slipped away

[ouroblivion] twat + mac

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    Un giorno, Tvättbjörn Cömmstaj avrebbe compreso quali problemi avesse l’universo con la sua persona – o perché li avesse, dato l’amore incommensurabile che il norvegese provava per il cosmo e per lui soltanto. Certamente non quel giorno, ma era fiducioso: prima o poi la verità sarebbe stata chiara agli occhi cioccolato del ragazzo, ed allora avrebbe capito l’accanimento tutt’altro che terapeutico perpetuato nel corso di sedici anni contro di lui. Se avesse creduto nella reincarnazione – la questione Pastina-Bjorn non contava: confidava il fratello fosse ancora vivo, e che il suo fosse solamente un viaggio astrale nel corpo della bestia con l’unico intento di torturare lui e la Beckahm; se fosse effettivamente morto avrebbe dovuto ricredersi sulla religione, e non era affatto pronto a quel grande passo –, sarebbe stato portato a credere che nella vita precedente fosse stato qualcosa di orribile, tipo un terrapiattista. Un essere terribile del quale doveva espugnare le colpe lui, che mai nulla di male aveva fatto nel corso della propria vita se non crescere in una famiglia di satanisti zoofili.
    Invece, per quanto paradossale ed ironica, era più propenso ad affidarsi alla Legge di Murphy (non l’Hammond, anche se la foca dei corvonero pareva esserne il portavoce ufficiale): se le cose potevano andare male, per Twat, alla fine andavano anche peggio di quanto non avesse previsto. Una vera e propria tragedia, visto e considerato il perfezionismo a muoverlo costantemente verso qualsiasi attività che decidesse d’intraprendere.
    Fu proprio a quello che rivolse un sospiro greve, abbandonandosi contro l’erba bagnata del Campo da Quidditch. Perché era per colpa sua se si trovava lì, steso ed inerme, sotto l’incessante diluvio di giugno; probabilmente ci sarebbe anche morto in quella tutina aderente: l’unica consolazione, strano a dirsi, era che non avesse ancora fatto nulla di memorabile – non sarebbe stato ricordato così, perché non sarebbe stato ricordato e basta. E dire che avesse pensato molto alla propria dipartita negli ultimi mesi – ed al funerale, ed ai riti di cui sarebbe stata partecipe e protagonista la sua anima immortale: passare del tempo con Willow poteva inevitabilmente portare solo a determinate considerazioni, ma non gli dispiacevano poi così tanto –, ma aveva sempre immaginato qualcosa di… diverso. Non necessariamente grandioso o clamoroso, anche l’ipotesi d’essere investito dal Nottetempo durante la più quieta delle notti londinesi gli andava bene, ma quello era su un altro livello.
    Chiuse gli occhi e digrignò i denti con quanta più forza avesse nella mandibola, tentando per l’ennesima volta da un quarto d’ora a quella parte di risolvere la situazione da solo. L’immediato ed inevitabile fallimento fu accompagnato da maledizioni in scandinavo, e lo costrinse a rotolarsi nel fango come Eir e Torborg – i maiali che Sel-Hund gli aveva regalato per il suo settimo compleanno: ogni tanto si domandava se fossero ancora vivi, o se fossero stati immolati per la colazione della festa nazionale norvegese – in preda al dolore.
    «che vita di merda,» quasi quanto l’idea di allenarsi sotto l’imminente temporale. A sua discolpa, aveva tutte le migliori intenzioni – sebbene fossero state scoraggiate da chi sosteneva che ormai il campionato fosse finito e non ci fosse più bisogno di preparare coreografie di alcun genere.
    Punto primo: il Cömmstaj, di comune accordo con Jane, non aveva mai preparato alcun tipo di coreografia; vivevano alla giornata, e così i loro balli propiziatori mentre i ragazzi giocavano. Non avrebbe iniziato a fare la vera cheerleader, né a giugno né mai.
    Punto secondo: a prescindere dalla tifoseria – assente, dato il completo disinteresse nei confronti di uno sport che non aveva capito, non voleva capire, e mai avrebbe potuto nemmeno praticare –, Twat restava un ballerino; non poteva permettersi di restare immobile per troppo tempo, doveva tenersi in costante movimento.
    Punto terzo: data la sfiga di Gideon, fare qualsiasi cosa con la presenza dei fulmini era un ottimo modo per essere sempre pronti alle insidie della vita; prepararsi sotto quelle condizioni significava apprenderne i pericoli, sviluppare una virtù che potesse adattarsi ad ogni evenienza, e ne aveva bisogno.
