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Ezekiel - Jace

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    ezekiel dred
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    lago nero
    pomeriggio, ottobre


    Pallido e corrucciato al pari di una tarantola muraiola, se ne stava scomodo e rattrappito a gambe incrociate su un cuscino bitorzoluto tutt'altro che soffice. Davanti a lui, su un basso tavolinetto ricoperto di velluto, una palla di cristallo rifletteva le luci calde che illuminavano -che parolone- la stanza.
    Al suo fianco una studentessa Corvonero lo guardava di sottecchi, mordicchiandosi le unghie già segnate. Prima avevano preso un thè -amaro e piuttosto schifoso- evitando di parlarsi troppo, perché lei sembrava essere molto riservata e lui troppo sfacciato per intavolare una conversazione interessante, e poi si erano scambiati le tazze. A te, mia sibilla le aveva detto porgendogli la ceramica, la Corvonero in un secondo si era fatta rossa sulle guance e tanto era bastato.
    Che cosa dicono le foglie di thè, che cosa vedi? La sentì cinguettare dopo un tempo che non avrebbe potuto quantificare. Poteva essere trascorso un minuto. Poteva essere passato un secolo. Ezekiel decise di non risponderle subito, di nascondersi dietro il volto meno espressivo in suo possesso.
    Che vedo... Sospirò, prima di pronunciare quelle parole in un borbottio sommesso. Niente, non vedo niente. Ahimè mentiva. In quel fondo di thé nero osservava chiaramente presagi di sventura. Forse non di morte, ma certamente di solido dolore. Le regalò un sorriso e le assicurò di non voler conoscere il responso della sua tazza. Perché lui, a quelle stranezze, mica ci credeva.
    Bugiardo.

    Ore più tardi, non ancora in prossimità del tramonto, raggiunse il Lago Nero a passo svelto e ben deciso: marciava quasi avesse una scopa ficcata su per il didietro, impettito, piccoli occhiali pentagonali a pararlo dal sole. Ricordava un vampiro ottocentesco, lo stesso piglio nobile e volitivo di un profilo da malfattore. Sorrise raggiungendo la riva, e quasi rise togliendosi i pantaloni e la camicia, i calzini e la cravatta.
    Con solo un paio di boxer lisi e scoloriti affrontò le spume chiare di quel mare scuro, immergendosi con estrema calma e molti brividi di freddo. Ma quel topo di laboratorio sentiva fosse necessario farlo, lavarsi dei suoi peccati ed espiare l'unico crimine di cui non aveva alcuna colpa: saper cogliere i presagi. Quella giovane ragazza, povera cara, sperava di essersi sbagliato. Di aver frainteso, di aver letto proprio male quell'appiccicaticcio fogliame rinsecchito.
    Le acque lo accolsero quiete, abbracciandolo in una morsa tutt'altro che amichevole: si sentì mancare il respiro non appena immerse il capo pallido, e quella sensazione gli fece spalancare gli occhi dal terrore. Chiudere gli occhi e sentirsi strangolare, premere e scuotere, era un po' come tornare neppure troppi anni addietro. Sillabò il proprio terrore annaspando, tornando a riempire i polmoni d'aria e non d'acqua lacustre.
    Tuttavia, passato il panico, nuotò ancora spingendosi lontano, a largo, e soltanto quando si voltò per tornare indietro ciò che vide gli riempì il cuore di una sottilissima speranza.
    Nonostante le cicatrici, i soprusi, il male. Nonostante le botte, le punizioni, le fughe. Nonostante tutto, Hogwarts silenziosa si stagliava in alto nella bruma di una giornata volta a terminare. Le alte torri acuminate e le guglie antiche, pochi solitari gufi che si muovevano lì dappresso. Ed il silenzio, il solo fischiare del vento tra i rami lontani della foresta e del parco.
    Ezekiel respirò a pieni polmoni.
    Si immerse.
    Tornò a riva.
    Le pietre del fondale lo ferirono più di quanto le alghe non lo avessero frustato, afferrandogli le caviglie ad ogni metro ottenuto: ma era vivo. Era sopravvissuto. Ancora una volta, la pelle coriacea del suo corpo aveva resistito agli affondi ed alle stilettate. Come poteva? Come riusciva a non cadere cadavere? Le pietre del fondale si attaccarono a suoi piedi, quando fu così vicino da potersi rimettere in orizzontale. Ogni passo era un'agonia, ed i suoi peccati non li aveva affatto espiati.
    Erano ancora lì, contro la pelle bianchiccia del torace e più su, nascosti nel capo cocciuto, e dietro gli occhi guardinghi e meditabondi. Ed ovunque, se ne sentiva pervadere.
     
