more than a maybe

x stiles

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    alexithymia
    (n.) the inability to express your feelings
    «va tutto bene.» con il fiato ormai corto per la fatica, Jeremy Milkobitch continuava a ripetere solo quelle tre parole quasi fossero una nenia: a dire il vero, ad un certo punto, aveva iniziato a sperare lo diventassero davvero. «va tutto bene.» ma la verità era che più continuava, più la sua stessa voce suonava falsa e messa lì, giusto per dar suono agli aneliti. Ad ogni passo nei corridoi di Hogwarts, il sorriso rassicurante che si era dipinto sul volto diveniva un po’ più forzato; ogni angolo svoltato, credeva che non ce l’avrebbe più fatta.
    Ma soprattutto: a ciascun «sto morENDOOOH», sentiva la particolare e decisamente poco opportuna voglia di mollare il ragazzino a terra, sanguinante e sofferente, e lavarsene le mani. Avrebbe potuto, in tutta tranquillità, dire che non c’entrasse nulla con l’abbandono del disgraziato al Primo Piano del Castello – sarebbe stata comunque la parola di un insegnante contro quella di un undicenne; una delle tante cose che gli aveva insegnato a quella scuola, era che se vestivi la toga dello studente avevi sempre torto, indipendentemente dal contesto. Ma al giovane Richard Pottinger, aveva detto esageratamente bene che a fare le veci della cattedra di Erbologia non ci fosse qualcuno come la Queen, bensì l’allenatore di Quidditch: per quanto sopperire all’assenza di un insegnante fisso gli stesse facendo rivalutare molte scelte di vita – a partire dalla decisione di sopravvivere alla gravidanza e non venire alla luce, vent’anni prima, direttamente morto –, chiedendosi soprattutto perché avesse accettato di avere a che fare con dei ragazzini idioti, restava in fin dei conti un ragazzo a modo. Ammesso e non concesso che tali modi potessero essere talvolta bruschi e violenti, non avrebbe mai potuto seriamente pensare di lasciare che uno studente del primo anno, feritosi sotto la sua supervisione, non ricevesse tutte le cure necessarie al proprio caso: probabilmente, l’ex tassorosso era soltanto troppo nuovo a quella nuova visione dell’ambiente scolastico, e presto o tardi avrebbe realmente compreso quali fossero i giusti metodi per sopravvivere alla vita da Insegnante. Magari esisteva una fantastica guida su WikiHow, o magari «posso chiedere consulenza ad Anje…» «cosa?» «cosa.»
    Continuò a camminare, cercando di rispondere a quei continui piagnistei con la voce più calma e accondiscende possibile – sforzandosi quanto più possibile di non minacciare il Grifondoro di ucciderlo seduta stante (così che magari, quelle lagne, avrebbero avuto una raison d'être) –, con il ragazzo a peso morto tra le braccia; solo nel momento in cui in lontananza scorse l’enorme portone dell’Infermeria, si rese conto di aver accelerato il proprio passo. Alla stregua di un Berserkr, avendo le mani impegnate a tenere il più fermo possibile Richard, caricò l’uscio con una spallata per farsi strada in quella che era diventata la sua seconda casa: oramai i dottori di Hogwarts erano abituati alle sue apparizioni, nemmeno si chiedevano più chi fosse a sfondare così di cattiveria l’entrata; stranamente, per la prima volta dall’inizio della sua carriera, non era andato a rompere le palle a Dakota per l’ennesimo allievo di Volo, o giocatore di Quidditch, che non sapeva tenere le chiappe strette sulla scopa – un’occasione da annoverare sul calendario.
    Lanciò – letteralmente, lanciò: non lo aveva mai sopportato quel nano malefico, e dopo aver passato con lui il tragitto dalle serre fino a lì era abbastanza certo di non volerlo mai più vedere; si domandò, sinceramente curioso, se potesse chiedere allo staff di incatenarlo e tenerlo rinchiuso là dentro fino alla fine dell’anno – il giovane sul primo lettino libero che trovò a disposizione, indicando il braccio completamente ricoperto di sangue e privo di un pezzo di carne. «questo cretino» accentuò con sdegno l’insulto, fissandolo negli occhi scuri. «ha pensato fosse un’ottima idea titillare una pianta carnivora più grande di lui mentre travasavo un bubotubero, e ne ha pagato le conseguenze.» severo ma giusto, non era affatto dispiaciuto dell’accaduto: aveva appeso così tanti cartelli attorno alle piante pericolose della serra numero uno, che persino un cieco (ciao Bells, sei sempre nei miei pensieri) avrebbe capito che non doveva avvicinarcisi; se l’era cercata, quel bastardino. Ah!, se solo ci fosse stata la Lagrange al suo posto, avrebbe fatto vedere a tutti gli altri primini come una Carnivora si cibava. «ma non ha altri danni,» se non al cervello, dalla prima infanzia probabilmente. «quindi magari voi-» quando alzò il capo, si accorse di non aver proferito nemmeno una parola a quel che pensava essere Dakota.
    Rimase in silenzio per più tempo di quanto la ragione gli suggerisse, le iridi chiare fisse in quelle color cioccolato senza trovare il coraggio di distogliere lo sguardo. Stupito, quasi, Jeremy Milkobitch. Non era che avesse rimosso il fatto che Andrew Stilinski lavorasse come Psicomago lì dentro, quanto piuttosto che, da settembre a quella parte, aveva fatto in modo e maniera di non beccarlo mai – tanto dentro il castello, quanto fuori.
    Per un mese aveva creduto, a ragion veduta, che fosse fottutamente morto – dopo che gli aveva chiesto di non farlo, dopo che l’aveva silenziosamente supplicato di rimanere con lui. Quando era tornato, aveva scoperto non ricordasse nulla – della missione, di loro due nella missione. Ed a quel punto, Jeremy aveva deciso di lasciare tutto com’era: per anni interi con Todd aveva scherzato riguardo la sfortuna che lo perseguitava, ed alla fine aveva capito che era tutto vero. La gente vicina a lui continuava a sparire, continuava a morire – e se tornava, non era mai come prima. Continuava a soffrire; lui, chi gli stava intorno. Magari erano solo coincidenze, ma arrivato a quel punto della propria vita ci credeva poco.
    Non che ne fosse felice, non che gli andava bene, ma forse per Stiles sarebbe stato meglio non averlo nella propria vita: glielo aveva sempre detto, che meritasse di meglio.
    «il miO BRACCIOH SI STACCAH» «non si stacca, ragazzino.» fortuna che esistevano i deficienti di quel mondo, a riportarlo alla realtà. Sollevò le folte sopracciglia more, piegando la testa verso il lettino. «puoi dire a dakota quel che ho detto a te?» secco e lapidario, cercò con tutto se stesso di ridurre al minimo i convenevoli. «uh, sì… certo.» una parte molto grande del Mezzosangue, scorgendo con la coda dell’occhio l’amico allontanarsi alla ricerca del Wayne, avrebbe voluto approfittarne e fuggire.
    Un’altra, era pazza e masochista. «stiles-» lo seguì, fermandolo solo quando credette che nessun orecchio indiscreto avrebbe potuto udirlo. Non che avesse nulla da nascondere, ma. «senti, ti va…»
    Non farlo, Jeremy.
    «stasera…»
    Sei più furbo di così.
    «lilum…»
    ???????
    «niente, lascia stare.» si mise le mani in tasca, stringendosi tra le spalle e rivolgendo al ragazzo un sorriso a mezza bocca – più ebete, che sincero. «buon… buon lavoro, ci vediamo.» o forse no, insomma; dopo quell’uscita infelice, degna della balbuzie di un figlio che ancora non sapeva di avere, era più che probabile che non si sarebbe mai più fatto vivo lì dentro: da allora in poi, i ragazzi che si ferivano davanti ai suoi occhi, nell’Infermeria ce li avrebbe lanciati in volo dalle finestre.
    Con un «vedi di riprenderti» al Pottinger ed i pugni stretti ancora affondati dai pantaloni, decise quello fosse il momento più adatto per uscire di scena, tornare in classe per mandare tutti straordinariamente nei propri dormitori, e strafarsi di biscotti allucinogeni con Erin: la giornata perfetta.

    Fatto sta che (fatto stava: spoiler alert, dopo aver mandato a casa Erin, non aveva smesso di darci dentro con gli psicogeni, passando direttamente al suo fido amico Spinello), sebbene avesse detto a Stiles di lasciar stare, lui era comunque andato al locale magico: aveva bisogno di staccare, di fingere di non essere diventato un Adulto tutto d’un tratto, di distrarsi. Non avrebbe mai ammesso, a se stesso quanto ad anima viva, che sperava che il redivivo bastardo si presentasse comunque: non voleva darsi false speranze.
    Per sua fortuna nella vita aveva quelle due merdine dei suoi migliori amici, pronti a staccare dalla routine in qualsiasi momento e svagarsi in discoteca una tantum.
    Per sua fortuna, insomma. «mi sono perso bells e arci.» relijah in the background: almeno non te li sei persi nel frickin bosco.
    Erano andati a limonare – tra loro, con gente, con i pali (#Archibald), con gli specchi (#Arabells): non è che cambiasse molto – ? Lo avevano semplicemente abbandonato? Si erano semplicemente persi? Sì. L’unica cosa certa era che, con il telefono scarico ed in mezzo ad un bordello di gente nella pista da ballo, era rimasto solo.
    Con estrema fatica, riuscì ad emergere dalla marmaglia, fiondandosi con poca grazia addosso al bancone. «fammi… qualsiasi cosa.» biascicò al barman, lasciandogli libera scelta di interpretazione: poteva decidere di fargli un cocktail a propria scelta, di dargli un po’ di qualsiasi cosa avesse a disposizione, o rispondere all’ammicco un po’ brillo ed attenderlo nei bagni.
    Non aveva nulla da perdere – tranne il proprio stipendio: quello sì.
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    deatheater
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    jeremy-albert-milkobitch
    I let my guard down And then you pulled the rug I was getting kinda used to being someone you loved.
     
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    holophrasis
    (n.) the expression of complex ideas in a single word or phrase
    «ricordi le regole?» glielo domandava ogni giorno, ogni ora, ma Stiles aveva scoperto che i gesti abitudinari fossero il metodo migliore per sopravvivere allo scorrere del tempo senza perderci la testa. Come facevano i vecchi, esatto, ma senza le storie interessanti di altri tempi, altri guerre, altri sapori da condividere con i propri nipoti: senza tutto, se non un fottio di minuti da riempire, e consumare, di modo da allentare la presa dell’ansia sull’attesa. Si teneva banalmente impegnato con schemi e tabelle di marcia, ingoiando l’angoscia insieme ai litri d’acqua che sopperivano liquidi ben più tentatori. Andrew Stilinski cercava di non pensarci, ma che fosse razionale o meno, non poteva evitarlo: stava in uno stato di costante eccitamento da caffeina e apprensione all’idea di non sapere cosa cazzo stesse succedendo, che era un po’ come giocare a baseball con un braccio ed a cricket con l’altro. Il fatto che Abbadon, Seth, quel cazzo che gli pareva, non fosse una figura pubblica predominante nella loro società, e preferisse invero l’esistenza da guest star eremita, lo teneva sulle spine come un cazzo di fachiro. Sentiva che la sua vita dovesse avere un qualche fottuto senso, ma non riusciva a trovarlo: carne da cannone? Cibo? Passatempo? Perchè manco per un cazzo di secondo l’ex Tassorosso si era convinto che la sua resurrezione fosse un atto di buon cuore: doveva esserci un obiettivo, altrimenti non - non aveva senso. Non aveva senso. E quella mancanza di senso era intollerabile per Stiles, che ogni secondo di ogni fottuto minuto - ora, giorno, settimana, mese - l’aveva passato aspettandosi il peggio.
    che fosse tutto un incubo.
