where did i go wrong?

[pq09] libera

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    Impassibile, Barnaby Jagger. Non un emozione sul volto tirato e sporco, negli occhi scuri e socchiusi. Guardava un punto ben preciso senza vederlo davvero, labbra strette fra loro e polmoni che non avevano bisogno di funzionare, per tenerlo in vita.
    I Jagger del mondo avevano quella fottuta maledizione di sopravvivere sempre, la virgola ironica di un universo che qualche passatempo, doveva pur trovarselo. Ed uno credeva di esserci abituato, che nulla potesse più scalfire un'armatura già spaccata ed aperta in più punti, sbeccata di sorrisi ipocriti e strette nelle spalle che avrebbero potuto dire tutto o niente.
    Uno ci credeva davvero, che non potesse andare peggio. Aveva bisogno di crederlo, perché tutti - perfino Barbie - avevano necessità di pensare che prima o poi, prima o poi, quel genere di merda sarebbe finita.
    E sapete, ma lo sapete, cosa c'era di peggio all'essersi già arresi all'amarezza del destino? Non essere riusciti a farlo mai. Sotto la scorza burbera e le nocche sempre lorde di polvere e graffi che faticavano a rimarginarsi, Barbie era un cazzo di ottimista, ancora scheggiato da un'esistenza in cui la speranza era stata l'unica cosa a spingerlo, ancora ed ancora, ad aprire gli occhi un altro giorno: ma era stanco, Barnaby. Era stanco, incompleto di tutto quel che aveva reso tollerante a Sander Bitchinskarden schiaffeggiarsi le guance ogni cazzo di mattina, scendere a fare colazione con il sorriso sulle labbra, e tirare un affettuoso coppino sulla nuca di Raymond. L'aveva fatto per loro, Sand; per Juno e Ray, per Levi e Jackie e Leslie, per i suoi genitori. L'aveva fatto per Dani e Jess, per James e Cliff.
    L'aveva fatto per la sua famiglia, Sander. E loro l'avevano fatto per lui senza neanche rendersene conto, con una pacca sulle spalle o un'alzata d'occhi al cielo; erano stati tutto quel di cui aveva avuto bisogno per crederci un po' di più - per essere un po' più coraggioso. Di motivi, come ben comprenderete, se ne aveva bisogno sempre, che altrimenti il groppo in gola diventava erba e radici e fottuti rami a trapassarti da parte a parte.
    Ben Jagger non aveva mai creduto in quel genere di speranza, cinico sin dal primo battito fra le mura dell'istituto londinese, fino a quando non aveva conosciuto Cassandra Lawrence. Gli aveva dato la speranza di poter essere un uomo migliore, qualcuno per cui valesse la pena; l'aveva guardato sul serio, senza scivolare su di lui con l'usuale sbuffo e l'ironico, ma neanche troppo, "sempre quel bastardo di un Jagger" con cui l'avevano liquidato per diciassette anni. Fino a Cass, non aveva saputo realmente cosa significasse esistere, a malapena conscio che vivere fosse già meglio di niente. Non si era reso conto, un ben più giovane ed innocente Barnaby, di quanto - di quanto - avesse avuto bisogno di qualcuno che gli sorridesse senza secondi fini, considerandolo come essere umano e non come errore di un sistema imperfetto. Era stata la prima, Cass, a fargli conoscere il significato di casa, di famiglia; la prima a privarlo della patina opaca con la quale aveva osservato il mondo fingendosi intoccabile. Un eguale.
    Un essere umano.
    Solo chi non aveva mai conosciuto la solitudine, poteva credere che fosse scontato essere considerato tale da qualcuno: perché quando non avevi un cazzo di nessuno, era un po' come non esserci affatto. Neanche comparsa nelle vite altrui, Barnaby - neanche sfondo. Come poteva, dico, come poteva considerarsi ragazzo, e poi uomo, senza qualcuno che lo riconoscesse come tale? E lei l'aveva fatto, a discapito delle voci e dicerie del sobborgo; non le era interessato cosa potessero pensarne gli altri, quando gli aveva stretto la mano nella propria nella locanda dove lavorava. Vivo, un cuore pulsante e giovane a ticchettare giorni infiniti nello sterno. Se l'era bruciata tutta quella vita, il fu Ben; se l'era vissuta a cento all'ora, quella felicità dell'esserci - dell'esserci per qualcuno.
    Era cresciuto solo, ma non aveva mai conosciuto la solitudine. E quando Cass, in grembo un figlio che non avrebbe mai visto la luce, era morta in uno dei bombardamenti sulla città, Barnaby aveva scoperto di cosa, poesie ed anziane con gli occhi tristi e le rughe agli angoli delle labbra, parlassero: perché solo da quel giorno, Barnaby Jagger, aveva saputo il significato di solitudine. Vuoto, senza più nulla da perdere o trovare.
    Arreso, Barnaby. Giorno dopo fottuto giorno, mese dopo fottuto mese, soldato dopo soldato con il petto squarciato e l'intestino all'aria, s'era arreso al fatto che a quel vuoto, avrebbe dovuto farci il callo; che da quel genere di solitudine, non se ne usciva mai. Ti consumava di giorno, e di notte ti masticava ricordandoti che l'indomani non sarebbe stato differente, e che fino a che quell'indolente muscolo cardiaco avesse avuta voglia di battere, la tua vita sarebbe andata così - in un sospiro sempre di troppo, in un respiro che neanche avevi intenzione di fare. Una morte lenta e inesorabile, una tortura che straziava mente e petto senza discriminare. Che peggiorava sempre, perché a Cass si aggiungevano Howard e Toby, a Toby si accodavano Jones e Doyle, ed altre migliaia di nomi che Barnaby, Dio!, avrebbe voluto dimenticare, e che fottutamente non poteva: i suoi commilitoni, la sua squadra. Barnaby Jagger era sempre quello che sopravviveva, quello che non era riuscito a salvarli. Diventava quasi divertente, quando non ti svegliava nel cuore della notte con la tachicardia e le lacrime a pungere la gola senza riuscire a uscire. Non aveva mai pianto, Barbie. Se l'era domandato spesso, il perché, ma non era mai riuscito a trovare risposta: forse non t'importava abbastanza, Jagger.
    O forse gli importava così, oh così, tanto, da non avere la forza neanche di piangerli; andava avanti, per loro. Andava avanti perché c'era tutto un mondo che Cass e Howard e Toby e Jones e Doyle non avevano mai potuto vedere; andava avanti perché non si meritava il sollievo della morte, Barnaby Jagger.