    Punto quarto, ed ultimo: era l’unico momento in cui il campo era completamente vuoto e poteva farci il cazzo che gli pareva, dal correre lungo tutto il perimetro al perfezionamento del lancio degli shuriken.
    Aveva anche considerato quanto potesse essere sdruccioloso il terreno, e per questo aveva fatto in modo di tenersi sempre nelle zone d’erba dove meno c’era rischio di scivolare a terra. Era lì, tuttavia, che aveva commesso il suo più grande errore: non notare una pozza d’acqua più profonda di quanto non paresse dalla superficie liscia.
    E così era caduto, come il corpo morto di Dante Alighieri più o meno ad ogni canto dell’Inferno. Per di più, slogandosi una caviglia: questo, almeno, era ciò che aveva creduto prima di posare lo sguardo sul piede. Aveva avuto giusto il tempo di sussurrare un atono «ma è completamente piegata» (in norvegese, perché tanto con chi minchia doveva parlare se non con la sua gamba), prima di cedere alla gravità.
    Data la breve storia triste, è chiaro il perché ed il come Tvättbjörn fosse costretto a perire lì, da solo. Si ritrovò a domandarsi dove fosse quel pirla di Posh, lui ed il suo metro e ottanta voglia di essere preso a schiaffi ripetutamente, quando sotto i rombi dei tuoni udì qualcosa. O aveva iniziato ad avere delle allucinazioni (probabile: troppi farmaci), o quelli erano dei passi. «TU!» ma chi? Che ne poteva sapere l’emocineta, che al massimo riusciva a distinguere la figura tra le gocce di pioggia fitta. «è… imbarazzante,» perché aveva una tutina aderente blu e bronzo? O perché era completamente fradicio e ricoperto di fango, da solo in un campo che avrebbe dovuto essere off limits? No: semplicemente perché non aveva idea del con chi stesse parlando, e perché non era solito comunicare con esseri umani così dal nulla; aveva bisogno di essere preparato per quelle cose. Aveva anche valutato l’opzione di fingersi morto e far finta di non esistere – tattica che funzionava bene anche involontariamente, in quel castello –, ma faceva troppo male. «ma sei l’unico qui» fine, l’unico qui punto. «abbastanza forte da aiutarmi». Buon Einstein, che vita di stenti. «mi si è… piegata la caviglia?» ma si diceva così in inglese? «puoi… portarmi?» dove?
    Via.
    22.12.2003 • 16 yo
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    tvättbjörn
    cömmstaj


    Edited by zugzwang. - 6/11/2020, 15:14
     
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    When we started, it was long ago It was perfect and well, yeah it was perfect Wherever you are, come and get me now
    mckenzie hale
    Un po’ di tempo prima e dopo.
    «got the music in you baby, tell me why» strimpellò le note delicatamente, sfiorando appena le corde della chitarra con la punta delle dita. Il capo chino sulle gambe incrociate, la voce secca e ruvida di chi volesse piangere ma sapesse quanto poco senso avesse farlo. Levi non era mai stato stupido. Ingenuo, forse – almeno un tempo, almeno quando voleva - ma mai stupido; forse perfino troppo intelligente per il suo stesso bene, in un’epoca quale la loro.
    Un’epoca che a breve, non sarebbe mai più stata la stessa: il mattino dopo, tutte le persone che Roosevelt avesse mai amato e fossero sopravvissute abbastanza da sentirselo dire, non affatto scontato, se ne sarebbero andate. I suoi fratelli; i suoi cugini; i suoi amici. Aveva fatto male i primi tempi, e quelli successivi, ed in realtà era sempre un colpo al cuore, ma era sceso a patti con l’idea che se ne sarebbero andati e l’avrebbero lasciato indietro, e solo per due motivi: il diciottenne che in quel momento gli passava una canna, mento poggiato sul ginocchio e sguardo verso il loro cortile ma ben oltre, ed il fatto che gli altri sarebbero rimasti insieme. Non c’era stato bisogno di deciderlo, che Levi e Dex sarebbero rimasti nel 2043. Era stata una specie di tacita promessa fra loro e gli altri, fra loro e loro, perché qualcuno doveva pur rimanere indietro a raccogliere i pezzi che gli altri si sarebbero lasciati alle spalle: chi altro, se non loro, sarebbe riuscito a trovare i giusti incastri per sopravvivere alla loro assenza? Se fosse rimasto Raymond, nessun castello di carte avrebbe retto il vuoto sotto – loro potevano farcela.
