Fino a quel momento, il Commstaj aveva sempre avuto paura. Di cosa, precisamente, non avrebbe saputo dirlo neppure lui: c'era il fatto che, nelle spoglie di Bjorn e basta, si era sempre sentito in qualche modo inadeguato. C'era il timore di sentirsi allo stesso modo come Zorya, unica via di fuga a quel vociare nella sua testa a suggerirgli che non sarebbe mai stato abbastanza. C'era il terrore di non poter più scappare da sé stesso, dallo sguardo deluso dei suoi genitori, da quello un po' schifato dei professori di Durmstrang, da quello pietoso di Edderkopp. E, più di tutti, c'era l'enorme e complesso dubbio di come sarebbe stato, invece, lo sguardo di Roan nel vederlo così. Conosceva, la Beech, gran parte delle sue debolezze, eppure quello era un lato di sé troppo intimo, troppo fragile per poter essere messo in esposizione assieme a tutte le altre cazzate da cui si ostinava a farsi affliggere. Era una cosa a cui preferiva non pensare, perché darsi una spiegazione avrebbe significato doverlo affrontare e lui, no, non voleva affrontare proprio un cazzo. Voleva lasciarsi scivolare come una foglia sull'acqua, lenta, prendendo di tutto un po' senza chiedere niente, senza osare gettarsi nel vuoto per vedere che effetto avrebbe fatto. Voleva imparare a fregarsene Bjorn, del giudizio degli altri e di tutto il resto, perché alla fine la cosa importante era sempre e soltanto una: sopravvivere. Che fosse come Bjorn o come Zorya, poco importava. Ma c'era un fattore a rendere il tutto meno semplice: Roanoke Beech. Perché non ci vedeva un senso, Bjorn, a quell'inutile sopravvivere se avesse avuto l'odio della bionda, il disprezzo o la ripugnanza. Ed il punto non era quella forma d'infatuazione che si era trascinato dietro nel tempo, né la stima o l'affetto che riponeva nei suoi confronti, quando l'impossibilità di immaginarsi senza di lei come persona, come l'unica in grado di farlo sentire vivo davvero. Sapeva che Roan non l'avrebbe giudicato, che non le sarebbe importato conoscere quel lato di sé più contorto del resto, ma Bjorn l'aveva temuto lo stesso. Lo aveva temuto, e per questo aveva deliberatamente scelto di nasconderglielo, continuando a dirsi che presto o tardi glielo avrebbe detto, che stava solo aspettando il momento giusto per farlo, quando invece cercava soltanto di rimandare l'inevitabile. Ed alla fine, nel tentativo di non ferire sé stesso, aveva ferito lei. Era questo che non sopportava il Corvonero, la consapevolezza di avere ancora una volta fatto la cosa sbagliata e, con questo, di aver fatto del male proprio a lei. Non che si aspettasse niente di diverso da sé stesso, ma aveva osato crederci, per un po'. Patetico. «comodo dirmelo adesso, no? Lo sai quanto odi le persone che mentono, con mio padre e tutto il resto eppure tu-» ecco, a quel punto Bjorn avrebbe voluto prendere a testate il muro, o lanciarsi dalla prima finestra disponibile - di certo, non sostenere lo sguardo della bionda. Era vero, stava dicendo un sacco di sciocchezze, scuse una dopo l'altro per non voler ammettere ad alta voce che, a frenarlo dall'esser sincero, era sempre e solo stata la sensazione di essere sul punto di perdere ciò che aveva con Roan. Perché, ai suoi occhi, lei era semplicemente troppo: troppo fica, troppo coraggiosa, troppo tutto per voler davvero essere sua amica. E non se l'era sentita di mandare a puttane quella solita, seppur disonesta occasione, di averla più vicina di quanto non si sarebbe mai concesso perché non sentiva di meritarlo. Per questo non se l'era aspettato quello sguardo, quel «ma forse dovrei provarci?» pronunciato con una lieve punta di malizia, che per un attimo lo lasciò confuso e spiazzato, a guardarla con le sopracciglia aggrottate senza capire. Provare cosa? «Provare cosa?» Non ebbe neppure il tempo di rimproverarsi per averlo detto ad alta voce, di sentirsi stupido o di fuggire a gambe levate da una situazione che non aveva idea di come definire, tanto meno fronteggiare: Roanoke Beech lo stava baciando. Tecnicamente parlando, quella era la loro seconda volta, ma nella pratica era la prima in cui Roan lo stesse facendo non perché credeva d'avere davanti l'affascinante Gyldenkrantz o per sancire un sacrificio a Satana o perché strafatta di erba cipollina - lo stava!! baciando!! davvero!! E forse Bjorn avrebbe dovuto fermarsi a riflettere, chiedersi se non fosse un gesto dettato dalla rabbia, dall'impulsività del momento, una di quelle cose di cui entrambi (forse più Roan che lui) si sarebbero pentiti l'istante dopo, ma non aveva la più pallida idea di come rimettere insieme i mille pezzi in cui si era fatto il suo cervello nell'istante in cui le labbra della bionda si erano posate sulle proprie. Avrebbe forse dovuto restare immobile, o allontanarla quel tanto che bastava a sussurrarle quanto fosse una pessima idea, o che gli dispiaceva, o qualsiasi altra cosa che li riportasse alla realtà, ma fu quasi automatico il modo in cui invece si ritrovò a schiudere le labbra per permettere a quelle dell'altra di approfondire il contatto, d'insinuare la lingua in quell'intricata danza che non sembrava più un bacio e basta, ma il preludio d'un'infinita serie di cose non dette, lasciate in sospeso per paura di rompere un equilibrio che forse in fondo non c'era mai stato, che sapeva di caos e d'incertezza un po' come loro due presi singolarmente, o insieme. Non se ne accorse neanche, a dirla tutta, d'aver afferrato a sua volta i fianchi della Beech, d'averla avvicinata a sé con un desiderio che neanche sapeva di avere ma che, con tutta probabilità, covava sin dal principio. Di aver lasciato scivolare una mano sotto ai troppi strati della sua divisa per poterne sfiorare la pelle al di sotto, stringerla se possibile con ancora più voglia di prima, e l'altra, più audace, giù sino a sollevarle leggermente la gonna e raggiungere con le dita il bordo del suo intimo, senza mai osare andare oltre. Era assolutamente (non) pronto a ricevere uno schiaffo.
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