    Doveva espiare le proprie colpe. Doveva svegliarsi, e sapere, sapere, che anche quel giorno non sarebbe morto; che sarebbe sceso sul campo di battaglia, ed avrebbe ucciso, ed avrebbe assistito impotente alla morte dei suoi compagni, e sarebbe guarito da ferite che sarebbero state letali a chiunque altro - ogni giorno, ogni cazzo di giorno. Miracolo, aveva bisbigliato qualcuno nel vedere il Jagger uscire incolume da una pioggia di piombo.
    E come glielo spiegava, Barnaby, che di modi per morire ce n'erano un milione e lui li aveva sperimentati tutti; che un cuore a battere, non significava nulla.
    Bodie non aveva cambiato un cazzo, nella già grigia esistenza di Barbie. Si svegliava; si dava una pacca sulla spalle balbettando che beh, bastardo, ci rivediamo un altro giorno; lasciava che i contadini vedessero in lui il capro espiatorio per ogni male del mondo, che tanto, di biasimarli, davvero non se la sentiva; permetteva che bruciassero metodici ogni tetto che riusciva a calarsi sopra la testa; sospirava; pregava Dio che per una volta, una fottuta volta, l'alcool potesse entrare in circolo abbastanza da rendere tollerabile quel cazzo d'inferno in carne e sangue.
    Non aveva speranza. Non aveva un quarto di motivo per cui vivere, Barbie, e non si sforzava per trovarne. A che scopo, se finiva sempre per essere l'unico a lasciare la stanza, tornando in un letto vuoto fra quattro mura vuote? Aveva smesso di esistere, ed il mondo gliel'aveva permesso. E sapete, ma lo sapete, cosa c'era di peggio del non riuscire ad arrendersi all'amarezza del destino, ma non riuscire a trovare un fottuto motivo del cazzo per giustificarlo? Trovarlo: perché nella vita di Barnaby Jagger, nulla era destinato a rimanere.
    Ricordava di aver trovato buffo, l'accento di Floyd Villalobos. Ricordava di aver trovato assurdo come il cipiglio severo del ragazzo cozzasse con il sorriso cordiale; come la farina a sporcare le dita, poco avesse a che fare con la postura elegante.
    «hola»
    Così. Così, a caso, tanto che Barbie aveva dovuto guardarsi attorno, sopracciglia corrugate nel cercare a chi il panettiere si stesse rivolgendo. Perché lo sapete, ma lo sapete, quanti mesi erano passati da che qualcuno avesse parlato con Barnaby Jagger? Salutarlo, poi - perché avrebbero dovuto? Non era nessuno, se non il balbuziente a cui bruciare casa per un Dio che aveva smesso di guardarli da un pezzo. E non aveva capito, Barbie. Anni dopo, ancora non riusciva a comprendere il perché di quel sorriso gentile, dell'occhiata curiosa con la quale Floyd aveva risposto al suo «m-ma c-c-ce l-l’hai c-c-con m-me?». Non aveva mai, mai fatto un cazzo per meritarsi quel sorriso, Barbie; perfino il giorno in cui si erano incontrati la prima volta, quando il Villalobos aveva fatto notare ci fosse solo lui e non potesse rivolgersi ad altri, Barbie se n'era andato senza replicare, mugugnando fra sé che non avrebbe comunque comprato le sue baguette. Perché era fatto così, Barbie; perché l'avevano fatto diventare così, ruvido e incapace di accettare che il mondo, sotto sotto, meritasse sempre seconde e terze possibilità. Ed in maniera del tutto irrazionale e primitiva, era stato naturale per Barbie ritrovarsi sempre a cercarlo nella folla; ad allungare la strada per passare di fronte alla panetteria, a resistere un po' di più alle torve occhiate dei Bodiotti che avrebbero voluto vederlo al rogo. Attratto come una falena alla fiamma, la disperazione irragionevole di essere guardato ancora, solo per un secondo; di esistere un altro momento, perché Dio se si sentiva solo, Barnaby Jagger. E l'aveva odiato, e l'aveva preso in giro, e gli aveva stretto un braccio attorno alle spalle fingendo di saperne più di lui, di quel mondo - e mai, Barbie, aveva detto a Floyd Villalobos che gli avesse salvato la vita. E che non gli ci era voluto niente, e che quel suo niente per il Jagger era stato un tutto del quale non credeva di avere più bisogno. Non era mai stato bravo con le parole, e da quando sputarle era diventato così, così difficile da lasciarlo privo di fiato, aveva smesso di provare a farlo: ma avrebbe dovuto, perché Floyd meritava di saperlo. Meritava di sapere che la sua seconda, terza occasione, aveva permesso ad un Barnaby Jagger di tornare a sorridere. Che il suo essere così Floydito, aveva fatto ricordare a Barbie che respirare, in fondo, non fosse così male come aveva creduto. Era bastato così poco, così fottutamente poco; Barbie ne aveva avuto così bisogno, di quella gentilezza non intenzionale. Nulla di personale, nella cordialità di Floyd; ma come lo si diceva, a qualcuno, che la vita con loro pesava un po' di meno. Che erano anni che cercava d'esistere, e solo lui gliel'aveva permesso. Non era fatto per certe questioni, Barbie, eredità di una vita in cui tutto l'aveva sempre detto tardi: una lettera lasciata alle madri, una canzone suonata alla tomba di papà Jeremy, un racconto dettagliato di come Levi, alla fine, fosse davvero un tipo forte a Andrew. A Ray e Juno neanche l'aveva mai detto, quanto li amasse. A Dani, di certo, non l'aveva fatto.
    Non ce la faceva a rientrare nei tempi. Non ce l'aveva mai fatta, a non arrivare tardi. E guardava il punto dove fino ad un attimo prima giaceva Floyd, il suo amico, domandandosi perché cazzo - perché cazzo - non gliel'avesse mai detto. Perché cazzo non fosse rimasto a casa, anziché andare a morire in un tempo che neanche gli apparteneva. Voleva solo andare a casa, Floyd - e Dio, buon Dio, Barbie voleva solo portarcelo.
    Guardava ancora quell'angolo di stanza, Barbie, sordo e cieco a qualunque cosa che non fosse la chiazza di sangue laddove s'era trovato il corpo di Floyd, incapace di staccare lo sguardo: se avesse smesso di guardare, anche solo per un istante, se ne sarebbe andato davvero. E non poteva permetterselo, Barbie; non quando gli aveva detto che ancora un p-p-paio di s-stronzi e t-t-torniamo a c-casa, f-floydito: perché quello gliel'aveva detto, Barbie. Quel che non gli aveva detto era che casa non l'aveva avuta, prima di lui.
    E prima di Mads.
