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dante ft. charles

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    «bastardo fortunato» allungò una mano a scompigliare i capelli del Gallagher un'ultima volta, prima di avviarsi verso gli spogliatoi assieme ai propri compagni di Casata. La sconfitta non aveva un sapore così amaro, non quand'era chiaro a tutti sin dal principio quale fosse la priorità: nessuna merdata poetica sul gioco di squadra e sull'importanza del partecipare, solo i soldi che avrebbero ricavato dalla scommessa fatta prima che la partita iniziasse puntando sui Grifondoro. Andava bene così, sul serio, e nessuno di loro - forse soltanto Costas - aveva mai creduto per più di qualche istante di poterla realmente spuntare, non con la scarsa preparazione e la sfiga che affliggeva il loro team già dagli albori. Assurdo, ma si era persino divertito, ed intendeva partecipare ai festeggiamenti perché non aveva niente da rimproverarsi, niente di cui vergognarsi. Avevano giocato lealmente, lo avevano fatto insieme, ed avevano perso, fine della storia.
    A preoccuparlo realmente era ciò che sarebbe venuto dopo.
    Aveva guardato i suoi compagni senza dire una parola, negli occhi di tutti e cinque la consapevolezza di ciò che li avrebbe attesi una volta usciti dagli spogliatoi. Non era giusto, era ovvio che non lo fosse, ma cosa poteva fare? Piazzarsi davanti alla Sala Torture per l'ennesima volta e - cosa? Era una causa persa, ci aveva già provato e sappiamo tutti com'era andata a finire.
    Una parte di sé, sicuramente la più sciocca, sperava che Anjelica Queen fosse comprensiva per una volta nella sua maledetta vita, che apprezzasse i loro sforzi e gli lasciasse un fottuto attimo di respiro.
    Ingenuo anche solo azzardarsi a immaginarlo.
    Quand'era passata dall'ultimo giro nella stanza dei giochi della Queen? A malapena dieci giorni. Aveva saltato la lezione di Pozioni di quella settimana, l'unica assenza in tutto l'anno, per rimettersi in sesto dall'influenza che lo teneva costretto a letto da giorni. Aveva persino creduto che una giustifica bastasse a metterlo al sicuro da eventuali rimproveri - invece si era ritrovato ai piedi della donna senza avere neanche il tempo di rendersi conto di cosa stesse accadendo, scosso dalla febbre e dal nuovo dolore inflitto al suo corpo già debilitato.
    Ma non aveva detto niente Charles.
    Aveva stretto i denti, pur credendo più volte di trovarsi sul punto di dire addio al mondo una volta per sempre, ed aveva subito ogni maledizione, ogni tortura senza emettere alcun fiato.
    Aveva smesso di lottare il Dumont, l'aveva fatto quando aveva capito che non serviva più a niente: Vasilov o Kimiro, Mangiamorte o Resistenza, erano tutti la stessa cosa alla fine; nessuno credeva davvero di poter cambiare le cose. Ed era stanco, frustrato, privato d'ogni briciola di entusiasmo. Voleva soltanto finire quella cazzo di scuola e mandare tutti a 'fanculo. Cambiare città, cambiare vita, cambiare persino sé stesso se necessario. Ne aveva piene le palle.
    «questa è l'ultima volta» mormorò a sé stesso, sfilandosi la divisa da Quidditch con una lieve smorfia di dolore sul viso: la ferita sul fianco si era aperta ancora, facendo aderire il tessuto alla carne. Avrebbe potuto ricucirla con un solo gesto della bacchetta, ma a che pro? La Queen l'avrebbe riaperta di lì a poco in ogni caso.
    Lo sapeva, Charles, che non era l'ultima volta, ma aveva bisogno di crederlo per avere una qualche speranza d'uscirne vivo.