    Un sogno.
    Entrambi.
    Che ogni respiro fosse l’ultimo.
    O magari il secondo. O magari il terzo.
    Era diventato paranoico, e la privazione del sonno non aiutava. I livelli di tensione dei nervi del moro avrebbero potuto tenere illuminata una cittadina di medie dimensioni per almeno un annetto – forse di più. E non sapeva cosa farci; non sapeva come parlarne, cosa dirne, come uscirne: era peggio dell’alcolismo, quella puttanata lì. Il giorno prima aveva perfino messo in dubbio, leggendo articoli su internet, l’esistenza dell’Australia (in effetti...non l’aveva mai visitata, no? E come poteva essere certo, prendendo un mezzo di trasporto, che la terra raggiunta alla fine del viaggio fosse effettivamente l’Australia? mica ce l’aveva scritto sopra come la Cina o Hollywood). «se non sento il timer, dammi una scossa» aveva un timer all’ora per non rischiare di addormentarsi durante la giornata. Dopo mesi di notti insonne, aveva raggiunto il traguardo di tre ore – due e mezza, ma si abbonava mezz’ora di vegetare fissando il soffitto - consecutive di sonno, eppure il suo corpo non era ancora convinto che fossero abbastanza, cercando di assopirlo anche sul luogo di lavoro: lui shockbasito. «annuisci se hai capito» Pikachu, che passava le sue giornate al castello fingendosi un pupazzo (come Kerochan di Sakura, sì), ricambiò la sua occhiata con solenni, e non troppo amichevoli, occhi neri: «pikaaaaaa-» «non fare l’offeso, no n-» «cHUUUUUUUUUUUUUUUU» vendetta vera, non finirò in galera. La porta decise di spalancarsi nell’esatto momento in cui Pikachu, yellow!Giuliano o Gialliano per (Jay) gli amici, afferrava la caviglia di Stiles dandogli una scossa che non aveva nulla da invidiare ad un defibrillatore. Scattò in piedi alla stessa velocità con cui un ragazzino venne lanciato (venne lanciato?) su uno dei lettini, sobbalzando sul posto con all’incirca la stessa frequenza. Uno avrebbe anche potuto pensare che ai morti-e-redivivi facesse comodo avere un defibrillatore portatile, ma erano più le volte in cui lo portava vicino all’ictus che quelle in cui lo salvava. Premette una mano sul petto cercando di quietare un battito cardiaco che aveva oramai superato il rate di Usain Bolt, scrollando le dita nell’aria per liberarsi delle staticità rimasta appiccata ai polpastrelli. «questo cretino» i came out to have a good time and i’m honestly feeling so attacked right now. Perchè ovviamente, ovviamente, Andrew-Coda-Di-Paglia-Stilinski, ancora la vista sfocata ma un udito perfettamente funzionante, nel sentire la voce di Jeremy non potè che sentirsi preso in causa. Perchè? Cento e più motivi, ma in realtà...di principio. Se qualcuno nel giro di cento metri diceva cretino, se Jeremy diceva cretino, per puro istinto ed abitudine Stiles alzava confuso lo sguardo senza domandarsi cosa avesse fatto, ma quando. Faceva tante cazzate nella vita, però tendeva a non rendersene conto ed a peccare le tempistiche.
    Prima reazione: panico.
    Seconda reazione: confusione.
    Terza:
    Rimase immobile a fissare Jeremy Milkobitch che gesticolava ed imprecava senza realmente ascoltarne mezza parola. L’intero discorso parve giungere ovattato, denso, soffocato da frasi ed accuse legittime percepite solo nella mente di Stiles, troppo impegnato a deglutire per formulare mezza parola. Si sentiva stupido - più del solito - colpevole - come sempre - ma principalmente, ogni qual volta incrociasse il sentore (lavoravano insieme da mesi, ma nessuno dei due aveva fatto cenno di essere consapevole dell’altro) di Jeremy fra i corridoi di Hogwarts, si sentiva… triste. Tolta la nausea data dal senso di colpa, tolto a vergogna che da sempre invadeva lo spazio personale dello Stilinski, rimaneva solamente quello: patetica, banale, tristezza nuda e cruda. Non era fatto per la nostalgia, Stiles; nostalgia significava sentire la mancanza di qualcosa che non era più, ma loro non avevano mai avuto qualcosa: era quello a costringere infine lo sguardo caramello ad abbassarsi, la lingua ad umettare le labbra. Era quello che avrebbero potuto essere, a turbarlo; era sapere di aver rovinato tutto, due volte. Erano sempre i quasi a fottere e lasciare amaro in bocca.
    Non indietreggiò fisicamente quando incrociò lo sguardo di Jeremy, dopo quelli che sembravano anni, solamente perché la sedia a premere sui polpacci glielo impedì.
    Dì qualcosa
    dì qualcosa
    dì qualcosa
    Ti prego Stiles dì qualcosa. Poteva giurare di vedere il proprio battito in colorate onde porpore inquinare l’aria di fronte a sé; non si sarebbe stupito se dopo le allucinazioni visive, fosse giunto il momento della sinestesia. Battè le ciglia, e tornò a respirare, solamente quando l’allenatore di Quidditch abbassò lo sguardo verso il ragazzino sanguinante steso sul lettino.
    Aspetta. rAgaZzInO sANgUiNaNTe sTeSo SuL LeTtINo?
    «il miO BRACCIOH SI STACCAH»
    «il suO BRACCIO SI STACCAH?»
    «non si stacca, ragazzino.» Nè Stiles né il ragazzino in questione sembrarono convinti delle parole del Milkobitch, ma, dovendo essere un buon esempio per i giovani: «peccato; le braccia robotiche vanno una bomba di questi tempi» finger gun verso Richie; l’ottimismo era il profumo della vita. «puoi dire a dakota quel che ho detto a te?» eh? Rimase ancora un paio di battiti a fissare in denso silenzio il ragazzino sperando che in quei pigri occhi scuri nascondesse Le Verità Dell’Universo, cercando di ignorare il sapore di bile alle labbra al sentire quanto vuote fossero quelle parole. Che si era aspettato, d’altronde? Niente sarebbe stata la risposta saggia, quella che Dio avrebbe voluto fosse onesta, ma perché mentire ancora a se stesso? Stiles voleva sentire qualcosa. Fastidio, rabbia, si sarebbe fatto andare bene perfino odio, piuttosto di quella vacuità. Egoista, ed egocentrico. «uh, sì...certo» il fatto che non avesse assolutamente idea di cosa avesse detto, entrava in secondo piano rispetto ad una buona, fantastica!, motivazione per concludere quell’agonia nel più breve tempo possibile. Fuggire, d’altronde, era la sua tattica preferita da ventitrè anni a quella parte.
    Ha funzionato benissimo, dicono. Annuì mordicchiandosi il labbro inferiore, lo sguardo a saettare sull’infermeria come se Dakota fosse nascosto sotto uno dei lettini. Come stai? Come ti trovi a lavoro? Cosa succede nella tua vita? domande che lasciò sospese fra un dondolio e l’altro, fra un passo e quello dopo mentre si allontanava dalla scena del crimine. Era… era frustrante. Aveva rimandato così a lungo quei quesiti, che riprenderli sembrava superficiale e stupido. Più passava il tempo, più difficile era tornare sui propri passi, e più le menzogne si allungavano rendendo la strada di ritorno meno percorribile. E se l’era scelta lui, quella vita.
    Ma ci pensate. Afflosciò le spalle, percependo come una carezza fisica tutti gli insulti che Murphy gli avrebbe rivolto se l’avesse visto in quel momento. COSA INSEGNI A NOSTRO FIGLIO, «stiles-» si fermò. Non si rese conto di aver trattenuto il respiro in piccoli sbuffi, fino a che un fiato più lungo degli altri non liberò i polmoni. Stiles. Bastava solo quello a far vacillare la volontà dell’ex Tassorosso?
    sì. Sempre. Ecco perché aprì la bocca, perché inspirò ancora pronto ad espirare due parole. Solo due, che pulsavano nella testa dello psicomago da giornisettimanemesi - sempre quelle due. «mi -» dispiace? Anche, ma non era quella la parola rimasta incastrata in gola nel momento in cui si volse verso Jeremy. Il problema di Stiles, uno fra i tanti, era che fosse un codardo. Dal giorno in cui era nato, fino a quello in cui era morto - e quelli a seguire. Non era coraggioso.
    «senti, ti va…..stasera…lilum… fiendfyre…»
    Battè le ciglia una volta, due, cercando di decidere se si trattasse di una delle sue (oramai usuali) allucinazioni visivo-uditive, o se fosse reale. Non ebbe tempo di rispondere; non ebbe tempo di capire, che l’altro se n’era già andato con un amaro e conclusivo ci vediamo.
    La porta dell’infermeria a chiudersi.
    Silenzio.
    «hai sentito quello che ho sentito io?»
    Richie gli lanciò un’occhiata confusa e sofferente. Nel notare la sincera confusione sul volto dello psicomago, si limitò a stringersi nelle spalle. «credo di sì????» Cos’era appena successo. Gli aveva….chiesto di….uscire? In che senso. Perchè. @jeremy explain in che senso JEREMY????????????? ma con i suoi AMICI???? LORO DUE??? ???
    ???? «e adesso??» ????????????
    Pottinger, an intellectual: «vai a cercare l’infermiere wayne??????????????»
    «ah già. ma pensaci alla protesi, eh»
    Mi manchi.

