Meara aveva già perso tutto una volta. Un padre, un fratello. Un appoggio, il suo stesso sangue che aveva promesso di proteggere dal mondo. Aveva avuto una seconda occasione per mettere le cose a posto, ma l’unico modo in cui l’avrebbe fatto sarebbe stato affianco ai suoi fratelli. Non avrebbe mai potuto abbandonarli in quel futuro incerto, sapendo che sarebbero morti lontano da lei, quella volta avrebbero ricominciato insieme. Si trattava di un salto nel vuoto, ma almeno sarebbe stato con loro.
Erano troppe, infinite quelle scale, ma Sersha aveva affrontato di peggio. Due anni nel far west? Cristo, avrebbe persino corso fino alla fine se avesse significato non dover mettere mai più piede in quella cittadina di merda. Quando iniziò a sentire l’eco di voci in lontananza, si precipitò davvero giù da quegli scalini di pietra, incurante dei piedi a scivolare a ogni passo affrettato e le ferite a sanguinare a ogni movimento – aveva percepito qualcosa, lei quelle voci le conosceva fin troppo bene. Le avrebbe riconosciute ovunque, non importava che fosse passato un anno. Sbucò in una stanza tonda, non dissimile da quella appena lasciata, cercando frenetica suo fratello; trattenne il fiato mentre gli occhi si posavano sui volti dei presenti, aveva paura che se si fosse mossa le sarebbe crollata la terra da sotto i piedi, non poteva essere così semplice. Quando mosse un passo in avanti e nulla mutò attorno a lei, realizzò che, vaffanculo, per una volta che la vita non stava tentando di fotterla si sarebbe presa quello che meritava. «BARRULY!» abbandonò ogni proposito di farlo a pezzi con le sue stesse mani quando il biondo si voltò verso i Freaks, per quanto lo odiasse per averli abbandonati il bisogno di stringerlo tra le braccia era più forte dei suoi propositi omicidi. La Kavinsky non amava il contatto fisico, ma per lui avrebbe fatto un’eccezione, qualsiasi cosa, purché non la lasciasse più. «la prossima volta dobbiamo legarti a sandy» eh, magari così non si sarebbe buttato tra le braccia della patata. Era più facile accoglierlo con la prima minchiata che le veniva in mente piuttosto con un qualsiasi mi sei mancato, quello, lo Skylinski lo sapeva bene che non era lo stile di Sersha. Sciolse la presa solo quando sentì lo sguardo dei Freaks bruciare sulla nuca, non prima di aver alzato loro un meritato dito medio, concedendosi quegli istanti di calma per guardarsi intorno: i suoi genitori erano lì, persino quei decerebrati dei vippini erano sopravvissuti (shook, non ci sperava nessuno). Fosse stata una Meara qualsiasi, non ci avrebbe pensato due volte prima di avvicinarsi a loro, ma Sersha? Aveva già sacrificato troppi parti di sé per le persone sbagliate, aveva il terrore di farlo ancora con loro, che non ne valesse la pena – e se fossero stati come tutti gli altri? Scosse la testa, preferendo riportare la sua attenzione sul fratello, c’erano tante cose che voleva raccontargli, come avevano usato delle pannocchie per sostituire la sua testa di cazzo per tutto quel tempo, come i Freaks avessero cantato sul palco un po’ malconcio di Bodie per quella giornata del broccolo che aveva trovato tanto assurda quando esilarante. Avrebbe voluto dirgli tante cose, Sersha, ma il loro tempo era scaduto. Per sempre.
