Era depresso. Fucking depresso. Immensamente depresso. Voleva solo morire.
Il mood del giorno non era esattamente dei migliori, poggiato con la guancia contro il tavolo del locale a domandarsi cosa avesse fatto di male nella sua vita precedente per non meritare un attimo, un misero momento di gioia. Sentiva ancora la necessità di sbattere violentemente la testa contro il muro, svenire e vedere la Madonna dargli una pacca sulla spalla, consolatoria, mentre un Gesù altrettanto rassegnato scuoteva il capo in segno di diniego. Era fantasioso, nel suo modo di vedere la vita; solo, in quel momento, avrebbe voluto che le cose non fossero tanto amare. Perché la torta che aveva di fronte era dolce, così come i tre chili di zucchero che aveva versato dentro la tazza di tè ormai freddo, dimenticato proprio accanto al piattino sbeccato agli angoli. Avrebbe potuto affogare i dispiaceri di un cuore spezzato nell’alcol, ma il pensiero di ripetere l’esperienza – così da dover per forza ricordare quello stupido viso sorridente del Dumont – era più che sufficiente per impedirgli di commettere nuovamente lo stesso errore. Perché era sicuro, certo al cento per cento, che se le sue labbra avessero toccato una qualsiasi bevanda alcolica, si sarebbe ritrovato per strada a piangere e cercare Charles per chiedergli il perché lo avesse lasciando come un imbecille nel divano della Stanza delle Necessità, settimane prima. Aveva comunque un minimo di amor proprio e, sebbene l’idea di domandare il motivo dietro la fuga tattica dell’ex Serpeverde fosse più che giustificata, non aveva mosso un muscolo da quella posizione.
Per ore. Si era solo crogiolato nella solitudine, mescolando distrattamente e tenendo la guancia poggiata sul palmo aperto, lo sguardo socchiuso e rassegnato. Era così patetico che, se non avesse avuto tutto quel malumore in corpo, si sarebbe tirato una sberla da solo; era logico che il francese, così come Ryan, non lo vedessero così come lui vedeva loro. Se con l’Allen era stata una causa persa sin dal principio – per via del caratteraccio dell’altro e per la mancanza di tatto per i suoi sentimenti -, Charles era stata una speranza che, con il tempo, aveva imparato ad apprezzare e voler bene. Per poi ritrovarsi, ancora una volta, a raccogliere i pezzi del proprio cuore sul pavimento, incapace di dare la colpa all’altro, ma piuttosto a se stesso. Era lui il bug, sempre; era quello che complicava le cose, che metteva i sentimenti piuttosto che lasciar correre e godersi le sensazioni. Che si affezionava subito e che era incapace di far male ad una mosca, anche se questa continuava a ronzargli attorno per ore. Aveva una capacità innata nell’attrarre casi clinici e persone che, a conti fatti, avevano più problemi che capelli; eppure, nonostante questo, desiderava il loro bene a discapito di se stesso. Era frustrante ed avrebbe voluto che quella parte di sé, quel Dante ancorato al buon senso e all’altruismo incondizionato, sparisse per lasciare il posto ad uno più egoista.
La verità era che non ci sarebbe mai riuscito e che per questo, alla fine, era condannato ad essere il Golden meno interessante della cerchia; a nessuno di loro, nemmeno a Godric, aveva sentito spendere una parola riguardo la morte di Jack. Questo la diceva lunga su quanto le loro convinzioni fossero diametralmente opposte; da Ribelle, a malapena tollerava l’aria a respirarsi nella casa dell’Osborne, i sorrisi plastici di Fake, il disinteresse di Ryan e l’aria innocente di Ryu. Tuttavia, provava per loro un affetto che non avrebbe trovato giustificazione, se non ne fatto che fosse uno stupido testa di cazzo.
Come in quel momento. Una persona normale, con tutti i problemi di sorta che avevano costellato una giornata di merda, avrebbe quasi sicuramente inveito contro la giovane bionda seduta dietro di sé, pregandola di prendere quello stupido coso azzurro e ficcarselo su per il culo. Ma lui era un Dante ed era, fondamentalmente, incapace di essere meschino, persino con una sconosciuta; si era limitato dunque ad alzare gli occhi blu verso quella creatura che aveva intuito si chiamasse “Saule”, sospirando mestamente dal naso. Alla fine, si era deciso persino a sollevarsi dalla posizione scomoda in cui si era accoccolato, sentendo un preoccupante crack fargli scattare la schiena; da quanto tempo era poggiato al tavolo? Aveva perso il conto delle ore. … doveva davvero trovarsi un lavoro.
Era stata la voce della bionda a fargli voltare il capo, il «Mi dispiace, è tutto nuovo per lei, credo sia questo» a fargli alzare impercettibilmente un angolo delle labbra verso l’altro, comprensivo. Era evidente dall’accento della ragazza che non fosse inglese; forse nordica? Decisamente non di quelle parti. Non credeva di averla mai vista prima di quel momento, ma non voleva affidarsi troppo alla propria memoria: avrebbe potuto essere persino una sua compagna ad Hogwarts e lui, da introverso qual era, avrebbe fatto di tutto per evitare il minimo contatto con lei.
«Non fa niente» si era schiarito la voce, continuando a prestare attenzione allo spiritello, adesso impegnato a svolazzare mogio sul bancone poco distante «non mi dava fastidio» qualsiasi cosa fosse. Come se quella chiacchierata avesse nuovamente collegato le sinapsi, si era accorto di aver mescolato il tè senza nemmeno prenderne un sorso. Aveva storto le labbra in una smorfia infastidita, ma preferendo deviare l'attenzione sulla giovane, piuttosto che darsi ancora una volta dello stupido.
«Cosa sarebbe?» forza Dante. Fare conversazione era l’unico modo per uscire da quel tunnel fatto di tè freddi e lacrime salate.
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