    «non ha senso»
    «e invece sì»
    «e io ti dico che non ha senso»
    «sTILES»
    Inspirò, espirò. Infilò due dita nel colletto della t-shirt per racimolare un po’ d’aria, premendo il telefono fra spalla e guancia per far dondolare a peso morto le braccia lungo i fianchi. «probabilmente scherzava» Nessuna risposta dall’altra parte del ricevitore gli diede tempo, e spazio, per l’autocommiserazione. «cioè voglio dire, perché? E poi no, mi ha detto – e cito testualmente - “lascia stare”» «murph, dì a stiles di indossare la coppola della fortuna» «ti sente, siamo in vivavoce» «stiles, la coppola. Fidati di me, funziona» un grugnito familiare rombò attraverso l’auricolare del telefono, e la voce secca di Nicole interruppe il vociare di Murphy e Sin: «stiles, per favore, non indossare la coppola della fortuna.» Quanto li amava. Chiuse gli occhi e sorrise, sorrise sul serio, scaldato dalla sola idea di immaginarli riuniti attorno al telefono per dargli supporto. La famiglia serve a questo, no? Lo dava per scontato, Murphy Skywalker, come se fosse del tutto logico, ma Stiles aveva imparato cosa significasse famiglia solamente quando i fremelli erano apparsi nella sua vita: gli alti ed i bassi, le comprensioni e le incomprensioni, la solitudine e l’esserci dentro insieme. In tutto questo, credevate forse che Jay fosse salvo? Certo che no. Si era sorbito le pare di Stiles a casa, ed aveva firmato (letteralmente firmato) un foglio dove confermava che l’avrebbe raggiunto se le cose si fossero messe male, ed avrebbero bevuto insieme succo al mirtillo fino ad essere strafatti di zucchero e vitamine.
    Che poi
    «ma perché ne sto parlando con voi» davvero. Non sapeva neanche cosa ci fosse da dire, o quale fosse il problema. «non è...» non era tante cose. «non significa niente» bisbigliò, ignorando il volume troppo alto proveniente dalle casse, roteando il liquido trasparente nel bicchiere.
    Deglutì.
    «è stato stupido» e c’era un intero universo, dietro quelle tre parole. Era stato stupido fingere una relazione, era stato stupido fingere non la fosse, era stato stupido morire, e soprattutto «sono davvero stupido» fingere di non ricordare. L’aveva fatto per un buon motivo, Stiles. Lo stesso buon motivo che non riusciva mai ad essere abbastanza convincente ogni volta che scorgeva mezzo profilo di Jeremy Milkobitch.
    «fammi...qualsiasi cosa»
    Sorpreso, nel tentativo di chiudere la chiamata con le sue cheerleader fece cadere il telefono a terra. Passò un paio di terrorizzati secondi a far rimbalzare lo sguardo dal telefono, in procinto di essere calpestato, al ragazzo accasciato sul bancone.
    Scelte. Priorità. Scelte.
    Ma poi che ci faceva lì perché era andato lì Gesù e ora in che senso come funziona cosa succede mi nascondo dietro un menù - CONTEGNO!
    Si schiarì la voce.
    Osservò il soffitto.
    Si schiarì ancora la voce, un po’ più forte.
    Con noncuranza, facendo ondeggiare l’acqua come un vero somelier intellettuale, prese il respiro più profondo della storia e si avvicinò di qualche centimetro a Jeremy Milkobitch. Tono di voce distinto? Check. Espressione solenne e matura? Check. Conceal don’t feel don’t let them know. «sono venuto» così, anche un po’ deadpan, seguito dal sospiro con cui aveva a fatica riempito i polmoni. Fu l’occhiata del barman a suggerirgli di aver fallito (Peralta’s voice: AGAIN). «intendo qui» indicò lo sgabello sul quale era seduto. Mission abort mission abort «VOLEVO DIRE CHE SONO VENUTO QUI PER LUI»
    Il Barman si stava domandando cosa stesse succedendo.
    Stiles, si stava domandando cosa stesse succedendo, mentre sentiva le guance andare a fuoco e la pazienza farsi sempre più sottile.
    Anche Morgan in background, stava domandando cosa stesse succedendo.
    (Santa Rita Pavone: qui non succede proprio niente.)
    Gesticolò vago in direzione di Jeremy senza realmente guardarlo. «cioè, per te, nel senso che -» asciugò un filo di sudore sulla fronte, chiudendo gli occhi e facendo schioccare la lingua sul palato. Cos’aveva che non andava. In quale senso? Che diritto aveva di dirlo, di pensarlo? Lanciò un’occhiata al proprio fianco, osservando un Jeremy Milkobitch che aveva visto dieci, cento, mille volte - che aveva raccolto dieci, cento, mille volte. Sentì il niente, lascia stare premere in gola.
    Sarebbe stato più coerente. Più giusto.
    Fu un bisbiglio appena udibile, quello di Stiles. «posso darti un passaggio a casa?» back to square one.
    rebel
    deatheater
    23 y.o.
    24 y.o.
    andrew-stilinski
    very proud to announce that i'm officially a lost cause! thank you all for your continued support, unfortunately it was all for nothing!
     
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    alexithymia
    (n.) the inability to express your feelings
    «mio?» c’era davvero dell’assurdo, nella velocità con cui il barman aveva deciso di rispondere alla richiesta del Milkobitch, lasciando sul bancone un cicchetto di… tequila? Vodka? Era così limpido che, per quanto ne poteva capire Jeremy in quel confuso momento, poteva essere anche acqua di rubinetto. Non che potesse interessargli più di tanto: l’importante era lubrificare la gola con qualsiasi cosa, e in caso non si fosse trattato d’alcol avrebbe rimediato gettandosi direttamente dietro la postazione; aveva esperienza pregressa dal Better Run, dopotutto, poteva mostrare il proprio curriculum e passare lì il resto della serata – a bere con gli altri clienti a spese della direzione del Fiendfyre, mica a fare qualcosa di utile per il locale. Stando all’odore a pungere le narici nel primo momento, ed al fuoco divampatogli nella bocca in quello immediatamente successivo, non era acqua. «veramente… no» e, a quanto pareva, non era nemmeno suo come aveva creduto da subito: shocked & upset. «quello era il mio shot» troppo rapidamente, per un corpo che pensava fosse solamente brillo e perciò aveva sottostimato le controindicazioni del muoversi veloce, si voltò verso la ragazza che aveva osato fargli notare un tale insignificante dettaglio. Ci misero un po’, gli occhi celesti, a mettere a fuoco la figura al suo fianco: capelli mossi e ramati, un bel viso tondo ed affatto lucido di sudore, fin troppo composta; quello che le aveva fregato doveva essere stato l’inizio della sua serata in discoteca, ed aveva già provveduto a rovinarglielo. Indicò la sua bocca, poi quella di lei; le ammiccò, sorridendo appena nonostante le guance gonfie ancora piene di distillato d’agave azul. L’ex Tassorosso era una di quelle persone cui l’ebbrezza poteva colpire in più modi, ma con una costante imprescindibile: se solitamente ci provava ad avere un minimo di contegno e di pudore – soprattutto considerando il fatto che avesse iniziato a lavorare a Hogwarts –, quando alzava un po’ il gomito entrambi andavano a farsi benedire; se possibile, e lo era, il Milkobitch era capace di provarci anche con la fuga tra due piastrelle senza provare un minimo di vergogna per l’impietose condizioni in cui versava. Ragion per cui, stava esattamente proponendo alla ragazza di versarle tutta l’Espolon tramite le proprie labbra: se proprio rivoleva indietro la sua consumazione, quello era l’unico modo che aveva per ottenerla; poteva ripagargliela, ma dove sarebbe stato il divertimento? «ehi, ci stai provando con la mia ragazza?» arcuò le sopracciglia, sollevando lo sguardo verso La Voce; dovette anche battere più volte le palpebre, per mettere a fuoco la silhouette. «ma no, figurati!» sorrise, Jeremy, all’energumeno di fronte a lui, ingoiando quanto rimasto sulla punta della lingua in attesa di una risposta della ragazza. Ma guarda te, oh!, se uno non poteva nemmeno affogare i propri dispiaceri nell’alcol e provarci con il primo (errata corrige, con il secondo: dal barista stava ancora aspettando una risposta che lo soddisfacesse) essere umano che gli capitava a tiro; alzo il braccio, scuotendo la mano come a scacciare l’insana idea del fidanzato geloso. «tanto non è interessata. dai emily, andiamo» ma dal sorriso di Emily, non sembrava davvero.
    Ormai letteralmente sdraiato sul bancone, con i vibes dei primi anni duemila a rimbombargli nelle orecchie quando Infinity iniziò a pompare nelle casse, fece scivolare nuovamente le iridi chiare oltre il mogano levigato. «tornando a noi-» «sono venuto» … ah, ochei? Un sopracciglio corvino sollevato, la risposta del moro fu pronta, e dipinta con la dovuta malizia sul sorriso a piegare le labbra. «di già?» insomma, non lo biasimava, ma c’era un limite a tutto.
    E se solo, se solo avesse aspettato un secondo in più prima di rispondere, avrebbe fatto connettere i neuroni prima di proferir parola. Perché quella voce, nonostante la musica fosse alta e fastidiosa, Jeremy l’avrebbe riconosciuta ovunque. L’aveva aspettata per così tanto, che diventava un battito mancato nel petto ogni qualvolta gli tamburellava nei timpani. Dapprincipio aveva saputo fosse dello Stilinski, ma forse in un primo momento non aveva voluto crederci davvero; da quando aveva messo piede al Fiendfyre, era stato sicuro non si sarebbe presentato a quel… quel qualsiasi cosa fosse. Perché avrebbe dovuto rispondere a quell’invito, d’altronde?
    In fondo, aveva addirittura sperato lasciasse realmente stare: sarebbe stata la volta buona per mettersi l’anima in pace, finire lì qualcosa che non era nemmeno mai iniziato, e tornare ad essere quel che erano stati prima dell’ottobre di due anni prima. Amici; almeno quello – almeno, per riuscire a non dover cambiare strada ogni volta che temeva avrebbe potuto incontrarlo nel Castello.
    Se avesse collegato in tempo il filtro tra cervello e voce un attimo prima, avrebbe risposto diversamente – ma non di certo in maniera più consona. Lento come piace a me, magari: era un dato di fatto, che ci avesse messo quasi tutta la notte per decidersi ad arrivare. «intendo qui» forse avrebbe dovuto dirglielo di stare zitto, invece di corrugare la fronte e seguire con lo sguardo quello del barman, posandolo confuso sullo sgabello. Che ormai sapesse interpretare lo psicomago, non rendeva il tutto meno… meno Stilinski. «VOLEVO DIRE CHE SONO VENUTO QUI PER LUI» che carogna che sapeva essere, Andrew. Sorrise, ma senza riuscire a nascondere un velo di mestizia negli angoli; sbuffò divertito, ma non alzò il capo verso l’altro.
    Perché non ci riusciva? Perché, la prima cosa a balzargli per l’anticamera del cervello, era che l’avesse fatto solo per non dargli un dispiacere? «cioè, per te, nel senso che - posso darti un passaggio a casa?» ecco il perché. Era, citando testualmente, venuto lì solo per riportarlo a casa con ancora una dignità addosso – senza contare fosse in ritardo di diversi anni, per quello – ? Voleva… cosa voleva, esattamente?
