Could you find a way to let me down slowly?

aaron & mabel

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    Mabel Withpotatoes era in ritardo. Precisamente, lo sarebbe stato di lì a due minuti e cinquantaquattro secondi, eppure non sembrava preoccuparsene particolarmente: se ne stava seduto sul proprio letto, le gambe distese dinanzi a sé, il capo reclinato indietro con lo sguardo perso verso il soffitto. Erano cambiate tante cose in quelle ultime settimane, e mille altre avrebbero potuto modificarsi ancora, ma probabilmente non avrebbe mai perso quella cronica impossibilità ad essere puntuale, così come la sua perenne inclinazione al disordine, il gesto distratto con cui soleva scompigliarsi i capelli quand'era particolarmente teso. Erano tutte cose che, fino a poco tempo prima, avrebbe senza dubbio dato per scontate. Aveva sempre avuto una certa difficoltà a considerare sé stesso come qualcosa di definito, quasi che i propri confini terminassero in quel buco nero che era la sua fragile memoria, nella mai piena consapevolezza di essere sia il Mabel coi tagli sui polsi che quello in grado di godere delle ferite altrui.
    Eppure, adesso che ogni cosa era cambiata, quei dettagli avevano cominciato ad assumere una certa importanza: erano le uniche cose in grado di ricordargli che c'era ancora un Mabel reale dentro di sé, non soltanto una sua subdola copia. Da una parte era bello sentirsi finalmente completo, dall'altra faceva incredibilmente paura. Era come nascere una seconda volta, in un mondo da vedere con occhi nuovi e spaventati, con sentimenti da capire e da integrare perché formassero un che di armonioso e non soltanto un completo caos.
    Da quando era tornato, c'erano stati giorni in cui aveva sentito il desiderio di farsi male più forte che mai, ed altri in cui la rabbia aveva preso il sopravvento sulla sua consueta calma. Aveva provato la stessa insicurezza di prima nell'esporsi più del dovuto, la stessa improvvisa intraprendenza nello scoprirsi capace di far qualcosa. Ma tutte quelle cose, tutte quelle emozioni che un tempo era solito dimenticare l'istante dopo averle provate, ora erano chiare nella sua testa, tanto da poterne avere un certo controllo, pur entro i limiti dell'umana passionalità. Non c'era più un Mabel sadico, uno masochista, uno spavaldo ed uno spaventato: era solo Mabel, con tutte quelle cose insieme. Ed era difficile da comprendere, ancor di più da accettare - forse non vi sarebbe mai riuscito del tutto, ma almeno ora non doveva più combattere con nessun demone invisibile. Era lì adesso, nel riflesso del suo specchio, a guardarlo ora con aria di sfida, ora con gli occhi da cerbiatto. Era lui, e andava bene così.
    «a 'fanculo» scese dal letto con uno scatto, rassettandosi i capelli schiacciati dal cuscino e passandosi velocemente una mano sul viso, un accenno di barba a pizzicargli le dita. Era la prima volta che la lasciava crescere davvero, quasi volesse segnare quella sua nuova diversità anche nell'aspetto.
    «vik, io sto uscendo» annunciò al proprio compagno di stanza, rivolgendogli un mezzo sorriso incoraggiante «quando torno ci beviamo qualcosa, mh? Tanto ne avrò sicuramente bisogno anch'io» scrollò le spalle, chiedendosi quanta dell'apparente calma del grifondoro fosse reale e quanta il semplice tentativo di sembrare più forte di quello che era. Non lo conosceva abbastanza da poterlo dire con precisione, né aveva idea di cosa passasse per la sua testa - eppure, in fondo, avrebbe soltanto voluto essergli d'aiuto, ora che sentiva di essere in grado di poter effettivamente fare qualcosa di utile.
    Si chiuse la porta alle spalle, attraversando i corridoi della residenza fino a portarsi verso il Lago Nero, lì dove aveva dato appuntamento all'Icesprite il giorno prima.
    Non lo vedeva da, quanto?, settimane, il che era senza dubbio incredibile visto e considerato che, da che avevano preso a frequentarsi mesi prima, non avevano mai passato tanto tempo lontani. Probabilmente sarebbe stato meglio credere che Mabel avesse avuto una forza d'animo tale non volerlo intenzionalmente incontrare ma, andiamo, chi avrebbe mai potuto prenderlo sul serio? Se fosse rimasto ad Hogwarts, se avesse semplicemente aspettato che la mancanza di Aaron passasse da sé, chissà cosa sarebbe potuto accadere nell'attesa: forse si sarebbe tolto la vita senza accorgersene, o forse avrebbe tentato di uccidere il serpeverde nel sonno.
    Né l'uno, né l'altro; nella sua completa mancanza di autocontrollo, aveva compiuto la scelta forse più sensata: saltare nel vuoto. Letteralmente, non aveva idea di come le cose sarebbero potute cambiare dopo essersi offerto volontario ai Laboratori, eppure ciò non significava affatto che la sua fosse stata una decisione presa a cuor leggero o senza un'attenta riflessione preliminare. Al contrario, ci aveva pensato a lungo già prima di conoscere Aaron, e quell'allontanamento - cristo, dopo quello, l'idea gli era sembrata sempre meno assurda. Che importava, in fondo, delle conseguenze? Niente sarebbe potuto esser peggio di quel che era già la sua esistenza. Preferiva morire, vivere nel dolore, perdere del tutto la cognizione di sé, piuttosto che restare in quel limbo fra l'essere niente ed essere tutto, fra il desiderio irrefrenabile ed il sentore di morte a pervaderlo completamente.
    Chissà se Aaron l'avrebbe capito. Chissà se ne avesse avuto il vago sentore o se ne fosse del tutto all'oscuro e, in quel caso, chissà quale sarebbe stato il modo giusto per dirglielo.
    Che idea del cazzo quella d'incontrarlo.
    «proprio un'idea del cazzo» mormorò, avvicinandosi alle sponde del Lago.
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    Edited by ‚abso-maybe - 28/4/2019, 20:13
     