    Madeleine Wesley era stata la seconda persona in quel di Bodie, California, a vedere in Barbie qualcosa che valesse la pena d'essere guardato. Qualcosa di buono, non l'ennesimo scarto partorito da corruzione e marcio. Credeva in lui, Mads; malgrado Barbie non le avesse mai dato motivo per farlo, credeva in lui.
    E lui aveva lasciato uccidessero Floyd. Era stato li, capite; li, a pochi passi, impegnato ad agitare la mazza per liberarsi dell'ultimo paio di stronzi così che potessero tornare tutti a casa - insieme. Non l'aveva salvato. Floyd l'aveva fatto, con Barbie; Mads l'aveva fatto, con il Jagger
    E lui aveva permesso che il Villalobos morisse. Come poteva, come poteva, guardare ancora in faccia Madeleine; come poteva, come poteva, guardare ancora in faccia se stesso. Come poteva dirlo a Pepito, quel ragazzino strambo di cui il Villalobos gli parlava sempre con, se permettete eccessivo, entusiasmo: quella passione per i casi umani, il Jagger, faticava a comprenderla.Ma non aveva mai avuto bisogno di farlo, perché fino a che a Floyd fosse andato bene un Barbie, Barbie non sarebbe andato ad indagare i come ed i perché: non voleva cambiasse idea.
    Ed era morto. Era morto così, solo, in un battito di cuore rubato e strappato. Non gli avevano neanche dato la possibilità di chinarsi al suo fianco, e ricordargli ancora quanto fosse un p-p-peruviano d-del c-c-cazzo mentre gli stringeva una spalla fra le dita. Solo. L'aveva lasciato solo, e per cosa? Per una guerra che non era neanche la loro. L'aveva lasciato solo per Gwen, per Arci e Aidan, per Darden e Jay, perché voleva essere un po' più come Floyd ed un po' meno come se stesso: fare la cosa giusta, sapete. Occhi asciutti, quelli di Barnaby Jagger. Riusciva ancora a vederlo, con quel viso t-t-troppo b-b-bello, b-basta m-mi r-r-rovini l-la p-piazza, b-b-bestia e le spalle ancora dritte, sotto vestiti sporchi di oh, così tanto sangue. C'era stato, per Barbie; buon Dio, c'era stato perfino per Frankie, e per una - una! - volta in cui avrebbe dovuto esserci lui, per Floyd, non c'era fottutamente stato.
    Perché
    Perché
    Perché.
    E li odiò tutti, Barbie. Odiò fottutamente tutti per aver portato solo morte nella tranquilla vita di Bodie, e per essere così fottutamente Darden e Gwen e Aidan e Arci e Jay e Run e Gemes e Freaks piccoli bastardi da convincerli a quella follia, per loro. Ed avevano i loro morti da piangere, e cosa gliene fotteva, oramai, di un Villalobos; quanto potevano sbattersene di essere riusciti, ancora una volta, ad aver distrutto un Barnaby qualunque: erano a casa, loro.
    E la cosa
    Peggiore
    Era che
    Non ce la faceva, ad odiarli.
    Odiava se stesso. Odiava Sander per quella trovata del cazzo del 1894; odiava aver quasi sperato di rimanerci, in quel mondo, così da rubare un po' della vita che non aveva potuto avere; odiava aver visto morire le persone che, un giorno, avrebbero cresciuto un altro Barbie, o Sander, o il nome di merda che gli sarebbe capitato in una prossima vita. Odiava che quella merda ingrata di Barrow fosse morto prima che Sersha e Sunday potessero insultarlo a dovere; odiava i suoni che sgusciavano dalle labbra di Dakota Wayne; odiava Tupperware per avere sempre quel fottuto sorriso nelle foto, e non avergli dato il tempo di vederlo.
    Odiava l'idea di dover guardare Mads, e dirle - dirle che in fondo, avevano sempre avuto tutti ragione, e che non era buono. Il sangue di Floyd Villalobos, era anche sulle sue mani.
    Non ho fatto in tempo, Mads. Cristo, non so come sia successo. Porca troia, ero qui - giuro, ero qui - mi dispiace, Santiddio Mads, era già morto, non ho potuto fare un cazzo, Mads, e adesso?. Le spalle incurvate, il sangue a gocciolare dal mento al collo.
    Se n'è andato, Barbie. Puoi battere le palpebre. Puoi -
    No. Onestamente, vaffanculo: si rifiutava di crederci. Non poteva sempre andare tutto così a puttane, no? Doveva essere una specie di scherzo di quel secolo, un - un rito di passaggio.
    Ed allora perché tutti piangono, Barbie. Ed allora perché si respira morte, Barbie - e l'hai sentito. L'hai sentito, che non c'era più. Non vedeva nulla se non quel triangolo di pietre, Barbie; non vedeva se ci fosse Mads, impegnata a cercare di fermare l'inevitabile, o se qualcun altro fosse passato a volgere un falso, ipocrita, ultimo saluto.
    Non sentiva niente, Barbie.
    Sai cosa devi fare. Non c'è più niente che puoi fare per lui, se non -
    Come poteva. Non era buono, non era coraggioso, e - cazzo!- voleva rimanere nella sua bolla e continuare ad odiarli tutti, il Jagger.
    Ma stanno morendo, Barbie.
    Lo sapeva. Li sentiva. E se ne sarebbe anche sbattuto il cazzo, se solo la sua coscienza non avesse avuto la voce del Villalobos: perché Floyd, non avrebbe esitato un attimo. Il Jagger, quel coraggio li, non ce l'aveva mai avuto.
    Ma poteva provarci, per lui.
    Almeno quello.
    Ed inspirò, ed espirò, e si costrinse infine a battere le ciglia e tenere gli occhi chiusi solo un secondo più del dovuto.
    Avrebbe potuto dire tante cose, a Floyd. Avrebbe dovuto. Ma che gli rimaneva da fare, nel volgere le spalle allo spazio lasciato vuoto dal ragazzo per andare a curare quelle merde ingrate che, Dio, non voleva vedere mai più nella vita, se non «a-adios, p-p-peruviano d-del c-c-cazzo» con una voce difficilmente riconoscibile, crepata in più punti di quanto non fosse rotta: perché un po' se l'era aspettato, ed un po' c'era abituato, ed un po' era semplicemente stanco di essere lo stronzo che rimaneva a raccogliere i cocci e chiedersi dove cazzo avesse fallito.
    Non li guardò. Non volle dare nomi ai pezzi di carne su cui fece scivolare il proprio potere, perché non voleva sapere, Barbie, e non voleva cercare, e non voleva dire a Lila che suo fratello fosse una delle persone migliori che avesse mai fottutamente conosciuto e che non sono riuscito a salvarlo, delilah. Tanto cosa gliene poteva sbattere, a quella gente, di un Barnaby Jagger qualsiasi che di sbagliato non aveva solo l'epoca d'appartenenza.