    Jeremy Milkobitch, non ne aveva alcuna idea; si disse che stava viaggiando troppo con la fantasia, che non doveva fare così. «okay,» si strinse nelle spalle, arrendevole, decidendosi solo in quel momento d’alzare gli occhi lucidi – sonno?, ubriachezza?, decisamente altro? – verso Stiles. «ma prima» batté una mano sullo sgabello. «siediti qui dove sei venuto per me.» Dio, sembrava ancora peggio messa così – o era solo il suo cervello, difficile da dire; fatto sta, che rise da solo. «stiles, ti presento» «kevin» «kevin! noi» se non fossi arrivato a salvarmi probabilmente me lo sarei portato nei bagni del personale. «siamo molto amici.» «ah sì?» il Milkobitch chiuse gli occhi, annuendo greve e solenne. «amicissimi; kevin, lui è stiles e» e cosa. Si morse le labbra, deglutendo bile e parole che non poteva dire: tipo che gli mancasse, che aveva pensato avrebbero potuto avere qualcosa insieme, che lo aveva abbandonato ma era rimasto ad aspettarlo tutto il tempo – che, Cristo, lo avrebbe atteso ancora di più; che ancora lo stava aspettando. «gli voglio davvero un sacco di bene» vero, e sicuramente un eufemismo. Si voltò verso l’amico, cercando di farsi serio. «ci porti due shottini al volissimissimissimo? però per lui analcolico.» poteva essere lercio come le merde, ma certe cose le ricordava. «questo e poi andiamo, giuro; ci stai?»
    Perché se davvero avesse dovuto lasciarlo a casa, almeno sarebbe stato talmente ubriaco da non ricordarsene nemmeno. Già lo era abbastanza: nemmeno si era accorto del tempo che era passato e del bicchierino già nella sua mano. «cin cin?»
    Cin cin.
    Giù, come fuoco ad ardere le pareti della trachea.
    Panacea ad ogni male. «okay, sono pronto.» si alzò di scatto, la testa a vorticare come un mulino a vento. Fu a mezza bocca, che disse a Stiles un’unica parola: «usciamo.»
    Non era pronto.
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    holophrasis
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    «di già?» una piccola gioia c’era, in quell’universo infame, e non si trattava d’altro che della sordità di Andrew Stilinski. Così ovattato dalla musica, dall’afflusso di sangue alle guance ed il battito sulla lingua, da non sentire il mugolio di un Jeremy mai troppo lucido, perché allora sì che i suoi livelli di colesterolo l’avrebbero portato ad un infarto. Ne aveva visto l’espressione, però - ma senza registrarla. La patina sugli occhi a sbiadire appena, il sorriso ad abbandonare le labbra con la lenta viscosità di un ultimo goccio di succo dal cartone, le spalle ad incassare ed incassarsi e Gesù, era solo colpa sua. Non aveva voluto registrarlo - un innato, ed insensato a quel punto, istinto di conservazione – ma percepito ad un livello più profondo, quello che gli faceva dondolare la gamba un po’ troppo rapidamente e gli impediva di pensare. Che forse sarebbe stato meglio, non pensare per un po’. Semplice ricadere nelle vecchie abitudini, appoggiare le labbra ad un bicchiere e ingurgitare fino ad affogare il rimorso in un mare tossico e violento, stringersi nelle spalle e avvicinarsi un po’ di più al Milkobitch, perché per Stiles era diventato più normale entrare nei suoi spazi che rimanere nei propri. Ma non poteva. Ma non voleva, ed allora ingoiò ancora saliva trascinando lo sguardo caramello sulle proprie mani, desiderando solo di poter sparire per un secondo o tre anni. Perchè sei così. Avrebbe voluto avere una risposta – per sé, per Jeremy, per chiunque avesse avuto la [hyde’s voice, nascosto dietro il bancone] tragedia di averlo nella propria vita – ma non la aveva. Era insicuro, era stupido, era...Stiles. E le mani che stava fissando le fissò sotto il mento a coprire la bocca con le dita, per impedirsi di dire altre cazzate e meno cazzate che l’avrebbero però fottuto di più. Tipo non fare quella faccia, che se lo sentiva prudere sul palato e fra i denti. Perchè fai quella faccia, ma era piuttosto sicuro di sapere già la risposta, e che non gli piacesse. Una fitta ad un punto imprecisato del costato, lo sguardo strappato un’altra volta da Jeremy perché si agganciasse ad altro - a qualsiasi cosa - che tutto era meglio del sorriso stretto fra i denti del Milkobitch che un sorriso non sembrava esserlo affatto. Mi dispiace mi dispiace mi dispiace era oramai un mantra che seguiva lo stesso ritmo della musica a pulsare dalle casse, forse solo di una frazione più lento rispetto al cuore già salito alla trachea. «okay,» Okay. Un okay andava bene. Un okay era un segno positivo, e come tale l’avrebbe interpretato se - se. Un basso verso inarticolato defluì dalla bocca dischiusa dell’ex Tassorosso prima che potesse metterlo a tacere, il capo a cascare così bruscamente che se non ci fossero stati i palmi a sorreggerlo, avrebbe sbattuto sul balcone. Perchè. Perchèperchèperchè. Sentiva una pressione fisica allo sterno, un calore freddo che affondava la sua lama in gola pinzando la lingua al palato. Non guardarmi così. Perchè? Perchè lo guardava così, perché non voleva lo guardasse così, perché e basta. Aprì la bocca e la richiuse sperando bastasse ad articolare qualcosa – un respiro, una parola – ma la richiuse senza aver detto nulla e senza aver ossigenato a dovere il cervello. C’era una parte di Stiles, abbastanza prepotente da renderlo grato di avere le mani impegnate, che avrebbe voluto allungare le dita verso la sua guancia e ...schiaffeggiarlo, o stringerlo, o forse solo appoggiarvisi per sentire il calore sui polpastrelli; ma ce n’era un’altra, più radicata nel suo essere uno Stiles che lo pregava di andarsene, di non guardare, di tornare alla propria triste vita senza concedersi quello - dove con quello s’intendeva Jeremy Milkobitch, ed il come aveva poca rilevanza. «ma prima siediti qui dove sei venuto per me.» Barista, uccidimi. Si chinò per recuperare il telefono, cauto in ogni movimento come fosse stato alle prese con un animale selvatico, prima di sedersi sullo sgabello. Forse era così - o forse era lui, la bestia fra i due.
    Assai più probabile. Stiles si disse che sarebbe stato tutto maledettamente più tollerabile, se Jeremy-Albert-Milkobitch non avesse avuto quella calda risata poco sobria che spesso, quasi certamente troppo spesso, aveva sentito vibrare direttamente sulla pelle. «stiles, ti presento» «kevin» «kevin! Noi siamo molto amici. » Okay? Fece rimbalzare gli occhi caramello da un ragazzo e l’altro, un sopracciglio sollevato. «bene?» «amicissimi; kevin, lui è stiles e» La sentì, quella pausa. La sentì in forma fisica, tanto da stirare le spalle e inspirare un po’ più a fondo, tanto da non guardare l’espressione di Jeremy, concentrandosi invece sulla fila di bottiglie tremendamente invitanti alle spalle del tipo losco – Kevin, sks. «e?» lo invitò, così sottilmente che neanche lui stesso percepì la vocale abbandonare la bocca intorpidita. «gli voglio davvero un sacco di bene» Non quello che si era aspettato. Decisamente non quello che si era aspettato, e trasparente spostò la propria confusione – condivisa con Kevin – sull’allenatore di Quidditch. «davvero?» ebbene. Ebbene sì, signori e signori: Stiles lo domandò sul serio, bocca dischiusa e occhi leggermente sgranati. Perchè era un codardo, e okay, e uno stupido, e okay, e come avrete intuito dall’attenta scelta degli aggettivi, ai propri figli aveva trasmesso letteralmente tutti i suoi tratti peggiori, ma era anche...spontaneo, più di quanto fosse necessario esserlo. Era genuino. Era reale - dolorosamente, crudelmente, reale.
    Fissò ancora stordito il bicchiere di succo sul bancone. Lo alzò ancor più confuso, ancor più sigillato nella propria atipica bolla, in un brindisi con un Jeremy che avrebbe davvero dovuto fermare da quell’ultimo shottino. Perlomeno, prima di alzarsi, si ricordò di pagare: un secondo dopo, e avrebbe già rimosso di doverlo fare – si conosceva abbastanza da saperlo. Perchè: «okay, sono pronto. usciamo» Iniziava la parte difficile. Quella dove Stiles doveva costringersi a non pensare – forse un po’ a non essere - e quella in cui, sorpresona!, si era cacciato lui, motivo per il quale non poteva trovare neanche un valido capro espiatorio su cui scaricare la propria tensione. Ma quello Kevin non lo sapeva, quindi si meritò un’occhiataccia e niente mancia.
    ...No okay, la mancia la lasciò comunque.
    «usciamo» ripetè meccanico, osservando Jeremy mentre cercava di alzarsi. Rimase inebetito un paio di secondi limitandosi a guardarlo traballare, attivando la propria coscienza solo poco prima che l’altro andasse a sbattere contro il pavimento. «ah, uh» scattò in piedi e si portò al fianco di Jeremy, squadrandolo indeciso mentre muoveva, apparentemente in crisi epilettica in pieno stile Riverdale, le braccia al suo fianco. «si cioè nel senso, ti do una mano – aspetta, uh, devo solo capire» punto. «come, uhm» si appellò a gesù, giuseppe, maria ed odino, mentre si obbligava a stringere infine un braccio sulla schiena dell’altro, inclinandosi appena perché potesse camminare appoggiandosi su di lui, ed abbassando la testa perché Jeremy potesse passargli un braccio oltre le spalle. Nulla di nuovo in quel del Fiendfyre, ma sempre un po’ sì. «ce la fai, io – ok, bene, ci siamo, uh» quello era un attentato. Un complotto. Si dovette fermare e portare la mano libera al cuore, perché quella vicinanza costretta da tutte quelle maledette persone che facevano cose e glielo spingevano addosso, stava diventando un po’ troppo estrema per il debole cuore dello psicomago. «non cadere non cadere non cadere» a Jeremy? Cosa dite, stava parlando a sé stesso, misurando ogni respiro perché rimanesse nella propria comfort zone e non attingesse al profumo di shampoo dell’altro – o dei suoi vestiti, o della sua pelle. Dio che peso, la vita della gente sobria. Come si sopravviveva a quello. «un ultimo – ok - sì» cosa sì, cosa. Reclinò il capo al cielo aperto di Hogsmeade recuperando gli anni di vita persa ed un poco d’aria; ne aveva davvero...davvero bisogno...per...ma perché si era proposto di portarlo a casa.
    Cioè, lo sapeva, ma pErChè. «rimpiango tutto» necessario, rivolto alle stelle ed a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. Umettò le labbra e guardò Jeremy senza vederlo, distratto da se stesso ed un tempo che non era più – il suo, il loro – sospirando infine più stanco, più arreso, più Stiles. Avrebbe potuto smaterializzarli all’appartamento dei Milkobitch, avrebbe fatto il suo dovere da stiles a cui voleva un sacco bene, ma sarebbe stato...un po’ troppo lineare, no? Troppo logico spostarsi da un punto A ad un punto B, troppo veloce, e Stiles voleva più tempo e più spazio. E cos’avrebbe detto, a Todd. Cosa voleva dire, a Todd- «sono stupido» asserì, perché era vero. Poi lasciò che il sorriso trattenuto fino a quel momento sbucasse da metà bocca, limpido quanto lo sguardo caramello posato familiare sul cascante profilo di Jeremy. Che alla fine andava bene anche così, no? Alla fine non era poi così lontano dalla sua zona; forse, dopo troppo tempo, ci era invece entrato. «ma anche te non scherzi» che era vero anche quello, e l’altra parte delle labbra accompagnò il sorriso fino agli occhi. Rinserrò la presa su Jeremy, ed estrasse la bacchetta.