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    jace van der brouwer

    ∙ 15.08.2003∙ purosangue ∙ pro mangiamorte?? ∙
    ∙ tassorosso ∙ vi anno ∙ cacciatore (quidditch) ∙


    Ore 5.30 Urla sonoro, il piccolo ed incantato oggetto posto accanto al baldacchino ornato di drappi neri e dorati del giovane olandese. Piccoli grugniti nel sonno, qualche parolacce e qualcuno inveisce gettandogli un cuscino addosso: non importa, è già sveglio ed in piedi.

    Ore 5.40 Cotone grigio e morbido, pantaloni e felpa col cappuccio alzato a difendersi, ad ingannare il freddo ormai autunnale -oserebbe dire quasi invernale se non fosse per la neve, tanto caratteristica, che ancora mancava al castello- assieme ad un paio di scarpe da ginnastica, accompagnavano e vestivano Jace van der Brouwer fuori, nella nebbia ottobrina. Cinque giri attorno al castello sino alla tenuta del guardiacaccia e giù, lungo vasta e smeralda pianura scozzese all’amato campo di Quidditch. Pioggia, grandine, neve o vento non aveva la benché minima importanza, non dinanzi al dovuto risveglio, allenamento, fatica, preparazione.

    Ore 6.45 Breve stretching seguito da una seconda corsa, questa volta alla doccia.

    Ore 7.00 Seguito dal brusio generale ancora lievemente addormentato eppur sveglio nel tepore d’ottobre, alba ormai alle spalle, per Jace era l’ora della colazione. Abbondante. Ed aiutatemi a rimarcare quest’ultima parola: abbondante. Allunga braccia e mani mentre a tavola riesce ad occupare non uno, non due, ma almeno tre altri posti. Uova, pancetta, salsicce, fagioli, pancake, frittelle, crostata, poi di nuovo salato e qualche altro dolce. Non v’è cosa, alimento, che il ragazzo la mattina non assorba, ingurgiti come una sorta di drago, un dinosauro prossimo all’estinzione spinto da disperata fame.

    «Good morning Hogwarts!»

    E poi? Pronto per le lezioni, gli allenamenti, soliti quotidiani e quasi banali crucci di qualsiasi giornata.

