«hO uNa LaUrEa!!!» «in cosa, stronzate avanzate?» Tvättbjörn Cömmstaj, occhi celesti spalancati e sopracciglia sollevate, scivolò sul carrello d’acciaio più scomodo che avesse mai provato – non che, negli ultimi quattro anni passati all’interno dei laboratori, avesse avuto l’ebbrezza di poterne montare uno più ergonomico e meno spacca schiena – per permettere alla testa di fare capolino oltre al macchinario, l’olio del motore di quella cosa (qualsiasi essa fosse, al norvegese non era dato saperlo) a macchiargli da cima a fondo il camice pallido. Armando («mi chiamo zeke, porca troia. zeke!!!, come fai a sbagliare così tanto??» «herregud, armando, calmati») stava evidentemente perdendo le staffe, ed il sedicenne non riusciva davvero a comprenderne il motivo. Lo stava liberando di un sacco di lavoro, ed il tutto gratuitamente – avrebbe soltanto dovuto ringraziarlo, anziché alterarsi nei momenti in cui gli faceva notare quanto il proprio operato da ingegnere meccanico fosse andato a farsi benedire. Quando lo diceva, lo faceva per il suo bene: sebbene passasse metà del suo tempo lì dentro a fargli presente quanto fosse un incapace, sia come Dottore Estremista che come uomo di scienza, Twat si era affezionato al ragazzo ed alla troupe che quotidianamente lo sottoponeva a più test e prove di resistenza del dovuto. Davvero, davvero, non lo capiva perché ogni volta tutti loro parevano essere sull’orlo delle lacrime. «hai una laurea, armando, e non sei riuscito a capire che il fusibile si era staccato, e che il bullone centrale della centrifuga si era allentato quel tanto che basti a renderla semovibile» rotolò a terra, solo per arrampicarsi in un secondo momento sul macchinario e guardare all’interno del cestello. «praticamente,» alzò lo sguardo, puntando un’inquisitoria chiave inglese contro Armando e tutta la sua squadra. «siete riusciti a mandare a puttane ricerche alchemiche di chissà quanti anni e quanti pazienti, premendo un solo tasto. uno solo!!» sì che non aveva idea dello scopo di quella roba, ma ad un occhio attento e scientifico come quello del Cömmstaj era palese che doveva trattarsi di una sorta di estrattore microbiologico: non gli interessava cosa ci facessero, gli importava soltanto che lo avevano distrutto – o meglio, che non avevano saputo come aggiustarlo. «idioter.» tutto ciò che per lui aveva valore lì dentro, era la macchina stessa: dopodiché, potevano davvero gestirsela come gli pareva là dentro. Li vedeva farlo da quando aveva appena compiuto dodici anni, non gli avrebbe detto di smetterla: voleva continuassero, ma con i giusti mezzi. Ed era per quello che, nonostante avesse avuto l’opportunità di andarsene tempo prima, aveva deciso di non schiodarsi da quella base – aveva stipulato una sorta di patto con il direttore della divisione in cui era stato “imprigionato”: sarebbe potuto rimanere, solo se avesse continuato a sottostare ai loro esperimenti e se avesse impiegato le proprie conoscenze nell’ingegneria e la meccanica per aiutarli. Era passato un anno da quando gli avevano detto che doveva uscire, che lo avrebbero ricollocato in una struttura magica inglese, e lui aveva rifiutato di alzarsi, dicendo che si trovava così tanto bene lì dentro. Nove mesi, da quando avevano tentato nuovamente di scortarlo fuori dal Laboratorio per mandarlo in branco ad una società che non capiva, ed alla quale non voleva mescolarsi: non lo vedevano, che faceva fatica anche solo a parlare con i compagni di cella? Sei mesi, da quando nauseati dai suoi modi di fare – lo definivano arrogante e saccente, fastidioso come un dito ricoperto di sabbia su per il deretano, ma Twat non aveva mai compreso le loro ragioni: viveva in un mondo tutto suo, e per lui quello era un modo normalissimo di relazionarsi ad altri esseri umani – , Armando ed un’altra decina di suoi colleghi avevano provato a trascinarlo fuori con l’inganno. Fallendo miseramente: dopo quella volta, smisero di provarci realmente – qualche tentativo di liberarsi di lui persisteva, ma ingenting å gjøre. Zeke, con la testa abbandonata contro le sbarre ed un esaurimento nervoso a pulsare comicamente contro la tempia, glielo aveva chiesto quale fosse il vero motivo per il quale non voleva andarsene di lì. Era stato nel settembre dell’anno precedente, a ridosso dell’inizio dell’anno scolastico e poco prima che provassero a farlo uscire di nuovo; la sua risposta, era stata la stessa che aveva dato al Dottore Capo. Forse non aveva una vita, quello lì, perché periodicamente tornava a chiederglielo: non riusciva a decifrare i suoi intenti, Twat, arrivando a sentirsi un esperimento sociale oltre che magico e scientifico. Una volta, per farlo contento, gli disse che quand’era piccolo avrebbe desiderato diventare un astronauta – un ingegnere, un macchinista; aveva tutte le carte in regola, sebbene fosse poco più che un semplice bambino – , ma che a quel punto immaginava di non avere più molte opportunità di andare nello spazio. Non era più un semplice babbano, ma non era nemmeno un mago come suo fratello: era uno stupido ibrido, e senza davvero una forma, senza un potere manifesto che gli permettesse di darsi un’etichetta. Non