    Puf.
    «non avevo detto a casa tua» si giustificò recuperando l’equilibrio smarrito nella smaterializzazione, battendo le palpebre su un appartamento vuoto, ma ancora – sempre – familiare. E sempre un po’ dolente, perché ogni tanto ancora si aspettava di veder spuntare la testa corvina di Isaac, o sentire la voce squillante di Sharyn mentre lo sgridava per qualcosa che, e fatevelo dire da un esperto, l’altro aveva sicuramente fatto. «non è neanche la mia» specificò rapido, perché da bro dudie homie che si preoccupa per l’incolumità dei propri amici a cui voleva un sacco bene a maniaco, il passo era breve.
    Pausa. «aveva più senso nella mia testa» riflettè, scaricando senza troppi complimenti Jeremy sul divano.
    Ma che dico senza complimenti, era stato cauto ed attentissimo - anche perché il guru dei losers era il guru del losers, se non era cauto finiva per lanciarlo sul tavolino e doverlo pure portare al san mungo. Ed allora che avrebbe detto a Todd ma intensifies. «ti...» abbandono, ciao. Battè ancora le palpebre, perché era un po’ surreale e si sentiva (ancora? Ogni secondo della sua vita) idiota - tu che stai leggendo: intendo più del solito - a ciondolare lì come un’anima in pena. Anche ad aver rapito Jeremy. Toh, Hunter: ecco da chi ha preso Meh; quella di Stiles era la versione estrema, però, non ripetete a casa.
    Abbandono. A giurarci, stava davvero per dirlo, e per fuggire nel corridoio così da schiantarsi, letteralmente, contro la porta del suo, di appartamento, e supplicare Jay di un veloce switch fremelli come ai vecchi tempi. «...porto un po’ d’acqua» compromessi.
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    very proud to announce that i'm officially a lost cause! thank you all for your continued support, unfortunately it was all for nothing!
     
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    «rimpiango tutto»
    Jeremy Milkobitch era stato, fino al momento in cui avevano messo piede fuori dal locale, assente rispetto tutto ciò che gli accadeva attorno; poco partecipe, più che completamente estraneo all’ambiente circostante. Si era lasciato trascinare, e nella maniera più letterale possibile, dallo Stilinski fino all’uscita, ma aveva percepito il suo braccio a tenerlo in piedi; aveva tenuto costantemente gli occhi socchiusi, più per le palpebre pesanti che non per il fastidio delle luci da discoteca, senza lesinare però guizzi cobalto da una parte all’altra del Fiendfyre – aveva potuto esagerare un po’, ma non per questo si era dimenticato di essersi portato dietro Bells ed Arci; glielo aveva detto, allo psicomago, che erano lì anche loro e che non voleva abbandonarli a loro stessi? Si era dissociato – non volontariamente, ma nemmeno del tutto nolente –, lasciandosi cullare dalla folla in subbuglio come un granello di sabbia durante una tempesta nel Sahara, ma non per questo era stato in grado di ignorare ogni frangente in cui la calca lo costringeva un po’ più vicino a Stiles; aveva vissuto tutto il tragitto con la stessa intensità di un forward su Netflix, con tanto di pause di caricamento e riflessioni non richieste, ma ciò non significava che non ne avesse approfittato al limite della disperazione, premendosi più forte contro il petto di lui anche quando non era richiesto – sapendo, nel profondo, che tutti quei gesti sarebbero stati giustificati dal caos e dal quantitativo di Jose Cuervo in circolo nell’organismo.
    Ma lui, non rimpiangeva un cazzo.
    L’aria gelida dell’esterno l’aveva riportato con una discreta ferocia nel limbo tra sobrietà e sbornia, rendendolo consapevole sia dello spazio-tempo che dei reflussi acidi a bruciare la gola – nulla di insopportabile, ma di certo qualcosa che ancorava alla realtà più di quanto non potesse mai fare la psichedelia di musica e macchine del fumo. E lo aveva fatto, il sempre uggioso e triste clima inglese, proprio in tempo per poter ascoltare e comprendere le parole dello Stilinski; magari interpretandole a proprio piacimento, magari senza dargli modo e tempo di rispondere in alcun modo. Magari, senza pensare che a nessuno – tantomeno all’altro – potesse interessare un cazzo di ciò che aveva da dire Jeremy. Dischiuse appena le labbra, privandole del sorriso beota con cui s’erano mascherate fino a quel momento e lasciando che un lieve tremolio le turbasse; tentò, fallendo, di inspirare più aria di quanto il suo organismo non fosse attualmente capace di contenere, trovandosi in difficoltà per qualche istante – nulla, però, di più normale. Ogni Catafratto che si rispettasse, e che si lerciasse, aveva le sue tecniche per accertarsi d’essere vivo e ancora parzialmente funzionale; per il ventenne era tentare di soffocare nel suo stesso respiro: se sopravviveva era vivo. Espirò, delicato e ad occhi socchiusi, sollevando il capo verso il cielo notturno di Diagon Alley; al «sono stupido» dell’altro, rise senza nemmeno rendersene conto. Un po’ vuoto, come se il suono avesse prima rimbalzato contro ogni parete interna del Tassorosso prima d’uscire afono dai polmoni – probabilmente, era esattamente quel ch’era accaduto. Divertito, ma non abbastanza; sincero, ma con quell’inevitabile sottotono di malinconia a rendere il tutto un po’ più falso. Avrebbe voluto fosse diverso, ma se lo sarebbe fatto andar bene comunque: in fondo non è che avesse tante alternative. «decisamente» sbuffò in una nuvola di soffice condensa, ed assolutamente privo di un contesto di riferimento per cui rispondere in tal maniera all’affermazione del moro. Era un dato di fatto, e più volte in tutti quegli anni, guardandolo mentre si dannava su se stesso e sui propri disagi, l’aveva pensato e spesso taciuto. Che il suo fosse un modo scherzoso ed affettuoso di crederlo, l’altro doveva ormai saperlo anche senza ricordarsi determinati punti della propria vita. Perché sei uno stupido, il Milkobitch si ritrovava a pensarlo nei momenti di dubbio del ragazzo; lo sussurrava, quando credeva di aver detto qualcosa di sbagliato od inopportuno. Glielo sputava in faccia con un semplice sguardo, senza bisogno di fiatare, tutte le volte che l’incertezza aveva la meglio sulle capacità che, da solo, sembrava non voler vedere: sei uno stupido, perché sei migliore di quanto tu non creda.
    Non aveva mai avuto davvero il diritto di dirglielo, figuriamoci allora. «ma anche te non scherzi», e nulla poté fare se non sollevare le sopracciglia e piegare gli angoli delle labbra verso il basso. Per quale motivo avrebbe mai dovuto contestare un’altra delle poche certezze della propria misera vita? Aveva avuto il migliore dei maestri – e per quanto Stiles fosse stato un buon mentore al riguardo da quando lo conosceva, quel titolo di diritto spettava a qualcun altro. «a forza di stare con mia sorella…» non completò la sentenza, lasciando spazio all’interpretazione. Un po’ perché era ovvio ciò che intendesse dire; un po’, perché non era nelle condizioni psicofisiche per mettere insieme così tanti vocaboli senza perdere il filo logico – che già, per la cronaca, era sfilacciato e pronto a rompersi da un istante all’altro. Ma era ancora integro; quantomeno, il tanto che bastava al finto biondo per stirare lo sguardo in una linea sottile nell’inquadrare il paesaggio e nell’avvedersi della stretta più ferrea. «ma dov’è la jeep?» l’aveva dato per scontato.
    Aveva creduto che anche Stiles gli volesse un minimo di bene – non pretendeva tanto, non più, ma quel poco che si riservava ad amici e conoscenti. Aveva ignorato il fatto che sarebbe stato più unico che raro vedere un’automobile nel quartiere magico, solo perché non voleva ponderare l’idea di un tradimento tanto meschino.
    E dire che credeva d’averlo ormai capito, che non ci si poteva fidare di nessuno su quel cazzo di pianeta.
    Quel che avrebbe dovuto essere un supplichevole no sussurrato a fior di labbra, in uno dei pochi momenti in cui aveva trovato il coraggio di fissare le iridi azzurre sul profilo gentile di Stiles, nel tempo di un sibilo sordo pregno di sofferenza e disperazione si trasformò in un conato di vomito a stento trattenuto; se lo aveva fatto, non era solo per amor proprio o per una dignità ritrovata. «ma che cristo, stilinski vaffanculo» ebbene: la voglia di prendersela con il ventiduenne era così tanta da prevalere sugli istinti più animaleschi e naturali del proprio corpo. «cazzo, potevi avvisarmi» e no, non del fatto che non l’avrebbe portato a casa propria – anche perché, non era nemmeno certo sapesse che abitava altrove ormai. Non si chiese nemmeno dove fossero, non era rilevante, ma a sentire l’altro mentre veniva abbandonato sul divano un campanello d’allarme suonò inevitabilmente nella testa dell’allenatore. Le spalle poggiate contro lo schienale del sofà, Jeremy sollevò uno sguardo vagamente inquietato. «vuoi uccidermi?» magari, magari!, fosse suonato divertito ed ironico; al contrario, il timore sincero c’era. Che ne poteva sapere, lui, che Abbadon non gli avesse fottuto il cervello ed ordinatogli di far fuori tutte le proprie conoscenze? «aveva più senso nella mia testa» annuì, come se quella fosse una verità inconfutabile – non che effettivamente non lo fosse.
    Abbozzò un sorriso, vedendolo sparire verso una stanza. In un primo momento, guardandosi attorno, aveva ponderato con interesse la possibilità di stendersi e morire lì, lasciandosi cullare dal torpore dell’alcol fino all’avvento di Morfeo; in seguito, dimentico della precedente idea come se fosse passata un’eternità da quando l’aveva formulata, si sollevò in piedi e – non con poche difficoltà – seguì Stiles, accendendosi una sigaretta maldestramente recuperata dal pacchetto ciancicato nella tasca posteriore dei pantaloni. Fu istintivo, quasi non se ne rese conto: non aveva nemmeno alcuna ragione di farlo. Era brillo – insomma, ubriaco, ma con abbastanza coscienza di sé da riuscire sia a stare in piedi che evitare di finire in coma; si poteva addirittura supporre che stesse scemando, ma lungi da lui l’essere completamente sobrio –, era stanco, ed era sicuramente stato trascinato in una casa vuota solo per smaltire l’ebbrezza prima di tornare a casa propria senza correre rischi. L’avesse almeno portato a casa sua, Stiles; avrebbe potuto supporre che volesse… parlare? Qualcosa del genere, forse – ma no, qualsiasi luogo più impersonale e distaccato sembrava fare al caso suo. Al caso loro.