    Ed avrebbe voluto gridare. Avrebbe voluto picchiare qualcuno, e sbraitare che fosse colpa loro, ed aggrapparsi alla rabbia perché era maledettamente meglio degli occhi a bruciare ed i polmoni a fuoco: ma voleva essere migliore, Barbie.
    Per Floyd. Non l'aveva reso fiero in vita; almeno li, ed almeno così, poteva provarci: che a dire a Dio che avrebbe dovuto morire lui, e non il Villalobos, dubitava di poter ottenere qualcosa; un bel dito medio funzionava meglio di cento preghiere.
    Infilò una mano nella tasca dei pantaloni, raccogliendo un pacchetto di lucky strike sporco di sangue e stropicciato. Finse di non accorgersi delle mani a tremare; finse che il «q-qualcuno ha d-da accendere?» non fosse un vaffanculo, Floyd, questa non dovevi farmela.
    E sapete, ma lo sapete, cosa c'era di peggio del non riuscire ad arrendersi all'amarezza del destino, e trovare poi un fottuto motivo del cazzo per giustificarlo? Perderlo: perché nella vita di Barnaby Jagger nulla era destinato a rimanere, ma faceva sempre un male fottuto.
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco


    Edited by ‚soft boy - 4/2/2021, 00:38
     
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    Sapete, era quello che Godric aveva temuto più di ogni altra cosa. Non la morte, o il fallimento, o la perdita - erano tutte cose a cui, più nel male che nel bene, aveva fatto l'abitudine. Era quel non sentire niente, quell'assoluta impassibilità che poteva anche passare per semplice freddezza nella vita di tutti i giorni, ma che in circostanze come quella diventava scomodo, decisamente inopportuno. Perché era assurdo starsene lì, tra persone che avevano perso i propri cari ed altri a cui non era rimasto più niente, e non riuscire a comprendere che cazzo avessero tutti da piangere. Avrebbe forse cambiato le cose? Avrebbe forse riportato indietro i morti? No, cristo, non l'avrebbe fatto, o i suoi genitori da quella dannata casa in fiamme sarebbero usciti, ed ora lui non sarebbe stato costretto a convivere con Deja-Fuckin-Osborne.
    E da una parte poteva ritenersi quasi fortunato, perché almeno non era costretto a dover provare tutto quel dolore, tutta quella sofferenza, tutto quell'insieme di cose che alla gente faceva venir voglia di gridare, e di lacrimare, e di lasciarsi scivolare sul pavimento, ma dall'altra lo faceva sentire così terribilmente fuori posto, così non umano - e non che fosse necessariamente un male, ma a volte - quasi sempre - essere un Godric Osborne gli faceva venir voglia di morire.
    Incrociò lo sguardo di Chelsey e non disse niente, non mosse un solo muscolo, ma restò a fissarla quel tanto necessario a formulare chiaramente due pensieri: che, per quanto avesse odiato lei, Edward e Jekill in quel tempo di forzata convivenza, era in qualche modo sollevato dal saperla viva; che, avercela vicino, gli ricordava che anche Dante, e Ryan, e Jack erano lì da qualche parte, e che potevano non esser stati fortunati quanto lei.
    E da una parte voleva correre a cercarli, sul serio, ma dall'altra aveva un po' paura di ciò che avrebbe trovato. Che poi, non era neanche paura, era - stasi, ecco, perché se fossero morti lui avrebbe preferito non saperlo mai, mentre se fossero stati vivi lui non avrebbe saputo cosa dire o fare per essergli d'aiuto. Perciò, ancora, che senso aveva?
    «q-qualcuno ha d-da accendere?» e per un attimo ignorò quella voce, perché in fondo non glien'era mai fregato un granché degli altri, ma poi si rese conto che avrebbe persino rinunciato alla propria quieta pur di poter rimandare ancora di qualche minuto la verità, qualunque essa fosse. Si ricordò persino d'avere ancora una sigaretta in tasca, quella che aveva preso dal Dumont prima ancora di scendere nei sotterranei e, paradossale, gli venne persino voglia di fumarla. Godric Osborne, che fumava: il mondo doveva proprio aver preso a girare all'inverso. La infilò tra le labbra, estrasse la bacchetta e la puntò prima verso la sigaretta del Jagger, poi verso la propria.
    «trattenere il pianto indebolisce le difese immunitarie» commentò atono, tossendo via un po' di fumo ed avvertendo la gola bruciare fastidiosamente «ma neanche risolverà i tuoi problemi» si strinse nelle spalle, cercando con lo sguardo un Dante tra la folla, uno che fosse ancora vivo magari «tanto è una merda in ogni caso» ed ecco, quello era il massimo grado di conforto che fosse capace di fornire, ed era già più di quel che avrebbe fatto nella norma.
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    Respirava appena, Jeremy Milkobitch; gli occhi socchiusi e le orecchie sorde al caos generale, abbandonatosi su di un masso smosso dalla scossa di terremoto di minuti, ore, giorni, vite intere prima, lui respirava appena. Incapace di fare altro, per ovvietà più che per mera voglia o spirito di sopravvivenza: non gli era stato concesso di scegliere altrimenti, dopotutto. Ma non eccedeva. Si limitava ad incamerare quieto quel poco d’ossigeno che gli permetteva di non collassare, di cadere al suolo e lasciare che fosse il proprio corpo stanco a prendere il sopravvento su quella poca forza di volontà residua – o che tale credeva fosse: a quel punto, ed a quel Jeremy, non era più in grado di dire se ne avesse ancora. Molto più probabilmente, era mero automatismo quello che lo spingeva avanti; inerzia, perché era tra i maledetti fortunati ad avere ancora la possibilità di lasciarsi trascinare a peso morto tra sangue e polvere.
    Ed a tratti, infiniti ed infinitesimali, lo sguardo fisso da chissà quanto su quella macchia scarlatta ancora fresca e densa, anche quella pareva venire meno: sembrava rifiutarsi, il suo organismo, di sopravvivere. Lo capiva, quando lo costringeva ad ansimare tra i denti stretti; non poteva dargli torto, quando l’aria s’addensava nei polmoni – bruciandoli, graffiandoli di profonde ferite. A tratti, infiniti ed infinitesimali, avrebbe voluto che qualcuno andasse da lui e gli posasse le mani sulle spalle, che cercasse le iridi azzurre, e gli dicesse che poteva anche smettere – che avrebbe inspirato ed espirato al posto suo, perché vedeva quanto facesse male; che gli facesse notare che non sei obbligato a farlo, Jerry, nessuno ti sta puntando una pistola alla testa: smettila, se non ce la fai più.
