovuto fermarlo dal buttarsi di sotto. Vabbè, mica poteva a stare a fissarlo per sempre, e se si fosse buttato davvero?? CHE INCOSCIENTE MALEDUCATO! #acaso «… Ciao Hans??» “Non vuoi di certo buttarti facendomi assillare dai sensi di colpa, vero?” Che ansia.
    A Hogwarts i brividi non finivano fino all’ultimo. Era magiko pure quello.
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    Oh, you will see me thrive
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    NARAH J.
    BLOODWORTH


    Edited by butterfly‚ - 27/7/2020, 14:49
     
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    «Sai perché gli uccelli volano, Jöns?»
    «Perché sono liberi.»
    «No. È perché hanno le ali, scemotto.»
    Due paia di occhi della stessa sfumatura di azzurro che aveva il cielo sopra di loro si incontrarono e rimasero a fissarsi per qualche secondo; se era vero che le coppie di gemelli avevano un modo tutto loro di comunicare, anche telepaticamente, allora in quel momento i due fratelli Belby erano nel bel mezzo di una conversazione. In silenzio, senza dire neppure una singola parola ad alta voce, ma facendo arrivare a destinazione un messaggio ugualmente chiaro, diretto e preciso.
    In quei momenti, tra loro, veniva detto tutto senza dire assolutamente nulla.
    Poi, inaspettatamente, o forse no conoscendo la bambina, Elizavetha iniziò a ridere. Johannes non poté fare altrimenti e imitò la ragazzina, ridendo di gusto, portando una mano sulla pancia scoperta e l'altra sul volto, a coprire gli occhi bagnati dalle lacrime per le troppe risate. L'estate di Malmö era fresca, certo, ma non aveva impedito ai due ragazzini di recarsi al lago neppure quel giorno; i loro genitori erano a pochi passi da loro, sulla sponda sabbiosa del lago, chi a leggere il giornale, chi a risolvere le parole crociate lasciare incompiute dal coniuge.
    «"perché sono liberi" gnegnegne» la biondina gli fece il verso, tirandolo per il pantaloncino del costume, senza smettere di ridere. Sapeva essere molto esuberante (per non dire invadente) quando ci si metteva, ma era sua sorella, era la sua Mare, era la sua (anima) gemella. Perciò la lasciò fare e quel pomeriggio al lago divenne ben presto uno degli ultimi (e unici) ricordi felici del Belby, precedenti all'incidente.

    «Sai perché gli uccelli volano, Jo?» Non era più Jöns, non era più il suo Yuuns, non da quando avevano raggiunto l'Inghilterra. Lei era Elizabeth ormai; suo padre non più Micael ma Michael. Perché era così difficile per gli inglesi pronunciare correttamente i loro nomi?! Assurdo. Persino lui era diventato Johnny, per l'amor del cielo! Una vera tortura.
    «Perché hanno le ali.» le rispose senza emozione nella voce. Non avevano più sei anni, non erano più i bambini stupidi che giocavano a quel gioco altrettanto idiota.
    Era estate, di nuovo, ma non erano più le fresche estati svedesi le loro; erano ormai umide e piovose estati inglesi. Fatte di compiti per le vacanze, uscite con i compagni di casata (per Liz) e notti passate a fumare sul tetto di casa degli zii (per Hans).
    Erano ancora gemelli, certo, ma mai in vita loro erano stati così distanti. Non più sintonizzati sulla stessa frequenza d'onda.
    «No. Perché sulla terra morirebbero.»
    E se n'era andata, diretta chissà dove e chissà con chi, lungi da loro padre porre un freno al carattere di quella ribelle di Elizavetha. E Hans non aveva le forze necessarie, né l'interesse ad essere onesti, per sostituire quella figura amebica che si presupponeva dovesse crescerli e prendersi cura di loro. D'altronde, aveva smesso già da un bel pezzo.

    «Sai perché gli uccelli volano, Nah?»
    Di fronte a lui non c'erano più quegli occhi azzurri come i suoi, né il sorriso che tanto ricordava la loro dolce mamma, o i capelli biondi che ondeggiavano al vento come spighe dorate nei campi di grano. Davanti a lui, o meglio, leggermente sotto di lui, c'era Narah.
    Dieci punti a Ivorbone, pensò fugacemente e non senza una certa ilarità, complimentandosi con se stesso per aver ricordato quel nome. Le cose non riuscivano mai a rimanere all'interno della sua mente troppo a lungo, tendeva a dimenticare all'incirca il novantanove percento delle cose che faceva o diceva, forse perché non era mai realmente presente quando queste succedevano.
    Ma alla lezione, oh! A quella sì che aveva partecipato; era l'unico motivo per cui, volente o nolente, poteva adesso affermare di avere i suoi primi veri amici lì al castello. L'unica persona che avesse mai considerato tale era Mare ed era la sua gemella, forse non valeva poi molto come paragone. La banda dei bimbi sperduti, come li aveva chiamati Jay, era nata per caso e ora Hans non sapeva più come scrollarseli di dosso - in alcuni momenti gli piaceva fare il fratello molesto e dispettoso; era bello nascondere il cibo a Bri e osservarne la reazione da dietro lo schienale di una delle poltrone di Different Lodge; o mescolare la collezione di pigne di Narah per farle un dispetto; o insegnare termini volutamente errati a Ty nella speranza che poi li utilizzasse in giro per il castello ma... alle volte tutto ciò che voleva era rimanere da solo. Aveva passato l'ultimo anno o poco più in totale solitudine e non era stato poi così male. Ora invece, come se gli altri special non bastassero, avevano anche una dannata capra-non-capra a completare quella stramba famigliola. Forse era ingiusto da parte sua desiderare di essere lasciato in pace ma sapeva, in cuor suo, che nulla era destinato a durare: tutti andavano via, prima o poi. La stessa Narah si sarebbe diplomata nel giro di qualche settimana e l'avrebbero rivista forse giusto per le lezioni di Controllo dei Poteri.