    Quante ore aveva passato in Sala Torture?
    Una, due, tre? Poteva anche essere passato un anno per quel che lo riguardava.
    Perché? «perché abbiamo perso una cazzo di partita di Quidditch» e rise il Dumont, col sangue a macchiargli le labbra e il dolore ad attraversargli la colonna vertebrale costringendolo steso sul pavimento della stanza. Aveva un che di ironico quella situazione, qualcosa che col senno del poi trovava persino divertente. Voltò il capo vero la Kavinsky al suo fianco senza smettere di sorridere, e rimase lì a guardarla per qualche istante.
    Non era arrabbiato, non era triste, non sentiva niente. Voleva restare lì fino a quando qualcuno non l'avrebbe trascinato via con la forza. Che ci provassero, a fargli più male: lui non riusciva neanche ad immaginare in che modo fosse possibile.
    Ma poi chiuse le palpebre e, in un lampo, qualcosa lo fece scattare a sedere. Un ricordo sbiadito dalla sofferenza, niente che potesse tramutare in immagine concreta: solo la consapevolezza, chiara e consistente, di non voler rischiare un secondo giro. Non lo avrebbe sopportato.
    Non c'era un singolo muscolo che non gli facesse male, né un pezzo di carne che non fosse stato sufficientemente messo alla prova per quella sera. Neanche a dirlo: la ferita sul fianco stava di nuovo sanguinando.
    Non si voltò a guardare i suoi compagni, né disse loro niente.
    Non c'era niente da dire.

    Volete sapere una cosa divertente? A Hogwarts non ci si poteva smaterializzare.
    Che si divertissero, il giorno seguente, a lavare via il suo sangue dalle pareti e dal pavimento. Non era un suo problema, fintantoché la sua unica intenzione fosse quella di trascinarsi per tutto il Castello alla ricerca di una via d'uscita, per poi potersi smaterializzare fino al Quartier Generale della Resistenza.
    «Dante» soffiò prima di sollevare la bacchetta al cielo, come fosse necessario specificare la destinazione per potersene andare. No, è che non era certo di potervi arrivare intero.

    Una volta dentro, attraversò i corridoi senza vederli davvero, avanzando quasi a tentoni sino alla stanza del Rinaldi.
    Avrebbe voluto bussare, usare un minimo di galanteria, magari evitare d'irrompere in piena notte e mostrarsi completamente a pezzi. Ma non ne aveva le forze. Puntò la bacchetta alla serratura, l'aprì senza troppe spiegazioni, e si lasciò cadere sul pavimento.
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    Non era pentito.
    Non lo era nemmeno un po’ arrivati a quel punto.
    Quando aveva voltato le spalle ai Golden aveva pensato di morirci sentendo la loro mancanza, eppure era ancora vivo e vegeto. Era stato Godric, tra tutti, ad avergli fatto capire quanto inutile fosse stato il tentativo di cambiarli, di poter trovare il buono in loro, perché non c’era e, come gli aveva detto l’Osborne, a loro piaceva. Non c’era scusa, non c’era discorso che potesse renderli uniti. Non più. E, alla lunga, andava bene così.