lo avrebbero mai lasciato libero di studiare, di partire, di andarsene davvero – ed a quel punto, allora, rimanere lì dentro a sistemare macchinari era il massimo che potesse immaginare per il proprio futuro a venire. Quando continuò a fargli domande, iniziò a dirgli che aveva rotto il cazzo. Voleva solo stare lì ed aggiustare cose, perché dovevano farla così difficile? «ma voi ci avete studiato pure per fare così male il vostro lavoro?» forse, per quello. «dovevate soltanto -» «shhhh» «- scUSA?» lo aveva appena zittito? «zitto un po’, 971» sì, lo aveva fatto. «qualcuno si è introdotto nel laboratorio» ma… «oh, quindi avete rotto anche il sistema d’allarme? du er veldig god» avrebbe anche iniziato a battere le mani, se non gli avessero puntato contro una bacchetta. Dopodiché, iniziarono tutti a disperdersi: Twat, rimase da solo con il suo bff4e. Udirono urla, tante urla, e per quanto fosse abituato a sentir strillare le altre cavie sapeva che quello era ben diverso. Stava succedendo qualcosa, e «twat, stavolta è meglio se scappi sul serio» cercò gli occhi scuri di Zeke, rimanendo però al proprio posto. «non voglio» «non è un’opz-» «non so dove andare» Quello, il vero motivo per cui non voleva andarsene. Lo avrebbero potuto sbattere nella famosa Different Lodge di Hogwarts, glielo avevano detto, ma non gli andava. Avrebbe potuto accettare, solo se avesse potuto rivedere Björn ed i suoi fratelli – ma non era uno stupido, e sapeva che nemmeno quella sarebbe stata una vera opzione. Erano in Norvegia, e lui aveva solo sedici anni ed una vaga idea di quanto lontana fosse dall’Inghilterra. Per quanto ne sapeva, la sua famiglia poteva essere morta – o non trovarsi più a Modalen, nei migliori dei casi. Uscito da lì, sarebbe stato da solo. Completamente, da solo. «facciamo che ci vediamo fuori da qui» e per la prima volta, vide il Dottore sorridere – quasi dolce ed amichevole, la piega sulle sue labbra. «ti aiuterò io.» Ma… successero cose. Molte, molte cose, dal momento in cui le loro strade si divisero. Tipo una ragazza con una katana ed un orsacchiotto, e «ernest?» morto dissanguato. «oh no.» «…perché ti stai buttando addosso il suo sangue» «precauzioni: penseranno io sia stato aggredito – DOVE ANDIAMO» Ovunque la ragazza strana lo stesse portando, comunque, fuori di lì non rivide Zeke. Pace all’anima sua, probabilmente era stato ucciso anche lui.
«non… ci sono granite» piegò lo sguardo su Sharyn, prima di riportarlo sul ragazzo pieno di sangue davanti al banco degli alcolici. «ma mi avevano detto che potevo fare il cazzo che mi pareva» Isaac Lovecraft, sempre più confuso dal genere umano, batté le palpebre un paio di volte. «o…chei, ma non ci sono comunque granite? posso congelarti… un succo?» ma guarda te se, pure ad un party, doveva mettersi a fare da barista. Non che nessuno glielo avesse chiesto, o che ci si fosse messo volontariamente: era semplicemente stato placcato mentre cercava di prendersi un boccale di birra. «mmmh meh, no – BJÖRN??? ROAN??? MYGG???» socchiuse le labbra, osservando di soppiatto il ragazzo volare via verso gente. «cosa… ci hai capito qualcosa?» la Winston, che bionda lo era in ogni modo – la amava così – , scosse la testa debolmente, evidentemente più interdetta di quanto non lo fosse l’ex corvonero. «non dovrebbero far bere i minorenni» il che, detto da chi aveva fatto dell’alcolismo altrui, sin dai tempi della scuola, il proprio mestiere, era tutto dire su quanto quella festa lo stesse lasciando con l’amaro in bocca. Un mese prima, l’avrebbe preso molto diversamente quel prom. Sarebbe stato uno spasso, se l’umore – suo, e generale – non fosse stato sepolto tre metri sotto terra. «o movimentano questa roba, o sarà un fiasco totale» Detto fatto: country. «cosa» Old town road. «cazzo» Abbadon ed i suoi bellissimi regali. «sta» ??? «oh mio dio.» Si portò una mano alle labbra, l’altra a stringere le dita di Sharyn fino a farsi male. «c’è tuo fratello» mai, mai nella propria intera esistenza, Isaac Lovecraft aveva pensato di poter essere così felice di vedere Marcus. Anche perché, se c’era lui ed era davvero lui («oh mi sa che avevi ragione su lui e il winston»), ciò significava che. Significava che… SIGNIFICAVA «stILEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEES» Ovviamente, era stata la prima persona che aveva visto. Voleva soltanto farlo attendere perché lui lo aveva fottutamente atteso, quel primo giugno. Un giorno intero, aveva aspettato davanti al passaggio del locale che tornasse – e gli dicesse qualcosa, qualsiasi stronzata. Era una simulazione, Ike! Non hai idea di che figata sia stata!!! Per un mese intero, avrebbe soltanto voluto dirgli che cazzo Stiles, dovevi portarmi con te!!! Perché avrebbe dovuto essere con lui – e se non per salvarlo, almeno per essergli affianco. Invece aveva fatto lo stronzo. «sti – e levatevi - LEEEEEEEEEEEEES» leggiadro come un bisonte, volò sul palco e sulla schiena del migliore amico, avviluppandosi come la piovra ch’era. «STILEEEEEEEEEES» così, nell’orecchio, nel caso non si ricordasse il suo nome. Poi gli avrebbe chiesto cosa si provava a morire davvero – c’era andato solo vicino, lui. | |