    Perché a conti fatti, il Milkobitch non ce la faceva più. Non ce la faceva più a fare troppe cose – respirare, trattenere le lacrime, stringere i pugni, tenere lo sguardo basso; sopravvivere, quando gli altri attorno a lui decidevano di non farlo.
    Ma non avrebbe potuto credere a quel qualcuno, se fosse andato lì a dirgli certe cose; decisamente più plausibile, che ne avrebbe approfittato per tirargli un pugno in faccia – un modo come un altro per scaricare quel tutto che pesava nel petto e sulle spalle. Perché non era vero che non ci fosse nessuno a costringerlo. Non era vero, che se avesse voluto avrebbe potuto smettere: sarebbe stato più facile, troppo più facile, ma non era così.
    C’era sempre qualcuno. C’era sempre qualcuno per cui continuare, ed il tassorosso non riusciva a fare a meno d’odiarlo: era l’unica cosa che gli era rimasta da fare, l’unica alla quale riuscisse ad aggrapparsi come un naufrago su di una trave in mezzo all’oceano. Ché lo sentiva, sotto le pelle e la carne, che se gli avessero tolto anche quello avrebbe smesso di funzionare.
    Già di suo, funzionava male: non avrebbe saputo cos’altro fare, se non quello.
    Non avrebbe saputo chi essere.
    Odiava suo fratello, per essere rimasto indietro. Per non essere riuscito a seguirlo oltre la porta, per non essergli stato affianco mentre tutto andava lentamente più a puttane; non glielo diceva spesso, non glielo diceva mai, che nonostante il loro rapporto fraterno non fosse esattamente dei più idilliaci, lui era l’unico che fosse sempre rimasto: allora perché non lo aveva seguito, Todd? Perché, se aveva deciso di prendere parte a quella merda, non era andato fino in fondo con lui?
    Odiava Heidrun Ryder Crane, e quella sua fottutissima smania di farsi rapire a giorni alterni e sparire per mesi, anni interi dalla sua vita: glielo aveva detto tramite uno specchio, in quella che sembrava essere una vita prima, quanto gli avesse rotto il cazzo con quella storia – quanto non gli interessava che non fosse colpa sua, colpa loro, se erano stati catapultati nel maledetto Far West. La odiava perché, in quel sorriso che le aveva rivolto non appena tornata, prima che potesse capire, tutto sommato lo sapeva non sarebbe rimasta a lungo. Lo temeva, che da un giorno all’altro avrebbe dovuto nuovamente fare i conti con la consapevolezza che Run se ne è andata, è sparita di nuovo, non ho idea di dove sia. La odiava perché gli era mancata così tanto, così tanto, che avrebbe voluto avere soltanto la forza di alzarsi e abbandonarsi tra le sue braccia – di strapparla alla cugina, ai ragazzi che si era portata dietro dal passato, di impedirle d’andare da loro e rimanere con gli occhi chiusi e la testa tra i capelli corvini.
    Odiava Archibald fottuto Leroy perché, sostanzialmente, era una merda – non una novità: se glielo avesse detto in quel preciso istante, il serpeverde avrebbe fatto spallucce ed accusato il colpo con un sorriso; non c’era stato un giorno da otto anni a quella parte in cui non aveva fatto presente al finto francese, tra risa e pugni sulle spalle, quanto fosse uno stronzo. Solo che, tra macerie e sangue, un po’ lo pensava davvero. Perché Bells aveva già perso il fratello una volta, e lui aveva perso sua sorella più volte, ed Oscar se n’era andato: cazzo, come si era permesso di sparire anche lui? Tra tutti, doveva saperlo che non gli era concesso un tale lusso – si era fatto una famiglia, aveva addirittura dei figli, e senza di loro.
    Odiava Nicole per averlo tirato a sé, per aver cercato di consolarlo, per avergli permesso di poggiare la fronte sulla sua spalla e di stringerle le braccia alla vita: perché aveva un’idea di come ci si sentisse, a perdere un fratello senza poter muovere un dito per salvare la sua vita; perché non era dovere della psicomaga, quello – avrebbe piuttosto dovuto essere lui, a mentirle dicendole che l’avrebbe superata in un modo o nell’altro. E la odiava, Dio se la odiava!, per quel siamo ancora una famiglia, lo saremo sempre; perché nel momento in cui se ne sarebbe andata – oh!, certo che se ne sarebbe andata: senza colpe sia chiaro, ma aveva la sua vita, e per quanto si fosse affezionato non era così sciocco da credere che ci fosse ancora qualcosa a legarli -, anche lei avrebbe lasciato terra bruciata attorno al Milkobitch. L’avrebbe fatto comunque, ma fino a poco prima poteva illudersi che non fosse vero. Che la Rivera, andandosene, non avrebbe lasciato alcuna orma – alcun vuoto.
    Odiava Jason, ed odiava Barrow: come avevano osato lasciare un compagno di droga da solo? Come avevano osato morire, senza prima raccontargli dei tipi di sostanze stupefacenti che avevano scoperto nel futuro? Come avevano osato, fare quello a Dakota, a suo cugino, a quei sociopatici ch’erano la sua, e di Bells e di Arci, eredità?
    Odiava Jess, ed odiava Erin: non avrebbero nemmeno dovuto essere lì, loro. Non sapeva nemmeno come, o con che forza ci riuscisse, ma le odiava; sarebbero dovute rimanere a casa, loro. Erano troppo piccole, e troppo pure, per quello – santiddio, solo pochi minuti prima si era ritrovato ad afferrare la Chipmunks di peso ed assicurarle che andasse tutto bene, che era solo un po’ di sangue, che tra poco sarebbero potuti tornare a casa a farsi una doccia ed a togliersi di dosso tutto quanto.
    Ed odiava, oh!, quanto odiava, Andrew Stilinski.

    Sono solo un paio di taglietti.
    Abbiamo quasi finito, mh.


    Perché si era fidato, Jeremy. Si era fidato di Stiles dal primo momento in cui lo aveva conosciuto meglio, mettendo piede nel suo studio per saltare qualche ora di lezione e fargli da assistente. Si era fidato perché gli era stato impossibile farne a meno – troppo gentile ed impacciato, troppo sincero in ogni goffo tentativo di interazione sociale per fargli pensare ci potessero essere doppi fini di alcun genere nel suo comportarsi.