    Per un istante aveva creduto di poter sistemare tutto, di ricucire quel rapporto che si era andato a perdere a causa di convinzioni tanto diverse, ma non ce l’aveva fatta. Non sarebbe mai riuscito a convivere con la morte, non più di quanto fosse abituato a fare, perché era sbagliato, era ingiusto, era inumano e non capiva come si potesse credere, con tale semplicità, che una vita fosse meno di un’altra. Che uccidere fosse semplice come respirare, quando anche solo il pensiero di torturare gli faceva accapponare la pelle.
    Ricordava il perché avesse preso una posizione tanto ferrea, ed anche il momento in cui aveva deciso di troncare ogni rapporto, ed era stato a causa di Jack.
    Lo aveva ripetuto così tante volte che gli era sembrato ridicolo anche solo accennarlo nuovamente, ma era stata la sua morte a far scattare quel qualcosa di così ardente da non poter essere frenato. Quando l'ex Corvonero aveva accennato al corpo del ragazzo tra le macerie, aveva rischiato seriamente di prenderlo a pugni; di far sparire quell’espressione apatica su quella faccia di cazzo e chiedergli, stretto tra i denti “ti è mai davvero importato qualcosa di quel ragazzo?” perché faticava a credere che fosse rimasto qualcosa di umano in lui, se mai ci fosse stato in precedenza.
    «pensi che fake abbia chiesto dei genitori che gli insegnassero a uccidere prima che a camminare? O che Ryu da bambino scrivesse “voglio entrare nella mafia giapponese” sui tanzaku?»
    Quella frase era stata così… inutile. Così priva di qualsiasi senso logico da fargli credere che tra i due, lo stupido, fosse Godric. Non aveva mai provato tanta pena, tanta compassione, perché quello che aveva visto era stato solo un tentativo contorto di fargli credere di essere dalla parte sbagliata, di star prendendo delle decisioni di cui si sarebbe presto pentito. Non aveva mai pensato nulla di tutto quello, ovviamente, perché sarebbe stato da idioti credere che sia il Cheena che Ryu avessero chiesto quel male, eppure non riusciva a giustificare nessuna delle loro decisioni, né a provare compassione.
    La vita era ingiusta, non sarebbe mai stata corretta con nessuno di loro, ma erano le scelte a determinare il proprio futuro e loro avevano deciso. Le inutili filippiche su come tutto si dovesse ridurre a “non è colpa loro, è la violenza che li ha resi così” erano una cazzata e aveva le palle piene di dover giustificare azioni che riteneva deleterie. Se quel ragionamento fosse stato vero, nessuno di loro avrebbe mai cambiato rotta, accettando silenziosamente un destino già scritto.
    Non era un santo, non lo sarebbe mai stato, ed aveva sinceramente paura di poter mollare la presa; senza un appoggio stabile, senza la sicurezza di non essere da solo in quella merda, non sarebbe stato facile continuare ad andare avanti.

