You're always there, with your smile, at the edge of the rainbow

Chain

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    Chelsey Weasley non accettava la sconfitta.
    Non lo aveva mai fatto. Non quando era una Dallaire, non quando il suo intero universo si stava sgretolando davanti ai suoi occhi.
    Chelsey Weasley era una combattente, una che si rialzava sempre e comunque, anche quando ogni fibra del suo corpo le supplicava di smettere, di lasciar correre, di piegarsi alla volontà degli eventi. Eppure, proprio in quei momenti a un passo dalla fine, proprio quando sembrava stesse per cedere alla tentazione di mollare la presa, la sua forza d’animo e la sua determinazione la tenevano in piedi, o ancorata saldamente al suo manico di scopa. C’era quello spirito guerriero che le permetteva di andare avanti nella vita, partendo dalle piccole cose, dalle piccole battaglie quotidiane, dalla lotta all’ultima ciambella alla corsa giù per le scale per prenotare il campo da Quidditch all’orario migliore per la sua squadra.
    Chelsey Weasley non stava mai ferma. Non lo era stata neanche quando il mondo le era crollato addosso ed era schiacciata dal peso di ogni addio non detto.
    Weasley e Dellaire si alternavano in quell’esistenza, ricordandole chi fosse e quale fosse la sua strada, quell’obiettivo da realizzare e che avrebbe finalmente dato uno scopo e un senso alle sue vite.
    Eppure, in quel momento, la Rossa non riusciva a muoversi, i piedi improvvisamente pesanti a contatto con la terra ferma, quasi il fango la stesse risucchiando via.
    Aveva la mano tesa, lo sguardo fiero e orgoglioso di sempre, in attesa che il Moonaire stringesse la sua mano e sancisse definitivamente la fine di quella sconfitta. E mentre il cielo si lasciava dietro gli strascichi del temporale, la Grifondoro nascondeva le sue lacrime dietro le gocce di pioggia, il rossore degli occhi dietro la stanchezza, la rabbia dietro le poche parole di conforto per i suoi compagni. Perché ci avevano creduto, ci avevano creduto tutti fino alla fine.
    Chelsey non accettava la sconfitta, ma ciò non significava che non sapesse perdere. Non significava che per quel disastroso risultato avrebbe inveito contro la sua squadra, nonostante fosse difficile sollevare lo sguardo verso il tabellone, nonostante leggerne i numeri fosse una stilettata dritta nel petto. Avrebbero ricominciato dalle basi, avrebbero ricostruito il loro orgoglio dalle fondamenta, facendo tesoro dei propri errori. Perché ce n’erano stati, forse anche più di quanti lei non volesse ammettere. Sarebbero ripartiti da quel campo e avrebbero continuato a volare alto, rendendo onore alla loro Casata, a quel legame che li univa, all’impegno e alla dedizione che li avevano accompagnati fino a quel momento.
    Certo, gli allenamenti sarebbero stati più duri, non avrebbe ammesso neanche il più insignificante degli errori o la più piccola delle distrazioni, ma quello era un altro discorso, uno di quelli che avrebbe affrontato con calma e con più lucidità. Perché era pur sempre il Capitano, perché doveva pur sempre avere le spalle più larghe di tutti e accettare i limiti di ognuno, soprattutto i propri.
    Era rimasta nello spogliatoio più a lungo di chiunque altro con la scusa che dovesse controllare e fare la manutenzione alla sua scopa, le labbra tese in una smorfia che nulla aveva a che vedere con il sorriso che sfoggiava di solito. Ci stava provando, Chelsey, ci stava provando con tutta se stessa a restare integra, a tenere saldi tutti i cocci che la componevano. Quella sconfitta bruciava come sale sulla pelle e tutto quello che voleva fare era radere al suolo quella stanza, ribaltare gli armadietti, rovesciare le panche e urlare. Urlare fino a quando avesse fiato nei polmoni. Urlare fino a quando il suo corpo glielo avrebbe permesso. Ci teneva a vincere la Coppa, ci teneva più di chiunque altro a dimostrare che il duro lavoro ripagava sempre. Era nata con una scopa in mano, aveva imparato a volare prima ancora che a gattonare, ma questo non andava di pari passo col talento. Lei non era un genio, per quanto il Quidditch le scorresse nelle vene, la sua era più una predisposizione a quello sport. Tutto quello che aveva raggiunto, tutta la sua bravura, era il frutto di lacrime e sudore. Di fatica e duro lavoro. Chelsey Weasley non aveva le ali, ma aveva fatto l’impossibile per spiccare il volo.
    Kain, il suo migliore amico nonché più acerrimo rivale quando si libravano sui manici di scopa, lui sì che era quello che si poteva definire un talento puro, uno di quei pochi che nascevano quando il mondo e ill Dio del Quidditch decidevano fosse arrivato il momento di farsi un regalo. Il Tassorosso aveva tutto quello che un giocatore potesse mai desiderare: dalla strategia di gioco, alla prontezza di riflessi; dal fisico ben costruito all’eleganza dei movimenti. Era sempre bello vedere il ragazzo giocare, ma questo l’aveva sempre messa davanti alla consapevolezza che lei non si allenasse abbastanza per raggiungere il livello dell’altro. Che non fosse mai abbastanza. E, tra tutti, era proprio lui che non voleva vedere quel giorno. Non voleva sentirsi miserabile, né confrontarsi con il maggiore, né sentirsi dire quanto non fosse stata brava.
    Eppure era lì, davanti alla porta dello spogliatoio, vestito di tutto punto per allenarsi, la sua mazza stretta tra le dita (“Dammi le mie registrazioni e facciamola finita.” “Solo se mi colpisci almeno 3 volte.” “Kain, non sono…” “Tre volte Chels.” “Ok.”). Perché, in fondo, era anche l’unico che la conoscesse veramente, l’unico in grado di gestirla nei momenti peggiori, quando lo sguardo si scuriva e i capelli perdevano i loro toni vivaci. Perché era l’unico che non era mai fuggito, l’unico che era sempre rimasto. Nonostante i suoi sbalzi d’umore, nonostante il pessimo carattere, nonostante quella rivalità portata all’estremo. Nonostante tutto.
    Ed era tornata nuovamente sul terreno di gioco, la sua mazza da battitore stretta al petto, sfidando la pioggia solo per sé stessa, sfogando la sua rabbia e la sua frustrazione contro l’unica persona che, a modo suo, sapeva come starle vicino, fino a tornare nuovamente con i piedi per terra e la bozza di un sorriso sulle labbra. Perché Chelsey Weasley era ancora il miglior battitore che Hogwarts avesse mai avuto e Kain… Kain era sempre lì, col suo sorriso, ad attenderla dopo ogni tempesta. Lì, ai confini dell’arcobaleno.
    *
    “Ti ho preso cinque volte Kain. Non fare il furbo.” Uscì dal bagno comune dei Tassorosso con i capelli ancora umidi per la doccia e con addosso una vecchia tuta del ragazzo, tamponando le ciocche nuovamente vermiglie con cura. “Ci vedo ancora benissimo.” Puntò l’indice contro l’amico in modo velatamente minaccioso, ancora intenta ad asciugare il più possibile l’acqua dai capelli prima di lasciarli ricadere morbidi lungo le spalle.
    Kain! Lo redarguì un’altra volta, l’ennesima di quel giorno, mentre si arrampicava sul suo letto a baldacchino e prendeva posto accanto a lui. “Ti ho chiesto le registrazioni della partita non… non di aprire la succursale del Red Velvet nel tuo dormitorio!” Perché, in fondo, era il luogo più tranquillo dove Chelsey potesse stare, lontano dagli schiamazzi che avrebbe potuto sentire dall’alto della Torre di Grifondoro, lontano da occhi indiscreti, lontano dai festeggiamenti, lontano da tutto. Sentì la stanchezza non appena si sistemò accanto a Candy, dalle gambe indolenzite alle braccia che supplicavano pietà, e si appuntò mentalmente di non chiudere gli occhi prima di aver rivisto il video almeno tre volte.
    “Questo, però, lo mangio io!” Si allungò con uno scatto felino per rubare il muffin che il ragazzo stava portando alla bocca, addentandolo con ben poca grazia e divorandolo in quasi un sol boccone. “Scusa… ho fame.”