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    Se gli avessero chiesto cosa fosse il panico qualche mese addietro avrebbe risposto “non so nemmeno cosa sia, si mangia?” dimostrandosi ancora una volta superiore alle mere questioni dettate dai sentimenti.
    Ma, se glielo avessero domandato subito dopo aver saputo della sparizione di due studenti, tra cui Mabel Withpotatoes, avrebbe risposto che panico fosse quello che gli era salito dalle vene fino al cervello, mandandolo in blackout. C’era stato un momento in cui non aveva sentito più una parola, in cui la voce dell’insegnante gli era apparsa lontana anni luce, quasi ovattata in mezzo al brusio generale, all’interesse che gli altri studenti sembravano mostrare per quella notizia. Perché non voleva crederci. Perché non era stato capace di mantenere fede alla parola data, occupandosi di lui nonostante tutto. Perché era sparito senza lasciare traccia, svanendo come fumo disperso nell’aria. Era rimasto fermo, impalato come una statua, con gli arti rigidi, la mascella serrata fino a sentire le ossa scricchiolare. Gli occhi blu spalancati dalla sorpresa e dalla sensazione di aver fallito. Aveva promesso a Mabel che ci sarebbe stato per lui, sempre. Che se pure non erano più nulla, questo non l’avrebbe fermato dall’essere una costante nella vita dell’altro.

    Non c’era riuscito.
    Per due settimane aveva tentato, disperatamente, di non dare modo alla sua mente di immaginare scenari che avrebbe voluto confinare lontano, far sprofondare nel buio. Perché se avesse dato adito a quelle immagini, avrebbe rischiato di impazzire; quel dolore atroce del non sapere, dell’essere completamente impotente di fronte alla possibilità che Mabel fosse morto. Mai, m a i, avrebbe creduto possibile provare un’angoscia così snervante, tale da non farlo dormire la notte, tenerlo sveglio a vagare per le strade della città, infrangendo il coprifuoco, le regole, l'amor proprio solo per trovarlo. Solo per sperare che fosse ancora vivo e che si fosse trattato solo di uno stupido scherzo.
    Faceva male. Tutto, in quei giorni, sembrava essere amplificato; c’era stato un momento in cui, semplicemente, aveva perso le forze e si era seduto sul letto. Le mani tra i capelli, la schiena piegata in avanti, le spalle contratte dal nervoso. Gli era sembrato di impazzire. Per un breve istante gli era parso di essere come Eugéne; non lo conosceva, non sapeva nemmeno definire il legame che continuava a legarli, ma lo sentiva, quasi che fosse un ricordo, tuttavia presente nei momenti di sconforto.
    Perché il Baudelaire-Hansen era stato quello, prima di tutto, e conosceva la perdita e la solitudine, la disperazione in modo profondo e… la sentiva. Riusciva a percepirne ogni singola fibra dentro le proprie carni, così intensa da fare male.

    Avrebbe voluto non aver mai conosciuto Mabel. Era arrivato a pensarlo, dopo il settimo giorno. La frustrazione era stata tale da non riuscire a pensare ad altro che quello. Perché se non lo avesse mai visto, mai voluto, mai desiderato e se Eugéne fosse stato normale, non si sarebbe ritrovato a dare pugni al muro fino a far sanguinare le nocche per trovare un minimo di conforto nel dolore, per riportarsi con i piedi per terra. Per non sentire la voce nella propria tesa sussurrare “è morto, non lo vedrai mai più”, riducendolo all’ombra di quello che era.

