at the bottom of the bottle

charles & dante

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    «charles?» sollevò il capo con uno scatto, sbattendo le palpebre un paio di volte prima di mettere a fuoco la stanza del San Mungo. Non aveva la minima idea di quanto avesse dormito, ma una cosa la sapeva: non aveva voglia di parlare con sua nonna. Non lì, non dopo tutto quel tempo, non con tutto quello che avevano da dirsi. Era stanco, fisicamente e mentalmente, e per quella conversazione avrebbe avuto bisogno ben più fegato di così. Perciò si alzò in piedi, esitando a lasciare andare la mano di sua madre, accarezzandole il dorso con il pollice prima di abbandonarla del tutto. «me ne stavo andando» disse semplicemente, allungandosi a prendere la felpa dall'attaccapanni senza neppure premurarsi di guardarla in viso. «charles.» non più una domanda, ma un ordine perentorio, che assomigliava a tutte le volte in cui, negli anni che avevano trascorso vivendo sotto lo stesso tetto, lei si era ritrovata a riprenderlo per essersi lasciato sfuggire una delle sue solite stronzate. E Charles non poté che rabbrividire a pensarci, perché non la vedeva da quasi un anno ormai, perché non le aveva mai spiegato perché avesse fatto quello che aveva fatto, perché non aveva mai pensato di farsi vivo prima. Perché, alla fine, era convinto che sia lei che suo nonno lo odiassero, che non avrebbero esitato un attimo a consegnarlo al Regime se ancora ce ne fosse stato uno. Perché era un codardo, niente di nuovo. Invece, a fargli ancora più paura, fu l'inaspettata reazione della donna, che con una delicatezza che mai aveva mostrato in altre circostanze, gli sollevò leggera il mento con una mano, abbastanza perché potessero finalmente guardarsi. E Charles avrebbe potuto giurare d'aver visto i suoi occhi lievemente umidi. «vieni qui ogni giorno da settimane ormai» lo sapeva, e se lei lo sapeva - quanti altri conoscevano la sua debolezza? «smetti di farti del male, torna a casa» strinse i denti con tutta la forza che gli restava in colpa, sino a farsi male, spostando le iridi verso un punto qualsiasi oltre le spalle di sua nonna, perché non poteva sopportare di guardarla ancora. Non perché non le volesse bene, non perché non desiderasse tornare - perché non era abbastanza forte per farlo. Perché aveva paura di crollare. «ho già una casa, grazie» e la superò senza voltarsi indietro, lasciandosi andare ad un sospiro solo una volta oltrepassata la porta della stanza. A pensarci, un po' la odiava, perché non aveva alcun diritto d'interrompere quel momento con sua madre che era soltanto suo, e di nessun altro, e perché era stata lei a dare sua figlia in sposa a Frédérick Dumont, a gettarla in pasto ai lupi, a lasciarla da sola. A rovinare ogni cosa. Lo sapeva Charles, e lo sapeva anche sua nonna, che aveva accolto lui, Viktor, Amélie, e che continuava ad andare a trovare sua figlia in quella stanza del San Mungo come se non le facesse male vederla così, inerme, come se questo potesse bastare a scontare la sua colpa. Non sarebbe bastato mai. Non per Charles.

    «okay, allora, ti spiego come funziona» quant'era facile passare alla sua maschera di quieta indifferenza dopo anni d'allenamento? A guardarlo bene, forse Viktor avrebbe potuto riconoscerlo quel sottile velo d'ombra a oscurargli gli occhi, la piccola ruga che andava a formarglisi sulla fronte ogni qual volta si sforzava a sembrare meno ferito di quanto in verità non fosse, il sorriso un po' troppo tirato. Ma attribuiva quel merito esclusivamente al cugino, perché erano sin troppo simili sotto quel versante per non riuscirsi a comprendere, perché entrambi, a loro modo, avevano conosciuto il dolore, ne conoscevano i sintomi. Ma a Dante quel suo lato non voleva mostrarlo. L'aveva già fatto, sin troppe volte, ed era stanco di apparirgli soltanto fragile, incapace di proteggere persino sé stesso. E poi, ammettiamolo, con lui era facile fingere di essere felici sino al punto di convincersene davvero, sino a dimenticare, per un po', qualunque altra cosa che non fosse il qui ed ora. Era assurdo, ma diventava semplice persino sorridere, e la mattina dopo svegliarsi e tornare ancora una volta sul capezzale di sua madre. Ancora, e ancora. «ci sono due dadi» e aprì il palmo davanti all'ormai ex-Grifondoro, mostrandogli i due sei facce ed usando la mano libera per bere un sorso dal boccale di Burrobirra che avevano già ordinato. «li lancio in aria: se esce fuori un sei, o la somma dei due dadi fa sei, butto giù uno shot intero» e non per caso aveva già ordinato un bicchierino per ciascuno e si era fatto lasciare una bottiglia di rum: le serate con Aidan gli avevano insegnato un po' di cose sull'alcolismo. «se faccio sei su entrambi i dadi, bevo due shot» poggiò i dadi al centro del tavolo, incrociando le iridi del Rinaldi e rivolgendogli un piccolo sorriso d'incoraggiamento. «e ogni volta che bevo, puoi farmi una domanda qualunque a cui dovrò rispondere» avrebbe voluto omettere quella parte del gioco, ma ormai che c'era - scrollò le spalle, vuotando definitivamente il boccale di birra. «se ci stai, io inizio» riprese i dadi fra le dita, facendoli roteare per qualche secondo prima di lanciarli sul tavolo: un cinque, un uno. Sollevò un sopracciglio, posando lo sguardo sul proprio risultato ed allungando un braccio ad afferrare la bottiglia di rum per riempirsi il bicchiere. «santé» sollevò lo shot, fissò gli occhi dritti sul Rinaldi, e buttò giù il primo sorso, passando i dadi al minore.
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    ho lanciato i dadi davvero, e sono stata molto triste di non aver avuto niente da bere nella vita vera #alcolismoportamivia
     
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    Non sapeva cosa gli avesse fatto più male, se la consapevolezza che Jack non fosse tra i superstiti o il fatto che il suo amico fosse in realtà sparito nel nulla senza dire una parola nonostante fosse vivo e vegeto. Non era abituato agli abbandoni, li aveva sempre trovati stupidi e da codardi, perché avrebbe capito – e lo avrebbe fatto sul serio – se il compagno avesse deciso di girare i tacchi e lasciarsi tutto alle spalle, ma non così. Forse poteva sembrare un capriccio, il desiderio di avere una spiegazione che potesse mettere a tacere quella vocina che gli ripeteva di smetterla di perdonare chiunque ed essere un po’ più deciso nelle posizioni prese, ma Jack era Jack e sapeva che nonostante la vigliaccheria, fosse una delle persone più importanti della propria vita insieme a Godric e Ryan. Ma l’assenza del ragazzo era gravata negativamente su ognuno di loro e sebbene gli altri cercassero di non darlo a vedere, del gruppetto che avevano formato all’inizio del primo anno non era rimasta più traccia. La scuola era finita, il loro soggiorno ad Hogwarts terminato dopo la battaglia; ciò che rimanevano erano gli esami da svolgere, i M.A.G.O. da segnare nella spunta dei successi e trovare qualcosa da fare per occupare il tempo. La distanza tra i Golden si era solo acuita e non aveva idea di come fare per sistemare le cose; c’era una parte di sé che imputava quella lontananza all’essere diventati adulti, probabilmente anche alle idee diametralmente opposte che sembravano aver sconvolto l’equilibrio a cui erano sempre stati abituati. Non parlarne, per tutto quel tempo, aveva fatto in modo di mantenere la pace. Inevitabilmente, però, qualcosa era esploso – la guerra, le ingiustizie, il ritorno di Abbadon – e veder morire i suoi amici era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Godric era, senza ombra di dubbio, un seguace del Regime, mentre Ryan… dubitava che avesse realmente a cuore il destino del mondo magico ed aveva partecipato alla lotta solo per il desiderio di poter spaccare qualche testa. E per quanto volesse bene ad entrambi, per quanto avesse approfittato della casa dell’ex-Corvonero per non dover affrontare da solo quello che credeva fosse un lutto, rimanere nello stesso tetto era diventato quasi impossibile. C’era da dire che non riusciva ad odiare l’Osborne per le sue idee, eppure il litigio che l’aveva portato a cercare un appartamento lontano da lui era stato più che sufficiente per raffreddare il rapporto che li aveva legati.
    Erano inconciliabili, tuttavia sapeva che se – per malaugurata ipotesi – se lo fosse trovato davanti in uno scontro, non sarebbe stato in grado di torcergli un capello. Era la sua croce, il suo stupido affetto, nonostante le enormi differenze.

    E così, alla fine, si era ritrovato in un bar insieme a Charles.
    Abitudine? Forse. Sarebbe potuto andare insieme a Chelsey o Hazel, ma non credeva che le amiche fossero… come dire, adatte nel tirare su il morale. Non aveva voglia di prendere pugni sulle spalle o di dover subire l’ennesimo tentativo da parte della McPherson di accasarlo con un tipo random e che, in genere, non era nemmeno lontanamente adatto a lui. L’ultimo Corvonero che gli aveva presentato era stato così palloso – parlare di piante per tutto l’appuntamento non era stato proprio l’approccio vincente – che aveva sperato di essere inghiottito dalla terra e di finire all’antipodo di Londra. Ovvero nel bel mezzo dell’Oceano, possibilmente affogando nell’acqua gelida. Nonostante questo, aveva mantenuto il suo solito modo gentile, per evitare di offendere il suo accompagnatore, ma rimanendo per tre ore in balia di quest’ultimo. Aveva odiato le Chazel quasi quanto la Fenomenologia dello spirito di Hegel, il che poteva tradursi in tanto. Tantissimo odio.

    «okay, allora ti spiego come funziona» uscire con il Dumont era molto più semplice. Non doveva pensare troppo a come comportarsi – d'altronde era stato con lui nel periodo in cui si era spacciato per Eméric – e poteva evitare ogni pensiero che non fosse basato sul divertimento. Era stanco di rimuginare.
    «ci sono due dadi» le iridi azzurre si posano per un attimo sulle mani del maggiore, con interesse. Conosceva numerosi giochi alcolici, babbani per la maggior parte, ma quello non l’aveva mai sentito nominare «li lancio in aria: se esce fuori un sei, o la somma dei due dadi fa sei, butto giù uno shot intero, se faccio sei su entrambi i dadi, bevo due shot e ogni volta che bevo, puoi farmi una domanda qualunque a cui dovrò rispondere» oh, ma davvero?