    Ed aveva sempre pensato di fare bene, sapete? Ogni volta che gli capitava di pensare a quanto male gli avesse fatto affezionarsi, a quanto duro fosse stato il colpo preso tra capo e collo, si ritrovava a ripetersi che lui era diverso – soprattutto da lui: così tanto, che non aveva un cazzo di senso la mano stretta nella sua, le labbra premute contro quelle del tassorosso; così tanto che era perfettamente logica la necessità asfissiante di richiederne ancora, e di sentirne l’assenza ora dopo giorno dopo mese. Non credeva nell’amore, il Milkobitch: non aveva avuto buoni esempi di vita, non l’aveva mai visto come una cosa sana – ancora ricordava di come la sua adorante madre parlasse di suo padre, prima di spingersi l’ago di una siringa nelle vene; ancora poteva vederla, se si sforzava, mentre supplicava al proprio cuscino di farlo tornare da lei.
    Ma aveva creduto in Stiles, più di quanto non avesse mai ammesso di fronte a lui. Aveva creduto in lui, perché lui aveva creduto in Jeremy: dopo Run e Todd, dopo Arci e Bells, era stato l’unico a farlo sentire… necessario. Non indispensabile, ma utile; adeguato, in qualche modo che per primo il moro era incapace di comprendere.
    E come avrebbe potuto non farlo? Per lui, Stiles c’era stato in qualsiasi momento. Anche quando aveva alzato troppo il gomito, o quando proprio non ce la faceva – ma senza che glielo dicesse, perché era troppo Stiles per farlo; aveva iniziato a capirlo da solo, ad un certo punto, ma non aveva comunque smesso di parlare di sé, dei suoi problemi: magari così, si diceva, magari così pensa ad altro. C’era stato anche quando non era più costretto da quella stronzata che ancora chiamavano finzione, anche quando non avevano idea di cosa fossero l’uno per l’altro – troppo stupidi per capirlo, troppo certi che per l’altro non fosse la stessa cosa.
    E non credeva nell’amore, il Milkobitch, ma forse Andrew Stilinski lo aveva amato davvero. Forse stupidamente, forse perché nascondersi nel tepore che gli dava sentirsi apprezzato da lui lo faceva sentire una persona migliore – ma lo aveva amato.
    Ma glielo aveva detto, di essere troppo buono per quella vita. Glielo aveva detto, che l’avrebbe masticato e sputato una volta di troppo; che era il perfetto capro espiatorio per chi non sapeva dove puntare il dito. Che avrebbe dovuto smettere d’essere così, almeno un poco.
    E che doveva rimanere a casa, che doveva rimanere al sicuro – che non voleva perderlo, però, non glielo aveva detto: scontato, dozzinale; non era una maledetta biondina di dodici anni, santo cielo. Ma non era sua madre, in fin dei conti: che diritto aveva, di non lasciarlo andare a riprendersi i suoi amici e la sua famiglia? Ci sarò io a proteggerlo, s’era detto.
    Finirà che rimarremo solo noi, Milkobitch – gli aveva detto. E si era fidato delle sue parole, Jeremy.
    Si era fidato troppo, delle sue parole: perché alla fine, anche lui lo aveva lasciato. Fino alla fine, fino alla fottuta fine, aveva creduto che almeno lui non lo avrebbe abbandonato: sapeva quanto avesse perso, quanto facesse male – aveva conosciuto lo stesso dolore sulla propria pelle, Stiles. Ma lo aveva fatto comunque.
    Forse… forse invece non si era semplicemente fidato abbastanza, del tassorosso.
    In fin dei conti, glielo aveva detto dal principio che non avrebbe funzionato, tra di loro.
    Aveva ragione.

    Si alzò, le gambe pesanti e la mente sconnessa, muovendosi come un automa verso l’unica meta che avesse urgenza di raggiungere. Perché alla fine, sapete qual era la cosa più difficile?
    Che non poteva odiare nessuno di loro.
    Non aveva deciso Todd, di rimanere incastrato.
    Run alla fine era tornata, e tornava sempre ed era fottutamente viva.
    Poteva stringere di nuovo Arci, fargli pagare concretamente tutto il tempo che aveva passato lontano da loro.
    Nicole aveva più bisogno di lui di quanto probabilmente non ne avesse Jeremy di lei, e non si sarebbe tirato indietro – e se fosse tornata alla propria vita, se se lo fosse lasciato indietro, sarebbe stato meglio per lei: avrebbe significato che fosse andata avanti.
    Erin e Jess, Jason e Barrow – non avevano alcuna colpa, se non quella di essere stati gli agnelli sacrificali di una forza che non potevano davvero contrastare.
    Stiles lo aveva fatto sentire meglio di quanto non si sentiva da anni: accettato, amato, utile. Avrebbe soltanto voluto avere un po’ più di tempo per farglielo capire. Avrebbe soltanto voluto che lo avesse capito prima, che non poteva essere suo amico se quel che voleva era di più.
    Sapeva di non essere l’unico a soffrire, il Milkobitch – era solo stanco, di doverlo fare continuamente. E quell’odio, alla fine, era soltanto un modo di colmare il vuoto che avevano lasciato i caduti di quella guerra.
    Passerà.
    Ma non passava mai – e Jeremy Milkobitch, rimaneva sempre quel bambino che attendeva sul portico il ritorno di una madre che non avrebbe mai più visto. Imparava solo a conviverci, distruggendosi.
    «murphy…» mi dispiace, so che non è il momento giusto, ma non ce la faccio. Ti prego perdonami, non odiarmi. Deglutì, incapace di dire quanto gli dispiacesse – per tutto, per tutto -, prima di prendere le sue mani e far scivolare sul palmo tre piccole sfere. Non riuscì nemmeno a guardarla negli occhi: non voleva vedesse quanto fossero rossi. «avrebbe voluto li tenessi tu» non disse che parlava di Stiles, ma sapeva ch’ella avrebbe compreso comunque. Era stata la prima cosa che aveva pensato, quando aveva visto le pokéball scivolare lontane dal corpo esanime dello Stilinski: gliene aveva parlato così tanto, della cugina di Run, che ormai la conosceva quasi più di sua sorella. «mi… mi dispiace»
    A quel punto, l’unica cosa che avesse voglia di fare era sprofondare tra le braccia della Crane – supplicarle di portarlo a casa, di portarlo via, che quello era troppo anche per lui. Che lei alla fine era tornata, ma gli altri se ne erano andati.
    E non erano tornati.
    Invece, vagando come l’anima in pena qual era, dopo aver lasciato l’unica cosa che gli fosse rimasta di Stiles, non fu la mimetica colei che trovò sulla propria strada. «ti sembra il caso?» puntò lo sguardo celeste su Godric Osborne, troppo stanco anche solo per apparire frustrato dalle sue parole. Come se qualcuno pensasse che piangere avrebbe potuto risolvere i propri problemi; non gli chiese se avesse saltato qualche lezione di umanità, a scuola, solo perché sapeva bene che ogni sua parola sarebbe stata mossa da un bruciore interno – e non aveva la voglia, non aveva la forza di sfogarsi. Per quanto doveva ammetterlo, le parole del corvonero furono abbastanza inopportune. Fosse stato nel diretto interessato, probabilmente avrebbe iniziato una rissa.