    Non diversa da tante altre, la mattinata gli scivolò dalle dita tra incantesimi, trascrizioni da lavagne magiche o diapositive sorrette ed immaginate da menti brillanti e spigliate. Attese impaziente il pranzo, nuova ed entusiasmante abbuffata per poi sentirsi dire per l’ennesima volta quella settimana, che l’allenamento di Quidditch era saltato. Maltempo, disorganizzazione, infortunio – quale delle tante scuse, li avrebbe attanagliati di questa volta? Inconcepibile. Non pose troppe domande, il paladino errante, ma raggiunse a grosse e lunghe, interminabili falcate la propria Sala Comune sino ad entrare in preda a nuova e folgorante ardore nel dormitorio.
    «Ma si può sapere che cazzo ti prende ultimamente, Brouwer? Sembri una molla.»
    «Non ora, Finn, non ora.» Mantello, golfino, cravatta, camicia, pantalone e scarpe lucide, eleganti, volarono a terra, uno dopo l’altro. Non si curò nemmeno della loro meta, quell’infimo atterraggio che, se visto da sua madre, l’avrebbe molto probabilmente maledetto in senso letterale. Si sfiorò appena alcune cicatrici sul petto mentre gli occhi, vigli e attenti, perlustravano il piccolo angolo spoglio, quasi sterile, che era la sua parte della stanza. Recuperò la tuta indossata quella mattina, indifferente all’odore, chiazze di sudore rapprese. Si cambiò velocemente per poi sfrecciare, come chi è sempre di fretta, fuori verso l’ingresso dell’imponente castello. Scariche elettriche, pura adrenalina cominciò a scorrergli nelle vene mentre i piedi, irrequieti ed agitati, percossi da brividi che arto dopo arto, prendevano il largo lungo tutto il corpo, si misero a saltellare sul posto. Occhi indiscreti, commenti, risa, occhiate maliziose: anch’esse vennero del tutto ignorate. Uscì veloce, la mente completamente altrove, incurante del freddo, leggero gelo che lentamente andava a posarsi sulle spalle dell'immenso e diroccato castello. Tirò su con il naso mentre passo dopo passo, Jace raggiungeva nuovamente la radura circostante. Correva, l'olandese, correva veloce quanto fiato, corpo, muscoli glielo permisero. Un bolide, una scheggia, proiettile mandato a caso nemmeno questi fosse stato uno sparo d'ammonito, improbabile e non calcolato. Non seppe descriverne il perché né vi si soffermò più di tanto in quanto agile -con moderata esagerazione- la mente ormai allenata allontanò subito il pensiero. In automatico, ci mise poco a raggiungere il Lago che, scuro quanto la notte che da lì a qualche ora l'avrebbe inghiottito, non sembrò riposare tetro nel suo solito sonno profondo. Sulle prime non si fermò, il rosso, ma rallentò di poco, gli occhi perennemente vigili puntati contro la superficie non più immobile dell'acqua. Aggrottò un sopracciglio, il volto ora accigliato. A cosa stava assistendo? «Ehi! EHI!» S'arrestò all'improvviso, fermo sulla sponda, il viso contratto dallo sgomento. Nuovamente: felpa, maglietta, tuta, scarpe, calzini. Si spogliò più in fretta di quanto avesse corso e in un secondo era in acqua, ogni muscolo e volto contratto. Non nuotò a lungo prima di scorgere nel gelo di quella limpida notte liquefatta, cereo e pallido corpo d'un altro ragazzo. L'agguantò con prepotenza, l'atleta, mentre strattonava e squarciava con l'altra mano temibili piante, aggressive alghe. Tornò in superficie alcune volte a riprender fiato per poi immergervisi di nuovo, vista e mente annebbiata dallo sforzo, dal dolore fisico. Nonostante la preparazione, egli lo sapeva, ne era consapevole, difficilmente si sfuggiva agli artigli coriacei dell'antico Lago. Alla fine riuscì, scalciando e delirando, ad infilare un grosso braccio attorno ai fianchi, attorno all'addome dell'altro. Lo strette forte a sé come se al mondo non vi esistesse nulla di più caro e cominciò a tirare, a muoversi contro la corrente, contro la direzione opposta alla battaglia che egli stesso aveva inscenato. Sembrarono passar ore prima di raggiungere la superficie ed infine la sponda... e non seppe neppure lui come ci riuscì ma al solito, decide di non darvi peso. Trascinò il corpo del ragazzo fuori dall'acqua accanto a sé mentre ancora in preda agli spasmi, cominciò a tastargli il corpo in cerca d'un battito, del respiro, qualsiasi cosa purché fosse vivo.

    « The reason as to why we are attracted to our opposites is because they are our salvation from the burden of being ourselves. »

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    Edited by miss crocodile - 23/10/2019, 02:39
     