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    La fortuna di Kain consisteva tutta nel fatto di non dover pensare spesso.
    Esauriva tutte le sue energie nel preparare partite, schemi, allenamenti e qualche volta nel fare cose per la scuola, ma il resto del tempo? Non doveva pensare, non quando giocava a Quidditch e soprattutto non quando era con Chelsey.
    Era una fortuna perché con lei pensare faceva rima con sbagliare.

    Difatti, era tutto istinto quello che lo aveva spinto a trascinarla sotto il diluvio universale per sfogare le ultime energie a colpi di mazza - istinto per colpa del quale non c'era una minima parte del suo corpo che lo ringraziasse (essere colpiti tre (cinque) volte da una Chelsey Weasley ferita non era proprio pizza e fichi). ...A proposito di cibo, per fortuna aveva fatto scorta di dolcetti, perfetti sia in caso di vittoria che di sconfitta!

    Dopo essersi preoccupato di circondare Chelsey di Red velvet e zuccotti (e un ape frizzola, perché lo sapevano tutti che una al giorno toglieva il medico di torno), fece partire le registrazioni, lasciandola da sola per andare a farsi una doccia.
    Era forse solo l'inizio la parte che Chels avrebbe potuto vedere e accettare da sola - quando la squadra era partita in bomba, muovendosi come una cosa sola. I problemi però si erano presentati ben presto, quando avevano iniziato a perdere pian piano confidenza e aggressività, tra azioni sbagliate e una buona dose di sfortuna.
    Kain non pensava avessero giocato così male, era solo che...era mancata la pazienza.
    Quindi quella sera avrebbe dovuto averne un po' anche per (e con) Chelsey, cercando di distrarla con ogni mezzo da pensieri autodistruttivi.

    Rientrato in stanza trovò Chelsey ancora lì, con le guance piene come quelle di un criceto e gli occhi sgranati a fissare lo schermo. Era evidente che le cose stessero già precipitando da come Chelsey stava dando un morso piuttosto aggressivo al povero muffin che stringeva tra le mani, staccandolo con tanta forza da lasciarne metà fuori dalla bocca.

    E hello istinto, my old friend.
    In un attimo si ritrovò sul letto, di fronte a Chelsey, con una mano poggiata sulla sua guancia per tenerla ferma mentre, con uno sguardo giocoso, si piegava per rubare quel morso di troppo.
    "Questo, invece, lo mangio io!" le fece il verso con la bocca mezza piena, vendicandosi del furto di muffin di poco prima.

    Quando si allontanò e incrociò lo sguardo di Chels, fu come bere un lungo sorso di Burrobirra.
    La stessa, inedita sensazione.

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    Si era chiesta più volte quale fosse stato il momento in cui avesse smesso di sorridere, quello in cui le spalle si erano irrigidite al punto da rallentare ogni movimento, da rendere il suo gioco meno fluida. Si era posta più volte la domanda se, alla luce di quel cambio di ruolo, non fosse il caso di dare ad Aidan la responsabilità di portare avanti la squadra, facendo così quel passo indietro che le sue paure le chiedevano di compiere. Non era una questione di essere degni o meno, non si trattava di non essere in grado di motivare i suoi compagni e di provare ad essere un buon leader; Chelsey sapeva di avere la stoffa per ricoprire quel ruolo, era consapevole delle sue capacità, ma anche, e soprattutto, dei suoi limiti. Non giocare nel suo ruolo, non stringere tra le dita la sua migliore amica, quel prolungamento del suo braccio che le era stata compagna da una vita, faceva male. Ci aveva provato, la Weasley, a onorare la sua scommessa. Ci aveva provato davvero e aveva sputato sangue sul campo di gioco pur di cambiare il proprio stile esplosivo per adattarsi a quello più elegante e strategico del Cacciatore. Si era allenata duramente, giorno e notte, pur di essere all’altezza delle aspettative, pur di non essere un peso per la sua squadra, eppure… Eppure il risultato finale parlava chiaro, era lo specchio di quell’incapacità di tirare in porta, di quei muscoli allenati per spazzare via i bolidi e non per passare pluffe. Era ancora un cecchino, sapeva che i suoi bolidi erano sempre precisi e mirati, ma a nessuno importava, non quando non vestiva i panni del Battitore. Quando era ritornata per allenarsi con Kain, solo in quel momento, aveva sentito la punta delle dita formicolare impazienti, aveva sentito la scarica di adrenalina riversarsi nella mazza e scoppiare nel clangore del metallo. Era quella sensazione a farla sentire viva, era quella sensazione a farla sentire ancora capace di indossare i colori rosso-oro. Tuttavia, in quegli ultimi mesi a Hogwarts, in quel palco che poteva segnare il suo futuro, non poteva mostrare la sua vera natura. Non poteva essere se stessa. Era quella la vera sconfitta, una più intima e profonda, una che non sarebbe riuscita a cancellare.
    Non riusciva a staccare gli occhi dallo schermo, non riusciva a non fissare se stessa, a non segnare sulla pergamena ogni singolo errore, anche la più piccola delle disattenzioni. Poi sarebbe passata agli altri giocatori, ad analizzare ogni loro movimento, ogni errore dettato più dall’ansia e dall’inesperienza che da altro, da quello Stadio che poteva essere il primo grande motivatore o il peggiore degli incubi. In fondo, era sempre stata quella sua ossessione per la perfezione – almeno nel Quidditch - a rendere Chelsey la sua peggior nemica. A chiuderla in una gabbia di vetro in attesa del più duro dei giudizi.
    Erano passati poco di venti minuti di gioco e lei non aveva fatto altro che prendere appunti senza neanche più fare attenzione al foglio, consapevole di quello che sarebbe successo di lì a poco, di quell’inesorabile discesa, di quegli errori commessi uno dietro l’altro, di quel gioco che, a tutti gli effetti, iniziava a essere sconnesso. Rabbioso. Disperato.
    Faceva il pieno di zuccheri per provare a smettere di pensare, per addolcire quella pillola che sarebbe stata amara da digerire. Forse, se ci avesse creduto abbastanza, il risultato della partita sarebbe cambiato e non avrebbe assistito, nel giro di poche ore, nuovamente a quella sconfitta. Era talmente presa dalle immagini che le scorrevano davanti agli occhi che non aveva sentito la porta del bagno aprirsi, benché meno i passi di Kain nella sua direzione. Non che ci avrebbe potuto fare molto caso, abituata com’era alla sua presenza. Era la sua costante, il Tassorosso, sempre presente, perennemente al suo fianco. Non lo avrebbe ammesso facilmente, probabilmente non lo avrebbe mai ammesso, ma la sua vicinanza bastava a tranquillizzarla, a placare quei demoni che spesso andavano a trovarla, demolendo ogni passo fatto in direzione dei suoi sogni. Bastava un sorriso di Kain, bastava osservare le fossette sulle sue guance per ritrovare un briciolo di buon umore, per rimettersi in piedi, per stringere i denti e andare avanti. Erano cresciuti insieme, letteralmente, erano migliori amici ed eterni rivali, eppure non c’era nessuno in grado di leggere tra ogni sfumatura dei suoi capelli, nessuno in grado di comprenderla meglio del ragazzo che era vicino, troppo vicino. Sbatté piano le palpebre, il volto inclinato sulla mano del Tassorosso e l’espressione confusa. Era normale non ci fosse una distanza minima tra loro, che la comfort zone di uno coincideva con l’altro, che gli spazi personali fossero un concetto sconosciuto ai due, ma quello… quello era insolito. Chelsey sentiva i calli delle dita, frutto di estenuanti allenamenti, del maggiore sulla guancia, il respiro di Kain a scaldarle la pelle. Fu un attimo, eppure percepì le labbra del suo migliore amico sulle proprie. In quell’istante, in quella precisa frazione di secondo, sentì il mondo esplodere attorno a lei e fermarsi all’improvviso, quasi fosse quello il momento della creazione, quasi fosse quello il momento in cui ogni cosa aveva preso vita. Sentì un brivido correrle lungo la schiena e ogni senso in allerta. La Grifondoro aveva gli occhi appena sgranati e, se l’istinto aveva spinto Kain ad avvicinarsi così tanto a lei, a superare quella linea invisibile che li aveva sempre tenuti vicini ma non troppo, lo stesso istinto aveva tenuto Chelsey ferma sul posto, impedendole di indietreggiare e scostarsi, fuggendo così da quel contatto.
    Registrò le parole del Tassorosso lentamente, quasi fossero pronunciate da qualcun altro, mentre le dita si andavano a posare leggere lì dove Kain l’aveva sfiorata. Non poteva essere vero. Non… non lo aveva fatto veramente. Solo la stanchezza e la sorpresa le avevano impedito di alzare la mano e farla scontrare contro la guancia del ragazzo. Soltanto la consapevolezza che fosse lui e nessun altro, le avevano impedito di balzare sul pavimento e scappare via. Ed era rimasta lì, ad osservarlo confusa, chiedendosi cosa fosse appena successo, gli occhi puntati sulla schiena del Tassorosso che si vestiva tranquillamente davanti a lei.
    Vide la propria mano muoversi, quasi fosse mossa da una forza che non fosse la sua, e insieme a lei il suo corpo si sporse in avanti, tirando appena la stoffa dell’accappatoio di Kain, reclamando così la sua attenzione.
    Cercava nel suo sguardo quelle certezze che sapeva non fossero presenti nel proprio, cercava in quel gesto una risposta che forse non avrebbe voluto avere.
    “Kain…?” Domandò in un sussurro, completamente dimentica della partita che continuava vicino a lei, le dita che tentennavano appena sulla guancia liscia del compagno, quasi fossero il fantasma di una carezza. Ciononostante, era curiosa di sapere perché il suo cuore aveva iniziato a battere quasi fosse nel pieno di una picchiata, perché la sua mente era andata in stand-by al più semplice – seppur sconosciuto – dei contatti.
    Mise fine alla distanza tra loro, poggiando le proprie labbra su quelle di Kain mentre le ginocchia sprofondavano nel materasso alla ricerca di un equilibrio prepario e i capelli le si tingevano di un rosa insolito, troppo tenue e pastello per poter appartenere alla sua gamma di colori.
    Chelsey non sapeva cosa stava facendo, né perché lo stesse facendo. Eppure, per la prima volta dopo anni, persa nel profumo tipico del Tassorosso, si sentì a casa.
    Finalmente libera.