    Eppure lo aveva fatto.
    Ed aveva messo da parte il senso di inadeguatezza per fare quello che, alla fine, aveva sempre saputo fosse il suo unico punto di forza: aiutare gli altri.
    Così aveva deciso di provarci, presentandosi al San Mungo con il diploma tra le mani e la voglia di poter fare la differenza. Per imparare ad essere un buon Medimago, perché non avrebbe permesso ad altri di morirgli davanti senza almeno tentare il possibile per salvarli, che fossero Ribelli o Mangiamorte non aveva importanza.
    Ed aveva iniziato a lavorare da ormai qualche settimana, felice come un bambino la Vigilia di Natale.
    Era stato naturale mandare delle lettere a Charles per informarlo – perché, purtroppo, sapeva che vedersi durante il periodo scolastico fosse pressocché impossibile, se non durante le festività o le riunioni della Resistenza – tralasciando però la discussione con i Golden e la conseguente rottura. Era ininfluente, non aveva senso e non pensava nemmeno potesse importargli più di quanto importasse a lui.
    Ormai la nostalgia era sparita, lasciando spazio ad altri impegni più urgenti.

    Avrebbe sicuramente voluto essere presente alla partita di Quidditch, per tradire i Grifondoro – lo avrebbero ucciso, soprattutto Chelsey – e dare supporto morale al Dumont. Insomma, non era un grande fan dello sport – ancora poteva giurare di sentire le urla delle Chazel, convinte di poterlo trascinare in campo – e nemmeno della coppa delle case, che trovava un disastroso pretesto per mettere in competizione – e non positiva – le varie Casate. Ma il lavoro lo aveva tenuto impegnato fino a tardi, complice anche l’inesperienza; cercava sempre di tenersi al passo ed impegnarsi nell’apprendere quante più nozioni possibili da altri Medimaghi anziani, molto spesso dormendo all’ospedale pur di non mancare nessuna lezione.