    «Pensavo che mi proponessi un gioco—magico» sarebbe stato divertente vedere il bicchiere riempirsi da solo dopo ogni shot o magari picchiare il malcapitato che si rifiutava di finire il giro «ci accontentiamo» non era schifiltoso riguardo agli alcolici – in genere beveva tutto quello che gli passavano davanti senza fiatare – quindi aveva accettato di buon grado il bicchierino – e la bottiglia di Rum – offerto da Charles.
    «Ah, così?» nemmeno il tempo di cominciare, dunque? La vedeva tragica. Non solo perché bere non era mai la soluzione ai problemi – e loro ne avevano troppi – ma soprattutto per via delle domande. Non aveva idea di cosa chiedere senza risultare indiscreto.
    Con un mmh pensieroso, si sfrega le dita sul mento, osservando il pomo d’Adamo del francese sobbalzare al passaggio dell’alcol.
    «Mi sono sempre chiesto… sai arricciare la lingua?» domande di un certo livello? Eccerto. Di vitale importanza.
    In realtà avrebbe voluto chiedere altre cose – alcune che non avrebbero lasciato scorrere la serata in modo pacifico -, molte delle quali non credeva nemmeno fosse educato porre. Meglio mantenersi sul leggero, a meno che a complicare le cose non fosse Charles stesso.

    «Tocca a me» afferra i dadi, sbatacchiandoli un po’ nel pugno chiuso, prima di lanciarli sul tavolo, trattenendo a stento un’espressione dubbiosa al momento della rivelazione. Erano truccati, non poteva credere che nel giro di cinque minuti – c i n q u e, 5 minuti – fossero usciti un sei e un doppio sei.
    «a ochei» doppio shot? Doppio shot.
    «Cheers» con nonchalance butta giù il primo bicchiere, per poi riempirne subito dopo un altro ripetendo il gesto. Arriccia il naso al sapore forte dell’alcolico, non più abituato alle nottate da ubriaconi «Daje, spara la domanda» aveva paura del Dumont? Sì.

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    Ho tirato i dadi è ho fatto davvero 6+6. In mancanza del rum, mi sono mangiata un cono gelato.


    Edited by Snow|Flake - 7/8/2019, 20:13
     
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    Lo sapeva, Charles Dumont, di non essere Godric, o Ryan, o Jack. Lo sapeva che, alla fine, ciò di cui il Rinaldi aveva bisogno era riavere i suoi Golden indietro, lasciarsi alle spalle quanto accaduto nei sotterranei di Hogwarts e tornare a casa, che fosse in Italia o in uno stupido appartamento babbano al centro di Londra. Sapeva di non essere indispensabile, probabilmente neppure necessario, perché non sapeva neppure cosa dire o cosa fare per dargli conforto, per essere la spalla su cui il Grifondoro avrebbe potuto aggrapparsi, per essere magari un po' più Nicole, o un po' più Erin, di sicuro un po' meno Charles. Era qualcuno con cui bere tutto ciò che poteva dargli, qualcuno con cui dimenticare, per qualche istante, tutta la merda che ancora li circondava nonostante avessero vinto, se di vittoria si poteva parlare. Non aveva altro per lui, se non quel poco che gli era rimasto di essere: un essere umano, e neanche uno dei migliori.
    Gli capitava di pensare, specie in quei giorni in cui l'esasperante impotenza provata dinanzi al corpo inerme di sua madre e agli occhi tristi di Dante non facevano che aggrovigliargli dolorosamente le budella, che forse con Iden sarebbe stato più semplice. Assurdo a sentirsi, lo sapeva anche lui ma, a pensarci, nel dolore e nella perdita e nella costante svalutazione c'era una sorta di punizione che, in fondo, il Dumont s'era sempre sentito di meritare. Con Iden non doveva sforzarsi di essere migliore, poteva semplicemente lasciarsi buttare giù ancora e ancora come se rialzarsi non valesse la pena, come se incassare i colpi fosse l'unica cosa rimastagli da fare.
    Con Dante, invece, era diverso. Dante uno così non se lo meritava, uno debole, uno incapace persino di reagire alla sua stessa sofferenza. Con Dante voleva essere migliore, pur sapendo di non essere bravo neppure a fingere, ed era difficile arrendersi alla consapevolezza di mancare in qualcosa, ma era ancora più difficile arrendersi e basta. Per Dante valeva la pena di provarci.
    «i giochi magici sono sopravvalutati» e a lui stregare il rum per renderlo un po' più alcolico del naturale sembrava più che sufficiente, ma questo evitò di farlo presente al Rinaldi. «i maghi pensano più a come impressionare con trucchi da quattro soldi che a bere davvero» agitò una mano con una lieve smorfia sul viso, cercando di scacciare dalla mente l'ultima pseudo sbornia di Heather trasformatasi in un delirio d'Amortentia - senza contare tutto ciò che ne era venuto dopo.
    Spostò lo sguardo sul bicchierino appena vuotato, passando il polpastrello sul bordo di vetro in attesa della domanda del Grifondoro. Era ben conscio di quanto rischioso potesse risultare quello scambio di interrogativi ma, a dirla tutta, non l'aveva proposto con l'intento di estorcere chissà quale verità all'altro: voleva soltanto non pensare.
    «Mi sono sempre chiesto…» sollevò il capo a guardare il minore, le sopracciglia lievemente aggrottate «mh» «sai arricciare la lingua?» e sorrise Charles, non poté fare a meno di farlo, perché Dante aveva sempre quel che di imprevedibile - e di scemo, andava detto. «pauvre petit garçon» perché di cose con la lingua sapeva farne (no, dai, fingi che non l'abbia scritto davvero), solo non gli pareva il caso di sottolinearlo. Schiuse le labbra per tirar fuori la lingua, e l'arricciò tenendo le iridi inchiodate a quelle del moro. Attese qualche istante prima di sorridergli nuovamente, e scrollare le spalle con noncuranza «a te».
    L'osservò lanciare i dadi, cominciando a dubitare di quanto quella cosa fosse effettivamente stata una buona idea. Insomma, non lo preoccupava l'idea di rispondere alle domante di Dante, quanto più di ciò che lui avrebbe potuto chiedere all'altro, fino a dove avrebbe potuto e voluto spingersi. Scosse leggermente il capo per scacciare il pensiero, soffermando infine lo sguardo sul risultato dei dadi. «ah» commentò in prima istanza, sinceramente stupito «ti giuro che non sono truccati» e si rendeva conto che poteva anche sembrarlo ma nope, il Grifondoro era solo sfigato - o fortunato, a seconda del punto di vista.
    «beh, volevo risponderti con una domanda di altrettanta cultura» ironizzò, trascinando un po' indietro la sedia per distendere le gambe sotto al tavolo ed incrociare le braccia al petto «ma un risultato del genere merita la sua difficoltà specifica» e sollevò le iridi al soffitto, vagliando ogni opzione alla ricerca della domanda giusta da porre. Il fatto era quello: non erano ancora abbastanza bevuti da potersi permettere di eccedere, ma era anche abbastanza lucido da riuscire ad effettuare una scelta più attenta.
    «okay allez, lasciami essere stronzo» stirò di più le gambe, dando un leggero colpetto a quelle del Grifondoro con un piede «stai ancora sotto per ryan?» via il dente, via il dolore. Sapeva che tra Dante e Godric la situazione non era delle migliori e che, dopo la scomparsa di Jack, tutto si era fatto un po' più complicato, ma con Ryan... Per quel che ne sapeva, quella situazione poteva persino averli avvicinati. «o per uno dei tipi con cui hanno cercato di accoppiarti le chazel, il doppio sei mi consente di ampliare la domanda» e sollevò i palmi con una certa convinzione, prima di riafferrare i dadi e prepararsi a lanciarli: 5 + 3. Splash.
    Spostò le iridi sulla bottiglia di rum di fronte a sé, arricciando le labbra in una smorfia dubbiosa. L'afferrò dopo un attimo di esitazione, versando un po' del suo contenuto nel proprio bicchiere: «un sorso e basta, giuro» e lo portò alle labbra, bagnandosele appena.
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    C’era da dire che nemmeno lui si definiva indispensabile. Forse utile, ma mai davvero il centro di qualcosa, di qualcuno. Da una parte avrebbe solo voluto trovare quell’altra metà, quel frammento mancante che sembrava sfuggirgli dalle mani come sabbia tra le dita, avendo così l’opportunità di essere unico, irrinunciabile come l’aria nei polmoni; d’altro canto, si rendeva perfettamente conto che sognare era lecito, ma fino ad un certo punto e che non c’era modo di essere più di quanto era per tutti, ovvero un amico.
    Lo era per i Golden, nonostante le diatribe, e lo era anche per gli ex-compagni a Hogwarts che in genere si divertivano a prenderlo in giro per le sue scarse doti da intrattenitore.
    Non era serioso come Godric, né scorbutico come Ryan, quindi – forse – poteva essere definito quello più simpatico all’interno della loro cricca, oltre che il compagno perfetto di bevute. Non era mai stato in grado di reggere più di qualche bicchiere di vodka e questo lo rendeva forse più allegro ed espansivo di quanto in realtà non fosse e probabilmente, proprio per questo particolare, aveva avuto paura di accettare l’offerta di Charles.
    Non perché non si fidasse di lui, al contrario; era ridicolo poter anche solo vagamente pensare al Dumont come una persona affidabile – per via del passato burrascoso, dell’atteggiamento da drama queen e degli sbalzi d’umore degni di Heather – tuttavia errare era umano e perdonare era un atto di gentilezza che non aveva mai negato a nessuno. Il francese non era un santo, non lo sarebbe mai stato e difficilmente credeva che avrebbe assopito quel temperamento frizzantino – per non dire ai limiti del rivoluzionario – che lo aveva portato a scontrarsi con la realtà, con ciò che erano le leggi del Regime, eppure era convinto che il tempo delle stupidaggini fosse finito e che l’altro avesse compreso i suoi limiti.
    O almeno, così sperava.

    Tornando al gioco alcolico, in cui si era fatto trascinare senza opporre chissà quanta resistenza – forse perché per primo aveva bisogno di sgombrare la mente dal pensiero di Jack -, la domanda posta a Charles non era altro che un modo per tastare, sentire quanto potessero fare sul serio. Non metteva in dubbio che il Dumont avrebbe potuto rispondergli con una delle solite frasette maliziose - «so usare la lingua in molti modi mlmlml» - cosa che, fortunatamente, aveva deciso di evitare. Non… avrebbe saputo come rispondere per non sembrare un perfetto imbecille.
    Il guizzo della lingua tra le labbra non avrebbe dovuto trascinare la sua mente in lidi poco sicuri, ma non era nemmeno certo che questo potesse dispiacergli, non in termini puramente teorici.

