Do the job and hope

Aaron x Mabel

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    Aaron Felix Icesprite // Everybody is a book of blood; wherever we're opened, we're red
    C’erano giorni in cui odiava il suo senso del dovere. Momenti in cui avrebbe volentieri barattato quella meticolosità nel portare a termine i compiti affidatigli per un semplice attimo di normalità. Era zelante ai limiti dell’ossessione e per questo così coinvolto nella routine del Ministero da esserne rimasto inglobato.
    Era una giostra da cui non riusciva più a scendere, bloccata alla velocità massima e senza il controllore ad impedirne il collasso. Quando guardava con fare critico le scartoffie e le centinaia di domande d’assunzione sparpagliate sulla scrivania, sapeva di avere il dovere di impilarle e smaltirle; gli avevano domandato il perché non avesse deciso di assumere un segretario, ma la risposta era stata sempre brusca, indignata quasi. Non aveva bisogno proprio di nessuno, lui. Era Aaron Icesprite, Capo Torturatore, perfettamente in grado di gestire qualsiasi incombenza che fosse di sua competenza.

    Falso.

    Man mano che i giorni si susseguivano uno dietro l’altro, l’ammontare di stress sulle sue spalle non faceva altro che crescere, rendendolo un fascio di nervi. Le domande lo irritavano. I mormorii gli causavano mal di testa. Il “toc toc” insistente alla porta era ciò che aveva portato molti visitatori a venire Cruciati senza alcuna spiegazione.
    Odiava ogni singolo chiodo, ogni singola mattonella, ogni singola carta in quell’ufficio; quando aveva preso il posto di sua zia aveva creduto che quella sarebbe stata la svolta, il momento più alto della sua carriera. La realizzazione di un sogno che, come se non avesse atteso altro, si stava trasformando nel suo personale inferno.
    Era stato per ore con la fronte premuta sulle braccia incrociate, la serratura bloccata magicamente e la premessa di non essere disturbato: voleva dormire. Fare una, ma anche due ore di sonno, dimenticandosi per un istante di essere importante, di avere sulle spalle il compito di gestire dei subordinati.
    Era sempre difficile spegnere i pensieri, accavallati uno dietro l’altro come pieghe di un vestito sgualcito; aveva sempre rispettato il Regime, cercando di essere il perfetto Mangiamorte, uno di quelli che avrebbe potuto fare da esempio per tutti gli altri. Non aveva mai pensato di poter sbagliare o di sentirsi ben lontano da tutto ciò che quell’istituzione sembrava aver dimenticato. Per questo si era sentito affine agli altri durante la festa in casa Black. Aveva sempre nutrito un profondo rispetto per i suoi colleghi, nonostante le divergenze di comportamento. Non apprezzava l’arroganza di Alister, né la prepotenza nelle movenze di Kovu, ma tutto sommato erano cose che in minima parte li accomunavano, rendendoli simili. Si erano ritrovati ad aveva molto in comune, idee perfettamente calzanti con ciò che per lui era sempre stato il Regime e che si era perso con la venuta di Abbadon.
    I FES erano nati mettendo insieme un obbiettivo comune.

    Ma c’era una questione che lo turbava, forse più di quanto non avrebbe voluto ammettere e si trovava rinchiusa a Villa Black, lontano da sguardi indiscreti, ma soprattutto da quelli velati del Ministero. Non avevano fatto nulla di sbagliato nel torturare un Ribelle, nell’estorcergli con la forza informazioni utili alla causa; lo faceva ogni giorno, era il suo lavoro. Non lo aveva guardato con pietà perché facente parte della Ribellione, aveva solo evitato di farlo dopo aver realizzato chi fosse. D’altronde, era stato il primo tra loro ad aver pensato di ucciderlo, fermato dall’Osborne appena in tempo.
    Non era stato il sangue a causargli disgusto, né le urla a fargli contrarre lo stomaco. Non lo avrebbe lasciato andare nemmeno se Mabel glielo avesse chiesto, perché non avrebbe infranto la legge, nemmeno per lui.
    Ora non riusciva a pensare ad altro che al corpo di Isaac gettato come una pezza sul pavimento umido di una delle segrete, legato da corde magiche e intontito dalle torture. E non per pietà, non perché si sentisse in colpa: non era lui ad essere nel torto, ma il Withpotatoes a non aver pensato prima di agire o allearsi con la parte giusta, evitando la morte. Era stato solo grazie all’intervento di Deemer se il ragazzo poteva respirare l’aria rarefatta della prigionia. Il sorriso plastico e le parole scivolate via dalle labbra del Segretario come la peggiore delle sentenze; al posto di Isaac avrebbe preferito morire.
    Era il dubbio a tenerlo sveglio. A fargli domandare quanto saggio fosse dirlo a Mabel, rischiando di peggiorare la situazione in cui sembravano versare dopo l’ultimo incontro; anche in quel caso, non si era sentito in colpa. Lui non si sentiva mai in colpa, erano gli altri a doverla smettere di attribuirgli errori che non aveva commesso. Non lo vedeva da un po’, non per scelta, ma per necessità; a malapena usciva dall’ufficio, e altrettanto raramente si occupava di quella casa che aveva sognato così tanto, per anni, quasi fosse un simbolo di libertà. E poi erano subentrati i doveri, massi pesanti a schiacciargli la schiena, facendogli curvare le spalle senza la possibilità di rialzarle. Persino l’idea della Sala Torture Ministeriale gli faceva storcere il naso dal disappunto e il piacere delle torture svanito insieme alla gioia di vivere. Partecipava ogni tanto, giusto l’indispensabile per far capire che fosse ancora vivo e che perdere tempo con i pesci piccoli non lo divertisse più come all’inizio; aveva compiti più urgenti da portare a termine. Così come Eugéne, era un animale bisognoso di novità. C’erano state poche costanti nella vita del Baudelaire, così come nella sua; eppure, desiderava sempre spingersi oltre, trovare nuovi modi per incasinarsi la vita o per renderla, se possibile, meno noiosa.
    Odiava rimanere seduto, odiava dover compilare le carte per ogni tortura, odiava dover partecipare alle riunioni solo per sentire sempre le stesse, identiche ciance inutili riguardanti i Ribelli; erano sempre un passo avanti a loro. Non importava quante volte li avessero catturati, quanti processi fossero stati fatti con il Veritaserum, quante confessioni avessero estorto: rimaneva tutto uguale, sempre. Immobile, come lo erano le statue nell’androne, con gli sguardi vitrei rivolti al nulla.
    Era un sentimento che alcuni di loro condividevano in silenzio, troppo demotivati per poter pensare di sfidare il sistema, crearne uno nuovo, dare adito ai dubbi.

    «Credo sia una cazzata, perdona il francesismo» era così che aveva espresso il suo disaccordo.
    Aveva fissato il proprio interlocutore con entrambe le sopracciglia sollevate, una mano posata distrattamente sul fianco e l’altra intenta a reggere una cartella con su scritto il nome di un probabile scout Ribelle «La bocca… la dovresti lavare con il sapone, mio caro» un sospiro, lasciato dalle labbra sottili dell’Haywood e un flebile sorriso di accondiscendenza «Mi hanno preso per un Pavor semplice, per caso?» ignorando il rimprovero del Segretario, non aveva fatto altro se non sbattere i fogli sulla scrivania con forza, sbuffando dal naso come un toro inferocito «non è una mia responsabilità! Il mio compito è torturare i Ribelli, non andare a caccia—che ci pensi Kovu… o Akelei. Chi di competenza, ma che cazzo ne so» era seccato? Abbastanza. Era già oberato di responsabilità e sapeva che per quanto potesse lamentarsene, avrebbe finito per ubbidire ad un ordine diretto «La maggior parte dei Pavor sono già stati mandati a svolgere le loro mansioni. Ma abbiamo ricevuto delle informazioni molto importanti qualche ora fa e non possiamo aspettare, rischiando di compromettere il buon nome» non era sfuggito il tono sarcastico nelle parole di Deemer «del Ministero. Converrai con me, Aaron, che è meglio mandare qualcuno di fidato» avrebbe voluto davvero lasciarsi andare ad una risata, ma aveva preferito sospirare sconfitto, lanciando un’occhiata inviperita all’uomo di fronte a sé «Basta con queste manfrine inutili. Dammi la posizione.»

    Se avesse dato ascolto al suo istinto, non si sarebbe ritrovato in quella situazione.
    Se avessero, per una volta, ascoltato le indicazioni precise degli Strateghi, forse avrebbe avuto ancora il sangue dentro il suo corpo, non sui vestiti.
    Era abituato al dolore e non sentiva niente. O forse era solo che ne stava provando troppo e il suo cervello faticava ad elaborarlo. Era stato il suono dello strappo e il sapore della bile a renderlo cosciente della sua situazione, a fargli digrignare i denti e sudare freddo, ma senza urlare. Solo un lamento era uscito dalla sua bocca, pallida come lo era la sua carne in quel momento per la perdita eccessiva di sangue; le aveva sentite le orecchie fischiare, la vista offuscarsi, le mani a stringere convulsamente il terreno per mantenersi in ginocchio, potendo così utilizzare ancora la magia. Era stato colpito e come lui altri Pavor. Non aveva potuto fare niente per impedirlo, circondato da tre Ribelli armati della loro giustizia becera, della convinzione d’essere nel giusto. Sapevano chi fosse. Sapevano a chi stavano puntando la bacchetta contro.
    Non sarebbe morto per quello. Non avrebbe permesso ad un Ribelle di ucciderlo. Non quel giorno. Mai.

    Era stato un colpo di fortuna.
    Concentrati a decidere la sua sorte, discutendo se rapirlo e tenerlo prigioniero o se fargli spirare l’ultimo respiro, non avevano prestato attenzione all’ambiente circostante. Era stato solo dopo averli visti cadere al suolo irradiati da una luce verde, uno dopo l’altro, che aveva esalato un sospiro esausto, crollando tra l’erba incolta, svuotato da ogni energia.

    Non sapeva per quanto tempo fosse rimasto incosciente.
    Non sapeva chi lo avesse Smaterializzato al San Mungo, né se la missione fosse andata a buon fine.
    Aveva alternato attimi di veglia a momenti di buio, senza comprendere chi stesse parlando, di cosa, perché.
    Ciò di cui era certo era solo la stanchezza a fargli collassare ogni muscolo, inerme, nell’attesa che qualcuno facesse qualcosa.

    Era stato con lentezza che aveva portato una mano sul viso, per la prima volta cosciente dopo un paio di giorni, stordito dall’ammontare spropositato di pozioni in circolo nel suo corpo per evitargli altro dolore.
    «Merlino…» aveva provato a schiarirsi la voce, roca per via della gola secca, avvertendo il fastidioso odore medico nelle narici e la sensazione delle bende a stringerli ogni centimetro del corpo.
    Era, evidentemente, disteso in uno dei letti del San Mungo.
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    Debole.
    Aveva passato non una, ma ben due vite intere a ripetere a sé stesso di non saper essere altro che un debole.
    Debole era Maverick, che non riusciva a guardare suo fratello negli occhi senza avvertire un nodo all'altezza dello stomaco, che preferiva fuggire piuttosto che affrontare la realtà, che in un mondo sull'orlo della fine preferiva giocare a Quidditch e fingere che fosse tutto normale, che la morte di Orion non ci aveva neanche provato a superarla in maniera dignitosa.
    Debole era Mabel, che neanche per un istante aveva provato a sentirsi normale, che aveva scelto di lasciarsi sconfiggere dai suoi stessi limiti, che piuttosto che affrontare i propri demoni aveva preferito farli cancellare ad un dottore con le manie da scienziato folle, che si era aggrappato ad Aaron con tutte le proprie forze come se da solo non fosse in grado di reggersi in piedi.
    Debole.
    Sapeva d'esserlo, ed aveva una paura fottuta di ritrovarsi presto o tardi dinanzi ad una chiara ed inconfutabile conferma di ciò, tanto da cercare mille modi per nasconderlo, per fingersi più forte di quanto non sarebbe mai stato in grado di essere realmente.
    Eppure, in quei giorni, Mabel Withpotatoes si rese per la prima volta in assoluto di essere forte.
    Forse non nel modo che avrebbe immaginato, questo sì, ma stava via via riscoprendo in sé una forza che non sapeva di avere, o che forse non aveva fatto altro che sottovalutare insieme alle infinite altre cose che ignorava di sé stesso. Perché come avrebbe fatto, altrimenti, a vivere assieme ad Aaron senza essere forte? A svegliarsi al suo fianco ogni mattina, ad andare al lavoro ed a fingere che andasse tutto bene, se non avesse avuto quella forza? La risposta era semplice: non avrebbe potuto. O magari sì, ostentando un atteggiamento passivo-aggressivo che alla fine avrebbe portato uno dei due, se non entrambi, all'esasperazione - ed alla conclusione della loro convivenza, nella migliore delle ipotesi.
    Ma Mabel non desiderava mostrarsi offeso, o risentito, con l'Icesprite.
    Voleva continuare a sorridergli quand'era il caso di farlo, a chiedergli come fosse andata la sua giornata ed a sentirlo respirare affianco a sé senza odiare ogni suo singolo movimento tra le lenzuola. Voleva farlo un po' per codardia forse, perché scoprire cos'avrebbe potuto nascondersi dietro ad una conversazione mai conclusa lo spaventava, ma voleva farlo soprattutto perché era giusto così. Non avrebbe avuto alcun senso prostrarsi al Pavor, sottolineare una fedeltà che aveva già professato in più occasioni, rendersi se possibile ancor più ridicolo, né avrebbe avuto senso un'oltraggiata ribellione per riparare il suo ego ferito. Semplicemente: cest la vie. Se fosse stato destino, forse le cose tra loro sarebbero cambiate. In caso contrario, non gli era dato saperlo. Nel frattempo preferiva lasciare che i propri turni di lavoro non s'incastrassero egregiamente con quelli dell'altro, così da non doverlo vedere più dello stretto indispensabile.

    E per un certo periodo c'era persino riuscito, l'ex Tassorosso.
    Fiero di sé aveva lasciato che i giorni si susseguissero in modalità automatica, contrassegnati da una quiete insolita per un Aaron ed un Mabel da poco sotto lo stesso tetto, eppure in un certo qual modo piacevole. Certamente monotono, a tratti un po' frustrante, ma ben oltre le aspettative se comparate ai lividi ed al dolore che non facevano altro che infliggersi da anni ormai nell'impossibilità di sintonizzarsi sulla stessa frequenza per più di qualche momento. Ma l'aveva accettato, Mabel, che la loro vita sarebbe sempre stata quella - un bel casino - e se n'era fatto una ragione da un pezzo, l'aveva accolto come si fa con un acquazzone nel bel mezzo dell'estate e senza un ombrello a portata di mano: aveva imprecato, poi aveva chinato la testa, e si era messo a correre in cerca di un riparo. Che poi quel riparo fosse un albero in mezzo al mare di fulmini, poco importava purché non gli scompigliasse i capelli.
    Poi era arrivato Godric Osborne.
    Come facesse il Corvonero, con la sua apatia ed il suo scarso spirito d'iniziativa, a ritrovarsi sempre in situazioni tanto scomode, non era chiaro neppure all'Osborne stesso, eppure aveva la sensazione che il suo lavoro da assistente al Capo del Consiglio si stesse via via sempre più avvicinando ad un ruolo di messaggero delle cattive notizie, meglio noto come uccello del malaugurio. Anche per lui: cest la vie.
    Aveva spedito una missiva urgente in casa Withpotatoes-Icesprite non tanto perché gli fosse stato richiesto - se si fosse trattato solo di quello, si sarebbe limitato a rispondere di non essere un cazzo di segretario - ma perché aveva ritenuto logico avvisare il coinquilino di Aaron che, con tutta probabilità, il Capo Torturatore non sarebbe tornato a casa per cena, né tanto meno per il pranzo successivo.
    L'aveva scritto con la stessa piattezza che caratterizzava ogni suo gesto e, forse per questo, insieme alla preoccupazione del trovarsi dinanzi ad un dispaccio inviato direttamente dal Ministero, Mabel non poté fare a meno di sentire una certa ansia nel leggere che fosse successo qualcosa ad Aaron, sebbene non fosse specificato di preciso cosa. Lo special avrebbe facilmente potuto pensare che non si trattasse altro che di roba da Pavor, nulla che Aaron Fuckin Icesprite non fosse in grado di affrontare, ma c'era qualcosa nelle frasi concise dell'Osborne, o magari era più una sua sensazione, ad impedirgli di rilassarsi.
    E quindi era corso al San Mungo.

    Aveva smesso di respirare regolarmente ancor prima di lasciare casa, e si rese conto di non aver più incanalato ossigeno normalmente quando le tempie iniziarono a pulsargli come l'inferno.
    Ma non era niente di che.
    Non se paragonato a tutto il resto, non con la testa fra le mani ed una sola domanda a fischiargli nelle orecchie come stesse viaggiando in coda al dannato Hogwarts Express: e adesso?
    La risposta che provava a darsi, ormai da ore, era che in fondo sarebbe potuto andar peggio, che tutto sommato anche quello non era niente di che. Che almeno Aaron era vivo.
    Ma non era abbastanza.
    Non lo era, perché adesso toccava a lui dirgli che non sarebbe mai più stato lo stesso, che gli sarebbe stato vicino pur sapendo benissimo di essere inutile, di non poter fare niente. Come sempre, più di prima.
    Si premette i polpastrelli sulle palpebre, sino ad intravedere delle piccole luci bianche, sino a farle esplodere dietro ai suoi occhi chiusi e, con esse, lasciare che il suo mal di testa esplodesse più forte di prima.
    E adesso?
    «Merlino…»
    Sollevò il capo con uno scatto, pentendosene nell'istante stesso in cui lo fece: dovette aggrapparsi al bordo del letto, per non cadere dalla sedia o vomitare su Aaron. Non il migliore dei risvegli, ecco.
    «Dude» non gli venne in mente niente di più intelligente da dire, ma a quel punto a dargli davvero fastidio - più della nausea, della paura, del disagio - erano le lacrime a pizzicargli gli occhi senza alcuna ragione. Sollievo? Forse, ma il peggio doveva ancora arrivare.
    «Come - come stai? Voglio dire, posso fare qualcosa? Vuoi che chiami qualcuno?» allungò una mano per raggiungere quella dell'altro, esercitando una certa pressione sulle sue dita come a dire: aiuto, non ho idea di cosa fare ma sono qui, non me ne vado. «Siamo al San Mungo» e non che la stanza assomigliasse in qualche modo alla loro camera da letto, ma aveva sentito il bisogno di precisarlo qualora l'altro fosse ancora in stato confusionale «Ti ricordi cos'è successo?» e, sinceramente, Mabel non sapeva cosa sperare.
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    Continuava a stupirsi.
    Perché poi, quando era palese che per quanto potessero odiarsi, alla fine Mabel fosse sempre al suo fianco, incurante di potersi ferire di nuovo. E non capiva, o magari sì e non voleva ammetterlo, il motivo dietro quell’ossessione che entrambi avevano l’uno per l’altro. Perché? Avrebbe voluto chiedere al ragazzo, mentre osservava quel volto preoccupato e pallido, faticando a sentire le domande, concentrato su quanto fosse sfocato. Perché sei qui? Dopo tutto quello che gli aveva detto e fatto, trattandolo con sufficienza, evitando qualsiasi contatto che non fosse necessario. Lo sapeva, in fin dei conti, di essere meschino. Che Mabel non meritasse qualcuno come lui ad incasinargli ancora la vita, a farlo soffrire più di quanto già non avesse sofferto; ma credeva davvero che il Withpotatoes non fosse una pedina, un semplice burattino nelle sue mani, ed era egoista, lo voleva per sé. Se così fosse stato, sarebbe stato semplice disfarsene, far finta che nessuna delle sue parole avesse un effetto sul suo corpo, sulla sua mente, che lo infettasse come una malattia.
    Invece ci teneva, più di quanto dimostrasse, perché permettersi l’affetto – quello vero, fatto di abbracci, sorrisi e spensieratezza – non era un’opzione, non per lui. Lo Special si sarebbe dovuto accontentare sempre di quel poco che riusciva a concedergli, di quegli attimi miseri di normalità e cercare di sopravvivere al continuo, perenne tentativo di sabotarsi.
    Era un maestro nel farlo, abituato a non avere nessuno al proprio fianco se non se stesso, troppo orgoglioso per ammettere quanto fosse preziosa la presenza di Mabel vicino a lui, in quel letto d’ospedale.

    Per questo non si aspettava di vederlo lì.
    Insomma, perché? Non avevano mai detto di essere una coppia, non aveva mai dimostrato chissà quale affetto nei suoi confronti e dopo l’ultimo litigio aveva pensato che, prima o poi, quando l’altro avrebbe trovato un posto tutto suo, si sarebbe ritrovato un lato dell’armadio vuoto e l’altra parte del letto fredda.
    Invece era lì.

    Perché.

    «Davvero troppe domande» che non aveva nemmeno ascoltato. Le aveva percepite come tali, eppure l’unica parte che aveva davvero sentito era stato il Dude, detto con quella solita faccia da stupido, quella che gli faceva sempre ricordare come le loro vite si fossero incrociate. Un bene? Un male? Era più una via di mezzo.
    Come si sentiva? Era difficile dirlo, perché se da una parte era vivo, dall’altra era abbastanza certo di essere ancora stordito dalle pozioni; sulla pelle avvertiva dei leggeri pizzicori, ma nulla che gli facesse credere che fosse messo così male. Ricordava a tratti la battaglia, le miriadi di luci degli incantesimi ad accavallarsi l’uno sull’altro, le urla rabbiose e gli ansiti morenti.

    «No, sto bene» non aveva bisogno di nessuno. Non avrebbe mai avuto bisogno di aiuto. Era lì solo per una sfortunata coincidenza, dell’essersi distratto per un maledetto istante ed aver deciso di comportarsi da leader. Perché era quello che l’aveva fottuto, il preoccuparsi dei propri sottoposti, degli altri Pavor perché lui, ormai, era il loro Capo. Era quello che avrebbe dovuto riportarli tutti vivi, sani e salvi alle loro famiglie. Era una sua responsabilità ed aveva permesso ad un gruppo di Ribelli di prendersi una mezza vittoria. Voleva sapere chi e quanti fossero morti. Se almeno fosse servito a qualcosa.

    «Ho bisogno di parlare con Godric» e chiedergli perché cazzo non gli avessero fatto trovare sul comodino dell’ospedale il rapporto completo, le perdite, i feriti, i nomi dei Ribelli catturati che avrebbe ucciso lentamente, con le sue stesse fottute mani.
    Incurante dei fili, degli aghi, delle bende, voleva solo alzarsi per andare via dall’Ospedale. Non era il suo posto quello, apparteneva al Ministero. Era il Capo Torturatore ed aveva riposato abbastanza.

    «Ti ricordi cos’è successo?» nemmeno la voce preoccupata di Mabel era riuscita a fermarlo dal desiderio di mettersi in piedi, recuperare i suoi vestiti e tornare nell’unico posto in cui si sentisse utile.
    Nemmeno le bende a pressare sull’occhio e le altre un po’ più strette sul suo addome. Quello che era riuscito a bloccarlo, invece, aveva un sapore diverso e sapeva di bile.
    Urlare non era possibile. Piangere benché meno.
    Eppure, dopo aver scostato le lenzuola per rimettersi in piedi, erano state le prime cose a cui aveva pensato, per poi rimanere pietrificato sul posto.

    «Ti ricordi cos’è successo?» ne avrebbe fatto a meno. Il suono dello strappo, la perdita di sangue, la mancanza di dolore anestetizzato dal suo stesso corpo, impossibile da registrare. Troppo forte, troppo devastante per una singola persona. Non riusciva a fare altro che rimanere lì a guardare il punto oltre il ginocchio, la mancanza prepotente di un pezzo di sé a fargli contrarre la mascella nel tentativo di non lasciarsi andare a nessuna emozione.

    «Non importa» importava eccome «è solo una gamba» la sua gamba «non cambia niente» era in stato di shock «posso vivere anche senza» impercettibile, ma il suono della sua stessa voce gli sembrava vuoto.
    Reprimere le emozioni era l’unica cosa che sapeva fare. Quando si parlava di Mabel faticava a ragionare con razionalità, ma per se stesso… lasciarsi vedere debole avrebbe portato gli altri a crederlo debole. I suoi occhi dovevano rimanere aridi, le sue labbra distese in una linea piatta, i suoi denti ben stretti per evitare ogni reazione. Con o senza una gamba, i Pavor dovevano considerarlo abbastanza forte da poter continuare a riporre la loro fiducia nei suoi confronti.

    Forse in solitudine si sarebbe lasciato andare, ma nemmeno davanti a Mabel avrebbe ceduto.
    «Questo non cambia che ho bisogno dei rapporti» perché si era impegnato così tanto per arrivare lì. Aveva fatto di tutto per dimostrare di poter essere un buon Pavor o un buon leader, e sentiva solo un moto di frustrazione attanagliargli le viscere; aveva passato le notti in quell’ufficio, lavorando il triplo solo per dimostrare qualcosa. Per essere riconosciuto, per avere il rispetto degli altri. Non avrebbe rinunciato così, non dopo tutti i sacrifici e le notti in bianco, la stanchezza a fargli crollare il capo sulle braccia.
    Era sempre stato uno stacanovista e non era abituato a lasciare le cose a metà.
    Avrebbe ignorato ogni insulto, ogni calunnia, ogni stupidità, perché una gamba persa non rappresentava il Mangiamorte che era.

    «Hai letto il giornale? Quanti morti?»

    Non aveva mostrato fatica nel mettersi seduto.
    Soffriva come un cane. Non c’era nulla di piacevole nello scricchiolio delle sue ossa, nello stirare doloroso delle ferite. Nella difficoltà che aveva nel guardare, ancora, il punto vuoto.
    Aveva stretto i denti, conscio che Mabel non si sarebbe azzardato a toccarlo, ad aiutarlo, a farlo passare per debole. Ma il suo corpo era un traditore e pretendere di non essere traumatizzato era troppo anche per lui.
    Tremava così tanto da poter far credere che fosse solo per lo sforzo fisico, ma non lo era. Tremava e lo sapeva che il panico non avrebbe tardato ad arrivare. Tremava, seduto sul bordo del letto, cercando di dare le spalle allo Special, per non vedere nei suoi occhi un “e adesso?” a cui non voleva pensare.
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    Il fatto era che per lui non era poco, non lo sarebbe mai stato.
    Abituato a poco, convinto di meritare ancor meno, non c'era un solo gesto dell'Icesprite che Mabel non cogliesse come prezioso. Ad Hogwarts aveva appreso ben poco sull'utilizzo della magia, ma se in quegli anni aveva imparato a fare qualcosa, quel qualcosa era osservare. Non era uno che attirava l'attenzione il Withpotatoes, né tanto meno si era mai dimostrato in grado di scambiare più di qualche parola con qualcuno che non fosse lo specchio della sua stanza, ma quello starsene costantemente in disparte gli aveva dato accesso ad un mondo a cui pochi avevano il privilegio di accedere: quello dell'inconscio. C'erano delle espressioni, dei piccoli movimenti del viso, delle parole a malapena sussurrate che solo chi viveva la vita come spettatore e non come protagonista sarebbe mai stato in grado di cogliere. E Mabel, suo malgrado, non era mai stato bravo a muoversi sul palco: li guardava dall'esterno, ammirandoli e talvolta invidiandoli, ma potendo dire di conoscerli meglio di quanto non conoscessero sé stessi. E come poteva, un osservatore ormai esperto, non conoscere le paure dietro alle parole di Aaron, le intenzioni dietro ai suoi gesti fintamente distratti, l'interesse dietro alla sua ostentata noncuranza.
    Non avrebbe mai preteso di cambiarlo così come non avrebbe mai chiesto di più, perché già quello era il suo di più.
    Conoscere gli altri, tuttavia, non l'aveva mai reso più abile a comportarsi di conseguenza. Al contrario: c'era sempre una certa gonfiaggine in lui, un'incapacità congenita nel dire la cosa giusta al momento giusto, a chiudere la bocca prima di dire qualcosa di troppo, a bloccare le mani dietro alla schiena per non rispondere all'istinto di sfiorare quelle altrui. E, allo stesso modo, non era riuscito a trattenersi nel chiedere ad Aaron di cosa avesse bisogno, pur consapevole che l'altro non avrebbe mai avuto bisogno di niente. Non a suo dire, almeno.
    Per questo un piccolo sorriso aveva fatto capolino su quelle labbra ormai stirate nella preoccupazione, perché in quel «No, sto bene» ci aveva visto un che di familiare, ci aveva visto Aaron.
    «Godric avrà già posato il culo sul letto e si starà facendo una bella dormita» chiaramente, non conosceva Godric «mentre tu sei in ospedale a preoccuparti per il lavoro piuttosto che riposare» e non che la cosa lo stupisse trattandosi dell'Icesprite, ma non poté fare a meno di sottolinearlo alzando gli occhi al cielo, riaccendendo per l'ennesima volta il suo mal di testa.
    Aveva sperato che, nel suo orgoglio e nella sua ambizione, al Serpeverde fosse quanto meno rimasto sufficientemente buonsenso da comprendere quand'era il caso di restare sotto le lenzuola e non muoversi - inutile dire che l'avesse oltremodo sottovalutato. Ma non era solo una questione di sicurezza, a quel punto, quanto più un voler risparmiare al maggiore una scoperta che avrebbe comunque presto o tardi fatto, rimandando l'inevitabile per non doversi premurare nell'immediato di trovare il modo giusto per spiegarglielo. Non che ce ne fosse bisogno, comunque.
    Scattò in avanti, posandogli una mano sulla spalla per impedirgli di alzarsi, biascicando tra i denti un «Datti una fottuta tregua» nel sentirselo scivolare tra le dita, socchiudendo gli occhi per non dover vedere il lenzuolo scansarsi, la consapevolezza farsi largo sul viso dell'Icesprite.
    Si ritrasse, evitando di guardarlo perché sapeva che all'altro non sarebbe piaciuto trovarlo lì, con faccia compassionevole ed una parola di troppo sulla punta della lingua. Abbassò il capo ed attese che fosse lui a parlare, a rimettersi a posto, a dirgli cosa fosse giusto fare - ammesso che lo sapesse.
    «Non importa» strinse i denti il Withpotatoes, soffocando il desiderio di urlargli in faccia che importava eccome, che importava più di tutto. Non per la mutilazione, non certo per quello... Ma perché gli avevano fatto del male. Gli avevano strappato via una parte di sé come se ne avessero avuto il diritto, noncuranti di avere davanti non un Pavor fra tanti, ma Aaron Icesprite, il suo, Aaron Icesprite.
    «Questo non cambia che ho bisogno dei rapporti» esattamente quell'Aaron.
    Però non disse niente.
    E non che non sentisse il bisogno di dirglielo, che lo odiava per quel suo estenuante senso del dovere che non aveva fatto altro che portarlo lì, in una dannata stanza asettica del San Mungo, senza una gamba e con una benda dell'occhio. Non che non ci fosse neanche una parte di sé che premesse per schiaffargli in viso quel te l'avevo detto stretto tra i denti, né che non desiderasse dargli del coglione perché ancora, nonostante tutto, se ne stava lì a pensare al lavoro.
    Voleva tutte quelle cose, eppure ce n'era una che voleva di più: che Aaron stesse bene. E se quella era la strada che aveva scelto per sé, se fosse stato disposto a correre il rischio ancora e ancora, Mabel sarebbe rimasto al suo fianco.
    «Sette, e ne hanno presi due» rispose meccanico, posando finalmente gli occhi sulle spalle del Serpeverde, accarezzandone la figura con lo sguardo ma senza osare alzarsi in piedi per raggiungerlo. Non era ciò che l'altro avrebbe voluto.
    «Gli altri sono riusciti a fuggire, ma dicono che non dovrebbe essere difficile trovarli con due prigionieri» aggiunse con cautela, studiando ogni più piccolo movimento del maggiore «e, quando il Capo Torturatore potrà tornare al suo posto, di certo provvederà lui stesso ad occuparsene.» si passò la lingua sulle labbra, accorgendosi solo a quel punto d'averle torturate fino a farle sanguinare. Vi passò sopra un polpastrello, restando in silenzio ancora per una manciata di secondi.
    «Aaron» lo chiamò alla fine in un sussurro, avvertendo la stanza farsi un po' più cupa. Stava cercando da ore di trattenersi, perché sbattere in faccia al Serpeverde quel potere che già di per sé mal sopportava ed in un momento tanto delicato gli era sembrato fuori luogo, ma mettere un freno alle ombre che sentiva scalciare nel proprio petto era maledettamente difficile. «non intendo fare il tuo lavoro, ma se pensi che non cercherò chi ti ha fatto questo, non hai capito niente» piegò indietro la testa, osservando il soffitto ingrigito da una sottile nebbiolina scura. «e, sinceramente, non me ne frega un cazzo se pensi che non ne sia in grado.» allungò le gambe davanti a sé, cercando di rilassare i muscoli da troppo tempo in tensione «In ogni caso, se continui a sforzare quella gamba per fare il coglione stakanovista orgoglioso sarà più difficile lavorare sulla protesi, poi fai un po' come ti pare.» socchiuse gli occhi, perché non voleva più vedere quanto male se la stesse cavando con la storia del trattenere le ombre. «Il Ministero dice che si occuperà delle spese e tutto il resto, col tempo camminerai quasi come prima e sarà un po' meno una merda.» Avrebbe voluto abbracciarlo, ma sapeva che con Aaron sarebbe servito a poco, perciò si limitò a sospirare. «A me non cambia niente, e se potessi darti la mia di gamba te la cederei volentieri - ma non posso. Non posso fare un granché, in generale, ma non ho intenzione di andare da nessuna parte, perciò piantala di darmi le spalle e fingere che sia tutto a posto.»
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    Era assurdo persino pensare di potersi alzare, eppure il suo cervello continuava a ripetergli incessantemente “datti una mossa, perché stai ancora seduto? Perché tremi? Perché vuoi piangere?” abituato a non cedere, a farsi sempre carico delle problematiche del suo dipartimento. Aveva passato le giornate e persino le notti chiuso in quell’ufficio che, sebbene fosse spazioso, era diventato una gabbia fatta di carte e doveri. Aveva trascurato la sua vita per l’ambizione, i suoi pochi affetti per la ricerca di approvazione di quelli che, sapeva, avrebbero provato a pugnalarlo alla prima occasione. Ed era per questo che, nonostante sapesse perfettamente che Mabel avesse ragione, che sforzarsi non avrebbe risolto la situazione, ogni fibra del proprio corpo soffriva all’idea di dover ricominciare daccapo. Aveva sprecato anni della sua vita dietro futili risse scolastiche, barattando la sua intelligenza per quella sfuggevole soddisfazione di essere il più forte; ed ora che aveva finalmente fatto pace con se stesso, con quell’incessante voce nella sua testa a ripetergli che non fosse abbastanza e che era riuscito a zittire prendendo il posto di Anjelika, aveva perso una gamba. Non un dito, non un dente. Una gamba.
    Sapeva che chiunque altro, nella sua stessa condizione, non avrebbe reagito con quell’aria di totale meccanicità che si ci poteva solo aspettare da un Pavor. Le persone normali, quelle con una vita, quelle comodamente aggrappate alla quotidianità, non sapevano cosa significasse dover mantenere l’apparenza per non essere distrutti. Al Ministero bastava un passo falso, un errore, per essere considerati l’anello da eliminare, quello facilmente sostituibile; lui non era un pezzo da poter cambiare come un ingranaggio rotto e convincersi che non fosse niente, che non provasse niente, era più semplice che ammettere che avrebbe dovuto lottare il triplo per essere nuovamente in grado di tornare a lavoro.

    «Sette, e ne hanno presi due. Gli altri sono riusciti a fuggire» avrebbe dovuto tirare un sospiro di sollievo alla notizia che, nonostante tutto, fossero riusciti a prendere dei Ribelli, ma come poteva considerarla una vittoria? Non per sé, per quanto facesse male, ma per quei Pavor che erano morti sotto il suo comando. Raramente sentiva quel fastidioso sentimento chiamato rimorso, tuttavia lo sentiva premere nella cassa toracica, comprimerla, fargli percepire il senso di colpa forte come non lo era mai stato prima. Sapeva, razionalmente parlando, che non fosse stata una sua decisione quella di compiere quella missione, che i Pavor non erano altro che soldati bene addestrati per rispondere agli ordini del Ministro, ma era comunque deprimente, persino per uno come lui, difficile da impressionare.
    «Solo due» era stato niente di più che un mormorio, mentre la mano destra si affrettava a passarsi tra le ciocche brune, in un chiaro sintomo di nervosismo; cosa avrebbe dovuto fare? Chi avrebbe dovuto occuparsi di quella situazione in sua vece, mentre cercava una soluzione per poter camminare senza essere un peso? Quale terapia avrebbe dovuto subire?
    Il flusso di quei pensieri accavallati, veloci, era stato bloccato dalla voce di Mabel, quel sussurrato «Aaron» che per un istante lo aveva irrigidito sul posto, ancora seduto sul bordo del letto, la gamba intatta a tremolare impaziente. Guardarlo avrebbe significato mostrare la propria debolezza, il punto debole, l’incertezza. Per un istante si era domandato se fosse poi così male potersi fidare dello Special, per poi dirsi che farlo avrebbe comportato diversi quesiti spinosi o la possibilità concreta di metterlo in pericolo. Tutti sapevano che tra di loro ci fosse qualcosa e già questo bastava per renderlo paranoico, per fargli credere che alla fine si sarebbero approfittati di questo particolare della sua vita per fare del male a Mabel.
    Era necessaria la distanza, era necessario essere forti, anche a costo di essere spietati.

    «non intendo fare il tuo lavoro, ma se pensi che non cercherò chi ti ha fatto questo, non hai capito niente. E, sinceramente, non me ne frega un cazzo se pensi che non ne sia in grado» malgrado lo shock e gli spasmi dovuti al dolore, ma soprattutto al tentativo di riprendersi da quello stato di totale rifiuto, le parole del Withpotatoes non avevano potuto che fargli scuotere il capo. No, non in disappunto. Né di rabbia.
    «È proprio perché ti credo in grado di farlo che sarebbe meglio se non lo facessi» proprio perché credeva fermamente nelle capacità dell’altro non dubitava che Mabel avrebbe ucciso per lui. A parti invertite non si sarebbe comportato diversamente, avrebbe detto esattamente la stessa cosa. Sapeva cosa passasse nella mente dello Special, la rabbia nel vedere qualcuno a cui – per quanto assurdo – volesse bene soffrire per colpa di altri, l’idea della vendetta, di essere la mano a togliere la vita di un Ribelle che aveva osato troppo. Il punto era ben diverso.
    Quella era una sua responsabilità. Al di là del Ministero, al di là dell’orgoglio ferito, era una questione di principio che andava ben oltre gli schieramenti. Si trattava di ripagare i Pavor caduti, riuscire a colmare quella mancanza che aveva avuto, nel non essere stato in grado di portarli sani e salvi dalle loro famiglie.
    Era vero, ogni Mangiamorte faceva il proprio gioco, tesseva le proprie trame, ma il suo senso dell’onore era persino più alto rispetto ai meri giochi di potere. Era responsabilità, quella che si era assunto nel momento in cui aveva accettato la carica. E sapeva di essere stato crudele, di aver spinto i suoi colleghi al loro limite durante le sessioni di Tortura, ma ciò non voleva dire che non conoscesse i loro volti, che seppure facesse finta di disinteressarsene, fosse realmente così.

    «Il Ministero dice che si occuperà delle spese e tutto il resto, col tempo camminerai quasi come prima e sarà un po’ meno una merda» lo sguardo si era posato sullo spazio vuoto oltre il ginocchio, sulle bende ben strette intorno alla parte lesa. Si era quasi dimenticato, di nuovo, di aver perso un arto. Di non potersi alzare, di non poter prendere dell’acqua da solo senza dover necessariamente chiedere una mano «quanto tempo?» una settimana? Un mese? Un anno? Nella migliore delle ipotesi avrebbe impiegato poco tempo ad abituarsi ad una protesi, al fastidio dell’avere un corpo estraneo ad aiutarlo nei movimenti, ma camminare sarebbe stata la parte più difficile. Sarebbe dovuto rimanere in ospedale o gli avrebbero consentito di andare a casa? Come avrebbe fatto a muoversi senza dover essere un peso? Cosa avrebbe…
    Per un istante aveva trattenuto il fiato, stringendo le dita intorno al lenzuolo; sebbene lo avesse visto all’opera e conoscesse il potere di Mabel, il solo vederlo lì a fluttuare sulla sua pelle lo metteva terribilmente a disagio. Ricordava perfettamente il buio ad avvolgerlo, i sensi ad acuirsi, il tentativo di mantenere la calma con la consapevolezza che non gli avrebbe fatto del male, non così tanto.
    Ma quel buio gli ricordava anche gli scoppi, le urla, il sangue. L’immobilità, il terreno umido sotto la guancia e il rumore dello strappo, sempre più forte. L’odore ferroso e il sapore acre della bile.

    Per un breve istante, scosso, si era dovuto tenere ben saldo al letto per evitare i capogiri, quel senso di disgusto a fargli contrarre lo stomaco.

    «piantala di darmi le spalle e fingere che sia tutto a posto»

    Era stato con un sospiro che, alla fine e stancamente, aveva ceduto alla necessità di fidarsi, voltandosi a guardare Mabel con l’occhio pesto e le labbra rovinate. Un velo di rassegnazione e di accettazione di non poter far nulla per evitare l’inevitabile.

    «Mabel» aveva chiamato tante volte il suo nome, con fare rabbioso, con desiderio, con noia. Quella volta, però, nel tono strozzato mascherato dalla solita indifferenza, era nascosta la paura di aver fallito. Poi non aveva fatto altro che sospirare, lasciando cadere le spalle sul letto e la testa sul cuscino, sconfitto dalla realtà «tieniti la tua gamba. Sei troppo basso, sarebbe inutile.»
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    Edited by Miss Badwrong - 26/3/2020, 23:40
     
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    «quanto tempo?»
    Avrebbe voluto dargli una risposta, ma la verità era che Mabel di risposte non aveva mai avute.
    Il tempo non era mai stato clemente con loro, in nessuna vita, e confidare in esso sarebbe stato da ingenui, da incoscienti. Ma al Withpotatoes non importava. Non più di quanto gli importasse d'aver lasciato il letto disfatto in casa e le briciole sulla tovaglia, non più di quanto gli fosse importato di lasciare la propria epoca per seguire suo fratello in quell'assurda missione. Se non fosse stato così, avrebbe evitato con tutto sé stesso tutte quelle piccole e grandi discussioni che li avevano divisi per giorni, per settimane, talvolta persino per mesi. Avrebbe evitato di sprecare tempo, perché ogni minuto senza Aaron sarebbe stato un minuto perso, perché niente avrebbe mai potuto ridarglielo indietro. Ma non gli importava, per l'appunto.
    Aveva smesso di importargli quando aveva iniziato a capire che quella faccenda del tempo era una gran puttanata, che tanto gli si sarebbe sempre ritorta contro in ogni caso. Aveva scelto di considerare solo l'attimo corrente, senza premurarsi di guardare indietro né tanto meno avanti. Non avrebbe perseguito l'intento di Eugéne, non sarebbe andato alla ricerca di nessuna fantomatica Cura, non avrebbe avuto paura di morire. Che morissero insieme, così come avevano già rinunciato alla vita una volta, e che il tempo si rivelasse ancora una volta inclemente, che gli impedisse pure di stare insieme ancora per un'altra esistenza. Solo una cosa chiedeva: che non gli portasse via Aaron, lasciandolo lì senza di lui. Avrebbe accettato tutto il resto, un futuro umile e la consapevolezza di non essere mai abbastanza, ma non quello.
    «non lo so»
    Come non sapeva tante altre cose, eccetto una: che la testa aveva iniziato a fargli menomale, che aveva ricominciato a respirare. Ne rimase sorpreso, quasi si fosse aspettato di non saperlo più fare. Era così assurdo che non potesse semplicemente scegliere di smettere a proprio piacimento, che il suo corpo lo costringesse a farlo in ogni caso. Non c'era ragione di provare sollievo: Aaron era ancora la stessa testa di cazzo di sempre.
    O forse il punto era proprio quello.
    Aaron era la stessa testa di cazzo di sempre, perciò era vivo. Respirava anche lui, e poteva ancora guardarlo - anche se non bene come prima magari -, poteva ancora persino insultarlo. Mabel non si sarebbe risparmiato nessuna di quelle cose, neppure l'ultima.
    Era così che aveva imparato ad amarlo, era così che avrebbe sempre fatto, e solo nell'ascoltare quella stupidissima frase («tieniti la tua gamba. Sei troppo basso, sarebbe inutile.») si rese conto di quanto fosse felice di poterglielo ancora sentir dire. Si era preoccupato di come l'altro avrebbe accettato la perdita della gamba, aveva avuto paura di non essere in grado di stargli accanto, ed aveva trascurato l'unica cosa realmente importante: che era lì, che erano tutti e due lì, e sarebbero tornati a casa insieme.
    Quell'improvvisa cognizione lo colpì come uno schiaffo, paralizzandolo sulla sedia ed impedendogli di formulare razionalmente un solo pensiero. Non si accorse neanche di aver lasciato che qualche lacrima riuscisse effettivamente a scivolargli giù dagli occhi, come fosse anestetizzato.
    Si lasciò sfuggire persino una risata roca, a graffiargli la gola in maniera quasi dolorosa, mentre si passava una mano sul viso per cancellarla insieme a tutto il resto.
    «ma che ti hanno fatto da piccolo» ...non voleva essere un insulto ma, insomma, non poté fare a meno di chiederselo il Withpotatoes. Perché fosse così, perché non potesse essere solo sollevato all'idea di esser sopravvissuto, felice di vederlo. «il passivo aggressivo è arrivato dopo un trauma, o è una cosa congenita?» per inciso: era ironico - ma non troppo. L'Icesprite aveva il potere di fargli sempre quell'effetto, di portarlo al limite e dargli sui nervi all'inverosimile.
    Perché non potevano solo essere normali? Ecco un'altra risposta che Mabel conosceva: perché nessuno dei due lo era, ed insieme erano anche peggio. Perché alla fine andava bene così.
    Allungò una mano per afferrare quella dell'altra e, senza troppa delicatezza, tirarla a sé ed avvicinarsela al viso, poggiarvi la fronte e nascondere così gli occhi. Vivevano insieme da settimane, ed a malapena si erano rivolti la parola. Si scambiavano qualche stupida frase di circostanza, pregna di quella sottile ironia che li aveva sempre contraddistinti, ed andavano a dormire nello stesso letto dandosi le spalle. Mabel restava sveglio per ore, non perché ne avesse voglia ma perché non riusciva a dormire. Aveva sempre avuto problemi d'insonnia, ed in quei giorni non aveva fatto che accentuarsi. A volte, il sonno finiva per coglierlo quando il respiro di Aaron si era già fatto pesante da un pezzo. Altre, aveva l'impressione che anche l'ex Serpeverde fosse ancora sveglio. Ma non glielo chiedeva mai.
    Aveva smesso di credere al tempo da un pezzo, eppure in quell'istante non poté che odiarsi per tutto quello che avevano consapevolmente scelto di perdere. Se ne accorgeva solo ora, dopo aver temuto realmente che l'Icesprite non sarebbe più tornato. Non aveva idea di come spiegarlo al maggiore, né se l'avrebbe mai capito, ma a quel punto sentiva di doverci provare. Lo doveva a sé stesso, ad Aaron, a loro. Altrimenti, tanto valeva fare i bagagli e farla finita con tutta la loro storia.
    «non farlo mai più» soffiò, pur sapendo che chiedergli di lasciare il proprio lavoro o di deporre le armi sarebbe stato come chiedergli di cavarsi entrambi gli occhi con un cucchiaio. Non lo intendeva davvero, solo... «ho avuto così tanta paura» e per un istante, solo per un istante, tornò ad essere lo stesso Tassorosso spaventato che Aaron aveva conosciuto più di un anno prima sul Campo di Quidditch.
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    «non lo so»

    E come avrebbe potuto saperlo? Una risposta inconcludente per una domanda insensata. Mabel non aveva risposte e di certo non avrebbe potuto fargliene una colpa, non per quello, non per la situazione in cui si era andato a cacciare. Con la testa sul cuscino il mondo gli sembrava meno doloroso, pretendendo che fosse bianco come il soffitto sopra di loro, immacolato, ancora tutto da scrivere. In quella posizione poteva ignorare la mancanza della gamba, non badare troppo all’occhio dolorante o al mal di testa, ma soprattutto evitare – ancora – di dover fronteggiare lo Special. Cosa avrebbe dovuto dirgli? Cosa avrebbe dovuto fare? C’erano volte in cui si domandava il perché ci stessero ancora provando, ma poi si diceva che non ci fosse nessun altro modo, nessun’altra persona che potesse prendere il posto del Withpotatoes. Non avrebbe avuto lo stesso peso, la stessa importanza che aveva l’ex tassorosso e non si sarebbe mai potuto dimenticare di quegli occhi azzurri nemmeno se avesse deciso di obliviarsi. Ogni volta che si perdeva in quelle iridi chiare, anche per un piccolo, infimo istante, riusciva a respirare; sapeva che tenere Mabel così stretto era un gioco sporco che lo avrebbe fatto soffrire, ma egoisticamente non riusciva a lasciarlo scivolare via, concedendogli il diritto di avere di meglio.

    Era esausto, arrabbiato, demolito dalla sconfitta. In che altro modo avrebbe dovuto reagire se non con quell’aria apatica che era la prassi nel suo volto piatto? Erano pochi i momenti in cui il cipiglio burbero lasciava il posto ad altre emozioni; come in quel momento in cui aveva deciso, finalmente, di voltare il capo verso il minore solo per rendersi conto che stesse piangendo.
    Era difficile descrivere quanto quelle lacrime avessero su di lui l’effetto di una coltellata al cuore, ancora peggio dello strappo avvertito durante la battaglia. Perché erano il sintomo di un malessere e lui, per quanto contraddittorio, in quel caso non voleva esserne la causa; perché immaginava lo spavento, la preoccupazione che avevano portato lo special in quella stanza d’ospedale, eppure non riusciva ancora a darsi una risposta, a credere che Mabel fosse lì per lui. Forse, quello che stava provando il Withpotatoes, era lo stesso sentimento che aveva provato lui quando, per un mese, non aveva più avuto sue notizie. Quando l’idea che fosse morto lo aveva tenuto sveglio la notte e l’orrida sensazione di incompletezza si era impadronita del suo corpo senza che potesse impedirlo. Ricordava chiaramente di aver pensato che non valesse la pena vivere in quell’epoca senza Mabel; che in quel momento si fosse ritrovato più vicino ad Eugéne e alla sua decisione di scappare per non dover affrontare il dolore della perdita.

    Da una parte, quella più sadica, quella meno compassionevole, era soddisfatta. Una rivincita. Un modo per vendicarsi di tutte quelle giornate passate nella più totale disperazione. “Te lo meriti” avrebbe voluto dirgli, incurante di ferire i suoi sentimenti “ti meriteresti di vedermi morire, solo per capire quanto sei stupido ed incosciente” per provare sulla propria pelle gli effetti della paura.
    Ma l’altra parte di sé, quella che amava Mabel, lo aveva fatto tacere e rimanere in silenzio a guardarlo spazzare via il sale dagli occhi. Non si era fatto avanti per consolarlo, ma non aveva infierito.
    «ma che hanno fatto da piccolo» niente che non fosse nella norma, a parte crescere con sua zia e vivere un’adolescenza turbolenta «sarò caduto dal seggiolone» perché era conscio di non essere normale, che ci fosse sempre qualcosa di rotto in lui, ma saperlo era un ottimo modo di conviverci.
    «il passivo aggressivo è arrivato dopo un trauma, o è una cosa congenita?» passivo aggressivo, diceva? Non aveva mai visto il proprio comportamento come una difesa. Ragionandoci, sebbene quella dell’ex Tassorosso fosse stata solo una battuta, poteva anche darsi che lo facesse per tenere alla larga chiunque provasse ad avvicinarglisi. Non era mai stato bravo a farsi degli amici, considerandoli uno spreco di tempo, ma si era dovuto ravvedere nel momento in cui aveva permesso a Godric di sedersi con lui nella mensa del Ministero. Non che parlassero molto, per lo più rimanevano in silenzio a mangiare, ma sorprendentemente bastava un’occhiata per capirsi, senza bisogno di inutili ciance. Forse, l’Osborne, era quell’unica persona che poteva chiamare amico senza sentirsi uno stupido.
    «Non sono passivo aggressivo, è che mi disegnano così» che la botta in testa fosse stata così forte da riportargli alla mente un film visto tanti anni prima? Probabile. Ricordava vagamente di aver guardato quella pellicola con uno dei suoi cugini, forse in una delle tante occasioni di famiglia.

    Non pensare al lavoro era strano. Parlare con Mabel ancora di più.
    Era così tanto tempo che non si lasciava andare a discorsi che non comprendessero torture, Pavor e Ribelli che aveva dimenticato quanto fosse assurdamente piacevole poter fare battute. Non che ne avesse realmente la voglia, non con il pensiero della riabilitazione e di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, ma come spiegarlo? Aveva ricominciato a respirare, seppure con un peso nel cuore.
    Il Withpotatoes aveva ragione e sebbene non glielo avrebbe mai detto, preferendo evitare di esporsi così tanto, si sarebbe dovuto rassegnare all’idea che staccare la spina sarebbe servito per riprendere a lavorare con più efficienza.
    Non si sarebbe ovviamente risparmiato dal chiedere ai suoi sottoposti di tenerlo aggiornato, di fargli recapitare i documenti da leggere, ma avrebbe evitato di spostarsi. Doveva essere pratico e lavorare da casa gli avrebbe garantito di rimettersi in forze.

    La mano di Mabel sulla sua era stata abbastanza per decidere di tornare a guardarlo, sperando di non trovare altre lacrime, forse più confuso di quanto avrebbe davvero dovuto essere. Sembrava non conoscerlo affatto, ma si stupiva ogni qualvolta ritrovava familiarità con quei tocchi. Il fatto che avesse nascosto il viso era un vantaggio per entrambi, perché quello avrebbe mascherato i suoi veri sentimenti.
    «non farlo mai più» per quanto avrebbe voluto giurargli che non si sarebbe mai più ritrovato in prima linea, la verità era che non poteva farlo. Essere il Capo Torture non lo esonerava dal pericolo e, anzi, lo poneva in una posizione ancora più pericolosa. Ma era questo che aveva sempre voluto. Non le scartoffie, non un posto sicuro dietro la scrivania, ma la bruciante necessità di poter usare la bacchetta per un fine superiore.
    La noia della quotidianità non faceva per lui, per questo era rimasto in silenzio, con l’espressione più morbida, ma senza nulla da potergli assicurare. Non era il tipo di persona che prometteva qualcosa senza essere sicuro di poterla mantenere.
    «ho avuto così tanta paura» se non avesse sentito la voce spezzata del minore non si sarebbe risparmiato dal dirgli quanto quel comportamento fosse patetico. Di quanto dovesse smetterla di avere paura, perché quello lo avrebbe portato a farsi uccidere «Di cosa? Che morissi?» non aveva scostato la mano, piuttosto si era limitato a pressargli la punta del naso con l’indice in un chiaro segno di dispetto «Quanto sei stupido, smettila di frignare, sono io quello a cui manca una gamba. Risparmia le lacrime per quando dovrai aiutarmi a camminare» chissà se Mabel avrebbe colto quel piccolo tentativo di tregua o la flebile fiducia che voleva concedergli.

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