    Aveva appena appeso il camice dietro la porta e tolto le scarpe, tentando di fare il meno rumore possibile per via dell’ora tarda, quando il cigolio dei cardini l’aveva fatto voltare di scatto verso il rumore. Il tonfo del corpo inerme di Charles sul pavimento gli aveva fatto sgranare gli occhi completamente stordito «Charles!» si era precipitato sul ragazzo senza attendere oltre, tentando di metterlo in una posizione tale da poterlo guardare in viso. Le iridi azzurre, velate di preoccupazione, si erano posate sulle molteplici ferite a macchiargli la pelle «Mio Dio, che diavolo è successo?!» avvolgendo con delicatezza il busto del maggiore e portando una delle braccia intorno a collo, lo aveva sollevato - non senza fatica – per farlo distendere nel proprio letto «Ehi» aveva mormorato, posandogli una mano sulla guancia, con le labbra stirate in apprensione. Facendo vagare lo sguardo sui tagli nel viso, sugli ematomi e sui segni magici abbastanza freschi, non era stato difficile intuire l’origine di quelle ferite. Aveva soffocato la rabbia con fatica, tralasciando le proprie emozioni per essere d’aiuto «va tutto bene, ci penso io a te. Cosa è successo?» lo aveva accarezzato gentilmente per tenerlo sveglio, sedendosi sul bordo e sollevandogli con cura la maglia per constatare lo stato delle lacerazioni. Una, in particolare, aveva attirato la sua attenzione: fresca all’apparenza, ma sembrava essersi riaperta più volte. Il rossore acceso nei bordi denotava un’infezione e il fatto che stesse ancora gocciolando sangue era indice che qualcuno avesse ripetutamente abusato la zona. Inoltre, il petto sembrava un quadro violaceo e giallastro, soprattutto nel costato; non si sarebbe stupito se il Dumont avesse avuto qualche costola rotta.
    Al tatto, al limitare del bacino, erano chiari i segni di tensione muscolare, dovuta senza dubbio alla maledizione Cruciatus o, forse, al tentativo di sopportare il dolore.
    Sospirando pesantemente dal naso, aveva stretto i denti per non commentare.
    Qualsiasi cosa gli avessero fatto, qualsiasi cosa Charles avesse fatto, quella punizione sembrava solo un tentativo crudele di sfogare gli istinti più bassi. Odiava i Mangiamorte come non aveva mai odiato nessuno in vita propria.
    «Farà un po’ male, ma ti rimetterò in sesto, okay? Forse non ti potrò fare ricrescere le ossa sta sera, ma posso occuparmi di queste brutte ferite» l’espressione dura aveva gradualmente lasciato spazio ad una più rassicurante «Fortuna che ho imparato qualcosa al San Mungo, mh?» non c’era nulla da ridere, eppure cercare di sdrammatizzare era l’unico modo per poter affrontare quella situazione.
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    Dante Rinaldi
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    Melodrammatico.
    Lo era sempre stato, né aveva mai cercato di nasconderlo. Non era qualcosa che aveva imparato nel tempo o che aveva consapevolmente scelto di fare: era così e basta. Forse aveva perfezionato la tecnica per infastidire suo padre, o forse si era acuito nel disperato tentativo di avere quelle attenzioni che senza sua madre gli erano venute a mancare, ma era congenito in Charles Dumont quel volere a tutti i costi esagerare ogni cosa, farla più intensa di quanto in verità non fosse.
    Quella volta, però, l'essere melodrammatici non c'entrava niente.
    Si era lasciato scivolare sul pavimento perché era stanco: stanco mentalmente, di essere sempre in lotta con sé stesso e col mondo, e stanco fisicamente. Gli bruciava la pelle, gli dolevano le ossa, sentiva i muscoli cedere sotto al peso della tensione e del dolore. E aveva bisogno di qualcuno a dirgli che sarebbe andato tutto bene.
    Sarebbe corso da sua madre, come faceva sempre quando aveva paura d'essere sul punto di cedere, ma stavolta sapeva di non poterlo fare. Le sue gambe non l'avrebbero sorretto in ogni caso e, al di là delle questioni meramente pratiche, a cosa sarebbe servito mostrarsi a lei ancora una volta vulnerabile? Voleva soltanto non pensare, staccare per una volta quel maledettissimo cervello che continuava a pensare e pensare e urlare, tanto che a volte si ritrovava a implorare silenziosamente affinché la smettesse - ma non smetteva mai.
    Si rinnovava in continuazione, ad ogni tortura e ad ogni cosa ingiusta su cui si ritrovava a posare gli occhi ogni qual volta decideva di lasciare il suo letto e provare a vivere. Ma come poteva anche solo pensarlo, credere di potere realmente avere una vita che fosse normale in un mondo che, era ovvio, di normale non aveva nient'altro che l'apparenza?