    Charles era assolutamente consapevole della sua bellezza e lo poteva dire solo fissandone i capelli perfettamente sistemati, la pelle chiara chiazzata da piccole lentiggini, dalle dita affusolate e curate a stringere il bicchierino di vetro. Non dubitava del fatto che molti – compreso Iden forse, con cui era scappato mesi addietro – ne fossero rimasti quantomeno affascinati.
    Il fatto era che la bellezza era sempre un qualcosa di relativo che lo faceva rimanere concentrato una manciata di minuti, per poi svanire perché assolutamente effimera; il Dumont non era solo un corpo, un viso tra tutti gli altri. C’era sempre qualcosa che voleva imparare a conoscere, che desiderava chiedere, anche le cose più stupide e innocenti, come quale colore fosse il suo preferito o il suo fiore. Persino quale stagione lo facesse sentire bene e quale, invece, preferisse durasse un battito di ciglia.
    Erano piccolezze per molti, ma per lui erano più importante della mera attrazione dovuta a fattori estetici.

    «Bene, abbiamo appurato che la lingua la sai intrecciare» e se lui era stato così innocente, il guizzo di curiosità negli occhi dell’altro era stato un chiaro segno che, come da lui annunciato, avrebbe fatto un po’ lo stronzo.
    «okay allez, lasciami essere stronzo» avrebbe risposto che glielo permetteva sempre, perché era palese che lo lasciasse fare ogni. singola. volta. «stai ancora sotto per Ryan?».
    Era sorpreso? Mhm, sni. C’era qualcosa di molto personale nella domanda appena posta, che si era sbilanciato a raccontare solo a quello che credeva fosse un adulto, Eméric, con il quale aveva intrapreso una strana amicizia fatta di sigarette e confessioni masticate tra i denti. Ma alla fine il Lacroix era solo una maschera e quello davanti a sé non era altro che lo stesso confidente con cui aveva fatto, con naturalezza, coming out. Ancora prima di dirlo ai Golden, ancora prima di venirne totalmente a patti con se stesso.


    «No» risponde, alla fine, passando i polpastrelli sul vetro, osservando il liquido ambrato sul fondo «e no» doveva aggiungere più dettagli? Dire a Charles che aveva rinunciato da tempo a quel sentimento per l’Allen e che nessuno di quelli presentatigli da Chelsey e Hazel era stato interessante? Forse se lo meritava, piuttosto che quelle risposte smozzicate «Con Ryan siamo solo buoni amici e sarà sempre così. Forse era solo una cotta passeggera, non lo so» sentiva chiaramente il rum rendere le guance calde – o era l’imbarazzante sensazione di dover parlare dei propri sentimenti? – e gli occhi più languidi, ma erano ancora all’inizio e non voleva rinunciare a bere ancora «e per favore. Le Chazel non sanno nemmeno che tipo di uomo mi piace, come potevano pensare di trovarmi un ragazzo?» domanda lecita, visto che non avevano mai pensato di chiedergli cosa preferisse in un’altra persona.

    Con la coda dell’occhio vede il francese versarsi dell’alcol e ingurgitarlo alle parole «un sorso e basta, giuro» mh-mh. Come no.
    «Mi sono rotto le scatole di tirare a sorte. Che ne dici di fare una domanda l’uno e bere? Ho bisogno di rum in corpo» con un sorrisetto si versa da bere, scolandosi lo shottino in una sola mossa «tocca a me» senza attendere una risposta positiva da parte di Charles, si umetta le labbra – con il tipico sapore amarognolo dell’alcolico – pensieroso «cosa ti piace?» troppo vago? «Voglio sapere cosa ti piace, in generale» alcuni lo avrebbero definito naïve, perché avrebbe potuto approfittare dell’occasione per cavargli informazioni del tutto personali - Iden, le sue esperienze passate, relazioni -, ma lui era Dante ed era solo uno stupido a cui interessava davvero ciò che nessuno, in genere, chiedeva «non so che musica ascolti o qual è il tuo piatto preferito» aggiunge, poggiando la schiena sul sostegno legnoso, allungando le gambe per ricambiare quel tocco che poco prima aveva fatto fatica ad ignorare.

    È che… non gli importata degli altri. Del prima.
    L’unica cosa interessante, in quel bar, era Charles. Solo Charles.


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    Edited by Snow|Flake - 17/9/2019, 12:06
     
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    Invero, Charles era consapevole della propria bellezza e, finché si trattava di usare quella e niente di più, sentiva di poter navigare in acque sicure. Per questo gli era sempre risultato facile atteggiarsi ai limiti dell'eccentrico, andare a letto con dei perfetti sconosciuti con la sola promessa di dimenticare persino d'essersi sfiorati al mattino seguente, adagiarsi nella libertà senza cercare alcun tipo di vincolo affettivo. Perché lo sapeva, il Dumont, d'avere un corpo e di saperlo usare, ma era altrettanto convinto di aver ben poco altro da offrire al di là di quello. E, ancora, lo sapeva di poter anche piacere a Dante da un punto di vista puramente fisico ma, diciamocelo: l'idea che l'interesse del Grifondoro potesse andar oltre la sfera estetica, non l'aveva mai neppure sfiorato. Non perché ritenesse il minore superficiale, al contrario: proprio perché sapeva quanto il Rinaldi non lo fosse, proprio perché aveva la sensazione che potesse guardargli dentro senza troppe difficoltà, era certo che non si sarebbe fatto ingannare dal suo agire come fosse il migliore - perché, in verità, si era sempre sentito il peggiore, e non c'era niente di bello che Dante potesse trovare in lui, niente che potesse spingerlo a restare. E forse, alla fine, era meglio così, perché a quel «Le Chazel non sanno nemmeno che tipo di uomo mi piace, come potevano pensare di trovarmi un ragazzo?» Charles avrebbe voluto chiedere allora qual'è il tipo di uomo che vuoi?, ma a che pro? A quello d'illudersi, o di farsi del male ancora e ancora? E sì che un po' masochista doveva pur esserlo, o non avrebbe certo sprecato tanto tempo dietro al Kaufman, ma sino a che punto avrebbe potuto sopportare? Qual'era il suo limite massimo? Ecco, quello Charles aveva paura di scoprirlo, perciò rimase in silenzio, limitandosi ad abbozzare un leggero sorriso e lasciarsi pizzicare la gola dall'alcol.
    «Mi sono rotto le scatole di tirare a sorte. Che ne dici di fare una domanda l’uno e bere? Ho bisogno di rum in corpo» sollevò le iridi a osservare divertito il Rinaldi, prima d'aggiungere «a volte dimentico che non sei un piccolo angelo innocente» e versarsi dell'altro rum nel bicchiere. Ed era sul punto di bere il Dumont, quando quel «cosa ti piace?» non lo lasciò con lo shot a mezz'aria, un leggero stupore sul viso. «in - che senso» non che volesse risultare il malizioso della situazione, ma insomma - poteva il Grifondoro aver già oltrepassato la sua soglia di lucidità? «Voglio sapere cosa ti piace, in generale» e non che aiutasse particolarmente, perché Charles aveva una vera e propria difficoltà ad accettare quanto Dante riuscisse a essere troppo puro per questo mondo. Insomma, aveva l'opportunità di chiedergli davvero qualsiasi cosa, di metterlo in difficoltà, di prendersi la sua rivincita sulle cazzate che come Eméric gli aveva raccontato - invece stava lì, a chiedergli quale fosse il suo piatto preferito. Ed era una domanda semplice, certo che lo era, ma il Serpeverde non l'aveva previsto, non aveva idea di cosa aspettarsi da quel terrificante essere seduto di fronte a sé che stava provando a conoscerlo come se gli importasse davvero, e non come se avesse semplicemente voglia di togliersi uno sfizio. Non gli era mai successo prima, e non aveva la più pallida idea di cosa fare. Restò immobile per qualche istante, fissando le venature del legno sul tavolo alla ricerca di una cosa sensata da dire, sino a che il tocco delle gambe di Dante sotto al tavolo non riuscì finalmente a riportarlo alla sua comfort zone; e non dovette nemmeno pensarci che, istintivamente, andò ad allacciare le proprie tra quelle altrui, azzardandosi finalmente a riportare lo sguardo sul Rinaldi. «direi la tropezienne» e, nel dirlo, ebbe quasi l'impressione di sentirne l'odore, insieme alla sensazione di calore che ormai non percepiva da fin troppo tempo «è una torta francese, mia madre la faceva all'arancia» e buttò finalmente giù il contenuto del bicchiere, tornando poi a giocherellarvi con le dita per celare la leggera tensione che l'argomento 'mamma' finiva sempre per mettergli addosso«e non la mangio da - praticamente prima di trasferirmi a Londra, perciò magari la ricordo così buona solo perché è legata ad alcuni ricordi piacevoli, però è la prima cosa che mi viene in mente se penso al cibo» e, per quel che ricordava, era forse una delle cose più personali che avesse mai rivelato a qualcuno. Una sciocchezza, senza dubbio, ma capace di farlo sentire tremendamente scoperto - e quasi in imbarazzo, sebbene potesse risultare difficile crederlo. «che altro? beh, mi piace la fotografia, ma questo forse lo sapevi già» lo aveva visto girare con la sua macchina fotografica in giro per Hogwarts? Magari sì, ma certo non poteva sapere cosa ci fosse dietro a quella sua passione «ho imparato da piccolo perché mio» non lo diceva da una vita, tanto che gli risultava complicato persino pronunciarlo «padre» e sollevò gli occhi al cielo «pensava che farmi fotografare le cose che volevo fosse un buon compromesso per non dovermele comprare davvero» Frédéric Dumont, padre dell'anno «in compenso, mia madre mi ha insegnato a dosare le luci, le esposizioni, e quindi ha finito per piacermi davvero» anche se non lo faceva da un pezzo, visto che non ne aveva avuto precisamente l'occasione negli ultimi tempi «e da lì mi sono appassionato all'arte in generale. Non mi dispiace neanche disegnare o dipingere, anche se non sono un granché» e si strinse nelle spalle, cercando d'ignorare la sensazione che la temperatura nella stanza si stesse facendo un po' più alta «e di tanto in tanto suono la chitarra, che in fatto di musica è probabilmente l'unica cosa decente che ho da raccontarti - per il resto, c'è il mio periodo trash da rapper in erba per le strade di Le Havre che, crois-moi, non vuoi sapere» e scosse il capo, come a voler scacciare un ricordo davvero troppo imbarazzante per poter essere riportato alla luce «non so, mi piaceva la Francia ma so che non ci tornerò mai più, mi piaceva studiare ma, eh, sai com'è finita. Per un po' ho pensato di voler lavorare per qualche giornale, come fotoreporter o qualcosa del genere, ma anche quello sarà probabilmente irrealizzabile, perciò - cosa resta? Mi piace il verde, l'autunno, le felpe con il cappuccio, dormire» si portò un dito sulle labbra, picchiettando leggermente con aria pensierosa «il rum, e tu non mi dispiaci affatto» e sorrise, afferrando di nuovo la bottiglia per versare da bere a entrambi «ti rigiro la domanda, sono curioso» concluse, muovendo appena una gambe contro quella altrui.
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    Quel «in- che senso» confuso da parte di Charles non faceva che renderlo ancora più carino – difficile pensare di poter associare il Dumont a quel termine, eppure eccolo lì, a sorridere come un ebete di fronte allo stupore dell’altro, a quelle iridi verdi colme di interrogativi – ai suoi occhi, persino più curioso di scavare, di scoprirlo. Voleva conoscerlo, era questo che aveva realizzato seduto su quella sedia, in una sera qualsiasi, con il bicchiere colmo di rum poggiato alle labbra in contemplazione. Non era mai stato un tipo particolarmente attento agli altri in termini romantici – a malapena riusciva a pensare a qualcuno come amico, figurarsi come amante – ma c’era da dire che non si fosse mai applicato troppo sulla faccenda. Hazel e Chelsey avevano provato – insistentemente, voleva aggiungere – a combinargli degli appuntamenti, a trovargli finalmente quella metà che sembrava non incastrarsi mai al posto giusto e che pensava non esistesse affatto. Era abituato a scartare a priori, anzi—a scartarsi a priori, dicendosi che infatuarsi di Ryan fosse solo la dimostrazione pratica di come non sapesse scegliere le persone da amare e di come, queste ultime, fossero più propense a picchiarlo che a metterlo su un piedistallo.
    E forse, alla fine, c’era una sorta di pattern che stava inconsciamente seguendo, perché se l’Allen era stato il bad guy che lo aveva portato a riflettere sulla propria sessualità, trovandosi finalmente a dover ammettere di preferire il corpo massiccio di un uomo a quello sinuoso di una donna, Eméric – o meglio, l’idea dell’adulto, del professore – era stato solo la conferma di avere una preferenza per quelli che, in un modo o in un altro, gli avrebbero sempre spezzato il cuore. O forse, più precisamente, per l’idea che fossero incuranti delle regole, quelle stesse che lui tentava sempre di rispettare.
    Se da una parte c’era lui, impossibilitato a reagire male, ad essere egoista, a non vedere il male in ogni essere senziente, dall’altro c’erano quelli che, a differenza sua, erano incuranti, platealmente attratti dalle luci dei riflettori e con tendenze all’autodistruzione.