    «sei una merda» così, senza preamboli. Quanto tempo era passato da quando gli aveva detto che sarebbe andato a prendergli un po’ d’acqua? Onestamente, Jeremy non avrebbe saputo dirglielo. Sapeva soltanto che l’oggetto che gli aveva lanciato perfettamente – sì che aveva i sensi alterati, ma era comunque un Cacciatore: la mira non gli mancava, e non lo avrebbe mai fatto nemmeno nelle situazioni più tragiche – contro la nuca era qualcosa di morbido e leggero, forse una pallina di gomma o al massimo di carta, recuperata dal pavimento durante il tragitto fino alla cucina. E con altrettanta sicurezza, poteva affermare che il broncio infantile con cui aveva piegato le labbra prima di appoggiarsi contro lo stipite della porta avrebbe potuto significare tutto, e non significare nulla – tristezza, sarcasmo, delusione o sincero divertimento: stava a Stiles deciderlo.
    Una delle poche e vere certezze che aveva, però, era racchiusa in quelle tre parole: sei una merda.
    Per essere morto nonostante l’avesse supplicato di resistere – per lui, per Nicole, per quei ragazzi che facevano e sempre avrebbero fatto affidamento su di lui – ? Per aver dimenticato, per averlo dimenticato, ed essere tornati a quel nulla che erano stati prima? Per averlo abbandonato, anche lui?
    «davvero» e già non si riferiva più all’insulto; quello voleva essere solo un saluto – un “ehi Stiles, sono qui, non dire o fare cose strane”. Stropicciò la palpebra chiusa con il palmo della mano, stordendosi da solo nell’aprire gli occhi e vedere quante particelle luminose gli danzassero davanti al volto. Dopo un primo – eterno – secondo di titubanza, avanzò verso lo Stilinski: la voglia di prenderlo per la collottola e sbatterlo al muro, quella c’era sempre; tuttavia, aveva sincero bisogno dell’acqua che era andato a procurargli. «credi davvero così assurdo che io possa volerti bene?» l’aveva lasciata scivolare con apparente nonchalance, quella domanda, afferrando il bicchiere e poggiando la schiena contro il primo oggetto solido alle sue spalle – scaffali? Finestra? Muro? Chi poteva esserne sicuro. Prima che potesse andare in iperventilazione, aggiunse: «sì, ti ho sentito al bar» che cosa poteva farci, se aveva orecchie solo per lui quando era troppo nelle vicinanze? Non era nemmeno colpa sua, che lo ricordasse abbastanza da far pesare l’argomento: in quel momento, si odiava probabilmente più di quanto Stiles non avesse mai odiato se stesso. Una bella sfida. Abbassò lo sguardo, avvicinò il bicchiere alle labbra – ma non bevve; preferiva sentire il proprio stomaco brontolare e morderne il bordo, piuttosto. «se vuoi, evito.»
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    (n.) the expression of complex ideas in a single word or phrase
    Tacque per un tempo imprecisato. Tacque, Andrew Stilinski, pur sapendo cosa dire, perché il come continuava a scivolare dalle labbra alla gola dove s’arrotolava impedendogli di respirare. Rimase in silenzio perché non aveva senso rispondere, ed aveva senso non farlo; non disse nulla per secondi, o forse minuti, che parvero ore ed ere, semplicemente perché il tempo non aveva importanza, non quando la sua vita era scandita a battiti non sempre cadenzati. Chiuse gli occhi, la lingua ad umettare le labbra ed i palmi stretti al bordo del lavandino, testardo e patetico nel non voltarsi a fronteggiare Jeremy Milkobitch. Si concentrava sulle piccole cose, come la sensazione di freddo contro i polpastrelli e quella del tessuto della maglietta che scivolava sulle spalle ad ogni respiro. Forse se avesse taciuto abbastanza a lungo, Jeremy si sarebbe dimenticato di avergli fatto una domanda; forse si sarebbe stancato di aspettare, o forse l’alcool avrebbe avuto la meglio facendolo collassare privo di sensi sul pavimento della cucina. Forse non avrebbe dovuto affrontare quella stretta al petto, quella rabbia - giustificata, ma riflessa sempre sulla persona sbagliata – a cementare i palmi contro il metallo della vaschetta. Cercò d’ingoiare tutto, saliva e bile e perchè fai così, perché sei così, strizzando le labbra fra i denti fino a che il dolore non lo riportò alla realtà.
    Solo allora aprì gli occhi, lento e metodico nel mettere a fuoco l’armadio ancora aperto sopra il lavandino con posate lavate e lasciate a prendere calcare. «non è questione di volere» scandì infine, sentendo la voce roca e graffiante. Era uno psicomago, buon Dio, sapere cosa dire, come dirlo e quando farlo era il suo stra maledetto lavoro, eppure quando concerneva la sua persona, trovava sempre complesso trovare la quadra entro la quale spostarsi. Qualcuno l’avrebbe definito incoerente, uno che predicasse bene e razzolasse male, altri l’avrebbero semplicemente giustificato con un’etichetta che troppo spesso trovava stretta e inadeguata: umano. Era umano, Stiles; sbagliava, e sbagliava ancora, e solo in poche occasioni imparava dai propri errori. Quella, non era una delle occasioni. «volermi bene» un sorriso grezzo ed a metà lampeggiò sulle labbra, prima di sparire in una linea seria e concentrata. «volertelo evitare» inspirò ancora, ed ancora e ancora, prima di voltarsi e cercare lo sguardo ancora offuscato di Jeremy. Perché poteva averlo detto senza pensarci, poteva incolpare l’essere un tossico, o la rabbia o una battuta uscita male, ma l’aveva detto, ed aveva colpito la zona sensibile d’incertezze ed errori, errori su errori, che gli avevano tolto sonno e voglia di vivere da mesi. «volerti uccidere» e sorrise, come se quella fosse la battuta più divertente del mondo e lui un menestrello a farsene vece in corte. Sorrise stringendosi nelle spalle, spostando fisicamente il peso dallo sterno come se non gli costasse tutto, perché né Jeremy né Stiles meritavano l’amarezza dietro quello scambio di punti di vista. Perchè non era giusto, non era fottutamente giusto, e non poteva incolpare il Milkobitch per averlo pensato, o per averne scherzato. Non poteva, lo sapeva, per cui non lo fece, rilassandosi contro il lavandino ed incrociando le braccia sul petto quasi stessero parlando del meteo, e non di quanto fottuti fossero. «si tratta di potere» continuò, nel tono serio e professionale che usava con i suoi clienti, come se la questione non lo toccasse. Era più facile gestirlo, e gestirsi, se evitava di accettare di esserne coinvolto. Poteva farcela. «quindi sì, mi sembra assurdo tu possa farlo» lo osservò, distaccato e pensoso, sincero fintanto che si tratteneva nella zona dell’astratto – fintanto che non fosse Jeremy, non fosse Stiles, e non fossero Jeremy-e-Stiles, ma semplicemente un problema. Un problema, poteva affrontarlo; un loro problema, non in quel momento.
    Forse mai. Deglutì, distogliendo lo sguardo per posarlo sui propri piedi. «non voglio che smetti di farlo» confessò in un filo di voce, reso coraggioso dalla consapevolezza di quanto quelle parole fossero vuote ed insensate, e ingiuste e amare fra i denti. «ma potresti» e dovresti, ma non si voleva abbastanza male da dirlo ad alta voce. «e non voglio lasciartelo fare» continuò, sempre tenendo il tono basso ed il capo chino, parlando quelle verità più per se che per l’alterato Jeremy Milkobitch. Doveva testarle; doveva sapere se fossero reali, se fosse in grado di pronunciarle senza perderci il senno. «ma potrei» ed avrebbe voluto che quelle parole non suonassero così disperate, così una supplica a se stesso ed a Jeremy, ma non poteva impedirselo. Voleva e non poteva, perché aveva bisogno di provarci, aveva bisogno capisse, ed aveva bisogno di -
    Di respirare. Codardo nell’aspettare mesi; codardo nel cercare una breccia nel momento più vulnerabile, dove non c’era nessun altro a sentirlo, dove l’alcool fungeva da cuscinetto, dove con il sorgere del sole avrebbe potuto fingere che avesse frainteso, che ma se sei svenuto appena messo piede in casa, jer; ti sei sognato tutto. «e non voglio maledettamente ucciderti, milkobitch» più amaro, più sanguinolento sulla lingua, più soffiato con odio che sussurrato al pavimento. Ingoiò ancora ed ancora l’acido sulla lingua, livellando gli angoli di quella sentenza finché in gola non rimase che una sfera morbida e priva di linee seghettate a conficcarsi nella carne. Sapeva di averla presa troppo sul personale; e sapeva, dio se sapeva, che Jeremy non lo intendesse sul serio, ma il fatto era che avesse ragione. Che si fosse trattato di un dubbio lecito. Che potesse essere una paura legittima. Era quello, a far arrabbiare Stiles; era quello ad averlo chiuso a riccio per giorni, settimane, mesi, in una quotidiana lotta per non tagliare tutti i ponti, perché senza quei legami non sarebbe rimasto nulla a tenerlo ancorato a terra. Aveva rinunciato a Jeremy non perché volesse farlo, ma perché convinto di non potersi permettere altro. Ne era ancora sicuro, Stiles – eppure, egoisticamente, voleva lo sapesse. «ma potrei.» accennò un sorriso di scuse, perché non era colpa di nessuno dei due, liquidando la questione con una stretta di spalle conclusiva. Non era un argomento sul quale discutere, quello. Non era, per quanto sapeva i Becky avrebbero apprezzato, una fanfiction au di Twilight: Edward aveva una scelta; non uccidere Bella, era sempre stata una questione di scelta, e la paura di perderla minata da insicurezze personali sul proprio auto controllo (e sì, li aveva psicanalizzati e ci aveva scritto un saggio; fategli causa). Stiles non aveva quella scelta. Non spettava a lui, quella scelta. «voglio un sacco di cose» umettò le labbra, la testa reclinata per osservare le mani nuovamente strette sul lavandino. «non significa che possa permettermele» ed era oh, così semplice, quella constatazione. Così ovvia, così dato di fatto, che non riuscì neanche a sentirsi arrabbiato o frustrato, colpevole o triste, nel dargli una forma pronunciando quella sentenza ad alta voce. «o che altri possano permettermelo» aggiunse, perché gli sembrava necessario, perché in quei mesi aveva voluto non esistere, e c’era sempre stato qualcuno a non poterglielo permettere: Jay e Dakota, Murphy e Nicole, Sin e Isaac; Connor.
    Jeremy Milkobitch.