    Mi dispiace mamma.
    Glielo diceva ogni volta, come fosse una sua responsabilità, come se in qualche modo fosse un suo dovere rimediare a ciò che le avevano fatto, a ciò che continuavano a fare a centinaia di persone là fuori ed a lui stesso, come se ogni singolo giorno passato uguale a quello precedente fosse un suo fallimento persona.
    Di che cosa, Antoine?
    Gli chiedeva lei, senza capire nemmeno che fosse suo figlio a parlare, un involucro di donna ormai portato via dal vento.
    Di non essere abbastanza.
    E poi la guardava negli occhi, e quella luce che un tempo era stato fuoco vivo in lei non c'era più. Era ancora lei, aveva il suo stesso viso e le sue stesse mani, ma non lo era davvero da quella fatidica sera in cui se l'erano portata via per sempre.
    Eppure si ostinava a tornarci Charles, ogni volta che poteva, in quella stanza al San Mungo come fosse una seconda casa e non una bara in cui consumare gli ultimi anni di quell'estenuante agonia, a vederla consumarsi come una candela sul punto di spegnersi. A volte gli bastava anche così, spenta. A volte era abbastanza guardarla e fingere che fosse ancora la stessa, ancora sua madre, abbastanza per andare avanti ancora un altro giorno.
    Ma non sempre.
    Non quella volta per lo meno, perché ciò di cui aveva bisogno era d'un paio d'occhi che fossero ancora vivi, che gli dicessero che c'era ancora speranza, che non era tutto perduto. Un paio di mani a raccoglierlo come un gatto ferito, a tremare di quella rabbia sottile che allo stesso modo ferveva in lui, a stringerlo come nessun altro lo stringeva da tempo.
    Era Dante, era ogni volta Dante.
    In ogni respiro mozzato, in ogni frase mancata ed ogni preghiera interrotta dall'ennesimo colpo sulla schiena. Era l'ultima cosa buona a cui Charles aveva scelto di credere, l'unica a cui potesse aggrapparsi quando tutto il resto era ormai cenere.
    «scusa» soffiò, assecondando i movimenti dell'altro senza opporre resistenza. Trattenne il fiato al contatto del braccio altrui con le proprie ossa doloranti, impedendosi di manifestare all'altro quanto effettivamente facesse male anche solo farsi sfiorare.
    «avrei dovuto immaginare che partecipare ai giochini erotici bdsm della Queen non fosse una buona idea» si lasciò andare a una risata roca, poggiando la guancia nel palmo altrui e socchiudendo le palpebre per qualche secondo, cercando di regolarizzare il respiro malfermo.
    Un sottile lamento sfuggì al suo controllo al tocco dell'altro, tanto che istintivamente si ritrovò ad afferrargli il polso con uno scatto, come a volergli impedire di continuare.
    «ho una pessima soglia del dolore, pardon» lo lasciò andare e gli rivolse un piccolo sorriso, invitandolo a riprendere il suo lavoro con un cenno del mento.
    Seguì il movimento delle sue dita con lo sguardo, cercando di concentrarsi su di esse e nient'altro per non sentire le piccole scosse che l'attraversavano ad intermittenza mozzandogli il fiato.
    «proprio una fortuna che il mio fiancé sia uno dei medimaghi più sexy del San Mungo» magari non proprio ufficialmente il suo ragazzo ma, insomma, non gli pareva il caso di star lì a specificare.
    «mi spiace d'essere piombato qui, in piena notte e senza preavviso, non sapevo dove altro andare» quand'invece avrebbe soltanto voluto dire che non c'era altro posto in cui avrebbe voluto essere se non lì, assieme a lui.
    Rimase in silenzio per qualche istante, ragionando su quell'affermazione nella piena consapevolezza d'essere decisamente una frana con le relazioni, e coi sentimenti in generale. Ma ci stava provando.
    Allungò nuovamente una mano a trattenerlo, tirandolo stavolta un po' più vicino a sé.
    «quella ferita si è chiusa e riaperta almeno tre o quattro volte, penso che sopravviverà ad altri dieci minuti di sofferenza» probabilmente no visto quanto faceva male, ma aveva altre priorità - a quel dolore, alla fine, s'era quasi abituato «possiamo per un attimo soltanto fare finta che io non stia cadendo a pezzi e...» e cosa?
    Non c'era davvero un continuo a quella frase, perché sebbene l'immagine fosse impressa chiaramente nella sua testa non aveva idea di come esprimerlo a parole. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma sapeva che se ne sarebbe pentito nello stesso istante in cui avrebbe provato a muovere un solo muscolo, perciò lo afferrò semplicemente per la maglietta, strattonandolo appena perché fosse all'altezza giusta per poterlo baciare come se il resto non contasse.
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    Scusa.
    Di cosa si scusava il Dumont? Cosa c’era da scusarsi quando, debole e sconfitto, lo fissava con quegli occhi rassegnati. Come se la colpa di quel dolore fosse sua, nell’assurda idea che se lo meritasse. Perché Charles poteva fingere di essere chiunque altro; un attore drammatico che inscenava la sua stessa vita, ma Dante non aveva dubbi quando, toccando quella pelle macchiata di viola, ne sentiva i guizzi sofferenti. Non poteva mentire, non a lui. Non quando, per tanto tempo – forse anche troppo – aveva fatto i conti con la stessa realtà del Dumont. Viverla sulla pelle era stata dura, ma vederla su quella degli altri ancora di più.
    Non era facilmente impressionabile il Rinaldi, tutt’altro. Sapeva mantenere quella parvenza di decoro persino nelle situazioni più critiche; con Charles nel suo letto, che a stento riusciva a mettersi seduto, ecco... quello era più difficile. L’odio non gli apparteneva, ma Dante lo sentiva scorrere nei pugni chiusi, cercando di mitigarlo per prendersi cura della persona di fronte a sé. Una delle più importanti, arrivati a quel punto. L’unica, insieme agli altri membri della Resistenza, con cui potesse condividere degli ideali.