    Che problemi aveva. Che. Problemi. Aveva.
    A credere che l’attrazione che provava per Eméric--- Charles, fosse dovuta all’idea che l’altro fosse assurdamente incosciente e maledettamente reale. Se il francese gli avesse chiesto che uomo preferisse, quale fosse il suo tipo, avrebbe risposto con sincerità che l’unica cosa capace di fargli girare la testa era l’irruenza, l’impeto, la passione in ogni singola, fottuta cosa. Da quelle piccole – come una pacca energica sulla spalla – a quelle importanti – come l’idea di combattere o, ancora più assurdamente, quella di avere una bocca contro la propria a morderlo fino a farlo sanguinare -.
    Se Ryan era stato un pretesto per potersi dire che sì, non fosse un santo, Charles lo aveva portato a ragionare su ciò che, in effetti, riusciva a farlo capitombolare come un perfetto imbecille.
    Fosse stata solo una questione fisica – spalle ampie, capelli corvini, occhi verdi – sarebbe potuto venire a patti con la considerazione che finalmente anche lui fosse in grado di provare pulsioni, che ci fosse qualcosa simile al bisogno a infiammare le sue guance – e non solo quelle – ma non era quello il punto; era solo--- attratto dagli stronzi. O da quelli che pretendevano di esserlo. E fissare il Dumont con questa nuova scoperta a pungolargli il cervello annebbiato dall’alcol era ancora più imbarazzante, più difficile da tollerare e stranamente accattivante. Come le gambe altrui intrecciate alle proprie, quell’intimità che non pensava nemmeno lontanamente potesse toccare a lui, perché – come aveva già pensato prima – non era altro che un amico per tutti e la sola speranza di poter essere visto in modo diverso da Charles aveva un che di scioccante.
    Ma forse si stava facendo dei film particolarmente elaborati con un finale deludente.

    Magari doveva solo smettere di bere, ritornare in sé e darsi una calmata prima di pentirsi di qualsiasi parola o gesto buttato lì con naturalezza.
    Ed era assurdamente felice di sentire l’altro parlare, perché questo era un ottimo pretesto per lasciar correre ogni singolo impulso e concentrarsi sulla risposta che l’altro, gentilmente, gli stava fornendo.
    Sperava di ricordare ogni parola, ogni confessione, memorizzando così ciò che rendeva felice il Dumont; in genere riusciva a seguire i discorsi senza sforzi, ma il rum stava iniziando a dargli alla testa e lo sguardo liquido posato sul maggiore la diceva davvero lunga su quanto, in effetti, fosse in grado di reggere più di qualche bicchiere.

    «Tropezienne» era faticoso elaborare delle frasi in inglese, ancora di più biascicare roba in uno stentato francese; che la sua lingua si fosse attorcigliata come le sue budella?
    «Sembra buona» promemoria: trovare quella torta e comprarla per regalarla al Dumont «ma davvero» poggiare il mento sul palmo della mano era un’azione tutto sommato semplice, ma beh—era troppo intento a pensare – e fortunatamente a non dire – che gli avrebbe comprato qualsiasi cosa, per compensare alla stronzaggine del padre, per pensare di centrare l’obbiettivo, guardandosi poi le mani con una certa sorpresa «ah, mi sa che ho bevuto troppo in fretta» e c’era anche da dire che non era più abituato a certi standard. Tutto, pur di non ammettere che fosse incapace di mantenersi decente dopo qualche bicchiere. Charles aveva ragione: doveva smetterla di pensare che fosse un angioletto, perché tra il pretendere di esserlo ed esserlo per davvero c’era di mezzo un oceano infinito di convinzioni.

    «Ma daaai, voglio assolutamente vedere uno dei tuoi disegni e sentirti suonare… ma forse preferirei vederti rappare. Ti prego, devi farlo» avrebbe pagato oro per conoscere i dettagli di quella storia, del periodo trash, di come il Dumont avesse pensato sul serio di poter rappare per le vie di Le Havre senza pudore.

    Gorgoglia una mezza risata, coprendosi la bocca con una mano, tossicchiando dopo per riprendere il contegno; normalmente non avrebbe riso, ma era così—buffo e carino – di nuovo? Sempre – e non riusciva minimamente a pensare ad altro che Charles con la tuta larga e la catena al collo, la camminata in stile Donflamingo di One Piece in giro per le viuzze francesi.

    «Oh, scusa. Scusa, davvero. È il rum» si umetta le labbra, pronto a bere un altro sorso – e grazie Charles, sempre lì a rifillare il bicchiere vuoto – prima di sollevare di scatto il viso al «e tu non mi dispiaci affatto» che sapeva tanto di—calm down cowboy. Calm fucking down.
    Con l’ennesimo tentativo di mantenersi lucido, si sistema sulla sedia nervosamente, sporgendosi giusto un po’ in avanti per potersi riprendere dalla botta «mi piace suonare la chitarra, ma quella classica—e i vinili. Non—i vinili da ascoltare, non da suonare. I Metallica. I Metallica e gli Iron Maiden » che dire, non c’era da stupirsi se Godric spesso e volentieri gli togliesse davanti la bottiglia per evitargli – ed evitarsi – figure grame «e la neve. Oddio, adoro la neve, giù in Sicilia è così rara e qui, invece, cade sempre—ogni inverno» non c’era coerenza nelle sue affermazioni, solo pura sincerità «ma lo sai che duellare non mi dispiace? Cioè, mi diverto. E sono anche abbastanza bravo, lo ammetto. Ma non mi sono mai iscritto al club dei Duellanti, troppa gente, troppo chiasso--- meh» con quel meh finale, riempie senza alcuna remora i bicchieri di entrambi, osservando la bottiglia e chiedendosi come diamine fosse possibile che fosse sempre piena. Magia?
    «Anche tu mi piaci» Charles non aveva propriamente detto quello, ma «e anche i tuoi occhi, che sono verdi—awww anche a me piace il verde!» costatazione del tutto randomica di cui, l’indomani, si sarebbe pentito sotterrandosi vicino ai resti della Sala Grande
    «sai cosa? Io credo che non studiare non sia la fine del mondo. Cioè—quello che voglio dire è che se vuoi fare il fotoreporter puoi. I Babbani hanno un sacco di giornali interessanti, non devi per forza—che ne so, prendere un Eccellente ai Mago per farlo o usare la magia. La magia è sopravvalutata. E non sei mica stupido» forse «e pensare “gne gne gne non farò più niente nella mia vita, né lavorerò perché Hogwarts non mi vuoleH” è da cretini. E tu non lo sei. Quindi smuovi quel bel culo e datti da fare» anche di quello si sarebbe sicuramente pentito. Charles era sprecato lì e il pensiero che si considerasse così poco lo faceva smattare, forse più del solito. La rudezza non gli apparteneva, ma tant’è.

    «Domanda. Credo. Sto iniziando a pensare di avere la soglia dell’ubriachezza davvero bassa» sbatacchia per un attimo le palpebre, strofinandole con il pollice e l’indice, prima di continuare, frugando nelle tasche e poggiando sul tavolo un pacchetto di sigarette che fa scivolare verso il ragazzo con lentezza «dicevo, domanda: vuoi dividere la sigaretta – la nostra sigaretta, del nostro pacchetto - con me?».
    Chissà se Charles avrebbe intuito o se, semplicemente, non ci fosse nulla da capire. Glielo aveva chiesto perché l’ultima volta era stata con le sembianze di Eméric e voleva solo che comprendesse che—che andava bene, che non c’era nulla da perdonare, che voleva essere lì con lui, senza nemmeno chiedersi il perché. Dividerla equivaleva a toccarlo di nuovo, a svuotare la mente e lasciare che il fumo scorresse lento tra di loro come tutte le cose non dette, ma sottintese.

