So have you got the guts?

björn & roanoke

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    «che fine ha fatto zorya? e da dove sei spuntato?»
    Ci aveva pensato cento, mille volte il Commstaj alla maniera migliore per dare una spiegazione a Roan che suonasse più coerente e meno patetica possibile ma, sapete cosa? Non riusciva a richiamarne alla mente neanche una. Forse se le cose fossero andate in maniera più lineare, forse se la Beech non l'avesse baciato, forse le cose sarebbero state un po' più semplici - o magari no. Magari, invece, la questione era semplicemente che quel Bjorn non aveva la più pallida idea di come fare a non risultare tremendamente inadeguato. Gliel'aveva ripetuto tutta la vita, sua madre, che non sarebbe mai stato abbastanza, mai all'altezza delle aspettative, ma lui ci aveva provato ancora e ancora a smentirla, a sembrare migliore di quello che alla fine aveva dovuto ammettere persino a sé stesso: un completo disastro. Ma con Roanoke era sempre stato più semplice. Con lei non aveva bisogno di sforzarsi di essere migliore, di essere normale; il più delle volte erano strani insieme, e andava bene così. Ossessionarsi con le stesse assurde teorie sul mondo, inventarsi nuove mistiche credenze, azzardare esperimenti il più delle volte fallimentari - difficilmente avrebbe potuto, anche volendolo, condividere quelle cose con chiunque altro che non fosse Roan. Sapeva che non avrebbero capito e, in ogni caso, era una faccenda esclusivamente fra loro che andava avanti da talmente tanto tempo, che parlarne con qualcun altro sarebbe stato come tradire un patto. Un patto, che durava da quand'erano bambini e che nessuno dei due aveva mai osato infrangere, nemmeno una volta - sino a che non aveva iniziato a mentirle sulla questione Zorya. Non aveva neanche idea del perché avesse iniziato, della ragione per cui non fosse mai riuscito a dirle, semplicemente: "sono un metamorfomago, a volte mi piace andare in giro con un'identità diversa, mi fa stare bene". Con tutta probabilità, Roan avrebbe capito senza fare troppe domande e sarebbero rimasti amici come sempre ma, quando quel giorno aveva dovuto spiegarle perché era stato espulso da Durmstrang, nemmeno s'era accorto d'aver detto «per una manifestazione sull'ambiente - sai, i russi non le vedono un granché bene queste cose» piuttosto che «perché mi sono spacciato per una ragazza sin dal primo giorno, e mi hanno beccato», e da lì era stato sempre più difficile dirle la verità, menzogna dopo menzogna. Era stato solo peggio, poi, cedere alla tentazione d'incontrarla come Zorya, di provare come ci si sentisse ad essere assieme a lei in un corpo diverso, uno in cui sentirsi a proprio agio come mai s'era sentito nei panni di Bjorn. Era stato peggio, perché aveva finito per intricarsi ancora di più in quella rete di stronzate che aveva costruito attorno a Zorya Gyldenkrantz, tanto da non sapere più come diavolo uscirne se non sbagliando, come in fondo era abituato da sempre a fare. Ed era pronto a farlo, pronto a sputtanarsi nella maniera più rapida e indolore possibile - ma, ancora: Roanoke Beech l'aveva baciato. Sì, aveva baciato Zorya e non Bjorn, ma questo era bastato a destabilizzarlo al punto tale da farlo tornare al suo aspetto originale, da fargli dimenticare di essere in un dannato castello in cui smaterializzarsi era impossibile - fuggire, ancora meno. Perciò, non poté far altro che ritrarsi dal contatto con la Corvonero, lasciare che ella stessa mettesse una certa distanza fra loro e posare infine gli occhi su di lei, prendendo un profondo respiro e costringendosi a sputare fuori un «vieni» un po' roco, che sapeva più di colpevolezza che di vergogna. Si alzò in piedi, indicandole l'uscita della Sala Grande con un leggero cenno del capo e superandola in silenzio, lo sguardo ritto dinanzi a sé salvo per controllare, di tanto in tanto, che Roan lo stesse davvero seguendo. S'infilò le mani in tasca, prendendo a torturare il tessuto al loro interno nel tentativo di allentare il macigno che gli si era posato sul petto e che gli stava rendendo molto più difficile respirare. Se aveva idea di dove stesse andando? [babbi's voice]: Assolutamente no. Aveva pensato al dormitorio in un primo momento, ma s'era subito reso conto di quante fossero le possibilità che fosse vuoto: poche, molto poche. Uscire dal castello era, ancora una volta, più semplice a dirsi che a farsi, perciò finì per spingere la prima porta che gli capitò a tiro e sperare che fosse un'aula vuota. «fortunato nella sfortuna» mormorò fra sé e sé, guardandosi attorno per assicurarsi che non ci fosse davvero nessuno. «beh, ochei» chiuse la porta alle spalle della Beech, andando poi a poggiarsi contro uno dei tavoli al centro della stanza. Rimase zitto ancora per qualche istante, lo sguardo a seguire le linee del pavimento con una certa precisione. «lo hai capito, no?» o almeno, lui sperava che così fosse, perché spiegarlo sin dal principio sarebbe stato - quanto meno imbarazzante. «non c'è nessuna zorya» soffiò infine, sollevando finalmente il capo verso la Corvonero «cioè, sono io zorya» e quasi sorrise nel dirlo, divertito dall'assurda ironia della situazione «non so perché non te l'ho detto. volevo farlo, davvero» chissà quand'è che aveva smesso di volerlo «ma poi ho visto come mi guardavi - come guardavi zorya, e » staccò la schiena dal tavolo, avanzando un passo verso di lei per avvicinare il viso a quello altrui, abbastanza da poterle sussurrare ad un orecchio senza doverla guardare in faccia «siamo onesti: mi avresti baciato lo stesso, se avessi saputo che ero io?» e la risposta, in cuor suo, la conosceva già, ma forse aveva solo bisogno di sentirselo dire per poter far pace con sé stesso.