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    Che cosa gli avesse suggerito il cervello, nel ripercorrere a ritroso i propri passi e le proprie bracciate quand'era ormai giunto a riva, non seppe dirlo. Probabilmente non avrebbe potuto mai trovare risposta a quel quesito poco ostico ma doveroso. Perché là, lontano dai ciottoli che erano una stilettata per i palmi teneri e pallidi, Ezekiel avrebbe potuto incontrare la morte.
    Non quella ipotetica della giovane Corvonero che l'aveva tanto sconvolto, non quella di chissà chi fuori e dentro i confini del castello, ma la sua.
    E quando si muore, lo sapeva assai bene, c'è poco da fare.
    Elegante nelle bracciate e sinuoso nei movimenti si spinse verso il centro del lago, che ombroso e silenzioso sembrò accontentare il suo desiderio: non se la sentiva ancora di farsi lambire, nudo, dal vento freddo di un autunno ormai giunto. Non si sentiva pulito, benedetto e santificato dalle acque. Si sentiva sporco. Immerso nei fanghi, nella sporcizia, in una oscurità che non anelava affatto sfiorare. Ma non poteva far parte della luce. Non della luce, non dell'ombra, ma di certo poteva sfiorare un crepuscolo apparentemente sicuro. Tangibile.
    Un crepuscolo che non lo avrebbe rinchiuso o disprezzato, che non lo avrebbe ucciso o ferito.
    Lo sperava.
    Il plumbeo delle acque invece lo attanagliò alle caviglie, lo trattenne e lo strattonò. Lo strinse e lo graffiò.
    Alghe assassine e chissà quali losche creature annidate nel buio lo lambirono. Ezekiel annaspò ma non riuscì a proferire parola, non chiamò aiuto. Invece si immerse in quella profonda pozza scura, tentò di liberarsi le gambe ma non vi riuscì. Per ogni erbaccia che strappava, altre due lo afferravano. E quando gli strinsero anche un polso, gli mancò il respiro.
    Decise così di riposarsi soltanto un momento, chiuse gli occhi stanco com'era. Così esausto, privo di energia. Pensò di addormentarsi, di farsi un pisolino: doveva aver ingoiato molta acqua ed essere impazzito, ma non se ne rendeva affatto conto.
    Fu tutto nero intorno e dentro di lui.
    Inchiostro profondo, notte fonda senza luna.
    Spalancò gli occhi: arrossati, spaventati, le pupille dilatate di chi ha visto un diavolo danzare in cortile. Non era più avvinto dalle onde, assolutamente, ma la sua schiena premeva con forza su quelle dannate pietre della riva. Gli grattavano la pelle pallida, macchiata d'inchiostro come un cielo in tempesta. Ciò che vide, ritornando a nuova vita, fu una zazzera di capelli rossicci appiccicati ad una fronte altrettanto rossa. Lo stava toccando.
    Lo toccava, e si sentiva freddo e cianotico in ogni dove. In ogni punto in cui le loro carni venivano a sfiorarsi.
    Fermo! Sillabò, stanco ed ottenebrato dal panico che ancora gli scorreva nel corpo. Dall'adrenalina che gli era sfuggita dalle mani che ricercavano l'aria sopra la sua testa. Un'aria perduta, scappata, veleggiata verso ovest alla scoperta nell'ignoto. Fermati! Lo pregò, ma il tono imperioso tradì il suo animo profondamente dispotico ed arrogante. Lo sguardo invece era supplichevole, mesto e dispiaciuto. Ma questi forse non lo sentì, perché percorse ancora una volta le sue carni alla ricerca di qualcosa. Di segni vitali. Di vita e respiro.
    Ezekiel annaspò in quel momento, tossì. Una boccata d'acqua gli riempì la bocca che sino a quel momento comprese essere stata chiusa: lo aveva pregato soltanto col pensiero, con la mente. In silenzio, l'aveva osservato catatonico. Tossì ancora una volta, la gola bruciò con gran forza e quasi ebbe la sensazione di dover vomitare. Per fortuna non lo fece.
    Basta, ti prego non toccarmi! Riuscì a sillabare, la gola ardente non gli permise di aggiungere altro: invece il corpo si contrasse nel verso di un conato vuoto. Affamato d'aria. Tentò di arretrare, puntando i gomiti e la pianta dei piedi, ma non riuscì a muoversi bensì a ferirsi.
    Così i ciottoli bianchi divennero vermigli, e lo strano non si mosse.
     