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    Se avesse avuto accesso ai pensieri di Dante, probabilmente la risposta di Charles sarebbe stata un 'i feel u bro', seguita da una lista di ragioni per cui quella comune propensione al masochismo fosse una pessima, pessima idea. E lo sapeva il francese, che aveva pagato sulla propria pelle il prezzo di una tale scelta sconsiderata, che ne portava ancora addosso le cicatrici. C'erano giorni in cui ancora si riscopriva a desiderare di riaverlo indietro, di dare un senso a quella sofferenza che, alla fine, s'era rivelata invece essere vana. Per cosa, poi? Per una scopata, e per poter dire con soddisfazione d'esservi riuscito? Per punirsi di una vita che, dal principio, aveva disseminato di errori? Non era servito, né ad uno né all'altro proposito. Non sentiva d'aver espiato alcuna colpa, non l'aveva aiutato a sentirsi meglio, e certo gli restava ben poco di cui vantarsi: a malapena riusciva a riportare la mente a quella maledetta sera. Avrebbe soltanto voluto cancellarla, fingere che non fosse mai accaduta e andare avanti, obliviarsi per non dovervi più pensare né ritrovarla nei sogni. Ma non ne aveva il coraggio, non lo avrebbe mai avuto, e la sottile cicatrice che ancora riusciva a intravedere sotto all'occhio sinistro non faceva che ricordarglielo: codardo. E Dante poteva credere di volerla una cosa così, d'essere tagliato per le scelte sbagliate, ma non poteva sapere come fosse davvero, e Charles sperava che non lo scoprisse mai. Voleva proteggerlo, così com'era stato ai sotterranei di Hogwarts quando tutto era cambiato, così com'era ogni qual volta il Grifondoro pareva avvicinarsi troppo. Voleva proteggerlo dal mondo, e da sé, perché non se lo sarebbe mai perdonato se l'avesse ferito, se l'avesse visto soffrire a causa propria, ed era strano per una volta sentire di tenere più a qualcuno che a sé stesso, non aveva idea di cosa fosse giusto fare. Probabilmente, andarsene e smettere d'incasinargli la vita sarebbe stata la migliore delle opzioni, ma - non voleva. Semplicemente, non era abbastanza altruista da farlo. Voleva restare e sarebbe rimasto, pur costringendosi al proprio posto, senza osare spingersi oltre, e così avrebbe continuato a fare - se solo non avesse bevuto. Se solo non avesse stregato il rum. Se solo fosse stato un po' più intelligente, o avesse avuto maggiore forza d'animo. Se solo Dante non fosse stato così Dante. Ma lo era, e il francese non poteva far altro che nascondere un sorriso dietro al bicchiere, guardarlo e chiedersi come facesse ad essere così limpido, così carino, così - semplice, nella migliore accezione del termine. Non aveva bisogno di sotterfugi per sembrare più di quanto non fosse, né di studiare le proprie parole o le proprie mosse. Dante era così, e lo era da sobrio e da ubriaco, da solo o in mezzo a cento persone, in tranquillità e persino nel pericolo. E a Charles quel così piaceva.
    «Anche tu mi piaci, e anche i tuoi occhi, che sono verdi—» e poteva trattenersi, poteva provarci davvero, poteva soltanto dire «lo so, lo so, faccio sempre quest'effetto» e scuotere il capo come se la cosa non l'avesse affatto toccato, come fosse pienamente consapevole che a parlare era il rum, soltanto il rum - ma non era così forte. Non lo sarebbe stato così a lungo. Non quando Dante pareva saper dire esattamente ciò che aveva bisogno di sentirsi dire, non quando «Quindi smuovi quel bel culo e datti da fare» suonava come uno schiaffo che nessuno s'era mai azzardato a dargli, ma che alla fine sapeva di dover incassare per potersi risvegliare dal torpore che Iden, la Sala Torture, la Stamberga ed Eméric erano stati per lui. Non quando «vuoi dividere la sigaretta – la nostra sigaretta, del nostro pacchetto - con me?» suonava come un colpo persino più forte. Posò una mano sul petto, fissando gli occhi sul viso altrui - non senza una certa difficoltà nel metterlo a fuoco - e, più serio di quanto non fosse mai stato, pronunciò solenne: «lo voglio» per poi afferrare il pacchetto e tirarne fuori una sigaretta da mettere fra le labbra, ancora spenta, trascinando indietro la sedia per alzarsi in piedi. «ce la fai a non morire?» lo squadrò divertito, assicurandosi che l'altro riuscisse a seguirlo prima d'avviarsi fra i tavoli sino all'esterno del locale. E forse a quel punto avrebbe potuto mettersi a pensare, a discernere le buone idee dalle cattive, le cose di cui pentirsi da quelle di cui ricordarsi per sempre. Ma era Charles, ed era ubriaco, e le due cose non andavano difficilmente d'accordo insieme. Perciò non stava riflettendo il Dumont, non stava pianificando: stava solo andando avanti, entrambe le mani ficcate in tasca a torturare il tessuto interno dei pantaloni, come a voler trattenere un'urgenza che neppure era consapevole di avere.
    Per questo, una volta fuori, nel poggiare una spalla alla parete e chinare il capo per poter accendere la sigaretta, si sentì mormorare un «dante?» prima ancora di poterlo processare davvero, soffiando via una boccata di fumo. «hai una buona occasione per mandarmi a fanculo» e si sfilò la sigaretta dalle labbra con estrema lentezza, avvicinandola al viso del Grifondoro come a volergliela passare, esitando però dal farlo «usala bene» e abbassò invece il braccio, avvicinandosi all'altro con uno scatto per intrappolarlo fra sé e la parete, la bocca a cercare quella altrui senza pensare a niente, tanto meno alle conseguenze.
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    La sensazione di star eccedendo era difficile da ignorare, persino con la mente offuscata dall’alcol. C’era da dire che fosse bravissimo nell’arte di far finta di niente e che i commenti usciti dalla sua bocca potessero essere tranquillamente imputati al rum e non di certo a pensieri reali che avevano affollato la sua mente per settimane. Durante il soggiorno dall’Osborne si era ripetuto più volte che Charles fosse solo un buon amico e che non avesse tempo per pensare ad altre implicazioni che non fossero collegate al suo futuro. Tecnicamente, anche la prospettiva di una relazione – fisica, romantica – era di suo interesse, ma forse secondario rispetto alla ricerca di un lavoro, di una sistemazione stabile per vivere la vita con quella serenità che gli era mancata dal crollo del castello e di tutte le sue certezze. La perdita di uno dei suoi migliori amici era stata quella goccia di disperazione in mezzo all’oceano di paure che l’aveva portato a rivalutare l’intera mentalità secondo cui, una volta finita la scuola, dovesse trovare un impiego, un qualcosa per dimostrare di essere un ingranaggio funzionante all’interno del sistema.
    Fanculo, si era detto. Fanculo Hogwarts, fanculo il Ministero, fanculo convenzioni sociali becere e prive di senso, dove le date di scadenza erano appiccicate sulla loro fronte nemmeno fossero in una puntata di Death Note. Quindi si era dato tempo; un minuto per riprendersi, un’ora per respirare, un mese per elaborare la mancanza, forse addirittura un anno per dedicarsi solo a se stesso. Non aveva… voglia di pensare, di essere quello che non era, perché non si sentiva un pezzo di una macchina, né una componente fondamentale della vita degli altri, per cui… fanculo.

    La cosa urgente – quella sì che non la poteva ignorare – era sgomberare la stanza di Godric e cercare una sistemazione che non fosse casa della zia – le voleva bene, ma non voleva di certo gravarle sulle spalle più di quanto non avesse fatto negli anni precedenti – e forse un lavoretto part-time che gli consentisse sì di avere il pane sotto i denti, ma anche la libertà di cui aveva bisogno.
    Il vantaggio di non avere nessuna prospettiva per il futuro – e non che non fosse capace, ma non era davvero il tipo di persona che smaniava dalla voglia di realizzare dei sogni, piuttosto gli piaceva solo guardare avanti e vivere alla giornata – né chissà che pretese, era comodo.
    A differenza di quelli che si sbracciavano per diventare dei membri attivi del Ministero o medimaghi al San Mungo, aveva solo l’idea che probabilmente l’unico lavoro adatto a lui comprendesse una chitarra, un bar e il salotto letterario dove poter parlare di filosofia.

    «Gne gne gne, fashio sempre questo effettoH» scimmiottare Charles era infinitamente più semplice da sbronzo che non da sobrio «Non è che siccome ti ho offerto la sigaretta voglio sposarti» si poteva considerare come una proposta di matrimonio? Dubitava, ma quel “si, lo voglio” era riuscito a confonderlo «A non morire credo di sì, a cadere per terra… ehhhh.» aggrapparsi alla spalla del maggiore, dunque, sembrava l’idea migliore della serata. Doveva smetterla di bere così tanto pur sapendo di non essere totalmente in grado di reggere la situation, perché davvero, l’ultima cosa che voleva era vomitare sulle scarpe del Dumont o vederne addirittura due, perché già ne bastava uno.

    «Bravo, accendila tu, non credo di essere in grado» non sarebbe stato capace di trovare la propria bocca, figurarsi utilizzare il pollice per far girare la rotellina dell’accendino «vorrei dire di reggere l’alcol come te, ma come vedi – caspita, era davvero taaaaaaaaanto tempo che non mi bruciavano le interiora» quel rum era più forte di quello che aveva preventivato.
    «Mh?» Charles lo aveva appena chiamato o se l’era sognato? «Mentalmente ti ci ho mandato tante volte, quindi tecnicamente diciamo che non dovrei avere problemi a farlo veramente» ma non aveva voglia di rinunciare all’unica persona che stava provando, a modo suo, a dargli conforto. Il francese era diventato una quotidianità a cui non era disposto a rinunciare per un vaffanculo.
    E forse si aspettava una qualche battuta infelice a cui avrebbe risposto scuotendo il capo rassegnato o magari prendendolo a calci nel sedere, o di ricevere la sigaretta che l’altro sembrava gli stesse porgendo, ma non di certo un bacio.
    Perché quello lo era e non credeva nemmeno ci fossero dubbi a riguardo. La parete era fredda a contatto con la pelle – giacché si era ovviamente dimenticato il giubbotto sulla sedia del locale. Lo avrebbe ritrovato? Mistero. – e solida, cosa che non poteva essere detta delle proprie gambe, simili perlopiù a gelatina. Se fosse stato meno ubriaco, forse, avrebbe avuto la prontezza di allontanare Charles e domandargli cosa gli fosse saltato in mente, il perché avesse deciso di mettere a rischio quello che avevano costruito per—quello. Perché un bacio poteva sembrare niente d’importante, ma forse quello lo era davvero e…
    Fortunatamente – o sfortunatamente, a seconda delle interpretazioni – il rum era riuscito splendidamente nell’intento di renderlo più predisposto, meno ansioso e forse più onesto con se stesso, perché a parte il primo shock – il classico dalle palpebre sgranate, dalla rigidità mista alla sorpresa – sembrava che tutto potesse andare solo in discesa.
    Perché le labbra di Charles erano morbide sulle proprie e il suo sapore amaro come quello del rum, misto alla sigaretta da cui aveva aspirato qualche tiro.
    Aveva baciato poche volte nella sua vita, per di più donne e senza reale interesse che non fosse quello di un adolescente alle prese con la scoperta di sé stesso e l’inadeguatezza di chi non riesce a capire cosa ci sia di sbagliato in lui. Ma quello era diverso e più intenso e assolutamente reale nonostante la sensazione di stare immaginando tutto; persino le mani a poggiarsi sulle spalle dell’altro e la stretta di quest’ultime fino a farsi sbiancare le nocche sembravano solo un sogno molto vivido di un ubriaco. Ma Charles era concreto spalmato sul suo corpo, come la scossa d’adrenalina a far battere il cuore più veloce del normale; gli sarebbe venuto un infarto? Beh, sperava di no, anche perché pensava che nessuno dei due fosse materialmente in grado di fare qualcosa a riguardo.