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    alexithymia
    (n.) the inability to express your feelings
    Jeremy aveva sempre trovato un piacevole conforto nel silenzio, andandolo spesso a cercare quando tutto attorno a lui sembrava voler vibrare di un suono proprio ed insopportabilmente forte. Lo aveva trovato tante volte, con una canna a pendere dalle labbra sottili che gli permetteva di estraniarsi anche dai rumori che venivano dal cervello in moto: sulla Torre di Astronomia, o affacciato sul Tamigi da uno dei punti più alti del London Bridge, o durante quelle gite tra le foreste dimenticate della Gran Bretagna in cui trascinava Arci e Bells (nolenti o poco volenti); si beava unicamente del vento a battere contro le pareti in pietra e dell’acqua del fiume che rovinava contro pilastri ed argini, o del crepitio di un falò acceso in mezzo a qualche radura lontana dall’uomo. Anche quando diventava troppo assordante, quando l’emicrania iniziava a pulsare contro le tempie per la necessità del proprio organismo di sentire qualcosa che non fosse il battito mal cadenzato del cuore contro il petto, restava lì – occhi chiusi, un altro respiro d’erba a dilatare i polmoni, ogni pensiero sputato via in una nuvola di fumo. Non poteva farci nulla: pur sapendo quanto poco sano fosse sparire dai radar per ore intere – sbagliato, ma più per chi gli stava attorno più che per se stesso –, a volte ne aveva bisogno.
    Sempre meno, ma ne aveva bisogno.
    Quantomeno, quel suo rintanarsi in una campana di vetro, lontana dal mondo e dai suoi fastidiosi riverberi, gli aveva permesso nel corso degli anni di sviluppare una certa resistenza ai silenzi imbarazzanti che erano soliti calare nei momenti meno opportuni. Riusciva a sopportarli bene, senza sentirsi in dovere di romperli in alcun modo; non si sforzava più di tanto nel comprendere il non detto che si nascondeva sotto di essi, lasciando che facessero il proprio corso naturale ed osservandoli quasi come fossero un qualcosa di concreto e tangibile – malleabile, ma non dalle sue dita.
    Era l’attesa, a fotterlo. Come in quel preciso momento, con gli occhi azzurri e la vista ancora un po’ offuscata fissi sulla schiena di uno Stilinski che sembrava voler fingere non esistesse – lui stesso, o Jeremy poco dietro di lui. Probabilmente, in un altro contesto, non gliene sarebbe potuto importare di meno: non costringeva nessuno a rispondere alle sue molestie, e capiva con tranquillità di essere di troppo nella vita di molte persone; avrebbe fatto finta di non aver mai aperto bocca, dopo i primi istanti di quiete, e se ne sarebbe tornato al proprio posto – o se ne sarebbe addirittura andato, così da non rischiare affatto di essere una presenza indesiderata.
    Ma quello, Jeremy, avrebbe voluto non fosse un altro contesto.
    Quello avrebbe voluto fosse uno scenario nel quale Stiles aveva accettato il suo stupido invito ad una stupida serata in discoteca, proposta soltanto perché gli mancava la sua stupidissima faccia, perché nonostante non ricordasse quella maledetta parentesi ancora ci teneva a lui; non pretendeva nemmeno che ricambiasse qualsiasi cosa il minore provasse nei suoi confronti, gli bastava che qualcosa ci fosse. Ingenuamente ed innocentemente, sperava che nella prospettiva dello psicomago che lo aveva recuperato, per l’ennesima volta, ubriaco al Fiendfyre e lo aveva portato via con sé, potesse esserci qualcosa di più del semplice gesto di un buon samaritano. Disperatamente, avrebbe voluto che nemmeno quel silenzio pesasse sulle spalle e sullo stomaco – che non fosse l’ennesima attesa a gravare come un macigno, e per la quale alla fine si stufasse di aspettare.
    Ma in tutto quel tempo, tutto quel fottutissimo tempo in cui non si era voltato, ignorandolo e privandolo anche di una singola attenzione, non poté che scendere a patti con la realtà nuda e cruda: si era illuso.
    «okay,» sussurrò, forse più a sé che non all’altro, posando il bicchiere vuoto a metà sulla prima superficie che fosse riuscito a raggiungere. «ho capito…» non vuoi parlarmi. Lecito e giustificabile: magari pensava avesse alzato troppo il gomito per intavolare un discorso qualsiasi, e non poteva dargli tutti i torti. Non era così lercio da perdere i sensi o da rigettare tutto ciò che aveva ingurgitato da un momento all’altro, ma abbastanza da addormentarsi una volta appoggiatosi su qualcosa di comodo; di certo, era abbastanza lucido da capire fosse il momento di alzare i piedi e togliere il disturbo.
    Si trovava già sull’uscio della stanza, quando la voce di Stiles lo costrinse a fermarsi. «non è questione di volere» chiuse gli occhi ed inspirò rumorosamente dalle narici, il Milkobitch, maledicendosi per aver atteso tutto quel tempo. Almeno, in parte: era felice che alla fine avesse deciso di rivolgergli la parola, ma già gli piaceva poco come aveva iniziato a farlo.
    «volermi bene, volertelo evitare, volerti uccidere» fu su queste ultime note che riaprì le palpebre, e con le braccia incrociate al petto si voltò lentamente, trovando il ragazzo voltato nella sua direzione: ci aveva sperato di poterlo guardare negli occhi, ma non si sarebbe sorpreso nel dover rivolgere lo sguardo chiaro ancora sulle spalle di lui. Non ricambiò però il suo sorriso, perché non c’era nulla che trovasse divertente ed era abbastanza fatto da non riuscire a fingere neanche volendolo.
    «si tratta di potere» si appoggiò allo stipite della porta, mantenendo – a fatica – il contatto visivo con l’altro. «quindi sì, mi sembra assurdo tu possa farlo» piegò gli angoli della bocca verso il basso arricciando il naso, ma non disse una parola: voleva sinceramente capire dove volesse andare a parare, ma aveva anche bisogno di mostrare in qualche modo il suo disappunto.
    «non voglio che smetti di farlo, ma potresti. e non voglio lasciartelo fare, ma potrei. e non voglio maledettamente ucciderti, milkobitch, ma potrei.» sbuffò una risata mozzata a metà, le labbra arcuate e lo sguardo distolto dal volto dello Stilinski, e più interessato ad ammirare il legno della porta al suo fianco. Non poteva nemmeno immaginare cosa stesse provando in quel momento – dove per momento si volevano intendere gli ultimi mesi trascorsi, e sicuramente quelli che sarebbero venuti poi –, e non era così sadico da volerlo sapere; quello che poteva presupporre, è quanto facesse schifo: lo aveva visto con Run, lo vedeva ogni giorno a lavoro con Erin, e con gli studenti che come lei avevano vissuto quell’esperienza.
    E che facesse paura, e che vaffanculo non potesse fare niente al riguardo – per sua sorella, per la Chipmunks. Per Stiles. «voglio un sacco di cose; non significa che possa permettermele, o che altri possano permettermelo.»
    Scosse la testa, tornando a cercare le sue iridi nocciola; si staccò dal battente, muovendo qualche passo nella sua direzione. «e quindi?» si strinse nelle spalle, con la stessa innocenza e nonchalance con cui aveva fatto lo stesso, quando gli aveva detto che avrebbe potuto ucciderlo, nonostante non volesse. «vuoi smettere di provarci? vuoi non volere più nulla nella tua vita perché pensi di non potertelo permettere?» era a pochi passi, ormai, quando si fermò.
    Deglutì; e gli sembrò essere durato un’eternità, mentre invece era trascorso il tempo di un solo battito cardiaco dalla domanda appena posta. «perché non potevi permetterti nemmeno di morire, ma lo hai fatto comunque.»
    Coglione.
    «io…» distolse ancora lo sguardo, sentendosi in colpa: lo pensava davvero, ma avrebbe voluto essere un po’ più lucido per evitare di dare fiato ai propri pensieri. Ma lo pensava davvero; quanto lo aveva odiato, per non averlo ascoltato quando gli aveva supplicato di non morire. E quanto gliene poteva importare che non fosse davvero colpa sua, tanto allora quanto in quel momento.
    Si voltò dall’altra parte, dandogli le spalle e portandosi le mani sul viso; mosse qualche passo, maledicendosi e maledicendolo, in un crescendo di emozioni celate sotto la cute e che quell’inutile farneticare di vorrei ma non posso aveva aizzato. Tornò poi indietro, più calmo di quanto avrebbe immaginato ma abbastanza paonazzo in volto da lasciar trasparire tutt’altro.
    «ci tengo a te, testa di cazzo,» pigiò l’indice contro il suo petto, spingendo appena. «okay? è una cosa che posso e voglio fare,» e l’unica che mi è concessa: oltre a stargli vicino, cos’altro era in suo potere? «e non me ne frega un cazzo di quanto tu lo possa trovare assurdo,» spinse ancora, si spinse ancora; era abbastanza vicino da sentire il suo fiato contro il proprio viso, e da poter eliminare le distanza che c’erano tra loro come se non fossero mai esistite.
    Ma esistevano, e le stava alzando Stiles con più tenacia di quanto Jeremy avesse creduto potesse avere in un simile contesto. «quindi dimmelo tu, stilinski,» fece cadere la mano lungo il fianco, e si allontanò di mezzo passo dalla sua faccia prima che potesse colpirla con la propria – in un modo o nell’altro. «dimmi perché dovrei smettere di volerti bene, perché non lo capisco.»
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    I let my guard down And then you pulled the rug I was getting kinda used to being someone you loved.
     
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    holophrasis
    (n.) the expression of complex ideas in a single word or phrase
    «e quindi?» Era quella la sua risposta? E quindi? Andrew Stilinski si era appena infilato le mani nel costato, spaccando le ossa per potergli mostrare la parte più vulnerabile, stupida, e fragile di sé stesso, e quella era la sua risposta? Una fitta di dolore scivolò fulminea nei limpidi occhi miele dello psicomago, nascosta rapida da uno sfarfallare di ciglia. E quindi? Umettò le labbra ed abbassò il capo, sopracciglia corrugate mentre osservava con interesse la punta dei propri piedi. Non ebbe bisogno di vederlo, o di sentirlo, muoversi, per percepire che si stesse avvicinando. E non ebbe bisogno d’incrociarne lo sguardo, perché il proprio cuore – ancora ferito, ancora friabile - iniziasse la propria corsa contro la gabbia toracica. Se fosse stato certo che la voce non avrebbe tremato, gli avrebbe chiesto di non farlo. Lo avrebbe pregato, di non farlo, perché – perché non era giusto. Perchè non poteva. Perchè non aveva altro da dire a quel e quindi? derisorio a pungere la carne laddove era più tenera. Cosa si aspettava da lui? Non era mai stato né il ragazzo più coraggioso, né quello più brillante. Non era famoso per le proprie scelte, o le proprie sagge parole di conforto: era Stiles, buon Dio. Era quello divertente, era quello impacciato, era quello che finiva sempre nei guai; non era quello che aveva una risposta ai e quindi. Smise di respirare quando nel proprio campo visivo entrarono anche le punte delle scarpe di Jeremy. Gli sembrava superfluo, in quel momento. Uno sforzo che non valesse la candela. «vuoi smettere di provarci? vuoi non volere più nulla nella tua vita perché pensi di non potertelo permettere?» Vuoi, vuoi, vuoi - ancora quei fottuti “vuoi”, come se tutto dipendesse dalla sua volontà. Gli venne da ridere, ma strinse così tanto quella risata in gola, che quando aprì bocca suonò un po’ troppo come un singhiozzo. «perché non potevi permetterti nemmeno di morire, ma lo hai fatto comunque.» Inspirò. Espirò.