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    Veloci e frenetiche, ansiose quanto il suo cuore che forte, minacciava di lacerargli prima la cassa toracica e poi lo stesso petto, le mani continuarono quell’infinita perlustrazione in circa di vita, in cerca di morte. Braccia. Gambe. Addome. Le dita strinsero più e più volte il viso mentre angoscia, paura e dolore lo invadevano artigliando lentamente il suo corpo. Non badò al freddo né alla notte che furtiva, stava ormai scivolando sopra le loro teste inghiottendo la pianura Scozzese come un serpente preda il proprio topo. Strabuzzò gli occhi mormorando raffiche di parole che incatenate l’una all’altra non formulavano nulla, non significavano niente. «Andiamo andiamo andiamo svegliati svegliati...!» Prima lui, dopo l’altro, scosse entrambi cerei volti con fare sempre più preoccupato sino a chinarsi, sfiorarsi, all’ennesima ricerca del respiro. Non appena fu sommerso dall’acqua, piccoli e leggeri fiotti rigurgitati, l’anima gli si scosse in petto. Sorrise e batté le mani come un triste burattino, estasiato dalla vita, da quella possibile spaventosa morte.
    «Basta, ti prego non toccarmi!»
    «Sei vivo! Sei vivo! Oh!» Ignorò del tutto l’esile protesta e dal tenerlo stretto per la paura che questi sfuggisse alla vita raggiungendo la vecchia Signora incappucciata, lo strinse nuovamente a sé in un possente abbraccio. Sin troppo ben delineati e contratti, i muscoli fasciarono il corpo bagnato dell’altro ragazzo con fare deciso e quasi delirante, folle, cominciando a scuoterlo, muoversi sul posto per la gioia, allegra e spensierata pace nuovamente raggiunta: il male era stato sconfitto ancora e lui, Jace van der Brouwer, aveva contribuito nel suo piccolo a cacciarlo. E ancora: continuò a stringerlo a sé, premerlo contro il suo petto, nudo anch'esso, alternando sorrisi a vere e proprie risa di gioia spensierata.
    «Sei vivo! Sei vivo! Oh!» Cantilena, infinita filastrocca, l'olandese continuò con quell'ormai odiosa litania ancora e ancora mentre sin troppo emozionato, quasi eccitato dalla notizia, non si accorse nemmeno d'essersi letteralmente attaccato all'altro come una cozza in cerca del proprio scoglio. Sentì la pelle contro la sua, uno più pallido dell'altro, cadaveri in fondo al Lago, lieve tepore emanato dal respiro, dal sangue che vivace, continuava a scorrere in tutti e due. Per un secondo uno strano pensiero gli tinse la mente, fece corrucciare il volto e finalmente, lo lasciò andare indietreggiando, rendendosi conto solamente in quell'istante del rosso sul ciottolo attorno a loro.
    «Scusa... io... mi ero preoccupato. Stavi annegando.» Rieccolo, Jace la crocerossina, berretto bianco e squadrato a nascondere i crini rossi, un enorme croce sul petto a spostare morti, poveri soldati defunti di qualche inutile guerra durante il secolo scorso. E la gonna? Sì, pure quella. Cercò di prendergli una mano per esaminarne le ferite, il gomito, il braccio, qualsiasi cosa. Come una madre premurosa, Jace riprese a toccarlo, sfiorarlo ovunque. «Ti sei fatto male? Senti qualcosa di rotto? Ti gira la testa? Nausea? Ma questo... sangue?» Continuò e non smise mai con le domande, nemmeno quando si rimise in piedi, veloce e scattante, pronto a fare altri cinque giri di corsa più qualche allenamento a circuito a corpo libero. Saltellò sul posto per riscaldarsi anche se il freddo ancora non lo sentiva grazie all'adrenalina che perfida, l'alimentava in quella pazzia. Chiunque avesse incrociato Jace al Castello o fuori, anche solo per un solo secondo, ne avrebbe tratto fastidio dall'eccelsa energia che continuava a sprigionare. Energia e ottimismo. Ma per cosa poi? Qualsiasi cosa. Valeva la pena vivere per qualsiasi cosa.
    Raccolse da terra la propria felpa grigia ancora calda, morbida, e la gettò addosso all'altro con fare un po' maldestro. «Non accetterò un no. Prendila.» Insistette sorridendo ancora, il buon samaritano, rimettendosi seduto accanto a lui pronto ad un secondo esame, dita in agguato a toccare, stringere, sfiorare.
    «La febbre la senti? Ah, forse dovrei portarti in infermeria.»

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    Edited by miss crocodile - 23/10/2019, 02:40
     