    Il Dumont non pensava a niente e lo stesso poteva essere detto di lui, perché con coscienza non avrebbe mai cercato un accesso per poterlo sentire meglio, non avrebbe chiuso gli occhi lasciandosi andare a quella sensazione nuova data dalla consapevolezza che Charles volesse lui, in quel momento, dimenticandosi anche solo per un attimo che forse, anzi probabilmente, fosse l’alcol a fargli desiderare quel contatto e che quindi il francese cercasse solo un qualcuno e che quel qualcuno, con tempismo, fosse stato lui.

    Allontanarsi da quel contatto non era semplice, perché gli schiocchi umidi delle loro bocche erano in grado di farlo fremere di un bisogno che non credeva nemmeno di possedere, ma… «Mi sento molto…» euforico «confuso» l’unico pensiero coerente nel marasma della propria mente «ma sento davvero tutto, tranne l’urgenza di mandarti a fanculo» onesto.

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    Edited by Snow|Flake - 24/9/2019, 01:20
     
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    Poniamo il caso che, un anno prima, un Charles Dumont qualunque avesse consapevolmente scelto di baciare un Dante Rinaldi, così, per il semplice gusto di farlo. Certamente avrebbe dato per scontato che l'altro, senza troppe esitazioni, avrebbe ricambiato quel bacio persino con il doppio dell'intensità perché - insomma, non era perfetto, ma con quel genere di cose era convinto di saperci fare. Era sicuro di sé, ed era sicuro di potergli piacere tanto quanto lo era di dare a quel gesto la stessa importanza che avrebbe dato all'aver dimenticato l'ombrello in un giorno di pioggia: un problema, ma non certo un dramma. Se ne sarebbe compiaciuto, forse sarebbero andati a letto insieme, e poi, cosa? Poi sarebbe andato avanti, come se non fosse accaduto niente di che. Ma il Charles Dumont di adesso aveva ben poco a che spartire con quello del passato. Innanzitutto, quel nuovo Charles Dumont aveva smesso da un pezzo d'interessarsi alle avventure d'una notte, perché aveva ben altri problemi a cui pensare. Poi, c'era una questione piuttosto rilevante da tenere in considerazione: quel Charles Dumont, aveva smesso di dare per scontata l'approvazione altrui. Al contrario, aveva iniziato a partire dal presupposto esattamente contrario, ovvero che il mondo avesse scelto di voltarglisi contro nell'esatto giorno in cui era divenuto palese quanto, in verità, altro non fosse che una persona tremendamente imperfetta, capace solo di accumulare errori su errori, nonché fondamentalmente debole. E, partendo da tale assunto, sapeva d'aver poco d'offrire, altrettanto poco da aspettarsi: che diritto aveva, in ogni caso, di pretendere che qualcun altro potesse scegliere volontariamente d'accettare i suoi difetti? Come poteva, dopo quanto aveva fatto, credere anche soltanto di meritare qualcosa che non fosse quello che con le sue mani si era già costruito, ovvero niente? E poi, se il Charles Dumont d'un tempo faticava a vedere al di là del proprio naso quando si trattava di comprendere gli altri, quello di adesso riusciva a vedere oltre sé stesso, ad attribuire i giusti meriti altrui, ad ammirare persino qualcosa che non fosse la propria immagine riflessa. Non si sarebbe aspettato d'esser ricambiato da nessuno, ma più di ogni altra cosa non se lo sarebbe aspettato da Dante perché, diciamocelo - il Grifondoro valeva due volte il Serpeverde, forse persino tre. Era più plausibile, per il Dumont, che fosse stato l'alcol a far reagire così il Rinaldi, a non lasciare che questi lo scansasse malamente, che lo guardasse con quel misto di disagio, ritrosia e disappunto che gli era ormai familiare, che a volte gli capitava di rivedere in sogno ormai da mesi - e il fatto che non ci fosse, che tutto sembrasse Dante meno che schifato da quel contatto, per Charles riusciva a significare soltanto una cosa: che non fosse cosciente abbastanza da capire. Confuso, com'egli stesso aveva ammesso di essere, tanto da non riuscire a distinguere il giusto dallo sbagliato, il piacevole dal riprovevole. Non che si considerasse tanto al limite, non l'aveva perso del tutto quel suo orgoglio, ma era abbastanza a pezzi da ritenere difficile che uno come Dante, uno che certo non avrebbe cercato la storia da una botta e via, avrebbe davvero consciamente voluto una relazione stabile con Charles Dumont, con lui. Eppure, quel «ma sento davvero tutto, tranne l’urgenza di mandarti a fanculo» sembrava così sincero, così onesto, che diventava difficile non crederci, non con così tanto alcol in corpo. Una parte di lui ci pensava, ovviamente, a quanto di sbagliato ci fosse nel farlo in quel momento, così, ma era una parte talmente tanto offuscata dalla presenza del Rinaldi ad un soffio da sé che risultava quasi superflua, di poco conto. Non c'era niente che il Serpeverde potesse fare, nient'altro che non fosse riprendere le mani di Dante e rimetterle esattamente dov'erano prima, a stringersi sulle sue spalle, e poi avvicinare ancora il viso a quello altrui per approfondire quel contatto durato troppo poco, catturare le labbra altrui fra le proprie in un gesto tutto meno che indeciso, privo ormai dell'incertezza della prima volta, saggiarle con la lingua nel desiderio di conoscerne il sapore, di tastarne la morbidezza. «quanto sei sobrio?» sussurrato, senza neppure premurarsi di allontanare il viso da quello del minore, probabilmente inconscio del fatto che, qualunque sarebbe stata la risposta, con tutta probabilità sarebbe uscita falsata dall'alcol stesso. Ma poco importava, poco aveva senso ormai, perché quel quanto sei sobrio significava soltanto domani mi odierai per questo? E la risposta la conosceva già: no, Dante non sarebbe mai stato in grado di odiarlo, ma l'imbarazzo ed il pentimento nei suoi occhi sarebbero stati difficile da nascondere, Charles li avrebbe visti - peggio: li avrebbe cercati, forse più per vivere nel conforto di non poterci fare niente, di non poter cambiare, di non avere scelta. Essere rifiutato era una cosa a cui ormai era diventato familiare, era il contrario a risultargli complicato da gestire. Perciò allentò la presa sul fianco dell'altro - che, per inciso, neanche si era accorto di star stringendo - sfiorandogli una guancia con la punta del naso e fermandosi all'altezza del suo orecchio per chiedere, ancora «ti fidi?» e, dando per scontato che si fidasse, si sarebbe sforzato di allontanarsi per prendergli un polso e trascinarlo con sé dentro al locale, su per le scale fino al passaggio segreto per la Stanza delle Necessità.
    Era una fortuna che quella maledetta stanza cambiasse all'occorrenza perché, a pensarci, non aveva fatto che da sfondo ai momenti peggiori della sua vita. Tuttavia, in quell'istante, gli sarebbe apparsa tanto diversa da far sì che neppure il ricordo lo sfiorasse, ancora frastornato dal rum, dall'adrenalina, da quell'improvvisa incapacità di tenere le mani lontane dal Grifondoro. Gli si sarebbe quindi avvicinato, ad un soffio dal baciarlo ancora ma con una breve esitazione, probabilmente dovuta ad un breve sprazzo di lucidità: «abbiamo bevuto» vero «niente di cui pentirci» un ammonimento, più a sé stesso che all'altro, difficile da rispettare quando le sue labbra di sarebbero nuovamente mosse contro quelle altrui - ma voleva provarci, voleva provarci davvero.
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    Ecco perché odiava bere.
    I momenti da ricordare, inevitabilmente, venivano offuscati da quella patina di ubriachezza che era utile solo per compiere scelte giuste al momento sbagliato. Per intenderci, voleva baciare Charles ed avrebbe continuato anche per tutta la notte, tuttavia il farlo da ubriaco portava a domande che, in quel momento, non riusciva proprio a formulare. Da sobrio ci sarebbe stata l’incertezza, l’imbarazzo e i quesiti riguardo al motivo dietro quello slancio d’affetto. Perché il Dumont aveva deciso, così senza alcun preavviso, di dargli un bacio tanto appassionato? E continuare, per giunta, facendogli posare nuovamente le mani sulle sue spalle per tenerlo ancorato a quel momento e non a vagare con la mente in altri lidi? Cosa era scattato nella mente del Serpeverde per credere, pensare, che lo volesse lì, in quel vicolo e lontano da occhi indiscreti? Non ne aveva idea. Probabilmente non avrebbe saputo darsi una risposta nemmeno con tutte le facoltà mentali a loro posto. C’era da dire che non fosse affatto turbato dall’iniziativa del maggiore perché lui, a conti fatti, nonostante fosse un fierissimo Ex-Grifondoro, possedeva il coraggio per le imprese eroiche, ma non di certo per il contatto umano.