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    CHELSEY WEASLEY
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    Edited by C h e l l S E Y - 22/12/2019, 03:08
     
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    Le labbra di Kain ancora formicolavano mentre si infilava i pantaloni della tuta, ancora mezzo svestito e in accappatoio, e cercava di non focalizzarsi troppo a lungo sul pensiero di come Chelsey lo aveva guardato. Perché da una parte i suoi occhi avevano fiammeggiato come se avesse voluto picchiarlo (per averle rubato il muffin?), dall'altra il suo sguardo era stato...strano. Così come lo era la sua voce, mentre mormorava il suo nome.
    Oh Morgana. Più che Burrobirra, quella era la sensazione del Whiskey Incendiario. O della lava. Cosa stava succedendo, gli si stavano per fondere gli organi interni???
    Inerme sotto quella sensazione si lasciò trascinare giù dal tocco leggero di Chelsey sull'accappatoio. Una mano accarezzò la sua guancia, e non era un ceffone: era un tocco delicato, gemello di quello che lui stesso aveva azzardato pochi istanti prima. E quando incrociò di nuovo il suo sguardo...

    Black out.

    Il vaso di Pandora era stato aperto: fu come se qualcuno avesse iniettato nel sangue di Kain migliaia di frammenti di ghiaccio, così freddi da bruciare sotto la sua pelle, risvegliando in lui un lato che non aveva mai incontrato. Quella sensazione non fu esattamente piacevole, aveva qualcosa di oscuro, e sembrava proiettarsi al di fuori di lui come se volesse raggiungere Chelsey.

    Quando la realtà prese di nuovo forma, Chelsey era stretta a lui e lo baciava.
    ...Ma chi voleva prendere in giro? Quel bacio, seppur guidato dall'inesperienza, non aveva nulla di unilaterale. Non con le mani di Kain timidamente poggiate sui suoi fianchi per fornirle appoggio e tenerla vicina. E soprattutto, non con le sue labbra che ricercavano quelle della rossa, testando il modo migliore per farle combaciare insieme mentre baciavano via le ultime tracce di zucchero.
    Fu come rivivere il primo volo spericolato sulla scopa: il suo istinto sapeva esattamente cosa fare, ma il suo cervello era buggato con una serie infinita di punti di domanda e punti esclamativi.

    Si allontanò solo per riprendere fiato, aprendo lentamente gli occhi - ogni traccia di colore era sparita dalle sue iridi, sostituita da un colore scuro, quasi nero. Occhi che si sgranarono per la sorpresa, non per quello che era appena successo ma perché i capelli di Chelsey erano...
    Erano...rosa.
    Ci fu un un esplosione di fossette, coprotagoniste del sorriso che non riuscì a trattenere.

    Quella era diventata, ufficialmente, la sua sfumatura di Chelsey preferita.