    Se lui si fosse degnato di andare.
    Hans non era fatto per avere amici, prima o poi allontanava chiunque: faceva scappare tutti a gambe levate perché nessuno era abbastanza paziente da sopportare i suoi continui e repentini sbalzi d'umore. Persino sua sorella era fuggita via, il più lontano possibile da lui.
    Era solo questione di 'quando', mai di 'se'.
    Prendete Narah in quel momento, ad esempio: lo aveva salutato ma dall'espressione buffa che aveva sul volto non sembrava molto felice di vederlo (lungi da lui capire che era preoccupazione, l'emozione dipinta sul bel volto della telepate) e forse si era fermata a chiacchierare con lui solo perché era fin troppo cortese. O forse perché si sentiva in dovere di farlo.
    Lo svedese aveva ricambiato il saluto per educazione e perché sua mamma gli ripeteva (aveva ripetuto?) (difficile scegliere il passato corretto quando la vedeva in sogno ogni. singolo. giorno) sempre che a saluto, si risponde.
    Lo aveva fatto roteando su se stesso, in precario equilibrio su quella recinzione in legno, dando le spalle al vuoto sotto di lui e portando l'attenzione sulla sua nuova amica. Aveva pronunciato un «CIAO!» forse fin troppo euforico, chiaramente in contrasto con l'umore un po' #emo che aveva dentro, e le aveva persino sorriso, un sorriso costruito e chimico, tipico dello stato di inebriatezza in cui spesso verteva il pirocineta.
    Poi, dal nulla, quella domanda.
    Pensare a Narah aveva riportato a galla vaghi e confusi ricordi riguardanti sua sorella, ma l'unica cosa che Hans era riuscito a captare era quell'assurda domanda. Non aveva senso, così come non avevano senso la maggior parte delle cose che lui diceva o faceva, ma Narah era intelligente! Grazie a lei erano usciti da Nydiaville (quasi) illesi! Sicuramente lei avrebbe saputo rispondere alla questione: perché gli uccelli volano mentre gli umani sono ancorati - incatenati - al terreno?
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    Io.... IDK. Scrivere Hans è sempre un'esperienza mistica anche per me :eminem:


    Edited by ignis fatuus. - 2/10/2020, 14:56
     
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    Se Narah era capace di mantenere il controllo in pubblico? Conoscendola un po’, era anche comprensibile perché almeno metà delle persone avrebbe risposto un “no” secco e senza esitazioni, ed era tutta colpa delle lacrime che ogni tanto non riusciva proprio a contenere; però ecco, per il resto Nah aveva persino i nervi saldi! Non si faceva assalire dal panico pur provandolo (o sarebbe stata ancora a Nydiaville chiusa in un armadio a caso magari con una Pastina III a caso, unica gioia della situazione), riservava a chiunque un sorriso nonostante non rispecchiasse il suo vero umore, e cercava sempre di dialogare perché non era capace di rispondere male era per le conversazioni civili e non casino e urla. Se la cavava abbastanza bene, tutto sommato!!
    E questo spiegava la sua impassibilità al «CIAO!» di Hans, seguito da una piroetta che le fece credere sarebbe svenuta da un momento all’altro, CRISTO MA NON LO VEDEVA CHE C’ERA IL VUOTO SOTTO???? Continuò a mantenere un’espressione più o meno tranquilla, giusto per non fargli vedere che se la stava facendo sotto. Okay, forse il trucco stava nel far finta che non fosse in piedi su una balaustra, chiaramente strafatto e con un equilibrio alquanto precario. Ma no, non sarebbe caduto vero?? Lo sguardo scuro e preoccupato sull’altro, Nah si rese conto che il fatto che fosse Hans non aiutava proprio. Ultimamente aveva imparato a conoscerlo, allo stesso modo con cui aveva fatto amicizia con Ty, Bri e un Jay diventato papà all’improvviso (ihih), e… figuriamoci, non lo diceva con cattiveria – non giudicava nessuno, Narah, e accettava le persone così com’erano – ma… di Hans a un passo dal vuoto non si fidava!!1!
    Rimase comunque coi sensi in allerta, mentre si avvicinava e si assicurava che il contatto con la sua mente non sfumasse, perché non avrebbe MAI pensato che si potesse buttare giù di proposito #einvece. Per sbaglio, invece?? Niente di più probabile. Non si mise seduta sulla balaustra per non dargli idee strane, e così facendo rimase in piedi come una ragazza fortemente in ansia che non voleva assistere a una morte prematura coff scema, alternando lo sguardo tra quello dell’altro e i dintorni del ponte deserto. Avrebbe decisamente voluto trovare un modo per farlo scendere da lì e parlare senza sudare sette camicie ogni secondo – questo almeno da parte sua –.