    Posare gli occhi su Charles gli faceva male al cuore. L’ex-Grifondoro non si era mai guardato indietro, troppo impegnato a pensare al futuro; eppure, a quel punto, quale futuro poteva mai essere più importante degli avvenimenti che, ancora una volta, infettavano Hogwarts come una malattia?
    Con delicatezza era andato in contro al bisogno del Dumont di affetto, accarezzandogli la guancia con una tenerezza sincera.
    «Non è colpa tua» non quella volta. Non per una stupida partita di Quidditch.

    La stretta sul polso era stata breve, veloce, intensa, ma non lo aveva sorpreso «per quanto possa valere la mia parola, ne hai fin troppa» chiunque altro sarebbe svenuto o, peggio, ritrovato incapace di muoversi per giorni, mentre il Dumont era stato in grado di lasciare il Castello, percorrere la strada verso il quartier generale e cercarlo. Come aveva fatto? Presumeva fosse solo grazie alla sua forza di volontà.
    Dante sapeva perfettamente quanto fosse stato stupido camminare con ferite tanto profonde, ma piuttosto che farlo presente, aveva preferito semplicemente prendersene cura. Erano pochi in quella scuola a interessarsi davvero della salute degli studenti ed era certo, sicuro, che la Queen avesse dato precise disposizioni agli infermieri, proibendo qualsiasi tipo di medicazione.
    Era una vipera, Anjelika Queen, una gran puttana che Dio solo sapeva quante volte avesse desiderato veder morire. Tutto ciò che le stava intorno era marcio e ogni singolo membro della sua famiglia così inumano da causargli disgusto. Non c’era niente, n i e n t e, che la rendesse meno orribile ai suoi occhi.
    Una donna con un’attitudine del genere era deleteria in qualsiasi contesto, specialmente quello scolastico.

    «proprio una fortuna che il mio fiancé sia uno dei medimaghi più sexy del San Mungo» per quanto volesse disperatamente concentrarsi solo sulle ferite, una volta libero dalla stretta d’acciaio del Dumont, nella mente del Rinaldi non c’era stato nient’altro se non la parola “fiancé” ripetuta all’infinito. Non aveva potuto far altro che sollevare lo sguardo dalle medicazioni per rivolgere a Charles uno sguardo sorpreso.
    Non che gli dispiacesse l’appellativo – diciamo chiaramente, ne era contento -, era solo… piacevolmente stupito dalla leggerezza di una tale dichiarazione «Sono un sexy Tirocinante, ma grazie per la fiducia» tra le righe era palese che avesse accettato, senza troppi problemi, le parole del francese. A quel punto, aveva davvero importanza fingere che tra di loro ci fosse ancora dell’incertezza? L’italiano era abbastanza certo di non voler sprecare altre occasioni e perdere tempo per poi vederselo sottrarre ingiustamente era, a suo avviso, inutile.
    «Basta con queste lagne. Di cosa ti stai scusando? È la terza o… quarta volta che lo fai» posando il disinfettante sul letto e prendendo le bende, aveva iniziato a srotolarle sul petto del Dumont «Se non vieni da me quando hai bisogno, da chi altro dovresti andare? Non sono il tuo fiancé?» e non aveva potuto trattenere un sorriso dispettoso, cercando disperatamente di alleggerire l’atmosfera. In qualsiasi momento, in qualsiasi situazione, Charles lo avrebbe trovato disposto a tutto pur di tendergli una mano.

    «possiamo per un attimo soltanto fare finta che io non stia cadendo a pezzi e…» difficile pretendere che non stesse cadendo a pezzi quando lo stava facendo davanti ai suoi occhi. Tuttavia comprendeva il bisogno del francese di dimenticare, anche solo per qualche istante, ciò che il suo corpo faticava ancora ad elaborare.
    Lasciandosi trascinare dalla maglia e posando delicatamente una mano dietro la nuca del maggiore, non aveva perso tempo a rispondere al bacio. Era sempre una sensazione nuova ogni qualvolta le sue labbra toccavano quelle di Charles, ma allo stesso tempo così familiare che Dante si ritrovava a pensare che non avesse fatto altro per tutta la vita, quando in realtà era capitato davvero in pochissime occasioni.
    Aveva paura di toccarlo, di fargli del male involontariamente, ma la lontananza non aveva fatto altro che fargli mancare ogni porzione di pelle, ogni piccolo guizzo delle ciglia di Charles.

    «Non cadrai a pezzi» con il pollice aveva tracciato le labbra screpolate del francese, inumidite dal bacio «perché non ti permetterò di farlo» se lo avesse fatto, avrebbe rinunciato a quel sentimento. Se fosse stato un egoista, avrebbe voltato le spalle al Dumont, preferendo non entrare in quel mondo caotico fatto di incertezza, di traumi, di solitudine. Ma la verità era che per quanto tutto fosse ormai distrutto – sogni, speranze, ambizioni, amicizie – e contasse meno di una vita qualunque, lui voleva Charles. Amava Charles. Voleva vivere quella miseria con Charles.

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