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    Aveva tre anni quando, per la prima volta, Kain inciampò nella sua vita. Era nascosta sotto il tavolo di una festa che non ricordava, di bambini i cui volti il tempo ha lavato via dalla sua memoria. Era lì, rannicchiata su se stessa, i lacrimoni che le solcavano le guance paffute e le piccole dita strette attorno a dei fili d’erba che strappava con rabbia al ricordo di quello che gli altri bambini le avevano detto. Quel noi non giochiamo con le femminucce che bruciava più di un ginocchio sbucciato. Era lì, lontano da tutto e da tutti, e quel nanerottolo tutto sorrisi e fossette l’aveva trovata. Bastarono un’ape frizzola e la promessa di giocare sempre insieme a farli diventare amici.
    Aveva sei anni quando, per la prima volta, vide Kain piangere e il sorriso sparire dalle sue labbra. Era troppo piccola per capire cosa stesse accadendo attorno a lei, troppo immatura per comprendere il significato delle parole morte e ribellione. Sapeva solo che la mamma del suo migliore amico non si sarebbe mai più svegliata e che era volata via per giocare a Quidditch con gli angeli. Lei voleva solo vedere ancora una volta le fossette sul volto di Kain, voleva solo che tornasse a giocare con lei e, se avessero volato abbastanza in alto o se fossero diventati abbastanza bravi, la mamma di Kain sarebbe tornata per giocare con loro. Ne era convinta Chelsey, al punto da stringerlo forte tra le sue braccia e ripeterglielo ogni volta che sopraggiungevano gli incubi, gli stessi che li perseguitavano ancora oggi.
    Aveva otto anni quando, per la prima volta, Berenix Black li costrinse ad allontanarli. È figlia di Ribelli!, l’aveva sentita urlare prima di vederla sparire insieme a Kain nel camino, prima che le fiamme si avviluppassero attorno alla figura di quel bambino che era diventato la sua quotidianità. Non c’erano vacanze in famiglia senza la presenza costante di Kain, non c’erano giornate trascorse in riva al lago senza gare per vedere chi nuotasse più veloce o chi volasse più veloce. Non c’era giorno in cui Chelsey non impugnasse il suo manico di scopa con l’unico obiettivo di migliorarsi per diventare più brava di Kain. Per sentirsi sua pari, per essere scelta per prima quando con gli altri bambini organizzavano delle amichevoli di Quidditch.
    Aveva nove anni quando, per la prima volta, impugnò una mazza da battitore e Kain non era lì per vederlo. Non era lì ad assistere alla distruzione di un intero servizio di porcellana. Non era lì a complimentarsi con lei per la precisione con cui aveva colpito il suo primo bolide. Semplicemente, non era lì.
    Aveva undici anni quando, per la prima volta, salì sull’Espresso di Hogwarts e ispezionò ogni vagone del treno alla ricerca di quelle fossette che avevano caratterizzato tutta la prima parte della sua vita. Una volta trovate, promise a Kain che da quel momento in poi sarebbero stati sempre insieme, perché Nonna Black non avrebbe potuto impedirgli di frequentare la stessa scuola. Non avrebbe più impedito loro di essere amici.
    Avevano dodici anni quando, per la prima volta, vestirono i colori delle rispettive Casate durante le partite ufficiali. Quando Chelsey proclamò in campo che lo avrebbe distrutto, che sarebbe stata lei l’ultima a rimanere in sella sul suo manico di scopa.
    Aveva quindici anni quando, per la prima volta, fu lei a trovare conforto tra le braccia di Kain. Quando gli incubi la vennero a trovare, quando, per un po’, smise di esistere a causa di quel dolore troppo grande da sopportare.
    Aveva diciassette anni quando, per la prima volta Chelsey baciò Kain.
    Fu qualcosa di unico. Più adrenalinico di una partita, più naturale del colpire un bolide. La Rossa seguiva la guida del Tassorosso un tentativo alla volta, incastrando le sue labbra perfettamente con quelle del ragazzo, prendendosi il loro tempo, studiando in silenzio quel movimento che, fino a quel momento, era convinta non gli appartenesse. Se la mani di Kain erano poggiate sui suoi fianchi per tenerla stretta, quelle di Chelsey riposavano sulle guance del maggiore per invitarlo a restare e a non andare via, a continuare quella lenta danza fatta di cose non dette e sentimenti quasi del tutto inesplorati.
    Se Chelsey fosse stata una bugiarda, avrebbe dato la colpa a Kain, accusandolo di aver approfittato di un momento di debolezza per renderla vittima dei suoi poteri. Se non fosse stata una persona onesta, lo avrebbe aggredito dicendogli che alla fine aveva fatto in modo che diventasse una delle tante ragazzine che sospirava al suo passaggio e che andava agli allenamenti di Tassorosso solo per vederlo. Lo avrebbe accusato di averla costretta a baciarlo, di aver abusato di quel potere che le aveva sottratto la libertà di scelta. Ma la Rossa non era niente di tutto questo, né poteva ignorare quel filo rosso che la legava a Kain da ché aveva memoria che nulla aveva a che fare con l’eredità Veela del Kellergan.
    Erano sempre stati Chelsey e Kain, quel duo apparentemente male assortito e bizzarro che condivideva solo la passione per il Quidditch. Erano sempre stati molto più che amici, molto più che fratelli. Erano sempre stati qualcosa che avevano preferito ignorare e mai definire per paura di vincolare l’altro, di obbligarlo alla propria presenza.
    “Sai di… mirtilllo.” Si portò le dita sulle labbra, pressandole piano, mentre continuava a sentire su di esse il sapore dolce di Kain. Parlava piano, Chelsey, eppure le sembrò di aver urlato nel silenzio. Portò una mano a riposare sul petto di Kain, percependo sotto di essa il battito frenetico del suo cuore, mentre la fronte era ancora poggiata sulla sua spalla. Aveva paura di sollevare lo sguardo? Sì. Perché aveva il terrore potesse leggerci disgusto o rimpianto o qualsiasi cosa potesse allontanarli. Aveva paura che Kain smettesse di parlarle? Sì, perché non avrebbe potuto sopportare un’altra vita senza di lui. Perché nessuno l’aveva mai compresa in quel modo, assecondando le sue follie più estreme, restando sempre la voce della sua coscienza. Perché nessuno sapeva leggere i suoi silenzi e nessuno l’avrebbe fatta sorridere allo stesso modo.
    Perché nessun altro al mondo era Kain, né avrebbe mai potuto colmare il vuoto di una sua assenza.
    Ma Chelsey era pur sempre una Grifondoro e, nel sollevare lo sguardo, perse un battito mentre si specchiava negli occhi dell’altro, accecata dal suo sorriso. Uno di quelli veri, di quelli che gli accartocciavano tutto il viso in un’espressione più ridicola che tenera, di quelli che rivolgeva solo a lei.
    “Ma smettila!” Esclamò ficcando un dito nella fossetta più profonda che gli avesse mai visto, spingendolo appena via, il tempo di ritornare a respirare e prendere un cuscino. È solo un bacio, avrebbe voluto aggiungere, sapendo benissimo quanto non lo fosse, quando quel gesto avrebbe potuto incrinare o consolidare i loro equilibri, quanto quel gesto avrebbe potuto porre fine a tutto.
    Tirò una cuscinata a Kain, nascondendo in essa tutto il suo imbarazzo, provando a distrarlo dal rossore delle sue guance e che stava nuovamente prendendo possesso dei suoi capelli, facendoli tornare a sfumature più naturali.
    “Allora, scappi anche questa volta in America, oppure scegli di restare? O di portarmi con te?” Chiese mentre si avvicinava nuovamente a lui, le braccia che si andavano ad allacciare dietro la nuca del maggiore, le iridi azzurre puntate in quelle dorate del ragazzo. Sapevano entrambi cosa fosse successo nell’AU, sapevano entrambi cosa sarebbe potuto accadere se fossero stati distanti e quanto uno avrebbe sofferto per l’altra e viceversa. E se c’era una cosa che poteva fare in quel momento, l’unica che avesse senso fare, era fargli capire che lei sarebbe sempre rimasta al suo fianco. Perché, in fondo, si appartenevano.

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    Le fossette, ormai, erano fuori controllo. Lo sentiva chiaramente, col dito di Chelsey che andava a conficcarsi nella piega delle pelle come se volesse incidere quel sorriso ancora più a fondo.
    "Dovrei smetterla di far cosa? Di ridere, di sapere di mirtillo o..." il sorriso non vacillò, andandosi ad accompagnare al 'rosso pluffa' che gli si era dipinto sulle guance, ancora più di prima. '...o di baciarti?': così sarebbe dovuta finire la frase, ma anche solo pensare di dirlo ad alta voce sembrava quasi assurdo. Surreale. Pazzeschissimo.

    Era successo davvero. Si erano baciati.
    In maniera piuttosto esplicita. E non per sbaglio, neanche lontanamente. Beh, forse all'inizio, ma...Merlino, voleva farlo di nuovo.


    E pensare che fino a poche ore prima aveva sempre visto i baci da esterno con estremo disagio, senza capirne il senso, senza riuscire neanche a immaginare perché poteva essere una cosa bella, piacevole o addirittura più importante del Quidditch.
    Pensare di baciare Chelsey, invece (se doveva essere un pochino sincero con se stesso), era un pensiero che ogni tanto gli era balenato in testa. Da quando aveva visto insieme le loro versione AU e quella strana tensione, si era chiesto se si sarebbe mai creata un'intimità simile tra loro.

    Il bacio di prima era la risposta a quel dubbio: .
    E sì, quel momento sembrava persino più importante del Quidditch,

    Sbam!
    Il flusso di pensieri fu interrotto da una cuscinata ben assestata.
    Non fece in tempo a protestare che Chelsey era di nuovo stretta a lui, se possibile più di prima, con le braccia attorno alla sua nuca. Si trovò per un attimo a boccheggiare (si preoccupò, temendo che le orecchie e guance stessero andando a fuoco letteralmente), sentendosi inerme sotto lo sguardo di Chelsey. Ci mise un po' per registrare la domanda e capire quello che comportava.
    Oh.
    Allora non era l'unico a preoccuparsi di avere la stessa sorte dei loro AU.

    Allungò una mano, incerto, fino ai capelli di Chelsey. Arrotolò una ciocca ancora rosa attorno al dito, dandole il tempo di scostarsi. Per assurdo, sembrò un contatto ancora più intimo del bacio stesso.

    Se non avesse conosciuto i Kain e Chelsey AU forse avrebbe pensato di essere pazzo in quel momento ma...li aveva visti insieme. Aveva visto che tra lui e Chelsey poteva esserci qualcosa che non fosse platonico. Però...aveva anche visto come avrebbero potuto farsi male a vicenda, stando lontani. Ma se invece era andata a finire così perché avevano sbagliato a monte, lasciandosi travolgere dalle emozioni?
    In quel momento, decise che se anche così fosse stato, non gliene importava.
    "Ora sono un battitore: non scapperei più dalle cose che mi spaventano. Neanche da quelle che fanno male"
    Mormorò socchiudendo gli occhi senza perdere il sorriso, ogni parola scandita contro le labbra della rossa.
    Le dita scivolarono lunga la cute, fino al collo, intrecciandosi con nuove ciocche. Un gesto dal significato addirittura più sincero delle sue parole
    Resto. Ovunque. Con te.