    Poi, quella domanda un po’ bizzarra che la stranì. Non che nel tempo in cui si conoscevano non le avesse posto quesiti di quello stampo – «la collezione di pigne è disposta in ordine?» Non gli avesse mai risposto, ci metteva almeno un quarto d’ora a rimetterle nella sequenza giusta! –. Ci rifletté più del dovuto, soprattutto incerta che stesse davvero aspettando una sua replica. Ma ehi, Narah non era nessuno per – innervosirlo in quella posizione – snobbare una domanda! Perché gli uccelli volano? Era scontato che «Hanno le ali,» ma non amava essere pragmatica. Non c’era neanche un briciolo di cinismo nel suo corpo, e adorava sognare, anche se tendeva a non fantasticare per non prendere batoste. Le piaceva pensare che ogni cosa fosse dove doveva trovarsi, nel bene e nel male. Alzò le spalle. «E… magari è perché tutti hanno un posto nel mondo, e il cielo è il loro.» Chinò di lato la testa, sentendosi davvero, davvero stressata perché dai, come poteva non esserlo?? Doveva trovare un modo per farlo rinsavire e scendere da lì, sennò non sarebbe mai riuscita a pensare ad altro. Che difficoltà avere degli amiki #wat Si schiarì nuovamente la voce, tentando di infondervi un tono pacifico e AFFATTO ANSIOSO, NO NO!!, compito affatto semplice data la naturale timidezza che già provava di base. «Tu… cosa risponderesti, invece? Magari potresti avvicinarti, sai-» così non crepi ahah. «Per parlarne meglio!» Oh mamma mia.
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    BLOODWORTH

    E' un post discretamente orribile ihih, mi farò perdonare col prossimo giuro!!!
     
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    Di sguardi delusi dal suo comportamento Hans ne aveva incontrati parecchi nei suoi brevissimi sedici anni di vita, e ormai era abituato all'espressione che si disegnava sul volto della gente quando realizzavano - sempre con un minuto di ritardo, poiché diventava sempre più il suo mood quotidiano e perciò difficile da considerare anormale - che era fatto come una pigna e in tutta onestà? Non gli interessava minimamente. Non aveva mai badato a ciò che le persone pensavano di lui, era sempre stato un bambino incurante di ciò che gli succedeva intorno, le uniche attenzioni che andava costantemente cercando erano quelle di sua madre. Del resto del mondo, ad Hans Belby, non era mai fregato un tubo. Che dicessero quello che volevano, che parlassero di lui come se non fosse presente - tanto era raro che prestasse davvero attenzione alle loro parole -, che lo trattassero come un caso disperato e perso in partenza; lui poteva convivere benissimo con quella condizione di ragazzo solitario un po' auto inflitta, un po' voluta dalla società (non per forza) magica. Non si era mai sforzato perché avvenisse il contrario. Cercare l'approvazione della gente non era mai stata una sua priorità, neppure da bambino, e aveva sempre fatto di testa sua, procedendo per la sua strada, giusta o sbagliata che fosse. Sapeva di avere dalla sua parte, in qualsiasi situazione, il sostegno e l'appoggio di Mara, infondo, e tanto gli bastava; non voleva che il mondo lo applaudisse per le sue scelte, e allo stesso modo non gli fregava nulla se quelle scelte non venivano viste di buon occhio. Per Hans il resto del mondo era... effimero, insignificante, noioso. Il centro del suo mondo era sempre stato ben altro, tutto quello che poteva affascinarlo di quell'esistenza era incanalato nella donna che lo aveva messo al mondo e, come già detto, nella persona con cui era venuto al mondo, e nessuna delle due era più nei paraggi.
    Come gli si poteva chiedere quindi di provare interesse per un mondo che, ai suoi occhi, non aveva più colore? Non era un tipo sentimentale, Hans Belby, non lo era mai stato, e con ogni probabilità non avrebbe usato simili parole per descrivere la sua apatia, limitandosi ad una scrollata di spalle e uno sguardo vacuo, ma la verità dei fatti era quella: aveva perso quel poco che di interessante c'era al mondo e non aveva la minima intenzione di trovare qualcosa che andasse a sostituirlo. Non voleva farlo.
    Dalla morte di Freja, e ancor di più dopo la sparizione di Mara, aveva messo per sempre una pietra sul mondo. Che, nel suo caso, equivaleva a dire che aveva preso quella brutta abitudine di renderlo ovattato e distante grazie all'aiuto di sostanze chimiche più o meno forti, e fingere che le altre persone fossero solo... passanti, comparse in quella messa in scena che, volente o nolente, doveva portare avanti. Il fatto che quelli come lui - gli special, non i junkies - fossero considerati reietti della società magica aiutava ampliamente la sua causa; passava inosservato nella maggior parte dei casi, sapeva come camuffarsi con lo sfondo o con la massa, come rendersi invisibile anche se non letteralmente come alcuni suoi compagni. E le occasioni in cui qualcuno prestava attenzioni a 'quel ragazzino bassino, minuto e dall'aria vagamente malaticcia' erano così rare che persino lo stesso Hans riusciva a ricordarle tutte; non erano mai piacevoli, solitamente veniva deriso o denigrato, ma a lui importava forse qualcosa? Andiamo, sapete già la risposta.
    Wallflower, avrebbe detto qualcuno.
    Distaccato, avrebbe ribattuto qualcun'altro.
    Chissenefrega avrebbe voluto dire lui. Ma non lo faceva mai, perché le sue amiche più care sapevano come prendersi cura di lui e impedirgli di cadere in certi sentimentalismi.
    "Aww, come vivrei senza di voi?", domandò, fingendo di poter parlare con le pasticche color pastello che teneva nella tasca. Loro che non lo abbandonavano mai, a differenza di qualcuno. La risposta a quella domanda era "meglio", senza alcun dubbio, ma non arrivò mai. Le maledette, bless them, erano compagne silenziose e sapevano tirarlo su di morale (beh, sì, più o meno) con i loro caldi abbracci, non con le parole. Infondo, cosa c'era di meglio?