    Ma non era lì per quello, Jeremy. Dio!, nemmeno sapeva perché fosse lì. Passava per caso. «ce l’hai una sigaretta?» anche se avrebbe preferito una canna, o qualcosa di più potente, piegò la testa verso il ragazzo dal passato. «per quel che può valere, mi dispiace» perché anche se li odiava tutti, nessuno escluso, sapeva loro non avessero colpe. Non c’entravano un cazzo.
    Ed aveva perso Stiles prima ancora di averlo, Jeremy, ma non era l’unico a soffrire.
    Ed era una persona migliore, con Stiles – non era ancora pronto, a lasciare andare anche quell’ultima cosa che gli era rimasta, di lui.
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    Edited by zugzwang. - 26/6/2019, 17:31
     
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    «davvero non pitturate le uova di rosso?» Mads inclinò la testa di lato, il mento ancora appoggiato al dorso della mano. Lanciò uno sguardo a Barbie, e vedendo che aveva (assolutamente perso interesse per la discussione) quasi finito ciò che aveva nel piatto, gli allungò il vassoio di suchariki sorridendo, per invitarlo a prenderne ancora. Forse per loro erano crostini a caso, ma le piaceva l'idea di star festeggiando insieme ai propri amici la domenica dei salici con un piatto che aveva mangiato per quasi tutta la vita, prima di arrivare a Bodie quella che sembrava una vita prima. Appena giunta in città non aveva fatto nulla per Pasqua perchè ammaccata e senza un soldo, e Pasqua 1918 se l'erano persa con il viaggio nell'AU. Sapeva che Dio non l'avrebbe punita per quelle mancanze, ma questo non voleva dire che non volesse recuperare per sè. A volte le mancava, la Russia; le tradizioni dell'infanzia, i dolci tipici delle feste, i modi di dire che non andavano spiegati... Non era nostalgia di casa - non la considerava casa da troppo tempo - solo malinconia nel ricordare un tempo in cui non aveva problemi o preoccupazioni, un tempo felice, prima di conoscere cosa fosse la perdita.
    Tornò a osservare Floyd. «e niente battaglia?»
    «Battaglia?»
    Si finse scioccata. «Оh, господи! Niente battaglia!... il giorno di Pasqua ognuno sceglie un uovo decorato il giovedì puro, e con questo si cerca di rompere l'uovo degli altri... dovevi vedere il parroco del mio paese, che guerriero» ridacchiò al ricordo, domandandosi se l'uomo fosse ancora vivo.
    «Che usanza... particolare»
    Sollevando un sopracciglio sorridendo, Mads si sporse per dargli un pugnetto sul braccio. «non più particolare di vestirsi da scheletri coloratissimi alla festa dei morti»
    «aye aye» Il ragazzo alzò le mani in alto divertito. «tienes razón. Allora facciamo così: ci prendiamo tutti e tre un pomeriggio per dipingere le uova, ti aiuto a preparare per domenica il tuo pane con l'uvetta, il cu- cumi-»
    «kulìč» ridacchiò.
    «Aquello, e a novembre festeggiate a modo mio. Può diventare una nuova tradizione, da rifare il prossimo anno»
    Il sorriso della ragazza tentennò. Passò lo sguardo dagli occhi chiari alla sua mano tesa.
    Tradizione.
    Il prossimo anno.
    Succedevano un sacco di cose, in un anno.
    Abituata a vivere alla giornata Mads lo era ormai da anni, non certo propensa a fare progetti per il futuro col rischio che questi venissero distrutti e i cocci rimasti la ferissero: aveva sbagliato a farli una volta con Lev, e aveva perso sia lui che la vita che sognavano per una guerra che due ragazzini non avevano messo in conto; aveva sbagliato a farli con Dimitri, immaginandosi a vivere in una Russia giusta dove sarebbero stati liberi e felici, e anche lì era rimasta con niente. Poche cose facevano male quanto un e se ormai irrealizzabile.
    Non era disillusa dalla vita, non aveva perso la speranza nel genere umano o nella felicità per quante tante volte fosse stata presa a schiaffi in faccia, però aveva capito la vita e le persone erano troppo imprevedibili, per pensare di fare piani che comprendessero altri. Non era un problema per lei, essere un personaggio secondario nella vita altrui, qualcuno che arriva per un po' e a cui poi non è troppo doloroso dire addio, perchè da quando era a Bodie aveva sempre pensato che prima o poi se ne sarebbe andata, per un motivo per l'altro - il tempo di leccarmi le ferite, si diceva, di aiutare i Viaggiatori nel tempo come posso, e poi me ne andrò , il tempo di far dimenticare alla Russia di lei ed essere al sicuro... ma si rese conto in un quel momento che erano scuse che si diceva per non ammettere la verità: a Mads stare a Bodie piaceva, e non voleva andarsene. Si sentiva in colpa, perchè sapeva di poter dare di più al mondo, dover dare di più, ma per una volta- per una volta, lo sguardo a osservare la mano di Floyd e immaginandola ad accarezzarle i capelli, la guancia, il fianco, si chiese se non avrebbe potuto fare qualcosa per se stessa, concedersi il lusso di immaginarsi ancora in quella cittadina (cambiata così tanto in pochi mesi, grazie ai suoi nuovi abitanti, e chissà con quale margine di sviluppo) per un altro anno, magari due, magari una vita. Non voleva andarsene, e il merito era soprattutto di quei due ragazzi nella stanza, del sorriso beffardo di Barbie, degli occhi gentili di Floyd. Una vita semplice così, se insieme, non sembrava tanto male.
    «Mads? Guarda che non-»
    Allungò la propria mano tornando a osservare il ragazzo in volto decisa, stringendogli le dita un po' più a lungo del necessario. Dodici mesi per capire cosa fare della propria vita, ora che di tempo ne aveva, poteva darseli. Un atto di fiducia verso il mondo che quello- oh Dio almeno quello - poteva concederglielo. «andata»
    Allargò il sorriso, ed era felice Mads dell'"e se?" a cui si stava concedendo di pensare.
    A saperlo, che non ci sarebbe stato un prossimo anno.