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    Roanoke era certa che se avesse prestato maggiore attenzione, avrebbe potuto sentire il suo cuore esplodere nel petto. Non era certa se stesse tremando per la scarica di adrenalina del momento o per la sorpresa del volto davanti a sé, a quel punto le pareva persino nasconderlo al ragazzo davanti a lei, gliela si leggeva in faccia la sua sorpresa. Sarebbe stato così semplice dirgli di non aver capito la situazione, giocarsi la carta di essere bionda per una volta tanto nella sua vita, magari metterla anche sul ridere. Se non fosse che Roan non era quel tipo di persona, no, lei arrivava dritta al punto non importava la situazione, non sopportava di avere qualcuno a mentirle proprio sotto il naso. Per anni si era fatta prendere per il culo, prima con il tradimento di suo padre e successivamente con sua madre, non sopportava che Bjorn facesse lo stesso con lei. Poteva vedere la sua espressione riflessa negli occhi del ragazzo, contrariata e ferita, troppo sbigottita per erigere quel muro che avrebbe impedito al Commstaj di vedere dentro di lei, di vedere quanto si sentisse come un’idiota. Erano amici, no? E allora perché continuare a mentirle? Lo sapeva che avrebbe potuto dirle qualsiasi cosa e non avrebbe fatto una piega, le andava bene persino seppellire un cadavere, perché la Beech era proprio quel tipo di amica. Affidabile, leale, che avrebbe dato qualsiasi cosa per qualcuno a cui teneva. Fin troppo veloce a concedere la sua fiducia, ma altrettanto rapida a toglierla a chi non reputava affidabile. In quel momento il corvonero si trovava sul filo del rasoio, e Roan non poteva assicurare che un passo falso non l’avrebbe fatto precipitare. Quasi come una bambola priva di vita, una marionetta nelle mani del ragazzo, si lasciò trascinare da qualche parte, non particolarmente interessata nei dettagli. Le serviva qualche momento da sola per elaborare quanto successo e decidere quante botte meritasse quel figlio di Freya. «lo hai capito, no?» si degnò finalmente di dirigere lo sguardo sull’amico, e ci volle tutta la sua forza di volontà per tenere a freno la sua lingua: non tutti sapevano quanto in fondo fosse una bestia, certo ciò non le impedì comunque di mettere su la sua migliore espressione scazzata «anche un idiota l’avrebbe capito» che doamnde sono Commstaj, ma allora vedi che vuoi davvero essere preso a schiaffi. Avanzò verso di lui, perché quella voglia di menarlo proprio non le lasciava la mente, e in quel momento la Beech credeva fermamente che fosse meglio tenersi pronti. «non c'è nessuna zorya. Cioè, sono io zorya» lo sapeva, Roanoke lo sapeva, ma non voleva dire che fece meno male. Incassò il colpo, stringendo i pugni fino a sentire le unghie pungere la carne, si rifiutava di incrociare il suo sguardo, perché già sapeva cosa vi avrebbe letto: delusione, rabbia, rassegnazione. Non lo vedeva chiaramente, ma poteva percepire il sorriso sul volto del Commstaj, uno che avrebbe volentieri cancellato dalla faccia del compagno. Cazzo ridi, l’unico pensiero maturo che le venne in mente in quel momento. «non so perché non te l'ho detto. volevo farlo, davvero» «comodo dirmelo adesso, no? Lo sai quanto odi le persone che mentono, con mio padre e tutto il resto eppure tu-» le si spezzarono le parole in gola, troppo gonfia da quel risentimento che provava per poterle lasciare uscire liberamente. «non ti avrei giudicato, lo sai che non mi interessa» non le fregava niente se Bjorn si sentiva più a suo agio nel corpo di una donna, sia fosse un passatempo o la sua vera identità, o se volesse provare qualcosa di nuovo. «non so perché non te l'ho detto. volevo farlo, davvero. Ma poi ho visto come mi guardavi - come guardavi zorya, e» scuse, tutti scuse campate all’aria all’ultimo momento. Si odiava perché, in fondo, quelle scuse stavano