    Tutto, letteralmente.

    «Hanno le ali.»
    Impossibile.
    Eppure così reale.
    Ma non poteva essere.
    E se invece...?
    «E… magari è perché tutti hanno un posto nel mondo, e il cielo è il loro.» Ah.
    Funzionava in maniera strana la mente del Belby, si sapeva, ma persino lui si stupiva della facilità con cui riuscisse a fregare se stesso, alle volte, con memorie fuori contesto che tornavano in superficie all'improvviso quando meno se lo aspettava. Quel parlare di uccelli, ali, volare... per un attimo aveva creduto di avere sua sorella davanti, con la divisa rosso-oro disordinata e i capelli sciolti che danzavano al vento, il sorriso complice e quel guizzo nello sguardo che non prometteva nulla di buono. Mare. E invece, dopo aver strabuzzato gli occhi un paio di volte, tornò a riconoscere il viso di Narah, e i suoi capelli scuri e ricci, e la divisa simile alla sua, che li distingueva dagli altri. «Narah!!!» La salutò, di nuovo, un tono allegro che stonava con l'espressione priva di emozioni che aveva. Ricordava di averle già detto ciao e di averle posto la domanda? Ovvio che no.
    «Magari potresti avvicinarti, sai - per parlarne meglio!» «Anche tu qui» detto #deadpan, più per sottolineare l'ovvio che altro. Certo che era lì, stavano anche parlando. Ah. Ma pensa.
    ...di cosa parlavano, di preciso? Lo aveva dimenticato di nuovo. Oh, non importava, comunque; forse Nah era capitata lì solo per caso, mentre si dirigeva altrove. Pochi minuti - pochi attimi - e sarebbe andata via anche lei. Lo capiva da come si guardava intorno, ansiosa di andarsene da lì. Era un tipo sveglio e perspicace lui!! (*Papà Jay's voice* oh boy....)
    Ma, anche se rimaneva lì per poco, poteva sempre unirsi a lui no?! Vedere il mondo da lassù. Fingersi per un attimo uccelli insieme. Liberi di volare.
    AH! Ecco perché gli era venuta in mente quella domanda! Ora ricordava. Si diede una pizza sulla fronte, palmo ben aperto tanto dolore ?? cos'è il dolore ?? e sorrise divertito da cosa non si sa. Forse dall'aver ritrovato l'origine di quel pensiero che lo aveva colpito pochi minuti prima e che lo aveva spinto a porre quell'insensata domanda. Forse,
    invece, non c'era un senso alla sua risata.
    Narah aveva detto che volavano perché era il loro posto. Ma «chi ha deciso che i volatili possono volare e l'uomo no?» certo, mi sembrano domande sensate da porre lì, in mezzo al ponte, in bilico su quella balaustra che nemmeno Robby durante gli allenamenti con Daniel LaRusso - e sì, Sensei MiyaJay aveva fatto vedere loro i film e la serie. Ormai passava un sacco di tempo con loro... con la skwad. E non poteva sapere, quel giorno, che ne avrebbe passato sempre di più, ma anche allora la sola idea gli sembrava così assurda che lo faceva quasi ridere.
    Anzi, niente quasi. Scoppiò a ridere mentre Narah, poverina, cercava di evitare che scivolasse e si spiaccicasse a tantimila metri da terra. Poteva sembrare quasi rude da parte sua ridere mentre la ragazza si preoccupava ma le due cose erano totalmente scollegate tra loro, giuro! Non rideva per Nah - non avrebbe mai riso di o per Nah, solo con - ma improvvisamente nella sua testa l'idea di avere qualcuno da chiamare amico era totalmente esilarante. Così divertente da costringerlo a piegarsi in due per le risate che scuotevano il suo esile corpo; nel piegarsi su se stesso perse di nuovo l'equilibrio ma lo riacquistò al volo, la pratica fatta in bilico sul tetto della villa di suo zio finalmente tornava utile.
    Hans amava - e odiava - le altezze, lo spaventavano abbastanza da fargli credere di poter sfidare il mondo... o forse era semplicemente troppo scemo per capirne i veri pericoli. Fatto sta che non sembrava voler scendere. E, anche se la risata era scaturita da tutt'altro motivo, quando parlò tornò a riallacciarsi alle parole della telepate, facendo sembrare le due cose collegate tra loro. «Non fare la guastafeste e vieni qui anche tu!!» Andiamo, era uno spasso il mondo da lassù (spoiler: non lo era). Perché la ragazza non voleva dargli retta? Forse perché era quella intelligente tra i due di fretta? Ma poteva prenderselo un minuto per ammirare il panorama. «Che c'è? Hai paura?» Un sorriso malizioso si aprì lentamente sul suo volto, lo stesso che aveva rivolto innumerevoli volte alla gemella, mentre guardava con sfida l'amica.
    Wow, amica. Avrebbe avuto la testa per registrare quel pensiero probabilmente ne sarebbe rimasto sconvolto: da quando accettava con così tanta semplicità una cosa del genere? Stava forse mAtUrAnDo?! CAMBIANDO??? Assurdo.
    «Scommetto che se te lo avesse chiesto Thor lo avresti fatto.» Thor, nella sua testolina scema, era Gideon McPherson e no, non perché gli somigliasse esteticamente!! Ma per i fulmini!!! Andiamo !! Ma vi deve spiegare proprio tutto, Hans?? Era un soprannome spassosissimo!!! E la cosa lo fece scoppiare in un'altra grossa, fragorosa risata.