    Un fischio lo fece quasi sussultare: si voltò di scatto verso lo schermo acceso.
    "Aaaaaah guarda guarda guarda!" indicò lo schermo, con così tanto entusiasmo da rischiare di far ribaltare entrambi giù da letto "Questa sì che è stata una bellissima azione! La Manovra di Porskoff ti è riuscita perfettamente, ci sarei cascato persino io!"

    KAIN KELLERGAN
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    non so cos'ho scritto
     
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    Chelsey, in realtà, non voleva che Kain la smettesse. Non davvero, almeno. Avrebbe voluto continuasse a ridere, a sapere di mirtillo o di frutti di bosco come la sua marmellata preferita, a... baciarla. E ancora non credeva lo avessero fatto davvero, ancora non aveva realizzato quanto quel bacio fosse reale. Era stato intenso e ancora sentiva l'adrenalina farle fremere i muscoli sottopelle, sentiva l'euforia attraversarla a ondate, sentiva la testa leggera, quasi ogni pensiero razionale fosse in quel momento inutile, quasi nulla potesse oscurare il sorriso del Tassorosso.
    Era così strano osservarlo da vicino, la distanza ormai quasi ridotta al minimo, tanto da domandarsi se le iridi di Kain fossero sempre state così dorate, se le lentiggini sul viso fossero sempre state così rade, se le sopracciglia fossero sempre state così folte. Sembrava quasi fosse la prima volta che i suoi occhi avessero incontrato quelli del suo migliore amico, il ché era assurdo, perché si conoscevano da una vita e, forse, era proprio quel dettaglio a non farlo sembrare ancora abbastanza, a darle ancora il privilegio della scoperta, di non dover necessariamente seguire un copione già stato scritto. Era tutto nuovo, almeno per lei, e non c'erano tracce di qualcun altro nei suoi ricordi, non c'erano stati altri baci per Griffith, non c'erano state altre mani le cui dita si intrecciavano ai propri capelli.
    Se fosse stato qualcun altro, se quelle dita non fossero state del ragazzo che le stava davanti, probabilmente il suo braccio avrebbe reagito d'istinto, allontanandola dal pericolo, facendole così mettere in salvo il suo bene più prezioso.
    Nell'ormai lontano – e ancora non troppo vicino – 2030, un mini Jekyll alle prese con il mancato controllo dei suoi poteri aveva accidentalmente dato fuoco alla folta chioma ramata della piccola Gryff, scatenando il panico generale. Leggenda narra che l'urlo della piccola fosse simile a quello di una Banshee e che, se non fosse stata prontamente fermata, i suoi pugnetti avrebbero potuto incrinare qualche costola allo Special. Neanche Arci riuscì a placare la mini Furia Pelata, il che era tutto dire. Dopo una notte di lacrime, grida disperate e capricci fino allo stremo delle forze – di chi le stava attorno, non sue - i capelli le riapparvero più boccolosi e rossi di prima, segno che la Red Snitch era una strega fino al midollo. Tuttavia, dal quel momento in poi, nessuno fu più in grado di avvicinarsi alle sue ciocche vermiglie. Non Bells, non zio Elijah, né zio Arci. Il trauma fu talmente profondo che anche da Weasley, Chelsey ringhiava a chiunque allungasse una mano verso i suoi capelli. Non esisteva acconciatura che non sapesse fare, non c'erano dita, se non le sue, a districare i nodi. Non la spazzola di Sophia, né il pettine di un Laurence che finiva puntualmente col cotonarla.
    Eppure... Eppure dopo quasi trent'anni, dopo due vite vissute a tener tutti lontani dalla sua perfetta chioma, Kain era arrivato lì dove nessun altro era giunto prima. Sentire i suoi polpastrelli sulla propria cute era quasi... rilassante. Era come se... come se il Tassorosso tenesse ai suoi capelli quanto lei. Mosse piano la testa nella sua direzione, invitandolo a restare, certa che non avrebbe attentato alla loro vita, ignara del tono rosato che seguiva il tocco del ragazzo. Era quasi bello percepire i calli dell'altro sfiorarla piano, sentirli sulla propria pelle, lì dove nessuno si era mai spinto. Chelsey... Chelsey si fidava di Kain, più di quanto non fosse in grado di ammettere o di formulare a parole.
    Se avesse avuto paura che qualcosa tra loro potesse cambiare? Ovviamente. Se avesse avuto paura che Kain la potesse allontanare o che decidesse di mettere tra loro un intero oceano di distanza? Era già accaudto, ma... si fidava, appunto. Avevano l'opportunità di imparare dagli errori che loro stessi, in altri universi, avevano già commesso, avevano l'occasione di riscrivere la loro storia e di evitarsi tutto quel dolore, di migliorare quella comunicazione che li aveva sempre allontanati e...
    Sbatté piano le palpebre, il respiro ancora bloccato nel petto, incarcerato da quei polmoni che, per la paura di quella risposta, avevano smesso di funzionare correttamente.
    D'istinto, si portò in avanti, suggellando quelle parole mormorate sulle proprie labbra e che, forse, per la prima volta li ponevano sulla stessa pagina.
    Forse un occhio esterno avrebbe potuto dire che stavano correndo troppo, che quella frase, quel paragone, erano quasi al pari di una dichiarazione più grande di loro ma... ma Kain era il suo migliore amico, la sua parte migliore, il motivo per cui ogni giorno si alzava dal letto e correva al campo da Quidditch per allenarsi, per arrivare a quel livello che sembrava sempre così lontano. Kain era... Kain.
    Sempre.
    Anche quando per poco non la buttò giù dal letto, facendola sobbalzare al punto da perdere quasi l'equilibrio e finire col sedere sul freddo pavimento del Dormitorio Tassorosso.
    “È perché so esattamente cosa sbagli, signorino! Ti osservo da una vita, non pensare non sappia quali siano i tuoi punti deboli!” Si lanciò, allora, con tutta la sua innata grazia da orso bruno sul ragazzo, placcandolo sul materasso e iniziando a solleticarlo senza pietà prima di fargli prendere fiato e sistemarsi meglio accanto a lui per continuare a rivedere la partita. Tuttavia, era troppo consapevole della presenza dell'altro per poter effettivamente concentrarsi sul match in corso. Non... non riusciva più a seguire le azioni, perché la pelle nuda del Tassorosso bruciava contro la propria. Si spostò un po' più vicina, un po' più accoccolata a quel petto che non aveva mai realizzato fosse così largo. Per anni, anni, aveva scansionato il fisico di Elwyn Huxley o quello di Phobos Campbell, troppo impegnata a voler riprodurre i loro muscoli per accorgersi del fatto che, pian piano, anche gli allenamenti cui Kain si sottoponeva ogni giorno stavano dando i loro frutti. Certo, non aveva ancora la V line devastante dell'ex giocatore dei Falcons, né i bicipiti grossi quando la sua faccia del professore di Corpo a Corpo, ma era abbastanza solido da farla sentire come se niente potesse farla vacillare in quel momento. Nessun fattore esterno, almeno. Perché i suoi demoni erano sempre lì a farle compagnia e forse avrebbe dovuto ignorare quel tormento, forse avrebbe dovuto continuare a far buon viso a quella situazione che, lentamente, la stava schiacciando, a tutte quelle cose non dette che, adesso, potevano infrangere tutto. Ma se davvero ci fosse stato un futuro con Kain, se davvero si fosse sbloccato qualcosa tra di loro, allora tutto quello che sarebbe venuto dopo non avrebbe dovuto fondarsi su una menzogna, su un segreto ormai divenuto troppo grande da poter essere facilmente ignorato.
    “Dallaire.” Sussurrò piano, gli occhi chiusi perché sapeva a cosa stava per andare incontro, ma le parole di Kain rimbombavano nella sua testa e... e se anche lei era un Battitore, se anche lei era degna del ruolo che avrebbe voluto tornare a ricoprire ancora una volta appena diplomata, allora non sarebbe più scappata dalle cose che la spaventavano. Neanche da quelle che facevano male.
    “Chelsey Gryffith Dallaire. Non Eleanor, non Weasley... Non lo sono mai stata, una Weasley.” Continuò mettendosi a sedere e abbassando lo schermo magico su cui stavano rivedendo la partita appena giocata. Sentiva un nodo alla gola talmente stretto che quasi le impediva di parlare. Era consapevole che avrebbe mortificato Jekyll, che probabilmente Hyde l'avrebbe guardata con lo sguardo di chi non aveva mai avuto dubbi che Chelsey avrebbe fallito. E faceva male anche solo immaginare la reazione del Pirocineta, il suo sguardo colmo di delusione, ma non poteva continuare ad andare avanti così, non poteva più continuare a mentire a Kain, a far finta che tutto fosse normale. Solo Godric (Grifondoro) sapeva quante volte fosse stata sul punto di crollare, quanto il tirocinio con Arabells Dallaire l'avesse spinta al limite. Perché era sua madre. Era sua madre. Lo era sempre stata. E tutto ciò ancora dopo due anni la sconvolgeva. Perché il Quidditch era quel filo sottile che l'aveva riportata a lei, quel filo rosso che l'aveva legata a Kain e che, per un motivo o per un altro, aveva provato a tener lontano.
    Il vaso di Pandora si rovesciò sul Tassorosso, travolgendolo, mentre Chelsey non riusciva più a tacere, a tenere dentro le parole, i ricordi di Gryffith, i suoi legami con il 2043, con quella vita che non ricordava avesse vissuto. E più scendeva nei dettagli, più parlava, più sentiva il peso sulle sue spalle alleggerirsi. C'era la sua amicizia con un Hyde bambino che, sorprendentemente, pur lamentandosi della sua presenza l'aveva sempre accolta e mai, del tutto, respinta; c'era Jekyll che vegliava su di loro e affrontava ogni colpo che la vita gli riservava col sorriso; c'era sua madre, quella donna così forte e indipendente che era da sempre stata il suo modello di vita. C'era Elijah, per cui aveva deciso di dare la vita, e c'erano Rea e i suoi cugini con cui era cresciuta quasi in simbiosi. C'era Arci, il suo zio preferito nonché l'amore della sua vita e c'era Aidan, che la rendeva iper-gelosa ogni qualvolta si avvicinava al Lleroy e che, per ironia della sorte, adesso era il suo Vice, la sua spalla, la coscienza di quella Squadra che avevano costruito insieme. Tutte persone che, in un modo o nell'altro erano nuovamente intrecciate alle loro vite. Quel viaggio nel tempo le aveva tolto tutto e le aveva dato tanto, le aveva dato l'opportunità di ricominciare, di salvare i suoi cari da un destino troppo crudele, le aveva dato Kain.
    “Io volevo restare da voi, volevo restare con te ma... ma non potevo, non dopo aver ricevuto la lettera e Hyde” non il professor Jack Daniels, non ora che non c'era più ragione di mentire “era l'unico che potesse darmi delle risposte. Non sapevo più chi fossi, a quale mondo appartenessi. Dovevo andare a vivere con Hyde e Jekyll per capire cosa fare. Per mantenere fede a una promessa che Gryff aveva fatto a lui. Non volevo mentirti, non volevo lasciarti indietro, io...” Allungò le dita verso quelle del ragazzo, le lacrime che iniziarono a rigarle il viso per la stanchezza e per il terrore di alzare lo sguardo e vedere negli occhi del Tassorosso il rifiuto e la sofferenza. “Io voglio solo proteggerti e... e... non voglio vivere un'altra vita senza di te.” Provò ad asciugare una lacrima, una delle tante, senza sollevare gli occhi dalla coperta. Perché Kain era l'anello mancante, il tassello che completava perfettamente il puzzle. “Ma non ce la faccio a far finta di niente, non ce la faccio a continuare come se nel mio mondo perché nell'universo da cui vengo, tu... tu non ci sei più.” La voce si incrinò sull'ultima parola, quasi fosse impossibile per lei immaginare una vita senza il Tassorosso, senza il suo sorriso, senza le sue fossette... senza di lui. E non riusciva a esprimere diversamente il concetto, non riusciva a parlare di morte, perché quello era un concetto troppo definitivo, perché non tutti avevano la fortuna di tornare indietro, di continuare a vivere. “Forse non è questa la mia missione, forse non è quello che sono chiamata a fare ma... non mi importa. Non se posso continuare a stare con te.” Strinse piano le dita dell'altro, chiudendo gli occhi, trattenendo un sospiro perché ormai non riusciva a fermare i singhiozzi che la scuotevano piano. Cercava di non pensare alla possibilità che, dopo quel fiume di parole, davanti alla verità Kain avrebbe potuto chiederle di andar via, di non incrociare più il suo cammino. Era già troppo doloroso così e la Rossa, ormai, era al limite. “Non mi pento di essere tornata indietro nel tempo, non se questo mi ha portato da te e non mi importa se è destino o meno, non mi importa sia un caso fortuito o un danno collaterale. Sono felice di averti conosciuto e... spero un giorno tu possa perdonarmi per non avertelo detto prima.” Perché due anni potevano aver cambiato tante, troppe cose. “O, semplicemente, che tu possa accettarmi anche così... Nonostante tutto.”