facendo breccia in quel muro che aveva eretto tra sé e il corvonero- poteva capirlo, su un certo livello, ed era proprio quello a minare le sue convinzioni. Conosceva Bjorn, sapeva che non le aveva mentito con cattive intenzioni, e quello bastava a farla vacillare. Alla fine anche lei era debole, non importava quanto volesse credere il contrario. Fu solo quando riuscì a riconoscerlo, seppur in minima parte, che trovò la forza di incrociare lo sguardo dell’altro. Fu presa alla sprovvista da quegli occhi, animati da qualcosa che non aveva mai visto in lui, ma che certamente riconosceva in se stessa: era la stessa espressione che aveva solo dieci mintui prima, quando aveva approcciato Zorya. «siamo onesti: mi avresti baciato lo stesso, se avessi saputo che ero io?» si sentì stupida per la reazione che il suo corpo ebbe al fiato caldo del ragazzo a solleticarle la pelle, come se potesse davvero placare la sua ira. Spoiler: di certo la stava distraendo. «non lo so, björn» era confusa al momento, non solo dalla situazione, ma anche da quel poco di vicinanza. Sapeva che non avrebbe dovuto, eppure non poteva fare a meno di soffermarsi su quella domanda, immaginare la scena della sua mente senza volerlo. Nello stesso modo in cui si stava ripetendo nella testa lasciò che il suo corpo si muovesse da solo, spostando il capo per incrociare lo sguardo chiaro dell’altro «ma forse dovrei provarci?» soffiò sorniona sulle sue labbra, la mano a stringersi sul nodo della cravatta per attirarlo a sé. Non importava quanto fosse furiosa, non riusciva a mettere a tacere quella nuova curiosità che si era fatta strada in lei, e al momento non ne aveva nessuna intenzione. Non poteva concedersi anche lei qualche libertà, proprio come l’amico? Reclamò quelle stesse labbra che aveva baciato poco tempo prima, stupendosi per un attimo di quanto quel tocco fosse così diverso da quello di Zorya, come fossero due persone interamente differenti. Eppure in quel momento, nonostante tutto, voleva Björn. Voleva sentirlo più vicino, nel premere impaziente la lingua contro di lui, quasi a chiedere il permesso per approfondire quel bacio. Non aveva idea fino a che punto si sarebbe spinta, anche se per il momento sapeva che non aveva alcuna intenzione di fermarsi.
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    Fino a quel momento, il Commstaj aveva sempre avuto paura. Di cosa, precisamente, non avrebbe saputo dirlo neppure lui: c'era il fatto che, nelle spoglie di Bjorn e basta, si era sempre sentito in qualche modo inadeguato. C'era il timore di sentirsi allo stesso modo come Zorya, unica via di fuga a quel vociare nella sua testa a suggerirgli che non sarebbe mai stato abbastanza. C'era il terrore di non poter più scappare da sé stesso, dallo sguardo deluso dei suoi genitori, da quello un po' schifato dei professori di Durmstrang, da quello pietoso di Edderkopp. E, più di tutti, c'era l'enorme e complesso dubbio di come sarebbe stato, invece, lo sguardo di Roan nel vederlo così. Conosceva, la Beech, gran parte delle sue debolezze, eppure quello era un lato di sé troppo intimo, troppo fragile per poter essere messo in esposizione assieme a tutte le altre cazzate da cui si ostinava a farsi affliggere. Era una cosa a cui preferiva non pensare, perché darsi una spiegazione avrebbe significato doverlo affrontare e lui, no, non voleva affrontare proprio un cazzo. Voleva lasciarsi scivolare come una foglia sull'acqua, lenta, prendendo di tutto un po' senza chiedere niente, senza osare gettarsi nel vuoto per vedere che effetto avrebbe fatto. Voleva imparare a fregarsene Bjorn, del giudizio degli altri e di tutto il resto, perché alla fine la cosa importante era sempre e soltanto una: sopravvivere. Che fosse come Bjorn o come Zorya, poco importava.
    Ma c'era un fattore a rendere il tutto meno semplice: Roanoke Beech.