    Che, col senno di poi, avrebbe dovuto pensarci, sarebbe potuta sembrare una risata per deridere la ragazza quando invece era solo Hans che si sbellicava per le sue stesse uscite infelici. Ops, forse doveva iniziare a sballarsi di meno mettere un freno alla lingua e moderare certe reazioni; non poteva sapere quando queste avrebbero potuto essere male interpretate.
    Non era mai sua intenzione ferire qualcuno - non gli importava mai abbastanza per impegnarsi a farlo, ma in quel caso non lo avrebbe fatto a prescindere, Narah non se lo meritava - ma spesso gli succedeva senza che neanche se ne accorgesse; non aveva un filtro, il suo stato di fattanza faceva sì che qualsiasi collegamento cervello-bocca venisse bloccato. Ciò che diceva, spesso, non aveva neppure fatto in tempo a diventare un pensiero coerente che TAAAC, aveva già lasciato le sue labbra.
    L'idea che a Nah potessero dar fastidio le sue parole non gli era neanche balenata nella testa.
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    hans
    johannes belby


    Ha senso? No.
    L'ho riletto? Nope.
    BUT DID I FAIL TODAY'S MISSION? HELL NO!!!
    Scusa, lo sai che con questo qui è sempre un terno al Lotto... non so mai cosa esce. Io ci provo a iniziare un post /decente/ ma poi entro in modalità Hans e smetto di avere senso (io??? Si, anche, ma tutto in generale.) (Tra l'altro finisco sempre col postare in piena notte, con lui, chissà perché.)
    SCUSA NARAH SEI BELLISSIMA LO SAI CHE TI VU BI.
     
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    La special, in quei momenti, aveva iniziato persino a dubitare che Hans, con quello sguardo vago e sfuggente, fosse davvero conscio di chi avesse davanti. Ne era la prova il fatto che l’avesse appena salutata per la seconda volta. Aveva imparato presto che il ragazzo facesse un uso piuttosto frequente di sostanze, e non si sentiva di giudicarlo perché non l’aveva mai fatto e non l’avrebbe fatto nemmeno quella volta: potevano definirsi… amici? – per Nah lo erano, per lui chissà, c’era da dire che negli ultimi tempi aveva imparato il suo nome!!! –, ma non conosceva il suo passato, non sapeva cosa lo avesse portato su quella strada. Narah si affezionava fin troppo facilmente, era sempre stato così persino da bambina, e non si era mai tirata indietro se si parlava di dare una mano. Era istintivo, per lei, provare la voglia di aiutare Hans pur non avendo le competenze necessarie: era d’altronde una di quelle persone che credevano nel potere di un sorriso o un abbraccio, in quanto esse stesse ne traevano conforto. In poche parole, sperava che pian piano la vicinanza con qualcuno avrebbe aiutato il Belby a tornare alla realtà da cui sembrava disconnesso.
    Volendo parlare dal punto di vista delle necessità, però, prima veniva l’evitargli una morte certa. Aveva tentato, speranzosaTM che suggerirglielo sarebbe bastato, di farlo scendere da lì: per tutta risposta, ricevette un secco «Anche tu qui.» Strinse le labbra. Non lo giudicava, ma certo quella era una posizione che la stava trasmettendo un’incredibile tensione. Ne aveva già fin troppi di traumi, NON NE VOLEVA ALTRI. Sì ochei, anche lei poteva andare lassù, ma la leggera differenza era che la special la vita se la voleva tenere ben stretta!!! Era tanto chiedergli di mettere i piedini a terra e non farla morire di paura?? #sì.
    Come faceva Hans a voler conversare di cose filosofiche, poi?? Perché sorrideva? Spostò il peso da una gamba all’altra, le unghie che facevano avanti e indietro sui palmi delle proprie mani in una preoccupazione ben evidente. Forse Narah Bloodworth poteva essere percepita come pesante: riempiva chi voleva bene di attenzioni, era colma di piccole premure verso il prossimo che la facevano stare bene, e si preoccupava per il benessere altrui come una chioccia. Ma era più forte di lei, quella volontà di far sentire gli altri sempre amati e con qualcuno su cui contare, non come si era sentita lei quando a undici anni si era ritrovata sola al mondo, con una madre che aveva capito di stare meglio senza figli tra i piedi. Non l’aveva perdonata per la sofferenza che le aveva inflitto, Narah, messa di fronte a un mondo totalmente nuovo, senza magia e con un potere che all’inizio la terrorizzava. Poi c’era stato Nathaniel, che per lei era divenuto una figura molto simile a un padre. Non avrebbe mai commesso lo stesso errore. Si preoccupava perché non voleva lasciare nessuno in balia di se stesso né tanto meno vederlo star male, per avere un minimo margine di controllo che la rassicurasse.
    Non sempre questo era apprezzato, e Nah ne era perfettamente consapevole. Sussultò quando Hans scoppiò in una risata, non tanto per il pensiero che stesse ridendo di lei – sarebbe stato da stronzi ma non una completa novità, ecco –, ma per quei movimenti che la facevano raggelare. «Attento!!» E CHE CAVOLO???? Chiuse gli occhi per un attimo soltanto, e fece un bel respiro: okay! Pensare positivo! Sarebbe andato tutto bene! Scosse la testa, rifiutando con fermezza di fargli compagnia su quel pericoloso bilico. Ci mancava solo quello. «Che c’è? Hai paura?» Alzò le sopracciglia, un “Ma sei serio?” stampato a caratteri cubitali. Secondo quale logica (fumata) non avrebbe dovuto avere paura di cadere da metri e metri E METRI di altezza?? Annuì in sua direzione, stringendosi nelle spalle. «Sì,» ammise con assoluta candidezza. Magari questo l’avrebbe fatto scendere, no? Un pochinoinoino di empatia per una povera special sull’orlo dell’infarto??