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    CHELSEY WEASLEY
    DALLAIRE


    Edited by C h e l l S E Y - 9/4/2020, 10:26
     
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    Un attimo prima, si stavano baciando.
    Un attimo dopo, guardavano la partita e Chels si era accoccolata a lui.
    La seconda cosa rientrava nel quadretto di un classico sabato sera, la prima... no.

    Le sorprese potevano essere sufficienti per la serata, ma Chelsey non la pensava allo stesso modo. Quindi... sbadabam! Nuove informazioni gli piombarono addosso come bolidi, troppe e troppo grandi per essere filtrate e digerite.
    Come se non bastasse, con una nota di panico, si accorse che Chelsey stava piangendo.

    Aspettò che l'amica finisse di parlare, cercando disperatamente di unire i puntini e ricostruire la storia incredibile che gli stava venendo raccontata, associandola alla realtà. L'unica cosa reale e tangibile, in quel momento, erano il tocco delle dita di Chelsey, che timidamente cercavano le sue. Le intrecciò con sicurezza, senza perdere il contatto anche quando il silenzio scese nella stanza. Quante volte aveva fatto quel gesto istintivamente, senza pensare, decidendo di ignorare le sensazioni che gli dava? Kain non era forse la persona più intelligente dell'universo, ma non si poteva dire che non fosse un'eccellenza nel mentire a se stesso.
    Intanto il lungo silenzio proseguiva e, oh Merlino, avrebbe voluto un cervello più veloce per riuscire a riempirlo il prima possibile con le parole giuste.
    ...non era particolarmente bravo con le parole o i discorsi preparati, quindi si rassegnò subito, lasciando che a prendere il controllo fosse l'istinto.

    "Io non sono abbastanza intelligente per capire esattamente tutto quello che mi hai detto e, onestamente? Ancora non mi sono ripreso dal...mmmmhhaicapitocosaintendoilbacioinsomma" ammise, imbarazzato. Kain Kellergan era ufficialmente una scolaretta.
    "E mi hai dato un sacco di informazioni... Quindi ti chiedo scusa perché probabilmente dovrai spiegarmi le stesse cose per i prossimi vent'anni prima che io le capisca"
    Come aveva fatto in precedenza, sollevò la mano libera per poggiarla sulla guancia di Chelsey, questa volta in un vano tentativo di cancellare la scia tracciata dalle lacrime.

    "Mentre cerco di assimilare quello che mi hai detto io... io ti rivelerò un segreto!" Sollevò gli occhi al cielo, cercando le parole nel marasma confuso che era la sua testa. Poi, iniziò a parlare.
    "In realtà... ho sempre saputo che saresti finita a Grifondoro: non c'era bisogno di un Cappello Parlante per saperlo. E quando ci siamo rivisti il primo giorno a Hogwarts ero così felice: anche se erano passati anni ritrovarsi era stato così...spontaneo? Come volare. Per questo..." si interruppe, schiarendosi la gola.
    "... potrei o non potrei aver supplicato il Cappello Parlante di mettermi a Grifondoro. Non volevo altro che giocare a Quidditch con te" Fu difficile tenere le mani ferme dov'erano e non utilizzarle per nascondersi. Ugh, non era bravo a parlare. "Spoiler, non ha funzionato. E col senno di poi, sono felice sia andata così!"
    Purtroppo non aveva davvero la capacità per spiegare cosa aveva significato tutto quello per lui. L'aspettare di giocare contro i Grifondoro come i bambini aspettano il Natale, l'impegnarsi e il metterci l'anima per scontrarsi di nuovo contro di lei... ma, soprattutto, l'imparare a camminare da solo sulle sue gambe, costruendo una squadra da trascinare insieme a lui con l'obiettivo di dar vita alle partite più belle. Per essere alla sua altezza.