    Perché non ci vedeva un senso, Bjorn, a quell'inutile sopravvivere se avesse avuto l'odio della bionda, il disprezzo o la ripugnanza. Ed il punto non era quella forma d'infatuazione che si era trascinato dietro nel tempo, né la stima o l'affetto che riponeva nei suoi confronti, quando l'impossibilità di immaginarsi senza di lei come persona, come l'unica in grado di farlo sentire vivo davvero. Sapeva che Roan non l'avrebbe giudicato, che non le sarebbe importato conoscere quel lato di sé più contorto del resto, ma Bjorn l'aveva temuto lo stesso. Lo aveva temuto, e per questo aveva deliberatamente scelto di nasconderglielo, continuando a dirsi che presto o tardi glielo avrebbe detto, che stava solo aspettando il momento giusto per farlo, quando invece cercava soltanto di rimandare l'inevitabile. Ed alla fine, nel tentativo di non ferire sé stesso, aveva ferito lei. Era questo che non sopportava il Corvonero, la consapevolezza di avere ancora una volta fatto la cosa sbagliata e, con questo, di aver fatto del male proprio a lei. Non che si aspettasse niente di diverso da sé stesso, ma aveva osato crederci, per un po'.
    Patetico.
    «comodo dirmelo adesso, no? Lo sai quanto odi le persone che mentono, con mio padre e tutto il resto eppure tu-» ecco, a quel punto Bjorn avrebbe voluto prendere a testate il muro, o lanciarsi dalla prima finestra disponibile - di certo, non sostenere lo sguardo della bionda. Era vero, stava dicendo un sacco di sciocchezze, scuse una dopo l'altro per non voler ammettere ad alta voce che, a frenarlo dall'esser sincero, era sempre e solo stata la sensazione di essere sul punto di perdere ciò che aveva con Roan. Perché, ai suoi occhi, lei era semplicemente troppo: troppo fica, troppo coraggiosa, troppo tutto per voler davvero essere sua amica. E non se l'era sentita di mandare a puttane quella solita, seppur disonesta occasione, di averla più vicina di quanto non si sarebbe mai concesso perché non sentiva di meritarlo.
    Per questo non se l'era aspettato quello sguardo, quel «ma forse dovrei provarci?» pronunciato con una lieve punta di malizia, che per un attimo lo lasciò confuso e spiazzato, a guardarla con le sopracciglia aggrottate senza capire.
    Provare cosa?
    «Provare cosa?»
    Non ebbe neppure il tempo di rimproverarsi per averlo detto ad alta voce, di sentirsi stupido o di fuggire a gambe levate da una situazione che non aveva idea di come definire, tanto meno fronteggiare: Roanoke Beech lo stava baciando.
    Tecnicamente parlando, quella era la loro seconda volta, ma nella pratica era la prima in cui Roan lo stesse facendo non perché credeva d'avere davanti l'affascinante Gyldenkrantz o per sancire un sacrificio a Satana o perché strafatta di erba cipollina - lo stava!! baciando!! davvero!!
    E forse Bjorn avrebbe dovuto fermarsi a riflettere, chiedersi se non fosse un gesto dettato dalla rabbia, dall'impulsività del momento, una di quelle cose di cui entrambi (forse più Roan che lui) si sarebbero pentiti l'istante dopo, ma non aveva la più pallida idea di come rimettere insieme i mille pezzi in cui si era fatto il suo cervello nell'istante in cui le labbra della bionda si erano posate sulle proprie. Avrebbe forse dovuto restare immobile, o allontanarla quel tanto che bastava a sussurrarle quanto fosse una pessima idea, o che gli dispiaceva, o qualsiasi altra cosa che li riportasse alla realtà, ma fu quasi automatico il modo in cui invece si ritrovò a schiudere le labbra per permettere a quelle dell'altra di approfondire il contatto, d'insinuare la lingua in quell'intricata danza che non sembrava più un bacio e basta, ma il preludio d'un'infinita serie di cose non dette, lasciate in sospeso per paura di rompere un equilibrio che forse in fondo non c'era mai stato, che sapeva di caos e d'incertezza un po' come loro due presi singolarmente, o insieme.
    Non se ne accorse neanche, a dirla tutta, d'aver afferrato a sua volta i fianchi della Beech, d'averla avvicinata a sé con un desiderio che neanche sapeva di avere ma che, con tutta probabilità, covava sin dal principio. Di aver lasciato scivolare una mano sotto ai troppi strati della sua divisa per poterne sfiorare la pelle al di sotto, stringerla se possibile con ancora più voglia di prima, e l'altra, più audace, giù sino a sollevarle leggermente la gonna e raggiungere con le dita il bordo del suo intimo, senza mai osare andare oltre.
    Era assolutamente (non) pronto a ricevere uno schiaffo.
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2 replies since 7/10/2019, 23:31   127 views
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