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    Il lago richiamava la propria vittima, e la propria vittima si chiamava Ezekiel lo strano. Lo speciale. Lo sfigato. Lo scopa-morti, quello delle messe nere. Ezekiel il medium, il fenomeno da baraccone. Oh!, quanti come lui ne aveva visti nei circhi e negli zoo, dei freak allo stato brado. Ed in gabbia. Sotto ai tendoni come bestie ammaestrate. Ubbidienti. Lui invece dell'ubbidienza se ne infischiava e lo dimostrava spesso: anche quel dì lanciandosi nelle acque del lago. Le stesse che lo avevano ucciso e risputato vivo.
    Sono vivo? Domandò, guardandosi intorno: le rive del lago erano ancora silenziose, e lo scosceso cortile non brulicava di studenti. Lui invece era lì, e lo stringeva. Non aveva ascoltato le sue parole, e lo teneva stretto tra le braccia saldamente come a volersi sincerare che fosse ancora su quella dannata terra. E c'era. C'era, dannazione!
    Tra le sue braccia, appoggiato col mento al suo petto e con la fronte al suo collo. Lo poteva sentire palpitare contro la pelle pallida, cerea come la sua, lo sentiva vivere ed agitarsi: tutto ciò, lo rallegrò. Stranamente, nonostante avesse appena rischiato la pelle -ancora non se n'era reso conto, cretino tra i cretini!- si ritrovò a sollevare le labbra verso l'alto.
    Sì, sono vivo. Ammise in fine, un vero colpo di fortuna. Non rammentava ancora cos'era successo, ma aveva malamente compreso che a trascinarlo a riva era stato lo stesso che adesso lo stringeva, adesso lo toccava, adesso cercava di comprendere con quale mostro avesse a che fare. Ed Ezekiel era la peggiore tra le creature: quella pallida, apparentemente in procinto di tirare il calzino. Sospirò sulla spalla del suo salvatore, e quando aveva deciso di stringerlo a sua volta, lo sentì sciogliere quella stretta e stranito allontanarsi.
    Lo scrutò, ma non lo vide.
    Non comprese.
    E non comprese neppure perché si stesse scusando. Probabilmente gli doveva la vita. Non me ne sono accorto. Confessò candidamente, non ricordava: nella sua mente contorta un intricato via vai di incomprensibili flashback. Di bolle d'aria e alghe e dolore. La curiosità comunque vinse e divenne nuovamente osservato, toccato, sfiorato.
    Si era fatto male? Scosse la testa. Sentiva qualcosa di rotto? Non gli pareva proprio. Gli girava la testa? Aveva la nausea? No, e no. Ma il sangue...
    Sangue
    Sangue? Lo guardò stranito e seguì il suo sguardo: solo allora si rese conto di star sanguinando. Lentamente il liquido vermiglio aveva imbrattato le rocce sottostanti. Erano solo graffi, cose da poco, ma ciò non lo consolò affatto. Strabuzzò gli occhi e si finse tranquillo, ma il cuore aveva già cominciato a battere forte nel suo petto niveo. Avrebbe voluto dirgli di calmarsi, che sarebbe altrimenti uscito dal costato, ma non ci riuscì.
    Detestabile, fastidioso e rumoroso, lo distrasse tanto da perdersi il lancio di una felpa: era per lui, doveva prenderla e ringraziare ma non fece nessuna delle due cose. Figuriamoci, intontito e scosso come rifiutava di sentirsi.
    Non riuscì ad afferrarla e lo colpì in piena faccia, ciò non fece altro che farlo irritare. Ma si rese conto di quanto fosse morbida e confortevole quando l'ebbe in pugno e la sfiorò coi polpastrelli rattrappiti.
    Non poteva accettarla, e scosse il capo per farglielo intendere. No. No. Gli disse semplicemente, mentre gli porgeva una mano perché l'aiutasse ad alzarsi. Ma lui si sedette e Ezekiel non poté far altro che tirarsi su ed incrociare le gambe. Ricordatosi di avere indosso soltanto un vecchio paio di mutande, si affrettò però a cambiare posizione e, in un battibaleno, cercò e riuscì ad alzarsi in piedi. Gli girò la testa, dovette appoggiarsi un momento. Da quando era diventato così poco virile? Ho i miei vestiti, vedi laggiù. Cercò di dire all'altro, indicando poco distante un mucchio di stoffa tutto arruffato.
    Doveva raggiungere i suoi indumenti ed infilarseli uno alla volta: iniziava ad aver freddo ed i tremori gli avevano fatto battere i denti ben più di una volta. A passo incerto si mosse verso le sue cose, dando le spalle al ragazzo, piegandosi per afferrarle. Solo allora, ancora affaticato, ripiegò la felpa deponendola sulle rocce. In infermeria no, sto bene davvero. Trasalì. L'infermeria non era posto per lui. Aveva paura: un lungo brivido lo scosse dalla testa ai piedi, e non era il freddo.
    Te lo prometto Gli sussurrò supplice, un segreto tra loro due. Va tutto bene.
     