    «-dimíttimus debitóribus nostris et ne nos indúcas in tentatiónem, sed líbera nos a Malo» si portò il ciondolo a forma di croce alle labbra, dandogli un leggero bacio. «amen» Aveva gli occhi chiusi, la ragazza, e una parte di lei sperava di poter restare ferma così, fingere ancora per un po' che fosse davvero calma, che non avesse voglia di stringere i punti, gridare con tutto il fiato che aveva. Gridare che non era giusto, chiedere perchè, Dio, perchè? Piangere. Battere i piedi. Rompere qualcosa. Rompere tutto.
    Perchè, Dio, perchè?
    Dopo che Abbadon era scomparso chissà dove, Mads non si era concessa di piangersi addosso: aveva fatto quello che doveva, avvicinandosi a corpi noti o meno noti per offrire il proprio aiuto, aveva cercato con occhio cinico i feriti peggiori per aiutarli com'era capace - ma appena c'era stata quiete, appena non aveva più saputo dove posare lo sguardo in un marasma di persone dagli occhi sconosciuti, da abbracci e rimpatriate a cui non apparteneva, era stato naturale per lei prendersi il tempo - lei che ancora ne aveva - per soffiare una preghiera, un respiro profondo e una serie di parole in latino che avevano il potere di calmarla. Trenta secondi, non le serviva di più: un pensiero ai defunti per cercare conforto dove sentiva un grosso buco nel petto. Pensi di essere abituato, temprato, a perdere le persone a cui tieni, ma fa sempre male - diventa solo più reale, hai solo bisogno di meno tempo per renderti conto che è davvero finita.
    Portò una mano sul cuore (cos'è che aveva detto una volta Arci, pregando? Dio dammi la pazienza, perchè se mi dai la forza faccio una strage - una famosa preghiera del ventunesimo secolo a suo dire), e aprì gli occhi. Quando rialzò lo sguardo, incrociò quello chiaro del ragazzino biondo. Arrabbiato, il finto cugino di Floyd, lo pareva sempre, ma al momento lo sembrava più del solito; non triste, non disperato: solo rabbioso. «vuoi pregare con me?»
    «Ve ne sareste dovuti rimanere nel fottuto 1919»
    Mads sbuffò una risata leggera, l'espressione calma a non traballare nonostante il pugno al petto. Sarebbero dovuti restare nel 1919? Se l'era chiesto centinaia- migliaia di volte solo negli ultimi minuti - da quando aveva visto il sangue, da quanto aveva visto da lontano l'espressione sul viso di Barbie e, solo dopo, i corpi (i gemelli, claudius, yelena, james, swing-). E, solo dopo, Floyd. No, non avrebbero fatto meglio: restando a Bodie sarebbero morti lo stesso, e scappando avrebbero dovuto vivere facendo attenzione ad ogni passo, ogni respiro, per assicurarsi di non cambiare la storia di Run, Arci, e altri miliardi di persone. Era stata la scelta giusta, aiutare i Viaggiatori nel tempo. La libertà esigeva un prezzo. «bentornato a casa, Joseph. Sono certa che Floyd sarebbe- felice, di sapere che alla fine ce l'abbiamo fatta»
    «A fare cosa Joey scosse la testa, i pugni stretti «loro sono morti, e Abbadon è stato liberato. Abbiamo perso» Aprì la bocca per rispondere, ma il biondo se n'era già andato, lasciandola nuovamente da sola con i propri pensieri.
    Mads espirò piano, le dita a giocare col ciondolo.
    "Non sono morti inutilmente"
    Invece era così.
    "Se Floyd non fosse stato con noi, sta mattina, probabilmente Mac, Harper e Bucky sarebbero morti"
    Se-
    Mads che rideva stringendosi la pancia vedendo il viso pieno di farina del paniettiere, e Floyd che con un «Ah sì?» se ne riempiva le mani e la inseguiva per il negozio.
    Se-
    Barbie che dormiva sulla poltrona, e il colombiano che con un sorriso lo copriva con una coperta.
    Se-
    «fortuna che ci sono io a guardarti le spalle, mh?»
    Si passò la mano sugli occhi, eliminando stanchezza ed eventuali accenni di lacrime, e stringendo i denti iniziò a muoversi anche lei - pausa finita. Non aveva mai avuto troppo tempo per piangere i propri caduti, Mads - non suo fratello, un corpo disperso su un campo di battaglia, non i suoi genitori morti l'uno contro le armate rosse l'altra di crepacuore, non Dimitri o la sua squadra che aveva dovuto lasciare indietro per salvarsi, non Nath o gli altri dell'au - di certo non avrebbe messo in pausa la propria vita per Floyd. Si andava avanti. Nonostante fosse ingiusto, nonostante facesse male, nonostante i non sarebbe dovuta andare così, nonostante, fra tutti, il colombiano non si meritasse quella fine. Non quando sua sorella era appena arrivata in città, non quando aveva un nano biondo di cui prendersi cura nonostante mordesse, non quando erano Barbie e Mads quelli che perdevano sempre le persone care, restando in piedi ma con un pezzo di cuore in meno (che non serviva sapere le proprie storie, per riconoscere negli occhi dell'altro lo sguardo di un sopravvissuto).
    Passò di fianco a Mac, stringendogli una spalla e non osandosi interrompere maggiormente il suo momento con le Fay, e si avvicinò invece a Barbie, una mano a circondargli il fianco nonostante senza chiedere o dire nulla. Non è colpa tua, appoggiò la testa alla sua spalla. Fatti i primi soccorsi, dati i primi abbracci per tranquillizzare i ragazzini come poteva, ora era il suo turno di sentirsi protetta e lasciare andare un po' di armatura che si era obbligata a indossare per non peggiorare l'umore altrui.
    Perchè Joseph aveva ragione: avevano perso. Un amico, un fratello, una famiglia, un possibile futuro insieme.
    «trattenere il pianto indebolisce le difese immunitarie. ma neanche risolverà i tuoi problemi»
    Si voltò verso il ragazzo (così... alto...) che aveva parlato, sorpresa. «davvero?» aveva sempre immaginato piangere facesse bene, ma non credeva esistessero prove scientifiche al riguardo. Il futuro la sorprendeva già.
    «ti sembra il caso?»
    Jeremy. Lo guardò incuriosita, sorpresa dalla somiglianza col ragazzo che nell'au arci aveva tanto pianto, e di cui tanto aveva parlato a Bodie; immaginava il bruno non fosse lì perchè era andato a cercare Arabells, ma si chiese, a guardare gli occhi chiari e sofferenti del fratello di Run, se il Leroy non avesse fatto meglio a restargli vicino.
    «non ha tutti i torti» Si mise una ciocca di capelli, sfuggita alla coda, dietro l'orecchio. «è una merda in ogni caso»
    Sorrise tristemente e incrociando nello sguardo di Jeremy una tristezza che riconosceva, si morse il labbro, mettendo da parte la calma forzata.
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
     
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