Erano passati diciassette anni prima che conoscesse il significato della parola famiglia. Sersha non era ciò che Meara aveva sperato di essere, una creatura di gran lunga più tagliente e velenosa, che mai aveva aveva conosciuto il tocco amorevole di una famiglia. Sersha Kavinsky era nata sola al mondo, abbandonata in una cesta sulla porta di un orfanotrofio qualunque, lo scarto di un qualcuno che non aveva avuto posto per lei. Si era sempre sentita così, la serpeverde, sempre fuori posto, la bambina alla quale nessuno si sarebbe mai seduto affianco. Persino quando finalmente aveva trovato una famiglia era stata trattata come una merce e non come una figlia. I Freaks erano la prima vera famiglia che avesse mai conosciuto, non importava che non fossero legati dal sangue o che ognuno di loro fosse un po’ più rotto dell’altro, Sersha non pretendeva tanto. Qualcuno che la facesse sentire parte di qualcosa, che non la buttasse in uno scantinato per poi buttare la chiave, una spalla su cui poggiare la testa quando era stanca. I Freaks significavano più di quanto lasciasse intendere, troppo impegnata a fingere di essere troppo superiore a quel mondo per fermarsi e ringraziarli per esserci. Non chiedeva tanto, non la carità di Sandy né gli sguardi compassionevoli di BJ, a Sersha bastava che ci fossero. Poi, qualcosa era andato storto. Non l’aveva presto, capite? Erano sopravvissuti ad anni di abuso, di droghe iniettate nelle vene, di quel tedio che aveva finito per lasciarli scavati e vuoti. Erano sopravvissuti a una maledetta pestilenza, erano scappati da una realtà che non poteva garantire loro un futuro solo per anvere una seconda possibilità. E l’avevano avuta, qualche misero anno. Avrebbero dovuto avere una vita intera. Sersha Kavinsky era immobile, sorda ai pianti attorno a lei e cieca al sangue che bagnava la pietra. Trovava difficile persino respirare, troppo concentrata a fissare il punto dove il corpo di Barrow si trovava per ricordarsi di compiere funzioni così frivole. Non le importava nemmeno più, il suo cuore avrebbe potuto smettere di pompare sangue e ne sarebbe stata grata – voleva solo che finisse, quel dolore a lacerarle il petto, quell’esistenza che non aveva senso senza una parte di sé. Non era così che sarebbe dovuta andare, anche dopo un anno e mezzo passato a Bodie aveva sempre creduto che avrebbe ritrovato gli Altri - una speranza ingenua, futile, che aveva custodito nel suo profondo senza mai condividerla ad alta voce. E la sua parte più cinica, quella a cui si era aggrappata per diciannove anni, aveva avuto ragione a sussurrarle maligna nell’orecchio che sarebbe morta prima che sarebbe successo. Ci rivedremo all’Inferno, non era quello che aveva sempre detto allo Skylinski? Non ebbe la forza di sgusciare via dalle braccia di Sunday quando la avvolsero, cercando disperato un appiglio in quel mondo che stava andando a puttane troppo velocemente. Non era la sorella che si meritava, non era Meara, e non iniziò in quel momento ad esserlo. Si rifiutò di stringere il fratello a sé, sussurrandogli che sarebbe andato tutto bene, perché nulla stava andando bene: avevano perso Barry, avevano fottutamente perso qualcuno ancora una volta. A cosa era servito tornare indietro per salvare il mondo, se nemmeno riuscivano a prendersi cura gli uni degli altri? Aveva fallito, Meara. Cos’aveva detto, che almeno sarebbe stata con loro? Che avrebbero ricominciato insieme? Nulla aveva un cazzo di senso senza Barry a completare i due fratelli Barrow, avevano davvero aspettato tutto quel tempo solo perché finisse in quel modo? Era sbagliato, così fottutamente ingiusto che Sersha si rifiutava di accettarlo. Prendi me, supplicava il Fato, un’ultima preghiera sperando che non fosse troppo tardi. Eppure, era sempre troppo tardi, per chi di tempo non ne aveva mai avuto a sufficienza. Per chi, come loro, stava lottando con le unghie e i denti pur di guadagnarsi ancora qualche minuto. Voleva solo salutarlo un’ultima volta, bearsi di