    Lo terrorizzava. Il modo in cui si stava sentendo tra le braccia di Charles, di quelle labbra poggiate sulle proprie, della sua lingua a lasciargli un sapore amaro sul palato. Non aveva idea del motivo per cui lo stesse ricambiando; banalmente, poteva dire di essersi preso una cotta già dal periodo di Eméric. Era stato l’uomo perfetto, l’assistente ribelle, il confidente che gli era mancato e poi… poi aveva scoperto che per tutto quel tempo non aveva fatto altro che parlare con il Dumont e se per un momento aveva creduto di morire, nell’altro aveva razionalizzato e pensato che sì, alla fine l’aspetto non era che un contenitore di quella stessa persona che l’aveva fatto sentire bene e, per la prima volta, capito.
    Voleva bene ai Golden, per Dio, avrebbe dato la vita per loro. Eppure, spesso, li trovava lontani anni luce da ciò che era lui, dai suoi ideali, dal suo modo di vivere e da tutto quello che riguardava la giustizia.
    Non erano i compagni adatti a discorsi profondi – non come li intendeva lui, perlomeno – né a confessare segreti e preoccupazioni che per tanto tempo gli avevano attanagliato le viscere. Il loro completo disinteresse per la morte di Jack, poi, non aveva fatto altro che farlo sentire quasi in difetto. Perché a lui importava e agli altri… no? Non era forse stato loro amico? Non erano andati insieme a lottare? Non avevano affrontato una battaglia e, per poco, rimesso la loro stessa vita?
    Non aveva la forza mentale per poter pensare, né esattamente la concentrazione adatta, perso com’era a sentire il fiato caldo del maggiore all’orecchio, a chiedergli quanto fosse sobrio.

    «Il giusto» che non era una risposta esaustiva, forse, ma la verità. Non era perfettamente lucido, e questo era palese dallo sguardo liquido e dalle guance arrossate, ma era ancora cosciente delle proprie azioni, dettate sicuramente dall’incoscienza e dalla voglia di buttarsi. Normalmente sarebbe stato cauto, incerto e tremendamente insicuro, ma così era diverso. In un certo senso il whisky gli aveva dato una botta di coraggio che lo aveva aiutato a venire a patti con la propria voglia di buttarsi nel vuoto.
    Non sapeva quanto fosse disposto a rischiare, ma non sapeva nemmeno dove volersi fermarsi.

    Probabilmente proprio per questo, senza nemmeno provare a fermarlo, aveva seguito Charles lasciandosi trascinare per passaggi e viuzze a lui sconosciute. Essere un Golden non lo aveva aiutato, a differenza degli altri, a scoprire i passaggi segreti di Hogwarts. Non credeva che avrebbe messo piede a scuola tanto presto, non dopo essersi finalmente diplomato ed aver messo da parte per un po’ la magia, eppure erano lì, ancora. Non sapeva esattamente dove fossero giunti, né conosceva le intenzioni del Dumont, ma si fidava di lui. Era assurdo anche solo da pensare, ma nonostante ciò riponeva nel francese una fiducia che dubitava avrebbe concesso a chiunque.

    Sbattendo le palpebre un paio di volte, frastornato dalla camminata e dalla sensazione di stordimento, aveva fatto fatica a mettere a fuoco l’ambiente circostante, quasi che si stesse formando davanti ai suoi occhi «dove siamo?» perché non era mai stato in una stanza del genere, con una luce soffusa e un divano spazioso al centro della sala. Non c’era niente di eccezionale a parte quello e dei fiori in dei vasi, una coperta pesante e l’odore di pulito.
    Avrebbe volentieri continuato a guardarsi intorno, confusamente certo, ma con curiosità. Sentiva ancora l’alcol in corpo, la pesantezza dell’ubriacatura, ma ancora quel formicolio a fargli mancare le labbra dell’altro sulle proprie.
    «Abbiamo bevuto» «» «Niente di cui pentirci» «Beh, no» non credeva che si sarebbe pentito dei baci, delle mani a posarsi sul collo del maggiore, per poi salire sulle guance per prenderle a coppa tra i palmi; non credeva nemmeno che si sarebbe pentito di aver pensato che non importava fin dove si sarebbero spinti quella notte, né se l’indomani Charles non avrebbe saputo come convivere con un altro peso. O se l’avrebbe guardato in viso con il pentimento scritto nelle iridi chiare. Non sapeva niente, forse solo una cosa: non si sarebbe ritratto.
    C’era da dire che essere cauto non l’aveva mai portato da nessuna parte e che solo dopo aver assunto una posizione attiva nella Ribellione gli fossero accadute cose eccezionali.
    Una di quelle era avere Charles davanti a sé smanioso di baciarlo. Lui non era mai stato il desiderato ed esserlo, per una volta, rimaneva comunque una sensazione molto lusinghiera.
    Su una cosa il Dumont aveva ragione, in ogni caso: non era un tipo da una botta e via. I sentimenti li provava, eccome. Magari poteva non essere ricambiato (come pensava che fosse, d’altronde non era nemmeno detto che Charles non volesse solo portarselo a letto e rimanere amici) ma… sarebbe stato capace di dare lo stesso il proprio affetto senza pretendere nulla in cambio.
    Era strano, tuttavia sapeva di non poterci fare niente.

    «Non c’è un incantesimo per togliere questa sbornia?» mormora ad un filo dalla bocca del Dumont, tirandolo verso il divano e, senza cerimonie, crollando insieme su quest’ultimo.

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    «Il giusto» aveva detto Dante, e Charles aveva voluto credergli. C'erano volte in cui avrebbe voluto essere l'adulto della situazione, un po' com'era stato ai tempi di Emeric, e non soltanto per via della minima eppur presente differenza d'età fra lui e il Grifondoro, ma perché era oggettivamente stanco di essere il sottone della situazione. Avrebbe voluto, per una volta, avere il controllo su qualcosa, smettere di rincorrere e sentirsi meno irresponsabile, più adulto. La verità, tuttavia, era che persino dietro a quel «ti fidi?» che aveva rivolto poco prima al Rinaldi e che di per sé avrebbe voluto far intendere che fosse lui ad avere in mano la questione e l'altro a dovervi fare affidamento, non c'era altro che un'ennesima ricerca di conferme da parte del francese. Era Charles a fidarsi di Dante, a fidarsi del fatto che non gli avrebbe lasciato calcare troppo la mano, che gli avrebbe impedito di fare stronzate, perché si fidava più di lui ubriaco che di sé stesso da sobrio. Se erano messi male? Malissimo, tanto da crollare insieme sul divano al centro della stanza senza riflettere troppo sulle implicazioni che persino quella banale mossa avrebbe potuto comportare, ma ormai i giochi erano fatti. «è la stanza delle necessità» mormorò, indicando la stanza con un cenno del capo e avvolgendo le spalle del Grifondoro con un braccio, tirandolo a sé per poter nuovamente sfiorare le sue labbra con le proprie. Certo, le luci soffuse e l'intera atmosfera da cui erano circondati non aiutava particolarmente ai suoi buoni propositi: aveva sperato più in un posto qualunque, purché lontano dal caos del locale, ma evidentemente la Stanza aveva voluto decidere al posto loro - o si era forse adattata all'immaginario di Dante? Questo, Charles non poteva saperlo, ed in fondo era probabilmente meglio così.
    «Non c’è un incantesimo per togliere questa sbornia?» sollevò le iridi a incrociare quelle minore, quasi a voler constatare la veridicità di quella richiesta. Era difficile pensare che tutta quella storia non fosse tutta colpa dell'alcol, ma lo era altrettanto pensare che Dante fosse così ubriaco da non avere la minima coscienza di sé. L'unica spiegazione, dunque, restava una soltanto: che davvero l'altro avesse voluto baciarlo. Ed era una consapevolezza talmente grande, talmente importante, che il Dumont non poté fare altro che restarne sorpreso, incapace di far altro che sollevare una mano e poggiarla sulla guancia dell'altro, accarezzandola lentamente con il pollice. «tu es trop bien pour moi» scosse il capo, abbassando poi lo sguardo sulle proprie tasche per tirarne fuori la bacchetta, puntarla sull'altro e pronunciare un semplice incantesimo per ridurre il senso d'ottundimento provocato dall'alcol. La direzionò poi su di sé, schiudendo le labbra per ripetere la formula, ma si fermò prima: non era certo di voler essere davvero sobrio per quel che ne sarebbe venuto dopo. Ripose dunque la bacchetta, tornando a posare gli occhi sul minore e rivolgendogli un mezzo sorriso dubbioso «va meglio?» e allungò un mano verso il suo viso per scostargli una ciocca di capelli dalla fronte, in un gesto forse più premuroso di quello che avrebbe voluto lasciar trasparire. «ti assicuro che la cosa migliore è che io stia zitto e fermo, perché potrei dire o fare qualche stronzata come al solito» sollevò entrambe le braccia in segno di resa, reclinando indietro il capo e fissando gli occhi sul soffitto. «ho solo un po' d'ansia sul fatto che questo possa essere, sai - che possa non andarti bene, ecco» sputò fuori alla fine, voltando leggermente la testa per poter sbirciare l'espressione del Grifondoro. «non voglio metterti a disagio, né che tu ti senta costretto a fare una cosa che non vuoi» mormorò, mordendosi nervosamente una guancia: cristo, quand'è che era diventato così maledettamente insicuro? «e l'alcol mi fa evidentemente trasformare in un quindicenne verginello» si tappò la bocca con una mano, allargando indice e medio solo per aggiungere: «perciò è decisamente meglio che io stia zitto» decisamente.
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    Paradossalmente, così come Charles, credeva fermamente che tutto quello che stesse succedendo altro non fosse che il delirio alcolico di due ubriachi. Non aveva creduto, nemmeno per un istante, che il Dumont potesse davvero baciarlo o che, alla fine, avrebbe voluto passare la notte con lui. Ora, non era sicuro di voler andare oltre i baci, perché a malapena ne aveva dati un paio nel corso della propria vita, ma quella sicurezza era sparita nel momento stesso in cui si era ritrovato il francese spalmato addosso, quella bocca di fuoco a tracciare scie bollenti sulle sue labbra.
    A malapena ricordava come fossero arrivati lì, che quella fosse la fantomatica stanza delle necessità e che quest’ultima fosse diventata improvvisamente più intima e calda. O era lui ad essere accaldato? Non lo sapeva ma, francamente? Non gli importava.
    Per una volta, una singola, fottutissima volta, era l’oggetto del desiderio di qualcuno; che quel qualcuno fosse Charles Dumont e che avesse sviluppato una cotta per lui dai tempi di Eméric… era un’altra storia.
    L’idea di poter toccare il francese, di avere l’opportunità di passare le dita tra i ciuffi scuri e potersi perdere, anche solo per un attimo, nel calore della sua pelle, era assurda eppure vera. Da sobrio, lo sapeva, avrebbe fatto fatica ad approcciarsi con tanta disinvoltura, perché era assolutamente una frana nelle interazioni sociali che richiamavano interessi sessuali; a volte invidiava i Golden e il loro modo di affrontare la vita. Sempre così al di fuori della realtà, in un mondo fatto di violini, involtini primavera e sangue. Pieni di disagio, sì, ma convinti delle loro azioni.