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    Estraneo alla diffidenza umana, tanto tipica e propria di chiunque abbia almeno per una volta messo piede fuori dalla porta di casa, Jace sulle prime non captò né percepì il lieve tono di ostilità nei suoi confronti. Continuò invece a sorridere allegro, felice d’aver ridato vita a chi di lì a poco, in un universo parallelo, non sarebbe nemmeno stato più in grado di guardarlo, giudicarlo, ammonirlo.
    «Sì amico, sei vivo, ed è tutto quello che conta.» Concluse infine abbozzando un lieve sospiro di sollievo, occhi dorati ora fissi sopra tetra superficie che immobile, aveva rinchiuso per l’ennesima volta i propri bui mostri e segreti. Petrolio putrido e nauseabondo, il Lago Nero li salutò con leggeri e segreti sospiri lasciati sfuggire ai mostri lì sotto nascosti. Attimi, brevi istanti passarono mentre lo sguardo nuovamente concentrato, non si staccò dal nero dell’acqua ormai specchio del cielo che scuro, era calato sopra le loro teste. Annuì con fare assente mentre l'altro ragazzo s’alzò per recuperare i propri indumenti che, abbandonati a qualche passo da loro, erano rimasi inanimi ed intoccati. Che cosa curiosa la morte, pensò Jace, l'improvviso, il tempo che si ferma per poi riprendere a scorrere, andare avanti come nulla fosse. Un leggero brivido gli percorse la schiena che cercò di placare con un feroce morso al labbro che, morbido e carnoso, si lasciò sfuggire minuscoli rivoli di sangue che veloce, la lingua distrattamente catturò.
    «Te lo prometto. Va tutto bene.»
    «Sei sicuro di stare bene? Me lo prometti per davvero?»
    Ingranò veloce, riprese per l'ennesima volta con la premura, volto e fronte corrucciati, gli occhi ambrati a fissarlo con sincera preoccupazione, i gomiti appoggiati alle ginocchia, mani intrecciate fra di loro. Piccola, minuscola goccia d'acqua dolce scivolò dai capelli ramati che discreta, raggiunse veloce il mento. Eppure il rosso non s'asciugò né s'alzò a vestirsi, ma sempre in mutande, continuando ad offrire la propria felpa e tuta all'altro che sempre ostile, evitava con cura il suo tocco. E chi poteva biasimarlo? Sorrise ancora, il buon samaritano, nel porgergli i propri vestiti per la centesima volta.
    «Ti lascio in pace solo se accetti questi... sono più caldi della divisa... e lo sai.» Cominciò col sorriso eppure finì con il broncio, puntiglioso e risoluto, tanto dannatamente tipico d'un qualsiasi Van der Brouwer. Non che Jace fosse anonimo o sconosciuto fra l'antiche mura del Castello, anzi, questa sua insistente volontà d'avvalersi e farsi accettare in ognidove -e per giunta riuscirci sempre- trovava ostilità un po' ovunque in alcuni minori gruppi di tutte le case. "Colui che vuole strafare." - "Colui che deve dimostrare." - "L'amico di tutti." - "Lo sportivo rompipalle." Eccetera. Eccetera. Eppure nessuna, nessuna di quelle maldicenze gli impedì mai di essere se stesso. Mai.
    «So essere molto insistente, se non s'era capito.» e scoppiò a ridere da solo, come uno scemo, la pelle ora accapponata dall'entusiasmo, attacco d'ilarità improvviso.
    «E finiscila di essere così serio, amico! Sei vivo e non c'è nulla di più bello!»
    Allungò ancora il braccio ora teso, tappezzato di muscoli, le mani usurate, pelle rovinata, questa volta non per accertarsi dell'altro ma per abbracciarlo, cingergli le spalle in quella strana fraterna profusione d'affetto.
    «E comunque piacere, io sono Jace.» Concluse infine lasciandolo andare e porgendogli la mano forse per la seconda, forse per la quarta, forse per la prima volta: la verità era che l'aveva già visto in giro, ne certo.
    «Ma io ti conosco...» mormorò ancora, poco convinto delle proprie parole e del proprio sguardo, ma sempre affezionato all'attenzione, alla cura che prestava al prossimo - quasi esagerata.

    « The reason as to why we are attracted to our opposites is because they are our salvation from the burden of being ourselves. »

    © CODICE CREATO DA MISS CROC ⌘ COPIA E TI STACCO LE DITA ❤︎


    Edited by miss crocodile - 23/10/2019, 02:41
     
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