quel calore che ancora emanava, perché quando anche quello sarebbe scemato avrebbe significato che, di suo fratello, non c’era più traccia. Era morto davvero. Non l’aveva ancora compreso, Sersha, impegnata a metabolizzare quegli ultimi istanti. E quando finalmente lo realizzò, non le importò più di mantenere la facciata impassibile che l’aveva protetta tutti quegli anni, la morte del fratello aveva distrutto quell’armatura, non che ormai servisse più a qualcosa. Fu solo quando sentì una goccia salata bagnare beffarda le labbra che si accorse di stare piangendo, non aveva idea di quanto tempo fosse passato, né da quanto Sunday non fosse più l’unica presenza a stringerla. Sentiva il panico a soffocarla e quella fottuta paura a impedirle di pensare razionalmente, ma non ci fece caso, in quel momento aveva solo bisogno di qualcuno che la tenesse in piedi, perché senza un supporto era certa che sarebbe andata a pezzi. «non sarebbe dovuta andare così» la voce uscì in un soffio, spezzata dai singhiozzi che le scuotevano il petto, non sapeva nemmeno se nessuno la stesse ascoltando. Non che avesse importanza, quelle parole non erano per nessuno di loro – nessuno che fosse lì «credevo di avere più tempo» il problema era quello, per le Meara di quel mondo, credevano sempre di avere più tempo di quello che era loro concesso. Scosse la testa, staccando finalmente lo sguardo da dove era stato suo fratello, c’erano tante cose che avrebbe voluto raccontargli, come avevano usato delle pannocchie per sostituire la sua testa di cazzo per tutto quel tempo, come i Freaks avessero cantato sul palco un po’ malconcio di Bodie per quella giornata del broccolo che aveva trovato tanto assurda quando esilarante. Avrebbe voluto dirgli tante cose, Sersha, ma il loro tempo era scaduto. Per sempre.
In quel momento, la Kavinsky avrebbe dato qualsiasi cosa pur di sentire. Era stata privata da ogni emozione e persino le lacrime l’avevano abbandonata, quello che le era rimasto era un involucro privo di qualsiasi sentimento, ma non aveva idea di che farci. Non aveva idea di cosa fare di se stessa, se non lasciarsi cullare dalle familiari braccia della droga – era pulita più di quanto fosse mai stata nella vita, e nemmeno tutte le promesse che si era fatta aiutavano a far tacere quel bisogno così naturale. Voleva dimenticare, aveva bisogno di rifugiarsi in un altro mondo dove nulla potesse sfiorarla, sapeva bene che da sola non avrebbe dimenticato. Le bastava chiudere gli occhi per rivedere il corpo di Barry steso su una pozza di sangue, il suo corpo immobile mentre pregava i suoi muscoli di lasciarla avvicinare a lui, finché di lui non era rimasto nulla. Come se non fosse mai esistito, come se tutti quei morti non avessero significato nulla. Per cosa, poi? Perché suo fratello aveva dovuto morire, per quale motivo del cazzo? «vi ricordate-» dovette schiarirsi la voce per eliminare il groppo alla gola, interrompendo il silenzio che opprimeva la stanza: qualcuno doveva farlo «quando ha ingoiato tutto quello sciroppo scaduto perché credeva fosse allucinogeno?» e dire che l’aveva seguito, a quell’idiota di Barry. Quante cazzate che avevano fatto prima di essere strappati a quel tempo, si chiedeva quante sarebbero rimaste, e quante avrebbe finito per dimenticarsi. Aveva paura di dimenticare, Sersha Kavinsky, che un giorno ripensando a suo fratello avrebbe avuto solo qualche vago ricordo di quello che erano stati. Non sarebbe dovuta andare così. Non voleva crescere in un mondo dove Barry non sarebbe stato al suo fianco per ogni nuova minchiata, non voleva continuare a fingere che la sua assenza in quella stanza fosse normale. Eppure non importava quanto si rifiutasse di accettarlo, perché quella era diventata la sua nuova realtà, benvenuti a casa un cazzo. «ditemi che abbiamo nascosto qualcosa da bere anche qua» dubitava che l’alcool avrebbe cancellato i ricordi di quella giornata, ma poteva sempre provarci.
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