    Di nuovo: no. Ricambiò il suo sguardo, lo stomaco ancora ben stretto dall’angoscia, non avendo per niente l’intenzione di dargli corda in quella tacita sfida. Se credeva di convincere Narah Bloodworth a rischiare la vita si sbagliava di grosso, e avrebbe tanto voluto evitare che la rischiasse anche lui. Faceva spesso leva sulla sua infinita pazienza, Nah, per lasciarsi scivolare addosso le cose che sapeva di non dover trattenere e mantenere la calma: si poteva praticamente definire una maestra di meditazione, da come aveva sopportato valanghe di emozioni senza fare una piega – ma una lacrimuccia sì – anche quando la tentazione di lasciar perdere diveniva prepotente in lei. Però, quella frase che forse era condizionata ad avvertire come tanto pungente e canzonatoria, la mise a dura prova. Narah era buona, non solo perché si sforzava ma di natura però, complice la tensione del pericolo che stava correndo il ragazzo, stavolta non riuscì a farsela scivolare addosso con la sua solita, composta semplicità. Non ci voleva molto per capire chi fosse “Thor”, e quello era un tasto che le doleva. Hans lo sapeva, eppure non aveva problemi a riderci sopra!! Si voleva abbastanza bene da sentirsi contrariata: solo Jane poteva rincarare la dose con il suo caustico sarcasmo, e aspettarsi che Nah non la percepisse come una cosa negativa.
    CHE AMICO, HANS BELBY, DAVVERO! Le braccia ora incrociate al petto, gli occhi che lo scrutavano appena più diffidenti, mandò a quel paese l’etica Special e decise di infiltrarsi nei pensieri del pirocineta; date le condizioni poco lucide, le riuscì fortunatamente facile. «Per favore, scendi da lì.» Si sarebbe dunque aspettata che al suo comando – mentale di certo, altrimenti l’altro non le avrebbe dato retta neanche per sbaglio – l’altro l’avrebbe fatta smettere di temere di essere testimone di una brutta morte, scendendo e tornando sul pavimento solido del ponte. Solo allora si sarebbe lasciata sfuggire un sospiro, le mani a tremarle lievemente dall’ansia rilasciata. «Okay. Non salirci più in questo stato.» Mollò la prese sulla sua mente, a quel punto, l’espressione corrucciata mentre si limitava a controllare che lo stratagemma avesse funzionato.
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    Hans faceva della sua solitudine un vanto, e tentava il più possibile di comportarsi come se tutto quello non lo toccasse minimamente; e, in parte era così.
    Ma, in parte, no.
    Una piccola parte, una parte che contava ben poco alla fine della fiera, e che raramente riusciva ad emergere dall'oblio in cui il pirocineta, inconsciamente, la relegava. Una parte, che comunque, era lì, e cercava di suggerirgli qualcosa: di aprirsi, di comunicare, di tendere una mano perché, prima o poi, qualcuno l'avrebbe afferrata. Una parte speranzosa e ottimista, che ci provava davvero, ma alla quale il ragazzino non dava retta. Aveva visto troppe persone andarsene, e anche quelle che c'erano, come suo padre, non erano davvero lì con lui.
    La sua unica verità , l'unica che contasse davvero qualcosa, era quella: era solo. Narah, Tai, Bri... persino Pentacolo: erano tutti di passaggio, e lo sapeva bene. Sarebbe arrivato il giorno, prima o poi, in cui li avrebbe persi perché Hans Belby era incapace di coltivare qualsiasi tipo di rapporto. Non che ci provasse davvero con chissà quanta dedizione, eh, ma a che pro, tanto, quando era destinato a vederli andare via, uno dopo l'altro? Anche la persona più buona, più paziente, più Narah di questo mondo, avrebbe prima o poi inquadrato la situazione – e di conseguenza Hans – per ciò che era: una perdita di tempo. Non lo pensava con vittimismo, figurarsi, non era abbastanza cosciente per comprendere concetti come quelli; quella consapevolezza gli veniva da dentro, ed era un dato di fatto. Assumeva inoltre contorni ancora più decisi se si pensava a tutte le persone che aveva perso nella sua prima vita, esistenza di cui lui non era a conoscenza, comunque, ma che pesava in qualche modo su quella consapevolezza: la gente se ne andava, punto e basta. Se ne andavano per mille motivi diversi, ma lo facevano. D'altronde, chiunque si sarebbe scocciato facilmente di lui, dei suoi occhi chiari e vuoti, dell'apatia e del carattere, diciamocelo, di merda che aveva; del suo distaccamento emotivo, della sua meschinità, del suo continuo mettere alla prova i rapporti per vedere quanto in fretta riuscisse a distruggerli. Era sempre divertente (ah ah, no) vedere la gente roteare gli occhi, le labbra tirate in una linea sottile sottile, e l'espressione insofferente di chi non ne poteva più di lui; era sempre divertente guardarli andare via con un “ve l'avevo detto” appena percettibile negli occhi azzurri. Era sempre divertente poter confermare la sua teoria.
    Era divertente finché non lo era più, certo; ma Hans andava avanti con una scrollata di spalle e un'espressione impassibile. Era, sotto molti punti di vista, sebbene poco palesi, una mente analitica e, incredibilmente, sveglia: adorava comprovare le proprie teorie, dimostrare di aver ragione, poter dire “io lo sapevo”, anche se solo a se stesso.
    Non importava quale fosse il motivo, dunque, se le circostanze, la noia, o lo stesso Hans; le persone non restavano mai. Non insistevano, non ci provavano nemmeno. E quei pochi che, al contrario, lo avevano fatto si erano ritrovati a sbattere contro un muro, il più delle volte. Era difficile far breccia nel Belby, vuoi perché troppo fatto per curarsene, o troppo fatto per accettarlo onestamente. Aveva solo due mood – uno più frequente dell'altro, è vero – ma con entrambi era bravissimo in una (1) cosa: spazientire il prossimo. Con Bri era facile, bastava rubarle del cibo o perdere – accidentalmente? - il controllo vicino ai suoi boccoli scuri ed era fatto: la furia della meteorologa si abbatteva su di lui in un batter d'occhio. Persino con Taichi gli riusciva abbastanza semplice: una battuta sul suo nuovo amico Tassorosso, una pacca improvvisa sulla spalla – quelle rare volte che era preso abbastanza bene da avere la voglia di muoversi - e il cinesuo se ne andava blaterando cose senza senso, lasciando l'altro special a godersi la scena con un sorriso infame, un po' vero, un po' frutto dell'ultima droga ingerita.
    Ma con Nah era praticamente impossibile: Narah, sotto più punti di vista, gli ricordava così tanto sua sorella che, inconsciamente, Hans le si era avvicinato più di quanto avrebbe voluto. Era ironico che la accostasse così tanto alla figura della gemella, quando di fatto non avevano molto in comune: una era biondissima, l'altra aveva i capelli scuri e gli occhi profondi color cioccolato; Narah aveva sempre un sorriso dolce e rassicurante sulle labbra, mentre El un ghigno che prometteva nulla di buono; la gemella era un cataclisma ambulante, Narah calma e pacatezza. Elle era il vento che alimentava il fuoco di Hans, facendolo sentire vivo, mentre Narah era la brezza che soffia su ciò che rimane di tizzoni ardenti e, piano piano, con delicatezza, li tiene vivi, soffiando su di loro di tanto in tanto per non fargli spegnere del tutto. Erano, in tante cose, i poli opposti ma Hans aveva sentito crescere, col tempo, qualcosa dentro che ormai non poteva più negare: voleva bene a Narah, la considerava importante e, soprattutto, la voleva nella sua vita. Era proprio per quello che l'allontanava: non voleva rischiare di affezionarsi troppo e rimanerci male. Di nuovo. Anche nel suo mondo opaco e distaccato sapeva che non avrebbe reagito bene ad un altro addio.
    "E' inevitabile."
    E se non era bravo a dare ascolto a quella voce che lo supplicava di provarci, ehy! Almeno era bravissimo a dare retta a quella che lo incitava a rovinare tutto, anche le cose belle che gli capitavano!! E Narah Bloodworth era una delle poche cose belle che il Belby ricordava di aver mai ricevuto dalla vita. Lei, i bimbi sperduti, persino Jay che, con riluttanza, aveva assunto il ruolo di AdultoTM. Erano cose belle e, per questo, Hans sentiva il bisogno di distruggerle. Sentiva quel pizzicore alle mani, un formicolio insistente che gli diceva di stuzzicarle, come quando si grattano via crosticine su ferite vecchie e, inevitabilmente, si finisce col sanguinare di nuovo. Hans non riusciva a trattenersi.
    Questo lo spingeva, dunque, a comportarsi come il disadattato sociale che era: persino Tai, che per certi versi era più disagiato di lui, sembrava essere in grado di aprirsi alle nuove amicizie meglio del pirocineta, con tutta una serie di problemi che derivavano dalla sua ansia, certo, ma almeno ci provava. Hans, no.
    Però... però. I bimbi sperduti non potevano saperlo, ma già il fatto che Hans passasse così tanto tempo con loro – non sempre presente con la testa, ma insomma, conta comunque no? - significava tantissimo: stava concedendo loro un'occasione. Di restare? Forse, ma non ci credeva molto. L'esperienza gli suggeriva tutto il contrario. E lui, bravo come pochi ad auto-sabotarsi, sapeva perfettamente dove colpire per farli demordere. Che ci avesse provato consciamente, quel giorno sul ponte, con Nah, o meno, valeva poco: lo aveva comunque fatto, l'aveva ferita con le parole meschine e vuote, parole che seguivano semplicemente il filo logico dei suoi pensieri sparpagliati; parole che forse non avrebbero fatto male alla special se solo Hans le avesse chiarite. Ma Hans Belby era fatto così: prendere (con tutti i pro e i contro – e la mole di problemi che si portava dietro) o lasciare. La vide, chiaramente risentita, incrociare le braccia al petto ed osservarlo con occhi diffidenti; la cosa lo fece sorridere, ancora, e sempre senza una spiegazione valida. Scoprì la fila di denti bianchi , rivolgendole un'espressione di sfida prima di scendere dalla balaustra e, con un saltello, tornare con i piedi sul ponte di legno.
    «Guastafeste.» La salutò dunque, le mani nella maxi tasca della felpa e il cappuccio tirato quasi fin sugli occhi. La osservò in silenzio per qualche minuto, e se fosse stato letteralmente chiunque altro, le avrebbe chiesto scusa per essersi comportato da infame; ma quel pensiero gli balenò solo fugacemente nella testa, dimenticato poi con estrema facilità. Ai suoi silenzi, la telepate, doveva esser ormai abituata: quando Hans apriva bocca, di solito, era per dire cose sceme, era dunque una fortuna che lo facesse molto poco! Non sapeva cosa dire alla compagna di scuola, all'amica, perché sentiva dentro quello stesso conflitto di sempre che voleva urlarle: “non te ne andare, ma se proprio devi farlo, fallo subito. Fallo e basta!”
    Non parlò, però, limitandosi a guardarla negli occhi con un'espressione atipica e stranamente onesta. Era un invito per Nah a leggere dentro di lui parole a cui non era in grado di dare forma? Era una sfida a chi ride prima? Chi lo sa, con Hans Belby tutto poteva essere.
    Stava a Narah decidere cosa fare.
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    Non sapeva se si sentisse “arrabbiata” nel reale senso del termine – spoiler: sì – ma quella sensazione non le piaceva per niente: Hans le aveva rivolto delle parole che non l’avevano resa esattamente felicissima, e le aveva pronunciate conscio che su di lei avrebbero avuto quel preciso effetto. Era più che sufficiente per essere considerato un vero Maleducato, con l’iniziale maiuscola!! Narah lo considerava un amico, seppur non si conoscessero da tantissimo tempo e ad unirli fosse inizialmente stata la lezione.
    Inizialmente, però, significava che con il trascorrere delle settimane la telepata aveva trovato ben altri motivi per volere bene al ragazzo, anche se probabilmente lui non ci avrebbe creduto. Non era un cattivo ragazzo, affatto, ed era del parere che oltre il distacco che professava dal mondo ci fosse altro; lei non aveva fatto lo stesso per anni, ponendo per paura del giudizio altrui un muro tra se stessa e gli altri? Quante volte aveva utilizzato l’invisibilità per evitare qualcuno, per passare inosservata per i corridoi o in una stanza? Non avrebbe davvero saputo contarle!!! Nessuno alzava le barriere senza una buona motivazione ed era certa, Nah, che Hans ne avesse una, e che risiedesse proprio nella storia che a lei e al resto dei bimbi sperduti ancora non aveva raccontato. Forse non sapeva che rapporto avesse coi suoi genitori o mille altre cose che aiutavano a comprendere davvero le persone, ma un po’ stava comunque imparando a conoscerlo – ci viveva insieme.
    Ecco, se pensava che si stava arrabbiando con un amico, che almeno dagli atteggiamenti non era affatto lucido, si sentiva ancora peggio. Non le piaceva avercela con qualcuno, men che meno un suo conoscente, e dati i contorni generali – tipo il suddetto amico che fremeva per buttarsi nel vuoto oltre la ringhiera – non vedeva l’ora di porre fine a quella situazione. Voleva davvero farlo con quella sgradevole stretta allo stomaco, e tutto per un’insinuazione su Gideon che, alla fin fine, lasciava il tempo che trovava? Combattuta, fu con un gran sollievo che osservò Hans scendere da quella cavolo di balaustra; poi rilasciò un lungo sospiro, le mani in tasca e un’espressione conflittuale sul volto mentre il pirocineta le si avvicinava e si fermava di fronte a lei. «Una guastafeste che ti ha salvato la vita,» puntualizzò, le sopracciglia corrugate nello sforzo di comprendere come agire o cosa fare. Doveva fargli di nuovo presente che ci fosse rimasta male, quando aveva il sospetto che il ragazzo le avrebbe risposto con un’alzata di spalle, imperscrutabile come sempre? Attese che Hans le dicesse qualsiasi cosa, ma i secondi passavano e, sotto il suo sguardo scuro, lo special sembrava molto determinato a stare in silenzio. Normalmente, nei pomeriggi passati nella sala di Different Lodge, quello sarebbe stato perfettamente normale: il Belby dava continua prova del fatto che si sentiva a suo agio nel silenzio, e lo stesso valeva per Nah, che non lo forzava mai a parlare e gli faceva compagnia con un libro tra le mani.
    Nel frattempo Narah decise che no, non voleva rimanere arrabbiata – non era una discussione di importanza tale, per una ragazza che detestava immensamente provare sentimenti positivi nei confronti di qualcuno! Rialzò lo sguardo che aveva abbassato a terra, scrutandolo ora con sorpresa accorgendosi di quanto il ragazzo fosse immobile, quasi in attesa, e con una lucidità che non era abituata a scorgere in lui. «Che fai?» Non ci voleva un genio per capire che non avrebbe ricevuto alcuna risposta; Hans era l’amico più enigmatico che avesse mai avuto, quello che non faceva mai capire cosa gli passasse per la testa, perché si comportasse in quel modo autodistruttivo. E Nah voleva capire, un po’ per la sua curiosità un po’ per un sincero desiderio di aiutarlo. In quel momento, sarebbe stato facilissimo togliersi qualsiasi dubbio e sondare nella sua mente – forse era persino ciò che il Belby stava aspettando. Ma… no. Non era il momento né il modo giusto, non si sarebbe sentita tranquilla a invadere la sua privacy senza un esplicito permesso e… per un milione di altri motivi. Scosse il capo, i ricci che accompagnavano il movimento. Sul ponte c’erano solo loro, tutto attorno non si muoveva una singola foglia e pareva quasi fossero sospesi in un limbo che non le piaceva proprio. «Andiamo dentro, che ne dici? Magari… ne riparleremo un altro giorno.» Di cosa? Di quel che lui avrebbe voluto. Camminò verso l’arcata d’entrata al castello, girandosi verso Hans in un suggerimento.
    I won't just survive
    Oh, you will see me thrive
    Can't write my story
    I'm beyond the archetype
    I won't just conform
    No matter how you shake my core
    17 y.o. | ivorbone | telepath
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    NARAH J.
    BLOODWORTH
     
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7 replies since 23/7/2020, 15:24   270 views
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