    "Il mio segreto è una cosa minuscola rispetto al tuo ma... in quel periodo ero spaventato. Senza di te le parole della nonna stavano iniziando a far breccia nella mia testa. C'erano momenti in cui riuscivo a vedere il mondo con i suoi occhi - ogni tanto, quando sono con lei, mi capita ancora. C'è una parte di me che non è buona, e lei sa come farla emergere. Non faccio fatica a immaginarmi in universo senza di te: in trappola, nella mia stessa testa" In quel momento, non potè non pensare allo sguardo rancoroso che gli rivolgeva Alister.
    "Nonna Berenix ha sempre avuto ragione su di te: sei un pericolo - ma non per la tua storia o la tua famiglia, ma perché mi rendi libero da lei. Con il Quidditch e con la forza di ignorarla quando serve"
    Le ultime frasi non riuscì proprio a dirle guardandola negli occhi, quindi optò per un abbraccio. Era bizzarro come si incastrassero alla perfezione.

    "Su una cosa però ho sempre avuto ragione io! Non solo sei speciale, ma hai il Quidditch nel sangue. Letteralmente!" realizzò, allontanandosi appena mentre esagerava un'espressione trionfante per allentare la tensione.
    "Sicuramente non ti posso perdonare per avere il vantaggio del Quidditch nel DNA! Per il resto... non vedo cosa dovrei perdonarti. Hai portato questo macigno per tutto questo tempo e io non me ne sono neanche accorto, troppo impegnato a hemmmm guardare male Hyde." Un eufemismo.
    "Non lo dirò a nessuno e non ho intenzione di andare da nessuna parte, quindi per favore puoi smettere di piangere?"
    Un po' per l'imbarazzo, un po' per tranquillizzare Chelsey (e un po' perché lo voleva fare davvero), si avvicinò lentamente fino a posare di nuovo le labbra contro le sue. Fu un bacio stupidamente dolce, che nulla aveva a che vedere con quelli precedenti: solo un timido sfiorarsi di labbra, un conforto, che lo fece sentire come se avesse un caminetto nel petto.

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    Kain parla e prova a dire cose sensate.
    ...Senza nè capo nè coda vbb andava fatto
     