    E loro ce l’avrebbero fatta: lo sapeva Levi, lo sapeva Dex. Non erano fratelli di sangue, eppure, crescendo assieme, parevano aver preso l’uno la fisionomia dell’altro – la forma delle labbra, e dei sorrisi stretti quando rischiavano, nuovamente, di uccidere qualcuno con uno dei loro esperimenti; le palpebre assottigliate, la forma delle spalle sempre chine su qualche lavoro che solamente loro avrebbero compreso e distrutto - e mai, neanche quando ancora Dexter non era entrato ufficialmente nelle loro vite, Levi non l’aveva considerato parte della famiglia: da che l’aveva trovato, erano sempre stati Levi-e-Dex.
    «got the music in you baby, tell me why»
    scontato che sarebbe stato il primo, il maledetto primo, a cui si fosse rivolto, quando salendo le scale per portare le medicine a Sand, avesse udito la sua conversazione con Dani: mi sono offerto per il 1900. Quello, aveva cambiato tutto. Tolse le dita dalla chitarra per stritolare la propria gamba, occhi chiusi e respiro veloce. Anche lì, non c’era stato bisogno di dirlo: avevano parlato, sì, ma non se l’erano mai detto, come fosse stato ovvio e scontato – e per loro, lo era. Non avevano avuto bisogno di mesi per organizzarsi, né avevano litigato per fare quel che andasse fatto. Era stato tutto logico e pragmatico, una decisione presa a carte scoperte scambiando semi e segni, senza considerare - non ad alta voce - l’implicazione dietro quel cambio di programma.
    Per la prima volta dopo anni – dopo le notti passate a giocare insieme spalla contro spalla, a costruire l’ennesimo arnese che non sarebbe servito a nulla, ad aspettare sul patio che Juno e Ray e Sand tornassero – non sarebbero stati insieme. Non come quando Levi frequentava Hogwarts, e Dexter andava a scuola con Sand; non sarebbero stati cinque giorni lavorativi a separarli, e sempre a breve, o la diversità nelle materie di studio: sarebbe stato per sempre. Non l’avrebbe ricordato (non vi ricorderete neanche di me, come aveva ammesso Sander), e magari sarebbe stato facile sopravvivere alla sua assenza, ma aveva scelto, coscienziosamente, di farlo.
    Avevano scelto di lasciarsi andare. Loro, che si erano coperti le spalle a vicenda per tutta una vita, che c’erano stati anche quando tutti gli altri avevano avuto di meglio da fare - la sua certezza e costante. Era esistito prima di lui, lo sapeva, ma non era certo di volerlo fare dopo.
    Il mattino seguente, avrebbe cancellato ogni memoria di sé stesso: nessuna traccia di Levi nelle foto del futuro e passato Sander, di Ray e Juno, di Jackie e Leslie - che pur non essendo sue sorelle, avevano da sempre fatto parte della sua vita - ed era comunque stato egoista, Roosevelt, perché si era detto di non dover prendere la stessa dura posizione con i cugini, con i suoi amici: avrebbe smesso di esistere per i suoi fratelli, ma aveva bisogno - aveva bisogno - che qualcosa di sé rimanesse. Che un giorno, quella che sarebbe stata Jessica l’avrebbe trovato nelle sue foto, che Tiny avrebbe sorriso ai loro selfie stupidi, che Jem avrebbe ritrovato gli scatti su cui Levi chiedeva sempre autografi perché magari diventi famoso, così li rivendo su ebay, che Gryff avrebbe trovato le panoramiche dello stadio con i loro appunti; Tupp e Cash, ed i gemelli Hamilton, avrebbero sempre avuto sullo sfondo il ragazzino dai capelli disordinati ed il sorriso timido.
    Sapeva, sapeva, che avrebbe dovuto far dimenticare se stesso anche a Dexter. Forse più che agli altri, perché lui l’avrebbe cercato, e si sarebbe domandato i perché a cui altri non avrebbero dato lo stesso peso. «you’ve been locked in here forever...» lo faceva spesso di suonare quand’era nervoso. O arrabbiato, o triste, o qualunque cosa non comprendesse: la chitarra era stata l’unico oggetto che aveva portato con sé da un’altra vita, troppo grande per il bambino spinto oltre l’uscio di quella che sarebbe diventata la sua famiglia. Ed era stato il wow, figo, poi mi insegni a suonarla? di Sander, a fargli sapere che quella casa, e quelle persone, fossero davvero sue - e non lo erano state per sempre, ma lo erano state per tutto il tempo che gli era stato concesso.