    Se erano quelli i sentimenti, l’affetto, non li voleva. Non voleva nulla di tutto quello.

    ----

    La Sala Comune dei Serpeverde aveva un pregio: il divano.
    Era comodo, nonostante all’apparenza non sembrasse affatto confortevole, ed era facile appisolarsi, lasciarsi andare per un attimo, prima di venire risvegliati dal fracasso degli altri studenti.
    Ma era da un po’ che né il letto, né quel divano riuscivano a svolgere la funzione soporifera di sempre; nemmeno il libro di Storia della Magia era riuscito ad accompagnarlo tra le braccia di Morfeo.
    Era diventato apatico. Più apatico di prima.
    Stare seduto a fissare l’enorme lampadario verde e argento non lo faceva sembrare niente di più che un mobile d’arredamento; probabilmente, rimanendo così, presto o tardi sarebbe rimasto inglobato dai cuscini, il che gli avrebbe dato indubbiamente un minimo di sollievo.
    Non era così interessante il riflesso della luce sui cristalli, o il verde delle fiamme a incupire la stanza, ma trovare qualcosa da fare avrebbe portato inevitabilmente all’ennesimo tentativo di ricerca che, a conti fatti, aveva compreso fosse una perdita di tempo.
    In quel caso, sentiva come la mancanza di qualcuno accanto; un amico? Una spalla? Sapeva di essere solo e quella solitudine non era mai stata un problema, non fino a quel momento. Allontanare tutti era stato facile come respirare, ma ora che gli mancava il fiato? Ora che era sul punto di pensare che obliviarsi fosse una scelta plausibile per cancellare ogni traccia del Withpotatoes dalla mente e ritornare quello di un tempo?

    Distrattamente si era passato le dita a stropicciare le palpebre stanche, pensando che forse avrebbe anche potuto pensare di farsi una doccia ed andare a Diagon Alley per l’ennesima volta, per cercare qualche informazione. Ma un gufo a picchiettare sulla finestra era riuscito ad attirare la sua attenzione, come se il messaggio attaccato alla zampa fosse per lui.

    ----

    Poteva il sollievo rischiare di fargli venire un infarto a soli vent’anni? Sì. Perché la sensazione di caduta libera era stata tanto intensa da fargli perdere per un attimo la presa sulla realtà, costringendolo a tenersi alla prima superficie disponibile e arrancare nel respiro. Era stato come tornare a vivere dopo anni passati sottoterra a tentare disperatamente di riemergere per non morire soffocati.
    C’era voluto un attimo prima di riprendersi. E non era bastato nemmeno. Non sarebbe bastato nessun attimo per far si che il suo cuore smettesse di battere furioso, che il fiato tornasse stabile, che gli occhi smettessero di pizzicare.

    Non sapeva nemmeno se avesse corso o se le sue gambe si fossero rifiutate di farlo per evitare di farlo cadere come un’idiota, ma era arrivato al Lago senza nemmeno capire come, quanto tempo ci avesse impiegato per riprendersi dallo shock. Perché l’indifferenza o l’essere un umano discutibile non valevano nulla se paragonati al sollievo di sapere che Mabel fosse vivo. Che stava bene. Che non era morto. Che forse lo avrebbe ammazzato lui per avergli fatto pensare al peggio.
    Ed era stato strano vederlo di spalle, vicino alla sponda. Era stato ancora più strano percorrere a grandi falcate la distanza a separarli per afferrarlo e farlo voltare, solo per abbracciarlo così forte da spaccargli le ossa. Per affondare il naso tra i capelli dell’altro, per sentirne solo il calore, il profumo, e ripetersi “è vivo. Va tutto bene. È vivo”. Perché se quello era uno dei suoi incubi, non avrebbe retto al colpo. Non di nuovo, non quando aveva visto quella scena ripetersi nel sonno per quelli che gli erano sembrati secoli.

    Non avrebbe voluto tremare.
    Non avrebbe voluto mostrare a Mabel quanto si fosse spaventato. Avrebbe voluto, invece, mantenere la corazza che l’aveva sempre contraddistinto, anche nel loro rapporto, ma… arrivati a quel punto, in cui aveva pensato davvero che lo avessero ucciso o rapito per portarlo chissà dove, non aveva più importanza.

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    “Pensa a cinque cose in grado di farti star bene.”
    Era psicologia spiccia, l'aveva visto fare in un sacco di film e, a dire il vero, gli era sempre sembrata una gran stronzata; ciò nonostante, avrebbe mentito affermando di non averci mai provato nei momenti di maggior difficoltà. