it's a crisis that we're pulling towards.

mabel ft. fake

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +6    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Inferius
    Posts
    354
    Spolliciometro
    +366

    Status
    Offline
    play
    other
    mabelwhitpotatoes
    It doesn't really matter if I'm happy or sad. It's bigger than the rest of us, he'll promise you that, I'm glad.
    sheet
    aesthetic
    music
    Maybe there's a fire today
    death eater
    shadows control
    19 y.o.
    «Respira.»
    Gliel'aveva detto Darden, almeno quindici anni prima, quando l'aveva trovato, in un vicolo non troppo distante da dove abitavano, con le spalle al muro e le ginocchia al petto, le labbra schiuse alla disperata ricerca d'ossigeno. Era scappato via nel bel mezzo del pranzo, dopo una stupidissima discussione con Isaac su chi dovesse dormire nel letto più in alto, quando improvvisamente una cosa tanto banale era diventata troppo per lui da sopportare.
    Glielo aveva detto anche Nicole, una vita prima, ma questo lui non poteva ricordarlo. Gliel'aveva ripetuto cento volte, una per ogni sua fuga, quando si ritrovava costretta a corrergli dietro per impedirgli di finire chissà dove o quando, semplicemente, lo ritrovava dentro l'armadio con la testa fra le gambe ed un tremolio leggero a scuotergli le spalle.
    Glielo diceva anche Viktor, quelle volte in cui lo vedeva muoversi con l'irrequietezza che ormai sapeva essere preludio di uno dei suoi eccessi, di quello che lui avrebbe definito crollare ma che, alla fine, altro non era che l'infantile tentativo di attirare l'attenzione di chi, pur affermando di volergli bene, non riusciva a scrollargli di dosso quella perenne paura di morire che l'affliggeva da che ne avesse memoria.
    Voleva che lo notassero, che per un istante mettessero da parte le loro preoccupazioni, i loro problemi, i loro sogni e le loro ambizioni e pensassero a lui, a lui soltanto. L'aveva voluto per tanto tempo, quando si era convinto di voler essere qualcuno. Non necessariamente uno importante, non si era mai sentito all'altezza di potervi anche soltanto aspirare - gli sarebbe bastato essere uno come tutti gli altri.
    Col tempo, tuttavia, si era reso conto che essere uno qualunque era più difficile che essere speciale, perché non era semplice tenere a bada quegli estremi, fingersi sempre composto e recitare la parte dell'uomo che al mondo era in grado di starci esattamente come tutti gli altri, di uno che nella normalità sapeva viverci come ne fosse stato l'inventore.
    Era difficile essere diverso, tanto quanto lo era essere uguale a tutti gli altri, ed era difficile essere centomila quando neppure una delle voci nella sua testa pareva andare d'accordo con l'altra.
    Ed alla fine, così ovvio eppure così difficile d'afferrare, lo aveva compreso: che l'unico modo per star bene, era essere nessuno.
    Un'ombra, a scivolare tra le pareti senza far rumore, a farsi notare tanto quanto un chicco di grano in mezzo a mille altri. Non identico: invisibile. Passivo, innocuo, innocente, cordiale ma mai troppo gentile, silenzioso ma mai rude.
    Un viso anonimo, uno da dimenticare, nessuno.
    «Respira.»
    Non ho idea di come si faccia avrebbe voluto rispondere Mabel, perché davvero aveva la sensazione di non averlo mai fatto, d'aver semplicemente messo il pilota automatico ed essersi ritrovato a farlo senza neppure accorgersene. Non aveva idea di come avesse iniziato, e non aveva idea di come si facesse a smettere, ma morire gli era sembrata così tante volte una soluzione, ed altrettante volte era stata la paura a tenerlo in vita.
    Paura di vivere, paura di morire.
    Aveva costantemente paura Mabel, ma non gli piaceva darlo a vedere. Scappava perché gli altri non lo vedessero piangere, stringeva i pugni fino a sentire le nocche bruciare, ma lo faceva sotto al tavolo perché nessuno se ne accorgesse. Lo sapeva Mabel, che dire di star bene era non soltanto più facile, perché non richiedeva alcuna forma di spiegazione, ma era anche esattamente ciò che il mondo avrebbe voluto sentirgli dire. E non li avrebbe sopportati quegli inutili sguardi di compassione, o la leggera smorfia di disagio nel non sapere cosa dire dinanzi ad una dimostrazione di debolezza non richiesta, difficile da digerire.
    «Respira.»
    Ma non era un respirare, era un prendere aria e sputarla fuori come fosse veleno, era una lenta agonia che gli faceva male ai polmoni e alla gola, gli faceva pizzicare gli occhi come un moscerino particolarmente fastidioso.
    Si ritrovava spesso a trattenere il respiro e cronometrarsi in silenzio, per poi chiedersi cos'è che di preciso fosse andato storto in lui, perché fosse così. Gli piaceva dar la colpa alla noia, perché da sempre era stato incapace di star fermo, perché irrequieto lo era stato sin da bambino.
    Iperattivo, lo avrebbero definito in una famiglia babbana. Per i maghi, probabilmente, era soltanto stupido.
    Non era mai stato, in effetti, particolarmente brillante come studente, né aveva mai creduto d'essere un mancato figlio dei Corvonero, ma mai l'aveva mollato la convinzione di avere qualcosa di sbagliato alla base, di non essere del tutto colpevole della propria difficoltà a stare al mondo.
    Magari era genetica.
    Avrebbe voluto saperlo Mabel, se lo chiedeva sin da quando gli avevano detto d'essere stato solo adottato dai Withpotatoes, e la sua curiosità si era fatta più fitta quando aveva ricevuto la lettera di Maverick.
    Conoscere le sue origini.
    Non che non volesse bene a Idem, a Isaac, a Darden o a Gemes, ma aveva sempre avuto la sensazione che mancasse un tassello, e si era convinto che fosse proprio nel sangue che dovesse andarlo a ricercare.
    Spoiler alert: pur conoscendo i suoi veri genitori, neppure Maverick aveva mai conosciuto la pace.
    Ma era per certi versi positivo, per Mabel, avere una piccolissima speranza di poter essere felice.
    Aaron avrebbe riso di lui per questo.
    Sciocco, per non essere in grado di essere forte da solo, per correr dietro ai fantasmi piuttosto che riconoscere l'importanza delle cose reali, di sé stesso. Ma Aaron non poteva capire. Non l'avrebbe mai compreso, quel vuoto che il Withpotatoes aveva sempre sentito all'altezza dello stomaco e che, talvolta, gli pareva che parlasse con la sua stessa voce, e dicesse: «Respira.»
    Ma non gliene faceva una colpa. Non la faceva a lui, come a nessuno dei suoi fratelli: non erano loro il problema.

    «Respira.»
    Sollevò il capo e tornò a mettere a fuoco l'interno del locale, lo stesso che fino ad una manciata di secondi prima si era fatto sfocato sotto al suo sguardo inumidito dall'alcol.
    Non avrebbe dovuto bere.
    Non avrebbe dovuto per un'innumerevole serie di ragioni, che cominciavano dalla sua presenza sul posto di lavoro sino al modo in cui il whiskey aveva l'incredibile capacità di renderlo, se possibile, ancora più irresponsabile del consueto. E non avrebbe dovuto, soprattutto, in nome di Aaron.
    Sindrome di Stoccolma, aveva letto in uno stupidissimo libro babbano, ma non era nella perversione di un rapporto malato di quel tipo che Mabel riusciva a rivedersi. Forse, c'era solamente troppo dentro per potersene accorgere, ma all'ex Tassorosso piaceva pensare di aver invece trovato sé stesso in un rapporto senza dubbio difficile, ma che in qualche modo riusciva a farlo sentire completo.
    O magari, per l'appunto, era soltanto fuori di testa, ed aveva bevuto troppo.
    «Stiamo per chiudere.» si ritrovò a biascicare, passando distrattamente un panno sul bancone e posando a malapena lo sguardo sull'ultimo cliente rimasto nel locale.
    Sperava di non dover, per l'ennesima volta, buttare fuori l'ubriaco molesto di turno - non era proprio in vena.
    «Stiamo per chiudere.» ripeté, avvicinandosi al ragazzo dall'altro capo del banco, picchiettandogli la testa con l'indice quasi a volersi assicurare che fosse ancora vivo. Ripeté il gesto un paio di volte, prima di arrendersi e dargli le spalle, afferrare una bottiglia dallo scaffale e posargliela davanti assieme a due bicchieri. Aggirò il bancone per sederglisi affianco, versando da bere per entrambi e allungando le gambe nello sgabello affianco a sé.
    «Beh, se sei morto se ne occuperà lo sfigato del turno di domattina. Se sei vivo, puoi ancora andare fuori dalle palle o bere con me e raccontarmi una stronzata qualunque che valga la pena di ascoltare.» poggiò le labbra sull'orlo del bicchiere per buttare giù un sorso, increspando le labbra in un leggero sorriso. «Alcol gratis, io ne approfitterei.» scrollò le spalle, conscio del fatto di non potersi assolutamente permettere di offrire alcolici da semplice dipendente - ma oh, ve l'ho detto: Mabel si annoiava facilmente, e bere lo rendeva più irresponsabile del solito.
    inside out
    five fingers death punch
    amnesia
    5 seconds of summer
    unsteady
    x ambassadors
    bored
    billie eilish
    cartoon people
    billie marten
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
     
    .
  2.     +5    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Death Eater
    Posts
    117
    Spolliciometro
    +214

    Status
    Online
    A nessuno piaceva il silenzio. Non importava quante volte si dicesse, e si credesse, il contrario: c’era qualcosa che risuonava troppo vuoto e asciutto, nell’assenza di rumori. Qualcosa di ruvido e strisciante che sembrava portarsi via pezzi d’ossa e pelle, risuonando in ogni organo e rimbalzando lento da un tessuto all’altro. Madein Cheena non aveva mai nascosto la propria avversione verso la quiete, troppo caotico per poter accettare quelle lacune di nulla. Febbricitante alla malinconia, roba da nausea e attacchi di panico, diveniva lui stesso un rumore per riempirsi le orecchie: se vi foste mai chiesti quando Fake fosse diventato dipendente dal cibo, ecco – quello era il motivo. Una guerra personale contro il silenzio.
    Anche in quel momento, masticava. Fastidioso, stomachevole, esasperante, ma qualcosa per togliersi di dosso l’appiccicume dell’aria vacua, e densa di tensione, di quella stanza, doveva pur farla. Parlava sempre e parlava troppo. Parlava più quando non doveva, di quando doveva. Apriva bocca per sentire il suono della sua stessa voce, della lingua a sfiorare guancia e palato, senza aver realmente nulla da dire. Quella qualità, era la sua costante in un’equazione che cambiava sempre addendi. Eppure, quel giorno, taceva. Lo sguardo acciaio scivolava confuso dall’espressione impenetrabile di Godric alla ruga sulla fronte di Dante; si fermava sulla sedia vuota di Jack, sgusciando poi su quella altrettanto fredda di Ryan, arrestandosi solo atterrato sul viso di Ryu. Fake era bravo ad aspettare. Cristo Santo, non aveva pazienza, ma dopo una vita passata a farlo, era fottutamente bravo ad aspettare. Cosa attendesse, poi, non avrebbe saputo dirlo. Un’occhiata al cielo dell’Osborne, forse; un sorriso tutto fossette di Dante, un’acuta gomitata nello sterno da parte di Ryu - qualsiasi cosa fosse facile da respirare.
    «volete?» Così prevedibile, invece, che fosse lui a spaccare quella bolla di quiete. Elegante per addestramento e distruttivo per scelta, con l’usuale smorfia compiaciuta che raramente s’adattava al contesto.
    Fuori tempo. Fuori tempo.
    Scrollò il sacchetto di patatine sospirando di sollievo al rumore dell’alluminio.
    Dante fu il primo a distogliere lo sguardo, con quella ferita sempre aperta di una scelta fatta in continuazione, quasi che un altro secondo sul profilo del Cheena fosse sangue fresco - conscio che aprir bocca avrebbe fatto più male a lui che non a Fake. Godric, invece, fu il primo a catturarne lo sguardo, con lo stesso crudele metodismo di un entomologo alle prese con una nuova specie di coleottero: dicevano, gli occhi dell’Osborne, non mi piace quello che vedo, ma voglio comunque capirlo - e Fake non se l’era mai domandato, nei sette anni di conoscenza, se quella fosse effettivamente amicizia. Aveva preferito decidere per entrambi; aveva preferito imporsi senza lasciare un margine di scelta.
    Ma aveva avuto quasi due anni, per scegliere.
    «broski?» Annusando l’aria come la bestia ch’era, Ryu avvicinò il naso al sacchetto. «è un’altra cinesata?» qualcosa di familiare in quel di Londra, negli occhi scuri del saikebon. «aspè, controllo» infilò la mano nel pacchetto, estraendone poi un gustosissimo, e del tutto legittimo, dito medio, su cui fece scivolare languido la lingua perché se non ti lecchi le dita, godi solo a metà: «坏蛋» durò poco – un solo, fugace, istante – ma Fake riuscì a percepire l’idea stessa di nostalgia in quell’attimo, quasi ne fosse stata la definizione sul vocabolario. Qualcosa che mancava.
    Che non era più.
    Ci provava, il Cheena. Ci provava e riprovava, perché arrendersi non faceva parte del suo già assai limitato vocabolario. Contro porte chiuse, ci picchiava i pugni ed i gomiti, e la spalla e la
    testa
    testa
    testa
    perché era l’unico modo in cui sapesse usarla.
    Soprattutto, il Cheena rimaneva. Quando tutti se ne andavano, era sempre quello che restava ancora, fosse per cinque minuti o cinque anni. Eredità di una vita che non ricordava, incastrata fra battiti in lingue incomprensibili e fremiti lungo la schiena: Marshall Baker era rimasto, quando suo padre se n’era andato; Toast Rivera Hansen avrebbe voluto rimanere, quando tutti gli altri avevano deciso di partire.
    Fake era lì, intrappolato in una via di mezzo.
    Devo andare; devo tornare a lavoro; ho una cena con la famiglia, facciamo domani.
    «okay» tanto parlare era come non farlo affatto, tanto di capire neanche ci provava. Voleva solo -
    voleva solo un po’ di rumore, Fake. Voleva far rumore.
    Quel bisogno, quella necessità, aveva finito per trascinarlo ad Hogsmeade, e da lì alla Testa di Porco: una bisca clandestina, una rissa fra i tavoli – tutto avrebbe fatto brodo. In un’altra esistenza aveva assorbito le emozioni, ma in quella si alimentava solo di disordine. Aveva riso con dei perfetti sconosciuti, ed aveva brindato con imperfetti conosciuti. Principalmente, aveva aspettato (cosa, non lo sapeva) ed era rimasto (per cosa, non lo sapeva).
    Poi era arrivato il brivido, quello che avrebbe riconosciuto fra cento e mille.
    Madein mentiva, quando diceva di non aver paura di nulla – o meglio, ometteva. C’era solo una persona nell’intero, fottuto, mondo, in grado d’instillargli terrore allo stato brado, primordiale come un ululato troppo vicino alla caverna; una persona che raramente incrociava sul proprio cammino, troppo impegnata a ricercare e consumare potere. «弟弟»
    Deglutì, reclinando il capo verso la direzione in cui le sottili dita di Liu Mei artigliavano la chioma corvina. «aye» un sorriso sghembo e leggero, pigri occhi blu socchiusi e cuore folle sulla lingua. Sua sorella lo osservò con l’espressione impenetrabile di sempre, sorridendo ma senza farlo affatto. Avevano un rapporto malato e contorto, feng e mei; sadico e crudele, in cui a pagare il prezzo era sempre Fake, ma l’ex Grifondoro non poteva - non poteva - non volerle bene: era la sua famiglia. Era le radici sulle quali era cresciuto, i rami che avrebbe voluto diventare. La venerava, malgrado tutto. Malgrado lui; malgrado lei. Incapace di riconoscere la tossicità in quella relazione – e come poteva, s’era lei che gli aveva insegnato il male fosse bene?
    Manipolatrice. Fottuta manipolatrice. Contro di lei, non s’era mai preparato armi, subendo e subendo e credendo e subendo.
    Mei aveva stretto la presa un po’ più forte, ed aveva sorriso un po’ più ampia, ed aveva bisbigliato un po’ più densa, colando veleno e fiele ad ogni carezza sulla guancia: non ti stai applicando abbastanza; non ti ho fatto rilasciare per questo; perché perdi tempi con quegli amici? Lo sai che non mi piacciono; se ti chiedessi di ucciderli, lo faresti?

    No

    No
    Non me lo chiedere
    .
    non ti abbiamo addestrato per questo; comportati bene; sei un soldato.
    Ricorda
    buffo, per una che non voleva ricordasse un cazzo
    Ricorda
    e gliel’aveva impresso con l’unghia nella carne, tagliando verticalmente la fronte e la guancia in una macabra imitazione della cicatrice sulla parte opposta.
    Ora sei perfetto.
    Ed era rimasto, ed aveva aspettato, e c’era troppo silenzio. Infantile, si era immobilizzato per non non sentire, bloccato in una crisalide di un tempo che fingeva di non esistere: «Stiamo per chiudere.» Ecco, si rese conto, cosa stava aspettando.
    Voleva essere sbattuto fuori. Voleva essere irriverente, e maleducato, e spingere il cameriere di quel posto del cazzo a colpirlo sempre un po’ più forte, perché la carne vulnerabile era più tenera sotto la suola. Ci si ingigantiva di potere, spezzando costole e lavandosi i piedi di sangue, gonfi di adrenalina ed un perverso senso di rivolta. Fake sembrava sempre supplicare, per un calcio in faccia; non l’avrebbe biasimato.
    Non avrebbe mosso
    un fottuto dito
    Perchè sapeva che il cameriere, il proprietario, il passante o chi cazzo per esso, non l’avrebbero ucciso – quello era impossibile. Voleva solo...del fottuto qualcosa: rumore e dolore suonavano allo stesso modo. «Stiamo per chiudere.» Non si mosse, sorridendo invece fra le mani.
    Le dita sulle spalle.
    Il tono urgente.
    Ci siamo.
    Poi altro silenzio, spezzato dal suono del vetro contro il legno. Un movimento al proprio fianco, al quale – ancora – si rifiutò di reagire. Solamente «Alcol gratis, io ne approfitterei.» riuscì a superare la bolla di disattenzione del Cheena.
    Drizzò la schiena in un battito di ciglia, tamburellando le dita sul bancone con un sorriso da finale di Miss Italia a tirare le labbra. Raccontare qualcosa non era certo un problema per un Madein Cheena qualunque: Mabel Withpotatoes ancora non sapeva quale miccia avesse acceso. Prese il bicchiere e, senza domandare cosa fosse, ne ingollò il contenuto in una sola, bruciante, golata. «quando sono arrivato in gran bretagna, pensavo che il testo di boheman rhapsody dicesse: cavallo cavallo tigre tigre non voglio morire, a volte vorrei non essere nato affatto» Pausa di riflessione. «”mama huhu”» canticchiò, prendendo la bottiglia per riempirsi nuovamente il bicchiere. «ma se hai qualcosa di più interessante da rakkontare, ti ascolto,» fece scorrere il dito sugli anelli argentati alle orecchie, ammiccando docile alla bottiglia. «amico»
    Che di cose da dire, in realtà, ne avrebbe avuto centinaia di migliaia, ma - ma,: non sapeva come, troppo avvezzo a parlare con muri ed animali. Inascoltato e silente, il caotico Madein Cheena.
    Una vita prima, sarebbe stato tutto diverso.

    (ndt: mama huhu significa “più o meno” in cinese, ma la traduzione letterale era più fake TM.)
    18 y.o. - (toast r.h.) - golden boi
    I can remember being nothing but fearless and young
    We've become echoes, but echoes, they fade away
    soundsfake
     
    .
  3.     +5    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Inferius
    Posts
    354
    Spolliciometro
    +366

    Status
    Offline
    play
    other
    mabelwhitpotatoes
    It doesn't really matter if I'm happy or sad. It's bigger than the rest of us, he'll promise you that, I'm glad.
    sheet
    aesthetic
    music
    Maybe there's a fire today
    death eater
    shadows control
    19 y.o.
    Se fosse stato una persona responsabile, Mabel avrebbe come minimo dovuto sbatterlo fuori dal locale, riordinare le ultime cose e tornarsene a casa. Se fosse stato buono, si sarebbe assicurato che stesse bene, l'avrebbe riaccompagnato a casa o chiamato qualcuno affinché lo facesse. Se avesse avuto un briciolo di senno, non avrebbe offerto da bere ad uno che poteva averne già parecchio di alcol in corpo o che, certamente, non era nelle condizioni migliori per farsi una bevuta.
    Ma Mabel era fondamentalmente un'egoista, lo era sempre stato: quel che gli importava era di farsi ancora un paio di bicchieri prima di tornare a casa, e di avere una scusa per poter raccontare a sé stesso di non essere caduto tanto in basso da mettersi a bere da solo in un locale vuoto, ben oltre l'orario di chiusura. Fake era quella scusa.
    Aveva avuto a che fare con tante persone da quando lavorava lì, eppure poteva dire d'aver avuto a che fare con ben poche persone nel corso della sua intera vita. Non era un tipo socievole, ancor meno espansivo, ed i suoi rapporti si erano limitati al contesto in cui erano nati: i compagni di Quidditch, quelli di scuola, gli ospiti della festa che si sarebbe volentieri risparmiato. Nati e morti nello stesso momento in cui, anche ciò che aveva potuto unirli per quel breve lasso di tempo, terminava.
    Per questo non ci sapeva fare, non più di quando avrebbe saputo curare una pianta o un cane, ma se anche fosse esistito un manuale per approcciarsi alle persone, Mabel non l'avrebbe letto. Non gli importava, non aveva alcun interesse a imparare. L'aveva avuto un tempo, forse sì, ma sembrava tanto lontano da apparirgli sfocato, come fosse appartenuto a qualcun altro, non certo a lui.
    La sua impressione era che più il suo interesse per gli altri andava scemando, più quel prurito alle mani aumentava. La voglia di fare qualcosa, non sapeva neppure lui cosa, di scaricare la tensione fregandosene delle conseguenze. L'aveva già fatto una volta, poteva e voleva, farlo ancora.
    Se avesse potuto ascoltare i pensieri di Fake, avrebbe riso della sua convinzione che nessuno l'avrebbe mai ucciso lì. L'avrebbe accontentato, se questo fosse servito a far star meglio non tanto lui, che di fatto restava uno sconosciuto, ma sé stesso. Se ne avesse sentito l'impulso, se avesse ancora una volta trovato il coraggio, forse l'avrebbe fatto.
    O forse no, frenato da qualcosa che andava al di là persino della sua consapevolezza, da un legame invisibile che neppure sapeva esistesse ma che era lì, e l'aveva spinto a sedersi al fianco di uno strambo qualunque piuttosto che a stringere la morsa attorno al suo collo fino a fargli perdere i sensi e vederlo scivolare, lentamente, in quella dissonante danza che aveva imparato ad apprezzare e che profumava di morte.
    Invece si ritrovò ad ascoltarlo, pur senza udirlo davvero, guardandolo negli occhi, scrutandolo più a fondo sino a vedere oltre la sua cavità oculare, oltre la testa e i capelli e la parete di quel fottuto posto.
    Forse aveva bevuto troppo, o forse stava solo impazzendo.
    Difficile a dirsi, per uno che tutti quei pensieri tendeva a tenerseli dentro, a lasciare che vorticassero e torturassero solo sé stesso, risparmiando agli altri la visione pietosa di ciò che era e che sarebbe sempre stato: non uno di loro.
    «cavallo cavallo tigre tigre» ripeté, vagliando silenziosamente tutte le possibili alternative: uno, che quel tipo fosse caduto dal seggiolone da bambino mandandosi completamente a puttane il cervello; due, che si fosse fatto di chissà quale droga; tre, che avesse quel genere di stramberia che un Mabel avrebbe anche potuto considerare relatable, se solo avesse saputo come funzionasse la storia dell'empatia.
    Nel dubbio, le scelse tutte e tre.
    «ho ucciso una persona».
    Perché dirlo ad uno sconosciuto, perché dirlo ad alta voce ma, soprattutto: perché dirlo? Essenzialmente, perché voleva vedere che effetto avrebbe fatto sentirlo uscire dalle proprie labbra, tirarlo fuori dalla sua testa e renderlo reale. Perché voleva dirlo a qualcuno che non lo guardasse con la saccenza di chi la morte l'aveva sempre vista come un necessario mezzo per raggiungere un fine. Perché voleva dirlo a qualcuno che non sbrigasse la cosa come se fosse niente di che, ma che gli desse la giusta importanza. Non era compassione che Mabel cercava, era riconoscimento. Era staccarsi per una sola fottuta volta da Aaron e muovere un passo verso il resto del mondo. Non che gli importasse, era solo... curioso.
    E magari Fake era abbastanza andato da non ricordare niente il giorno dopo. Magari.
    «e mi è piaciuto».
    E, per qualche ragione, si ritrovò a canticchiare mentalmente i kissed a girl and i liked it, e gli venne quasi da ridere. Quasi, ma si trattenne dal farlo. «e mi piacerebbe anche poter dire che è colpa del fatto che sono stato adottato, che ho avuto un'adolescenza difficile, che l'eventualità che il mio ragazzo possa essere anche mio fratello mi abbia traumatizzato, che i Laboratori mi abbiano fottuto il cervello... ma penso che non c'entri niente» allungò la mano verso la bottiglia, versando ancora da bere per sé e per l'altro.
    / I got so brave, drink in hand, lost my discretion./
    «cavallo cavallo tigre tigre» concluse, stringendosi nelle spalle e buttando giù l'ennesimo sorso «qual'è il tuo di problema?» a parte quelli evidenti, ovviamente.
    inside out
    five fingers death punch
    amnesia
    5 seconds of summer
    unsteady
    x ambassadors
    bored
    billie eilish
    cartoon people
    billie marten
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
     
    .
  4.     +6    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Death Eater
    Posts
    117
    Spolliciometro
    +214

    Status
    Online
    «cavallo cavallo tigre tigre» Fake annuì e si strinse nelle spalle, alzando il bicchiere in un muto brindisi verso l’altro. Non aveva intenzione di giustificarsi, o di darsi un senso: non l’aveva mai fatto, e non avrebbe iniziato in quel momento. Troppo spontaneo per il suo stesso bene, volutamente ignorante nella consapevolezza di come potesse apparire visto dall’esterno, era abituato a non essere preso sul serio; aveva smesso di provarci, facendo invero tutto quel che potesse dar adito alla propria eccentricità. Spegnendo il raziocinio. D’altronde, non se n’era mai fatto nulla.
    «ho ucciso una persona» così, dal nulla. Senza un contesto che potesse aiutare il cinese a leggerlo nella maniera agognata, volutamente libero d’interpretazione sotto lo sguardo offuscato dell’ex Grifondoro. Ho ucciso una persona. Voce neutra, piatta; un dato di fatto che non sembrava necessitare di una risposta, motivo per cui – strano ma vero – tacque ancora, lasciando che l’alcool sciogliesse lingua e sangue mentre osservava di sottecchi il suo interlocutore. Ho ucciso una persona non significava nulla, nel mondo del Cheena – nulla del quale valesse la pena discutere. Era la sua quotidianità, la sua storia, la sua vita. Era, secondo il suo punto di vista, una questione del tutto normale e scontata che non meritasse approfondimenti. Buon per te? Non si domandò cosa volesse sentirsi dire, non si chiese perché lo stesse dicendo proprio a lui: alcuni lo ritenevano un pregio, altri una benedizione, ma Fake non era mai stato il tipo da fare domande punto. Accettava, ascoltava, replicava senza collegare il cervello e, nell’80% dei casi, diceva qualcosa di sbagliato, vezzo che l’aveva reso rinomato per la propria stupidità e superficialità.
    Non che potesse biasimarli, era decisamente vero.
    «e mi è piaciuto» definitivo, secco, risoluto. Fake si guardò brevemente attorno curvando le labbra verso il basso, le sopracciglia corvine a scattare verso l’alto. Un bieco sorriso increspò le labbra dell’ex Grifondoro, mentre gli occhi scuri saettavano nocivi sul barista. Apprezzava la sincerità, il Cheena; trovava fottutamente ironico che a premiarlo per quell’apprezzamento, quel bisogno, fosse un perfetto sconosciuto e non gli amici che un tempo aveva creduto sarebbero sempre rimasti al suo fianco. Cazzate, e cazzate, ed altre cazzate, e Fake era troppo esausto per cercare di tenere il ritmo con la rapidità delle stronzate di tutti. La confessione, o in qualunque altro modo si volesse chiamare, del moro, aveva sulla lingua il sapore della libertà. Di essere. Di esserci. «forte» quanti anni hai fake, dodici? no, undici. Ammirava l’onestà, ed ammirava chiunque avesse il coraggio di sbatterla in faccia ad un perfetto sconosciuto senza mostrare cenno di vergogna o rimorso; non giudicava, non l’aveva mai fatto, sentendosi semplicemente soddisfatto nelle ammissioni ad alta voce dei gusti altrui. Libertà, sempre di quella si trattava. I piccoli spicchi che riusciva a strappare con i denti dalla propria prigione di vetro, erano miele e veleno sul palato di Fake. «e mi piacerebbe anche poter dire che è colpa del fatto che sono stato adottato, che ho avuto un'adolescenza difficile, che l'eventualità che il mio ragazzo possa essere anche mio fratello mi abbia traumatizzato, che i Laboratori mi abbiano fottuto il cervello... ma penso che non c'entri niente»
    beh
    come si diceva dalle sue parti
    這是什麼神展開?
    «uau» sorrise a metà, raccogliendo con la lingua le gocce di whisky scivolate sul polso e le dita quando, poco prima, aveva fallito la profondità degli spazi dando per scontato la sua bocca fosse in un posto nel quale non era. «perchè ti piacerebbe dire vorrei dire che fosse una domanda peso, quella di Fake, sensata e seria, ma c’era solo ingenua curiosità negli occhi socchiusi verso il ragazzo. «cioè, tipo per...giustificarti? In che senso» sembrava non capisse perchè non capiva, il Cheena. Non c’erano sempre delle motivazioni logiche dietro le scelte di una persona, o nel proprio essere: a volte si era semplicemente così. «non vorresti ti piacesse uccidere gente?» cosa c’entrava l’essere adottati; chi non aveva avuto un’adolescenza difficile, era insito in quell’età, ma soprattutto «il tuo ragazzo forse tuo fratello, estremo» gomito poggiato sul bancone, guancia sul palmo. «dimmi di più» fake simpatica comare di paese, presente. «io mia sorella dovrei sposarla» alzò ancora il bicchiere, oramai quasi vuoto, arcuando nel mentre le sopracciglia per scontrarlo contro quello dell’altro. Ebbene sì, lettori e lettrici: Madein Cheena era il promesso sposo di Mei, perché dovevano mantenere la tradizione di famiglia, in famiglia. Lo raccapricciava? Abbastanza; non erano fratelli biologici, ma erano cresciuti insieme. Avrebbe fatto qualcosa in proposito? Certo, morendo prima della data del matrimonio, ma non volutamente – era semplicemente sicuro che sarebbe morto giovane, motivo per cui non pensava mai al proprio futuro. «qual'è il tuo di problema?» ah, già.
    Ah, già. Aveva quasi dimenticato d’averne uno – dieci, cento, un migliaio – cullato e confortato dalla vita di qualcun altro: la sua, Fake, la riconosceva solo a giorni alterni. Si fece nuovamente riempire il bicchiere, mordicchiando nervoso il piercing al labbro. Tirò fino a strappare la carne, accogliendo con sollievo il sapore di sangue sui denti. «la mia famiglia» iniziò; già quello, bastò a schiacciargli un sinistro sorriso sulle labbra. Perché quale, famiglia; in cuor suo, Fake sapeva di essere l’unico a considerarle tali. Entrambe. «non gli va bene quello che faccio» quello che sono. «come lo faccio» con chi. Discorso-non-discorso che si applicava sia all’organizzazione criminale, che ai Golden.
    Il problema era lo stesso.
    Il problema era sempre lui.
    «è come trovarsi costantemente bloccati in una decisione, e sapere che qualunque strada prenderai sarà quella sbagliata. In un loop continuo, tipo: fermo, scelta, errore; fermo, scelta; errore» tenne il tempo picchiettando assente una nocca contro il legno, sguardo chino e distaccato. Accennò un sorriso allegro, perché i down di Fake non duravano mai a lungo. «si dev’essere spaccato qualcosa qui» portò l’indice alla nocca continuando a sorridere, sornione e vagamente folle - e solo sotto, ma sotto sotto, con la stessa disperazione del bambino che rannicchiato in un angolo del seminterrato tremava fino a che qualcuno non andasse a prenderlo, che l’inferno in compagnia era un posto fottutamente migliore del paradiso da soli - «a nessuno piacciono le persone rotte qui» bocca della verità, Madein Cheena; e ricordò, bisbigliando piano: «cavallo cavallo tigre tigre»
    forse potrebbe essere il nostro per sempre.
    cavallo cavallo tigre tigre?
    cavallo cavallo tigre tigre
    .
    18 y.o. - (toast r.h.) - golden boi
    I can remember being nothing but fearless and young
    We've become echoes, but echoes, they fade away
    soundsfake
     
    .
  5.     +4    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Inferius
    Posts
    354
    Spolliciometro
    +366

    Status
    Offline
    play
    other
    mabelwhitpotatoes
    It doesn't really matter if I'm happy or sad. It's bigger than the rest of us, he'll promise you that, I'm glad.
    sheet
    aesthetic
    music
    Maybe there's a fire today
    death eater
    shadows control
    19 y.o.
    C'era un che di familiare nel modo in cui l'altro si lasciava scivolare addosso le cose, come non avessero alcuna importanza. Si poteva pensare fosse colpa di un Regime che troppo a lungo aveva imposto la violenza come inevitabile, la morte come normale, al punto da rendere ormai tutti insensibili a quel genere di argomenti. Sarebbe stato ingenuo, tuttavia, credere che bastasse un sistema totalitarista a cancellare del tutto l'idea di umanità come comunemente intesa: se così fosse stato, non ci sarebbe stata alcuna Resistenza, alcuno scontro di opinioni. Se Fake era così, se Mabel stesso era così, la colpa non poteva essere attribuita a nessun altro se non a loro stessi, alla strada che, più o meno consapevolmente, si erano ritrovati a percorrere.
    Perché gli sarebbe piaciuto dire?
    Perché avrebbe voluto avere una scelta.
    Mangiamorte o Ribelle, buono o cattivo, normale o anormale.
    Invece restava al centro di ognuna di quelle cose, senza neppure avvicinarsi ad un estremo che fosse in grado di dirgli chi fosse realmente. Eternamente grigio, mai abbastanza per poter prendere una posizione e riuscire a sentirla propria, come un vestito fatto su misura. Tutto gli rimaneva estraneo, impalpabile, troppo lontano anche solo per potervi aspirare. Non lo capiva quel mondo Mabel, e forse non l'avrebbe capito mai, ed il fatto di averlo accettato non rendeva le cose più facili. Al contrario: lo faceva sentire ancora più solo.
    Per questa ragione c'era un che di rassicurante nel parlare ad uno sconosciuto di cose che, presumibilmente, avrebbe fatto meglio a tacere. Perché non c'era compassione, non c'era giudizio, non c'era alcun interesse nel salvarlo o condannarlo a morte. Era solo pura e semplice curiosità.
    Non era Aaron, con quel ghigno di scherno e insieme soddisfazione che, compiaciuto di come il suo ragazzo un tempo ingenuo Tassorosso fosse diventato più simile ad un mostro senz'anima, mostrava ad ogni suo gesto, ad ogni sua confessione. Non era Idem, a cui non l'avrebbe mai detto di non essere più il fratellino spaventato di un tempo. Era solo - come aveva detto di chiamarsi? Non lo aveva detto. E, a dirla, tutta non era neanche così importante. La mattina seguente sarebbe arrivata ed entrambi avrebbero finto di non aver mai avuto quella conversazione, fine della storia. Era l'ordine naturale delle cose, la scelta più ovvia e più sensata. D'altronde, cosa c'era a unirli, se non l'estremo bisogno di annullarsi per una notte? Per inciso: mica poteva immaginarlo, Mabel, di non potersi più guardare attorno senza correre il rischio di trovarsi davanti ad un altro fratello. Ma quanti figli avevano fatto i suoi genitori? Vecchi.
    «il tuo ragazzo forse tuo fratello, estremo. dimmi di più»
    Piegò le labbra in un sorriso divertito Mabel, riuscendo già ad immaginare come quella conversazione sarebbe soltanto potuta degenerare se avesse realmente deciso di affrontare quell'argomento. Nascose quel fulmineo momento di vaga allegria dietro un altro sorso, posando lo sguardo sulle bottiglie esposte dietro al bancone. A volte, aveva l'impulso di romperle tutte per il solo gusto di farlo. Un peccato, conservasse ancora un briciolo di sanità mentale per tenersi stretto l'unico posto di lavoro che si sarebbe mai potuto permettere.
    «sposare - tua sorella?» e tutti i problemi che lui e l'Icesprite avevano continuato a porsi da quando avevano scoperto della lettera di Maverick? Per riprendere la stessa espressione dell'altro: «estremo». Chissà in che momento la sua vita aveva iniziato a diventare una ridicola pantomima.
    Famiglia peculiare, non poté fare a meno di pensare il Withpotatoes a cui, tutto sommato, era persino andata bene. Alla fine, non era sempre una questione di aspettative? Che fossero gli altri ad averceli, o fossero auto imposte, poco cambiava. Il risultato, era sempre quel dannato senso d'inadeguatezza che l'aveva sempre perseguitato e che, a quel punto, dubitava sarebbe mai riuscito a scrollarsi di dosso.
    Non c'era niente che potesse cambiare le cose, niente che potesse farlo sentire meglio o dare una svolta al suo futuro tremendamente precario, ma di una cosa era certo: condividere il peso dell'incertezza, avere la sensazione di capire e d'essere capito, faceva apparire ogni cosa meno tremenda di quanto in verità non fosse.
    «fermo, scelta, errore; fermo, scelta; errore»
    Non era forse quello che faceva da tutta una vita? Sbagli e ancora sbagli, sino a non poter più muovere un passo senza rischiare di sbagliare ancora, sino a scegliere di restare immobile per non fare altri danni. Forse avrebbe dovuto fare i bagagli e andarsene in un posto qualunque, uno in cui ricominciare era più facile senza le ombre del passato a solleticargli fastidiosamente la nuca. Forse, invece, ne sarebbe uscito col cuore spezzato. Ma in ogni caso, non sarebbe andata così comunque? Non era sempre lui a perderci?
    «si dev’essere spaccato qualcosa qui»
    Nelle nocche, e nel collo dell'uomo che aveva trascinato in una casa ancora da arredare. Nelle nocche, e nella testa che aveva creduto di poter sistemare con un giretto ai Laboratori. Nelle nocche e «a nessuno piacciono le persone rotte qui».
    «a me sì» gli sfuggì dalle labbra prima ancora che potesse accorgersene e, a scanso di equivoci, non voleva essere un bizzarro tentativo di abbordaggio (#brofetish): era sincero. Non le aveva mai capite le persone cosiddette normali, avevano qualcosa di strano e di spaventosamente ordinario. Non riusciva ad essere come loro perché probabilmente non voleva essere come loro. «le persone sane sono noiose» passò il polpastrello sul bordo del bicchiere, come aveva imparato da bambino per infastidire la gente al ristorante «e stanno meglio» ma eh, non si poteva volere tutto dalla vita.
    «ma se vuoi il mio parere, penso che il problema ce l'abbia la tua famiglia, non tu» Mabel, an intellectual: «cioè, ma quale genitore vorrebbe far sposare i propri figli fra loro?» scusatelo, era rimasto (.) lì da quando Fake aveva accennato al discorso. «per forza che non gli piacciono le tue scelte, loro ne fanno davvero di merda» allungò una mano verso la bottiglia di rum, versandosene ancora un altro bicchiere. «secondo me ti fai troppi problemi, che cazzo ti frega di compiacerli?» lungi da lui dare consigli sulla vita ma, che dire? Si sa che i baristi sono tutti un po' psicologi *evil psychotic laugh* «sei così e basta, e se non gli piaci che si fottano».
    Rimase in silenzio per qualche istante, facendo girare il liquido ambrato dentro al bicchiere in un limbo tra indecisione ed un leggero intorpidimento dovuto all'alcol. Poteva decidere di starsene zitto e non esporsi più di quanto non avesse già fatto, oppure andare fino in fondo. Tanto, che aveva da perdere?
    «ho ricevuto una lettera, un po' di tempo fa. Il mittente era, guess who? Me stesso dal futuro! Una figata, se la lettera non fosse stata piena zeppa di dettagli non richiesti, tipo di fratelli sparsi un po' in giro per il mondo di cui uno, giust'appunto, è il mio attuale ragazzo» più convivente a questo punto, ma non perdiamoci in futili dettagli. «ma spoiler: in realtà non abbiamo lo stesso sangue, perciò è tutto molto confuso e??» e, in buona sostanza, voleva morire. «perché te lo sto raccontando? Per dirti che le famiglie sono sempre un bel casino. Con la mia famiglia adottiva è andata bene, ma non è sempre facile» a dirla tutta, non lo era mai «alla fine sta a te: puoi vivere per sempre col fantasma di persone che odi, o farti accidentalmente dimenticare in un supermercato nella speranza che una famiglia migliore scelga di adottarti piuttosto che riportarti alla cassa per chiedere dei tuoi genitori» dove lo aveva letto? Eh, Maverick, la lettera. Un sacco di aneddoti divertenti.
    «cavallo cavallo tigre tigre?»
    cin cin?
    inside out
    five fingers death punch
    amnesia
    5 seconds of summer
    unsteady
    x ambassadors
    bored
    billie eilish
    cartoon people
    billie marten
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
     
    .
  6.     +2    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Death Eater
    Posts
    117
    Spolliciometro
    +214

    Status
    Online
    «a me sì» Sorrise perché era quello che la replica demandava, scrollando timido le spalle ed allungando un gomito per colpire amichevole l’altro. Sorrise perché Fake apprezzava sempre i tentativi, e pur sapendo che quel a me sì fosse soggettivo – che il moro potesse effettivamente essere un eccezione – la regola narrava che quel fosse temporaneo e misurato. Era l’esperienza ad aver reso Madein Cheena un Fake. Non era un’idealista o un sognatore: era un realista che tendeva a idealizzare la realtà rendendo l’incubo un sogno. Questione di sfumature. Non era il tipo s’intratteneva sui problemi per troppo tempo, motivo per cui non trascinò quella conversazione a lungo. «le persone sane sono noiose. e stanno meglio» Sullo stare meglio avrebbe avuto da ridire, ma non lo fece: Fake tendeva sempre ad evitare confronti e discussioni, troppo avvezzo all’essere ignorato per dare importanza al proprio punto di vista. Eppure, al «secondo me ti fai troppi problemi, che cazzo ti frega di compiacerli?» non potè che corrugare le sopracciglia, iridi blu ad osservare di sottecchi l’altro fra fitte ciglia corvine. «sei così e basta, e se non gli piaci che si fottano» Non era così semplice. Non era mai così semplice. Umettò le labbra, esitando con la punta della lingua sul piercing prima di trascinarlo ancora fra i denti. «sono la mia famiglia» osservò, con il cipiglio un po’ infantile dei bambini che puntassero i piedi sull’esistenza di Babbo Natale. A Fake importava compiacergli perché gli voleva bene, perché di loro si fidava, perché erano l’unica costante della sua vita. Perchè era stato modellato per essere così, ed ogni strada secondaria che lo portava anche solo di qualche metro lontano dalla principale, lo faceva sentire fuori luogo e pesante, come se una catena invisibile al collo lo strattonasse per tornare a casa. Era un concetto così radicato in Fake, che non avrebbe saputo come spiegarlo al barista della Testa di Porco. Per lui era ovvio, scontato; sarebbe stato come spiegargli perché il cuore battesse, o perché la Terra girasse attorno al Sole. Era così e basta. «se mi chiedessero di morire per loro, lo farei» tentò, sentendosi stupido e a disagio, finendo poi per scrollare ancora le spalle. Madein Cheena era un ragazzo semplice, incapace di esprimere grandi concetti se non in poche, e mai abbastanza, parole. «vivere per loro, è più difficile» e sorrise ancora, perché sapeva che non avesse senso e non gli importava: troppa gente che avrebbe dovuto e potuto non lo capiva, non si aspettava nè voleva lo facesse uno sconosciuto. «e non è biologicamente mia sorella» puntualizzò, arcuando un sopracciglio in direzione dell’altro. Non specificò che anche se non la fosse di sangue, Fake la considerava tale; nessuno aveva chiesto la sua – o la loro – opinione in proposito, quindi qual era il punto. «vogliono tenere gli affari in famiglia, sai» non era così diverso dalla manfrina dei Purosangue, quindi non spiegò di quali affari si trattasse. Li stava giustificando? Certo, sempre. La lealtà del Cheena era per pochi, ma era per sempre. Ecco perché, di lì a breve, avrebbe giustificato Dante per la sua scelta d’andarsene; ecco perché avrebbe giustificato Godric per qualunque cosa fosse successa con Jack. Era semplicemente la persona che era, qualcuno che non si faceva domande ed agiva per principio.
    Poi accadde qualcosa. Lo percepì costruirsi nel silenzio del suo interlocutore, nell’espressione distante e l’ombra del sorriso ironico a curvare tetra la bocca. Lo sentì nel momento in cui gli occhi del barista si posarono su di lui, e le labbra si arricciarono in procinto di qualcosa di importante; se Fake fosse stato più attento – all’ambiente, alla vita, all’universo - o più credente, in quel momento avrebbe colto tutti i segni che avrebbero annientato il caso riportandolo ad una parola dal sapore amaro e acido, destino, potenzialmente in grado di cambiare il corso degli eventi divenendo punto di svolta.
    Ma era un Fake, ed aveva più alcool che sangue a scorrergli nelle vene.
    «uh?» drizzò le spalle e guardò un punto oltre le spalle del ragazzo, addizioni e sottrazioni (beh, non potevano certo essere parabole e limiti: ad ognuno il proprio grado di difficoltà.) a galleggiare attorno a sé mentre cercava di … «una lettera ha viaggiato nel tempo?» Fake, è davvero questo il punto della situazione? Certo che sì. «dev’essere stato un gufo velocissimo» riflettè sognante, bocca dischiusa e sguardo assente. Così veloce da rompere la barriera temporale, come Flash. Che figo? «quanti fratelli hai? Forte. Tuo padre era un donatore di sperma? Sarebbe fichissimo» non cercò di contenere il proprio entusiasmo, perché aveva sempre sognato di «posso conoscerlo? Ho sempre voluto» un padre «conoscere un donatore di sperma» per essere ambizioso, Madein Cheena aveva standard davvero bassi. «allora il tuo ragazzo non è tuo fratello, buuuu» niente, non avevano più l’incesto in comune. Sottrasse punti bro dalla sua lista. «cioè, non ancora? Magari lo diventerà, ma tipo...il classico trope i nostri genitori si amano quindi siamo fratelli ma io ci sto sotto di brutto» leggeva troppe fanfiction e fumetti, lo sapeva, ma ad ognuno i propri passatempi. «anche io voglio una lettera dal futuro» battè le palpebre abbandonando una guancia sulla spalla. «se la spedisco ora al...me bambino...dici che funziona? devo solo trovare un gufo velocissimo» osservò l’altro a palpebre socchiuse. «questo è il momento in cui mi offri il tuo uccello» beata ingenuità da straniero. «però...no niente, non può funzionare. Se avessi ricevuto una lettera del me dal futuro quand’ero bambino, lo saprei» un secondo. Due secondi. Tre secondi d’intensa riflessione, poi decise che il discorso era troppo complesso, e lo lasciò andare. «troppo sbatti.» sempreverde.
    18 y.o. - (toast r.h.) - golden boi
    I can remember being nothing but fearless and young
    We've become echoes, but echoes, they fade away
    soundsfake
     
    .
5 replies since 11/2/2020, 00:38   278 views
  Share  
.
Top