    Era stata una buona idea quella di chiedere a Charles di tornare sobri? Da una parte credeva che fosse la scelta migliore, così da evitare azioni di cui poi si sarebbero potuti pentire entrambi; dall’altra, non era così convinto di poter reggere la tensione. Insomma, era la prima volta che aveva sopra di sé un uomo e che quest'ultimo cercava di… fare cose con lui. Le sue conoscenze sull’argomento si potevano circoscrivere alla pura e semplice teoria.
    Dove doveva mettere le mani? Poteva passare le dita sotto la maglia del Dumont? Oppure continuare a baciarlo fino a farsi arrossare le labbra? Non sapeva niente, un po’ come Jon Snow.
    Ma quella sua inesperienza, a conti fatti, non lo stava facendo sentire a disagio come invece pensava potesse succedere. Tornare coscienti era stata, a tutti gli effetti, la decisione migliore che avesse preso in vita sua; in primo luogo perché voleva godersi il momento, non perdere attimi o pentirsi il giorno seguente di essere stato con Charles senza capire nulla. Ma, soprattutto, perché non era da ubriaco che voleva baciare o toccare il francese; era troppo importante, troppo sottopelle, per non essere ricordato.

    «Va molto meglio, sì» sentiva la testa meno pesante e la vista tornare gradualmente chiara, ed era sicuramente più consapevole della situazione intorno a sé. Non percepiva quella solita, fastidiosa necessità di scostarsi dai tocchi di un’altra persona, né la pressante voglia di sparire sotterrato dai cuscini; in un certo senso, si sentiva bene e al sicuro; il fatto stesso che l’altro avesse acconsentito a farlo tornare sobrio era confortante perché sapeva che, in un modo o in un altro, Charles non si sarebbe mai approfittato della situazione.
    «Non voglio che tu stia zitto o fermo» ammette, lasciandosi scostare una ciocca di capelli dalla fronte, accarezzandogli distrattamente il retro del collo. Non era necessario che Charles si frenasse o che pensasse di poter complicare le cose: lo erano già. Qualche ora prima non avrebbe mai pensato di poter interessare ad una personalità tanto esuberante come il Dumont, eppure… eppure quest’ultimo lo aveva baciato, trasmettendogli il desiderio che aveva di lui. Non sapeva se fosse mera fisicità o se dietro quelle attenzioni ci fosse altro, ma non aveva senso pensarci, né arrovellarsi il cervello per una risposta che non credeva avrebbe avuto nell’immediato «fai… quello che ti senti di fare» si umetta le labbra alla fine, fissandolo per qualche istante alla ricerca di qualcosa, di un segno che potesse portarli a continuare da dove avevano interrotto «ti sembro… a disagio o costretto?» non credeva di dare un’impressione del genere!

    Alla costatazione del francese non può che lasciarsi andare ad una breve risata, portando il capo sui cuscini e scuotendo la testa «quello preoccupato dovrei essere io! Non sarò un quindicenne, ma---» lascia la frase in sospeso, rivolgendogli un piccolo sorriso, timido, ma non insicuro «senti» di nuovo, la mano passa ad accarezzargli le ciocche scure, meditando sulle parole da utilizzare «non so cosa stiamo facendo, sarò onesto. Però mi piaci, quindi rilassati» da che pulpito! Tuttavia, tra i due, sembrava quello meno agitato dalla situazione, il che era strano ma, per una volta, non così tanto.
    «Non è tipo—che mi hai adescato con delle caramelle. Se non avessi voluto essere qui ti assicuro che non ci sarei» questo doveva essere chiaro «quindi direi che potresti tornare sobrio anche tu e ricominciare? A me sta abbastanza bene questa posizione» accenna un’occhiata scherzosamente ammiccante vero il maggiore, facendo scivolare le mani sui fianchi per dargli più spazio e per consentirgli di lanciare l’incantesimo.
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    Era sempre una questione di paura, la sua.
    Ogni suo gesto, ogni suo più piccola reazione, altro non erano che il risultato di quella costante paura di essere inadeguato che l'aveva perseguitato un po' per tutta la vita. Forse era iniziata con suo padre, che l'aveva sempre guardato con lo sprezzo di chi piuttosto che un figlio del genere avrebbe preferito darsi alla morte, o magari aveva cominciato ad essere un problema quella maledetta notte d'agosto, l'ultima volta che aveva visto la sua casa a Le Havre. Ma era così, malgrado fosse ormai diventato bravo a celarlo, e studiare fino a notte fonda per raggiungere qualche dannato Eccellente non era che un modo per dimostrare a sé stesso di essere in grado di fare qualcosa, qualsiasi cosa, così come lo erano gli ostinati tentativi d'imparare a suonare la chitarra meglio degli altri, ad arrischiarsi con stronzate su stronzate solo per apparire più audace, ad infilarsi tra le lenzuola di questo o di quell'altra solo per poter dire d'avere qualcosa in più persino quando si trattava di una cosa tanto intima quanto il sesso. E l'esperienza non gli mancava, né quel saperci fare sufficiente, volendolo, a trascinare a letto - o, in quel caso, sul divano - con sé Dante per farlo suo, per potersi conquistare la prima volta del Grifondoro quasi fosse un trofeo, come tutti gli altri, e poi atteggiarsi come se non fosse stato niente d'importante.
    Ma non era più quel Charles.
    E non perché si fosse trasformato in un santo, né perché avesse smesso di volere quello che un tempo aveva cercato e ricercato - era per Iden. Lo era, e non perché ancora tenesse a lui, né per chissà quale sorta di lealtà nei suoi confronti. Al contrario: lo odiava. Lo odiava con ogni fibra del proprio essere, lo odiava con lo stomaco e col cuore, e non perché l'avesse rifiutato, non perché le cose non erano andate come avrebbe voluto, ma perché l'aveva distrutto nel peggiore dei modi possibili: distruggendo quel muro di protezione fatto di una finta autostima che, per quanto falsa, fino ad allora era riuscita a tenerlo vivo. Adesso che non c'era più, adesso che il Kaufmont l'aveva buttato giù con un solo, unico gesto, riusciva a percepire tutto il disgusto, tutta l'inadeguatezza, tutta la merda che per anni e anni aveva raccolto e nascosto e che oramai gli era piombata addosso senza preavviso, senza incontrare resistenze. E voleva farlo Charles, voleva davvero tornare a rifugiarsi nei suoi sciocchi passatempi, nel suo essere il coglione di sempre, nelle mutande di una Tassorosso, o di un Grifondoro, e dimenticare tutto il resto - ma non poteva farlo. Non era più in grado di farlo. Non sapeva più come spegnerlo quel suo cervello, che continuava a ridere di lui ancora e ancora, che non sapeva più come lasciarsi andare.
    E non si sarebbe scopato Dante.
    Non così, non come una cosa da lasciarsi alle spalle, avanti il prossimo. E, sapete qual'era il vero problema? Che non era certo neanche di poterlo fare in modo diverso. Non aveva mai imparato come costruirsi una relazione, non ci aveva mai neppure provato, ed ora che aveva perso persino quella parvenza da uomo migliore non credeva nemmeno di meritarsela. In poche parole: non aveva idea di cosa cazzo fare. A tirata dei conti, tra i due era lui l'inesperiente, quello la cui paura di sbagliare rischiava di tramutarsi in una completa catatonia. Era solo l'alcol a tenerlo ancora in piedi, solo il rum ad appesantirgli la testa. Passato quello, sarebbe dipeso esclusivamente da lui, dalle sue scelte, dai suoi gesti - e non era certo d'essere pronto a farlo.
    Anzi, no: non lo era affatto.
    E lo sapeva, ma voleva provarci comunque, voleva farlo perché teneva davvero a Dante, perché lo voleva con tutto sé stesso, e per questo si costrinse a riprendere la bacchetta e puntarla verso di sé per pronunciare, ancora una volta, l'incantesimo che aveva usato poco prima sul Grifondoro. E, per un attimo, niente. Niente paura, niente ansia, niente di tutto ciò che aveva immaginato sarebbe successo una volta tornato sobrio. Per questo, quasi incredulo, si ritrovò a sporgersi verso il minore, senza curarsi d'essere forse un po' troppo irruente, forse un po' troppo passionale, forse un po' troppo impaziente. «fai… quello che ti senti di fare» aveva detto il Rinaldi, ed era esattamente quello che voleva: Dante. Sulle labbra, a correre prima su quelle altrui, per poi scendere sul mento, sul collo. Sulle mani, a stringere la maglia dell'altro, ad insinuarsi sotto il tessuto per potergli stringere i fianchi ed attirarlo su di sé, stringendoselo addosso quasi temesse di lasciarselo sfuggire.
    «fai… quello che ti senti di fare» e lo sapeva, Charles, cosa si sentisse di fare. Lo percepiva chiaramente, ora che a rimbombare nella sua testa c'era il desiderio al posto dell'alcol, ora che avercelo così vicino rendeva persino più palese quante volte avesse pregustato quel momento. «fai… quello che ti senti di fare» e, razionalmente, sapeva di non volersi spingere troppo oltre, di lasciare tempo all'altro di metabolizzare la cosa, mentre l'istinto gli faceva premere i polpastrelli sui fianchi altrui, solleticare la pelle del collo col respiro - ma non era una questione di contegno. Di quello era capace, ne era certo, il problema era che «fai… quello che ti senti di fare» gli dava una libertà che troppo spesso l'aveva condotto in trappola. E di quella libertà il Dumont aveva fottutamente paura.
    Ed avrebbe voluto ignorarla, tanto da socchiudere gli occhi e sperare di lasciarla passare inosservata, tanto da risollevare il capo per lasciare un altro bacio sulle labbra del Rinaldi, poi sulla sua guancia, poi su una tempia, e sospirare forte perché se ne andasse. Ma era ancora lì, e si fece ancora più forte quando, nel muoversi leggermente e sentire sfregare la propria erezione contro il minore, si lasciò sfuggire un flebilissimo mugolio soddisfatto. Non era neppure certo che Dante l'avesse sentito ma, una volta giunto al proprio orecchio, ebbe l'unico risultato di farlo irrigidire seduta stante.
    «bite» soffiò, rivolto esclusivamente a sé stesso, incrociando lo sguardo dell'altro e distogliendolo immediatamente nel timore che potesse coglierne l'incertezza, l'assoluta stupidità. Lo scostò da sé con un gesto deciso ma ancora delicato, quasi temesse di fargli fisicamente male, mormorando soltanto un «mi dispiace» che significava ben poco, ma che era l'unica cosa in grado d'uscire dalle sue labbra a quel punto. Si alzò in piedi poi, dirigendosi verso la porta nella piena convinzione di uscire da Hogwarts e smaterializzarsi, ovunque, lontano da lì.
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