    Inspirò, ed espirò. Lasciò che quelle parole fluttuassero a terra con il solo aiuto della forza di gravità, sedimentando al suolo una per una fin quando avessero avuto un senso – perché no, da solo un cazzo di senso non riusciva a trovarcelo. Solo quando trovò un significato in quella frase, alzò lo sguardo per incrociare gli occhi acquamarina di Jeremy Milkobitch.
    Ed era uno sguardo furioso, quello di Stiles. Pensava l’avesse fatto apposta? Cristo Santo, credeva avesse avuto intenzione di morire dissanguato facendo resuscitare un cazzo di mostro? E di risvegliarsi, e non sapere dove fosse, e addormentarsi e risvegliarsi sentendo i singhiozzi piatti di Erin e la voce rotta di Jess, e perdersi pezzi di vita e memoria per i capricci di un cazzo di sociopatico? Non aveva avuto una scelta, quando aveva spezzato il cuore di Jay e Murphy, di Dakota e Sin, di Chouko e Behan e Nicky e Mehan. Di Jeremy.
    Ma lì, una scelta, la aveva. Non gli piaceva, non la sopportava, ma la aveva. Si odiava, per quello? , sempre, ma un po’ odiava anche Jeremy Milkobitch per non riuscire a vedere quanto… quanto fosse l’unica che avesse senso.
    Ed un po’, non lo odiava affatto. Strinse la lingua fra i denti riportandosi alla realtà, quella fatta di sangue e decisioni difficili e sacrifici, allontanandosi dalla tentazione di sbattersene il cazzo e crederci. Dio solo sapeva quanto in quel momento, forse più di molti altri, volesse continuare a provarci, e qualcosa nella propria vita. Qualcuno.
    Ma poteva?
    Fu sul punto di chiederglielo. Di racimolare abbastanza ossigeno per supplicarlo di crederci per entrambi, di dirgli un che avrebbe preso come dogma e non opinione. Non poteva affidarsi al proprio cuore, ma magari poteva convincersi che quello di Jeremy bastasse anche per lui. Lo guardò allontanarsi, e non fece nulla per seguirlo. Avrebbe voluto? Sì. Voleva raggiungerlo, voleva prendere le mani di Jeremy a coprire il viso e stringerle fra le proprie fino a che non l’avesse guardato, perché per quanto fosse una spina costante, gli occhi del Milkobitch riuscivano sempre a rendere tutto più tollerabile. Non facile, né necessariamente migliore, ma… gestibile. Davano un senso a qualcosa. Davano un senso a lui. E magari avrebbe aperto bocca rovinando tutto, dicendo di nuovo, sempre, la cosa sbagliata al momento sbagliato, ma almeno sarebbe stato qualcosa che non fosse fissarne la nuca, e sperare che lui scegliesse per entrambi.
    Codardo.
    Bugiardo.

    Non si preparò al peggio, quando infine l’ex Tassorosso si volse verso di lui. Perchè avrebbe dovuto? Un po’ desiderava, lo colpisse. Per davvero, quella volta.
    Ma fu peggio. Di nuovo. Alla violenza era abituato, e tendeva sempre ad aspettarsela, ma «ci tengo a te, testa di cazzo,» faceva più male di una cinquina sulla guancia. Quando un’involontaria smorfia sofferente si dipinse sul suo volto, finse fosse per il dito conficcato nel proprio petto – d’altronde, era una scusa e metafora piuttosto appropriata.«okay? è una cosa che posso e voglio fare, e non me ne frega un cazzo di quanto tu lo possa trovare assurdo,» Stiles era esattamente il genere di ragazzo che di fronte ad un incidente, sarebbe stato benissimo in grado di distogliere lo sguardo, e lo dimostrò scegliendo quel momento per chiudere gli occhi. Non guardare. Non guardare - non voleva, non poteva, non voleva e poteva e non poteva e voleva; un limite sempre più sottile e confuso fra le due cose, mentre le parole di Jeremy rimbalzavano calde sulla pelle. Troppo vicine. Troppo vicino. Sarebbe bastato un respiro più profondo degli altri, o dischiudere appena la bocca per far entrare ossigeno, per sentirle direttamente sulla lingua - o per non sentirle affatto, soffocate da un bisogno mentale e fisico che lo terrorizzava quanto il fottuto Abbadon.
    Stiles aveva paura. Sempre. Un po’ di tutto, dai coccodrilli alla lega Pokemon, dai magici dittatori rimasti sepolti per secoli sotto al Lago nero ad una Murphy in carenza di zucchero. Ma quello? Era un terrore irrazionale e ingiustificato, un brivido lungo la schiena ed un peso sullo stomaco. Gli esseri umani avevano bisogno di cibo, di acqua, di aria, il resto non era necessario.
    E allora perché.
    E allora perché sentiva, sapeva, che sarebbe andato tutto bene, se solo avesse aperto gli occhi. Se solo gli avesse chiesto di non smettere. Se solo avesse stretto il viso di Jeremy fra le mani, facendo scivolare le dita dietro la nuca per spingerlo verso di sé, e tenerlo contro di sé per posare le labbra sulle sue, ed assaggiare cosa avesse bevuto con la propria bocca. E rubargli ogni grammo d’ossigeno finché non avesse più avuto nulla da dire.
    E allora perchè.
    «quindi dimmelo tu, stilinski,»
    Non voleva.
    «dimmi perché dovrei smettere di volerti bene, perché non lo capisco.»
    Di motivi ne aveva cento. Mille, e li tenne tutti nascosti dietro le palpebre abbassate. Non voleva dirglieli. Non voleva che smettesse - Dio, pensava di non aver mai voluto meno qualcosa nella propria vita – voleva solo… voleva solo. Un sorriso scivolò distratto sulla bocca dello psicomago, mentre scuoteva impercettibilmente il capo. «no.» che avrebbe potuto risuonare più risoluto, se solo avesse avuto più ossigeno in corpo, ma eh, si faceva quel che si poteva. Riaprì gli occhi, ma non cercò lo sguardo di Jeremy. Cercò invece la sua mano, che esitante - che tremando appena - riprese per posarla ancora sul proprio petto. Alla fine, quanto detto prima era tutto vero: non sapeva quanto ancora di suo ci fosse in se stesso, quanto tempo gli fosse concesso, ma almeno quell’istante, quel momento esatto nello spazio e nel tempo, gli apparteneva.
    E voleva darlo a lui. Voleva che sentisse sotto i polpastrelli che il cuore battesse, un ritmo poco cadenzato di scusa e mi dispiace e sono tornato a cui lo Stilinski non sapeva dare voce. «onestamente, milkobitch?» si schiarì la voce, fingendo che quello - che loro - fosse del tutto normale. Che Stiles passasse i suoi pomeriggi prendendo la mano di Jeremy per posarla sul proprio cuore come un ipocondriaco con lo stetoscopio del medico. «ci conosciamo da così tanti anni che dovresti avere solo motivi per smettere» non l’avrebbe certo aiutato, sarebbe stato come barare. Tentò una risata, perché era stato serio troppo a lungo, e non era nella sua indole. Quel genere di emozioni ruvide e crude, non facevano per lui: lo facevano sentire esposto. Nudo. Danneggiabile. Era un pacco troppo maltrattato per sopportare altre botte e cadute; non c’era nessuno a cui restituirlo, quando fosse stato troppo rotto. «ma...» deglutì, sguardo fisso sulla propria mano ancora stretta sul polso dell’altro. Parlava con il tono basso, intimo e indifeso, di chi stesse per confessare i propri peccati, e sapesse non ci fosse assoluzione. «sono egoista» soffiò, corrugando le sopracciglia, faticando più del dovuto ad ingoiare la saliva. Cosa poteva farci? Era vero. Era un codardo, un bugiardo, ed un egoista. Umettò le labbra stringendo i denti sull’interno della guancia, lasciando che il silenzio rendesse più reali le sue parole. Più sincere, ritmate da un cuore scoordinato. «non smettere» supplicò con un filo di voce, odiando la sincerità e la naturalezza con cui la preghiera scivolò dalle labbra dischiuse. «per favore» e prima di poter cambiare idea, prima di decidere di voler essere una persona migliore, avvolse un braccio attorno alla vita di Jeremy e l’altro sulle spalle, intrappolando la mano di lui fra loro mentre lo premeva contro il proprio petto per abbracciarlo. Per stringerlo e sentirlo concreto e poterlo respirare, per poter parlare senza doverlo guardare negli occhi né poter fuggire. Era così bravo, ad andarsene. «ci tengo a te. Tengo così tanto a te che penso di-» non lo disse. Lo pensò, ma non era abbastanza coraggioso per dirlo, non a parole, così lo strinse semplicemente un po’ di più. «ho...ho paura, ok? Ho fottutamente il terrore di vivere e di non farlo abbastanza, e vorrei non averne ma non so come fare, e – e non so davvero un cazzo jer» respirava a fatica, ed il cuore batteva a fatica, ma aveva bisogno… doveva… lui… «ma so che non voglio...» perderti? Anche, ma era egoista, non stronzo. «ferirti» concluse piano, perché spezzarti il cuore sembrava pretenzioso. «e so che lo farei, e non avrei scelta - non avrei scelta, capisci? - e chissà quante volte, e chissà quando, e ti meriti di meglio -» si staccò, respiri troppo grandi per polmoni troppo piccoli, e lo guardò. Lo guardò sul serio, lasciando che il terrore con cui condivideva ogni attimo di veglia e sonno scivolasse dalle iridi miele. «ti meriti di meglio.» e fu naturale, e fu spontaneo, e fu l’unica cosa da fare quella di posare la fronte sulla sua, inspirando i suoi fiati fino a renderli propri. «mi sembrava giusto lo sapessi» deglutì, strizzò le palpebre.
    C’era un’altra cosa, che gli sembrava giusto dovesse essere di sua conoscenza.Caso mai avesse avuto dubbi; se non fosse stato abbastanza chiaro. «se potessi...se potessi volere qualcosa,» se gli fosse concesso – da se stesso, dal filo sottile che lo teneva ancorato alla vita, da Jeremy - «vorrei te.» ammise, così piano da muovere solo le labbra, costringendosi ad aprire gli occhi per cercarne lo sguardo.
    Scelta sbagliata. Il cuore, una gittata di panico e adrenalina, schizzò direttamente in gola, e Stiles si ritrovò ad arrossire, bocca arida e pensieri sconnessi. «ed un dratini shiny perché sono carini e lilla e si evolvono in dragonite che ok è meno badass di charizard ma hai visto le sue antennine voglio dire forte» eh.
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    DOPO UN ANNO!!!! RISPONDE!!!!

    con una minchiata scusa .
     
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7 replies since 24/3/2020, 00:21   341 views
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