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    Se non fosse stato per quella mano ancora intrecciata alla sua, per quelle dita che la tenevano ancorata a quel letto che improvvisamente era diventato troppo freddo, sarebbe andata via.
    Non si aspettava una chissà quale reazione di Kain, né che saltasse di gioia, né che le urlasse contro, eppure… eppure quel silenzio la stava schiacciando, lento e implacabile.
    Teneva lo sguardo fisso sulla coperta del Tassorosso, incapace di sollevarlo sulla figura dell’amico, ammesso potesse considerarlo ancora tale. Chelsey non era una persona che, di solito, aveva paura, anzi; era abituata ad affrontare ogni problema di petto, andava a muso duro contro tutto e tutti pur di raggiungere i suoi obbiettivi, non aveva problemi a mostrarsi senza filtri, sempre a testa alta e con quella tipica fierezza Grifondoro. Eppure… eppure quella mancanza di reazione, quella più totale assenza di qualsiasi cosa, la stava terrorizzando. Era scesa nelle viscere di Hogwarts a combattere affiancando i Ribelli senza battere ciglio, e ora era pietrificata dall’idea di perdere il suo migliore amico, la sua bussola, la persona più importante della sua vita. Aveva il terrore di perdere Kain.
    Stava per muoversi, per lasciare quella stanza e mettersi tutto alle spalle. Stava per tornare in camera e mandare una lettera a Jekyll, vomitando quelle parole che non riusciva a pronunciare in quel momento. Stava per sciogliere quell’intreccio che l’aveva tenuta ferma sul posto, che stava alimentando la flebile speranza che Kain continuasse a volerla nella sua vita, quando sentì la voce del ragazzo.
    Avrebbe voluto sentirsi sollevata, avrebbe voluto racimolare abbastanza coraggio per incontrare le iridi dorate del Tassorosso seduto davanti a lei ma, semplicemente, non ce la faceva. Ogni muscolo del suo corpo era contratto in un unico spasmo, quasi fosse in attesa di quell’unico segnale che l’avrebbe fatta schizzare via, lontana dalla consapevolezza di aver rovinato tutto.
    Avrebbe voluto ridere alle parole di Kain, dargli una spallata canzonatoria sottolineando quando fossero vere, quanto fosse lei, invece, a brillare di intelligenza – sebbene qualcuno potesse avere qualcosa da ridire - ma tutto quello che riuscì a fare fu chiudere le palpebre, lasciando che qualche lacrima si incastrasse tra le sue ciglia. Affondò con delicatezza i denti nel labbro inferiore, quasi questo conservasse ancora il sapore dell’altro, in attesa che il Kellergan la colpisse col suo bolide migliore.
    Ma non successe.
    Non successe nulla e Chelsey non capiva perché la mano del Tassorosso la sfiorava con delicatezza, perché stava asciugando le sue lacrime, perché era gentile e buono con lei sebbene gli avesse appena detto che aveva mentito per due anni, che lo aveva tenuto fuori da una parta fin troppo importante della sua vita. Sollevò lo sguardo titubante, provando a resistere all’impulso di seguire la mano dell’altro pur di non interrompere quel contatto che, da solo, era bastato a tranquillizzarla. Così come sapere che Kain aveva messo in conto almeno altri vent’anni con lei. Perché se avesse dovuto spiegargli le cose per tutto quel tempo, voleva significare che sarebbero rimasti, quanto meno, amici, vero? O vent’anni considerando il periodo in cui non le avrebbe più parlato?
    Perché? Perché? Perché Kain la rendeva così insicura? Perché era in grado di influire così tanto sul suo umore anche solo toccandola appena? Perché doveva essere sempre così Kain?
    Levò impercettibilmente un sopracciglio quando Kain menzionò di doverle svelare qualcosa e, per un breve, brevissimo attimo, temette il peggio. Cosa? Il peggio. Tipo che aveva sempre scommesso contro di lei? Che era stata un’idea sua quella di farla scommettere contro zio Balthy per non farla giocare come battitore o… OPPURE CHE TIFAVA I FALCONS??? E che anche lui si definiva fan n° 1 di Elwyn Huxley??? O… no. Non poteva essere. Non quello. Sarebbe stato troppo. NON POTEVA ESSERE ANCHE LUI FIGLIO DI PHOBOS. O il suo studente preferito. Lo aveva già come responsabile di Casata, poteva vederlo a tutte le ore del giorno e della notte, andare da lui per ogni minima cosa, tipo, buh, una piuma in meno nel cuscino… non avrebbe retto allo shock che Kain fosse IL preferito dell’unico professore per cui valeva ancora la pena restare in quella scuola e…
    «... potrei o non potrei aver supplicato il Cappello Parlante di mettermi a Grifondoro. Non volevo altro che giocare a Quidditch con te»
    Chelsey aprì la bocca una, due, tre volte di fila. Incapace di emettere alcun suono, se non la pallida imitazione di un pesce rosso. Provò a prendere fiato, ma non ci riuscì. Continuava a fissarlo incredula, il cervello completamente in tilt.
    Kain. A Grifondoro.
    KAIN.
    Il suo Kain. Lo stesso ragazzino che bastava guardarlo per farsi spuntare sulle labbra un sorriso. Lo stesso dall’odore dolce e rassicurante. Lo stesso che cantava canzoncine inventando di sana pianta le parole quando era di buon umore. Lo stesso che urlava Tosca Tassorosso da ogni singolo poro della sua pelle aveva chiesto di essere smistato a Grifondoro.
    Per giocare insieme a Quidditch.
    Per lei.
    Non le fu difficile immaginare come sarebbe stato se il Cappello lo avesse ascoltato. Non fu difficile perché, segretamente, lo aveva immaginato anche lei. Più volte e no, non perché non ci sarebbe stata competizione nel Campionato con il Kellergan in squadra, ma perché avrebbe passato ogni momento libero con il suo migliore amico. Perché non ci sarebbe stato un Castello di distanza che le impediva di esserci qualora lui avesse avuto gli incubi, quando più aveva bisogno di lei.
    Sarebbe stato bello, sarebbe stato perfetto vederlo vestire i colori Grifondoro, saettare nel cielo come un fulmine vermiglio. Eppure, Kain era sempre stato un raggio di sole, tiepido e delicato sulla pelle; non un Ardemonio che distruggeva ogni cosa al suo passaggio. Per quello, ci aveva sempre pensato lei.
    Continuò a stare in silenzio, lasciando che il ragazzo continuasse a seguire il filo dei suoi pensieri, rendendosi conto di quante parole avessero detto negli anni senza mai comunicare davvero, senza scendere mai troppo nei dettagli per paura di scoprirsi, di fare un passo troppo lungo rispetto a quanto erano disposti a rischiare.
    Non ce la fece, la Dallaire, a non stringere le labbra in una dura linea sottile quando il più grande menzionò sua nonna, il vero grande ostacolo alla sua libertà. E quando ne ebbe l’occasione, quando le braccia di Kain la avvolsero completamente, lo strinse a sé con tutta la forza che le era rimasta dentro al corpo, il viso schiacciato contro il petto del maggiore, quasi volesse essere inglobata da lui pur di non lasciarlo andare.
    Erano così vicini che sentiva il cuore pulsante dell’altro sotto pelle, così vicini che non esisteva altro che il conforto di quell’abbraccio e la protezione di quel profumo che aveva associato a tutti i suoi ricordi felici, che era, col tempo, diventato casa.
    Protestò piano quando percepì l’altro allontanarla, solo per mostrargli uno dei suoi ghigni migliori: in fondo, gli aveva sempre detto che avrebbe mangiato la sua polvere. Scoprire di essere una Dallaire era solo la conferma che il Quidditch avrebbe sempre fatto parte della sua vita e… e… e poi di nuovo smise di pensare, completamente persa in quel contatto leggero. Portò con delicatezza le mani sul volto del suo migliore amico per tenerlo vicino, le dita che gli andavano a solleticare con delicatezza la nuca.
    Si sentiva meglio, quasi più leggera, eppure col fiato corto di chi aveva appena corso una maratona. Si sentiva finalmente capita, compresa, quasi ogni cosa nella sua vita fosse andata piano al suo posto.
    Si scostò appena, solo per riprendere fiato, prima di sfiorare ancora le labbra dell’altro, lasciando che si incastrassero tra loro senza forzare nulla, senza alcun velo di imbarazzo, senza la paura di un rifiuto.
    Poggiò la fronte contro quella di Kain, le palpebre ancora socchiuse per continuare ad essere cullata dalla presenza dell’altro.
    “Sì…” sussurrò piano, rispondendo alla domanda più facile, sebbene dubitasse che le sue emozioni avessero smesso di tradirla per quella serata. “Sai che odio piangere.” Chelsey, però, non accennò minimamente ad asciugarsi le lacrime o a cambiare posizione, anzi. Restò ferma così per qualche minuto, le dita ancora perse tra le ciocche dorate del maggiore, ritrovando pian piano il sorriso. Stava metabolizzando ogni parola, processando tutto il discorso di Kain, riproducendolo nella sua testa.
    Spostò prima una gamba, portandola a sfiorare la coscia di Kain, improvvisamente fin troppo consapevole della presenza dell’altro. Si sollevò appena, senza allontanarsi, solo per sistemarsi meglio sopra di lui, per accomodarsi lì dove sarebbe stata così vicina da sentire sulla propria pelle ogni suo respiro.
    “Saresti stato il migliore.” Quelle parole furono come un soffio leggero sulle labbra dell’altro prima che Chelsey tornasse a baciarlo piano. Si allontanò appena, le mani a cingergli il viso per costringerlo a guardarla, ad impedirgli di evitare il suo sguardo, qualora avesse voluto.
    “Saresti stato il Capitano migliore che Grifondoro abbia mai avuto.” E, forse, non avrebbe mai potuto rivolgere a nessun altro quelle parole. “Ti saresti fatto amare da tutta la squadra e li avresti conquistati con il sorriso. Ti avrebbero seguito ovunque, anche nelle imprese più folli, perché avrebbero riconosciuto il tuo valore e, per questo, ti avrebbero rispettato. Leali e al tuo fianco fino alla fine.” Perché era questo quello che Kain faceva alla gente, la vera magia di Kain: si faceva voler bene. “Io… avrei continuato a fare quello che ho sempre fatto. Ti avrei sempre guardato le spalle. Certo, non ti avrei disarcionato dalla scopa ma… ehi! Saremmo stati imbattibili.” Perché era così che si sentiva Chelsey quando Kain era con lei e quello, il rinunciare al ruolo per lei più importante, era più di qualsiasi altra dichiarazione, più di ogni altra cosa.
    “Io sono solo portatrice ti terrore e distruzione, ma tu… tu saresti stato in grado di tirar fuori il meglio di ognuno.” Come lo sapeva? Perché con lei ci era già riuscito. Ed era convinta, la Dallaire, che nessuno meglio di lui avrebbe fatto brillare ogni singolo giocatore, che li avrebbe resi importanti, li avrebbe fatti sentire fondamentali. Sarebbe riuscito esattamente lì dove lei aveva sempre fallito.
    “E devi promettermi, Kain, che diventerai capitano della nazionale. Non importa se non abbiamo giocato insieme in questi anni, perché io ci sarò sempre per le partite che contano. Sempre.”
    Avrebbe dovuto rinunciare a fargli del male, a professargli odio eterno, a ricoprirlo di insulti, a colpirlo con i bolidi ma… “Promettimi che arriveremo a giocarci la Finale della Coppa del Mondo, insieme.” Perché senza di lui, non avrebbe avuto senso. Il Quidditch stesso avrebbe perso importanza.
    Lo guardò fisso negli occhi, le iridi già incendiate dalla prospettiva delle sfide future. Potevano anche continuare a giocare in squadre diverse, potevano anche continuare ad essere separati, a migliorarsi a distanza ma la nazionale… vincere con la nazionale era il loro sogno fin da quando erano bambini.
    “Se Berenix proverà a ostacolarti, se proverà a metterti in gabbia, se proverà ad entrare nella tua testa ancora e ancora, ricordati che non sei solo. Non più, almeno.” Perché non esisteva un universo in cui una Chelsey non fosse andata a cercarlo, in cui non gli avesse liberato le ali per permettergli di volare. “Puoi sempre contare su di me.” E sul fatto che non avrebbe lasciato che la matrona Black spegnesse la sua luce. “Se proprio vuoi far emergere il tuo lato oscuro, puoi sempre continuare a guardare male Hyde, tanto lui ti ignora… Ti fa passare qualsiasi voglia, davvero! Non che ne abbia mai avuta qualcuna per lui, sia chiaro, eh! Cioè… Hyde??? EW! Come ti è venuto in mente??? Neanche Jekyl… H Y D E.” Scosse la testa ancora incredula, lasciandosi finalmente andare in una risata che le sciolse via i rimasugli di tensione, le braccia ancora legate dietro il collo del Tassorosso e il volto nascosto nell’incavo del suo collo, perché realizzare che Kain, se proprio doveva essere geloso di qualcuno, doveva essere geloso di se stesso, non aveva fatto altro che farla prepotentemente arrossire.
    Si spostò appena, sbirciando tra le ciocche vermiglie il volto dell’altro, studiando nei dettagli la linea della mascella, mentre il battito accelerava leggermente, prima di passare al suo profilo.
    “Kain…” lo chiamò piano, prima di accompagnare viso dell’altro contro le proprie labbra, incapace di stare troppo a lungo lontana da lui. “… sono felice.”

    Just like fire, burning out the way
    If I can light the world up for one day
    Watch this madness, colorful charade
    Just like magic, I'll be flying free

    Rebel | Quidditch | Welsh
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    CHELSEY WEASLEY
    DALLAIRE
     
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