    Il giorno dopo, Roosevelt Percival Milkobitch sarebbe partito insieme ad un Sander che neanche l’avrebbe ricordato per un’epoca troppo lontana che gli avrebbe tolto ogni genere di per sempre: niente più Ray e Juno, e Jackie e Leslie, e CJ e BJ e Tupp e Cash e Tiny e Jess e Jem e Gryff e Scott e Erin.
    e Dexter.
    Un Dexter a cui, alla fine, non avrebbe avuto coraggio di cancellare la memoria. Un Dexter a cui avrebbe infilato una foto prima della partenza nel taschino della giacca, che non avrebbe avuto il tempo di abbracciare ma a cui avrebbe rivolto un sorriso - sempre lo stesso sorriso - con cui gli avrebbe assicurato che si sarebbe preso cura di Sand, ricevendo in cambio la promessa che il resto dei fratelli sarebbero stati al sicuro. Che li avrebbe trovati. E che non sarebbero stati insieme, ma sarebbe come lo fosse stato.
    «and you just can’t say goodbye.»

    Oggi.

    «TU!»
    «io» spontaneo, e sussurrato dal Mckenzie che da un paio di minuti osservava la scena senza sapere esattamente come muoversi. O se potesse, muoversi: ultimamente, ogni volta che incrociava Twat sentiva una spinta dalla parte opposta, quasi avesse avuto una mano a stringere il tessuto della maglia a tirarlo lontano contro il suo volere. Anche quel giorno, abbassò lo sguardo verso il proprio stomaco, e non trovando - prevedibilmente - nulla, deglutì e scosse il capo. Azzardò un passo verso il ragazzo a terra, abbassando il cappuccio per farsi riconoscere nonostante la pioggia. «ma sei l’unico qui abbastanza forte da aiutarmi. mi si è… piegata la caviglia? puoi… portarmi?» Gli occhi grigi di Mac guizzarono dalla caviglia in questione al volto del ragazzo, e si ritrovò, suo malgrado, restio a procedere.
    Perché? Perchè? Sentiva il cuore vibrare sulla punta della lingua, mescolando terrore e sollievo e reminiscenze di troppi sogni ed incubi e linee sottili fra realtà e tempo. «hai...» passò la lingua sull’arcata superiore dei denti, un sorriso a premere nervoso gli angoli delle labbra.
    Senza alcun motivo preciso se non il fatto che stesse perdendo la testa, pensò a Joni - il capitano dei Tassorosso per la quale aveva ricamato un maledetto giacchino come un creeper qualsiasi - ed Hans – lo stesso Hans che per nessuna ragione aveva salutato, incrociandolo per Different Lodge, ed il cui lecito dubbio negli occhi chiari aveva fatto un po’ male – ed il sorriso raggiunse l’intera bocca. «bisogno di una mano» ma perché lo trovava così divertente? Non era – non era affatto divertente.
    Ma rise comunque, pregno di pioggia e fango perché, spoiler alert!, non era un’ottima idea correre sotto la pioggia se non si voleva provare l’ebbrezza del pattinaggio, chinandosi al fianco di Twat per porgergli un braccio (ahah, un braccio, it’s funny like that) su cui appoggiarsi. «scusa» come il giorno della prima partita, ringraziò la pioggia ed il suo nascondere le lacrime. «non so perché stia ridendo» non era neanche fatto...probabilmente. «non è per te» forse. «giuro!» si affrettò a chiarire, facendosi carico di gran parte del peso del ragazzo (#30 pa di battuta, le braccia le aveva) (lui, non come twat) (cosa? cosa) così che lui poggiasse solo una gamba a terra. «stavo pensando a una cosa molto divertente e mi è capitato di ridere ha! Che buffa la vita» strofinò la guancia contro la spalla stringendo Twat per aiutarlo a camminare. «mi dispiace scusa. ti fa tanto male?» sincera preoccupazione negli occhi chiari di Mckenzie, mentre il sorriso lasciava spazio ad una linea severa e sofferente. «se vuoi posso provare a portarti in spalla?» le scale sarebbero state un problema, ma almeno non era un behemot.
    me to myself: @mac why
    are you like this
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1 replies since 3/6/2020, 22:17   215 views
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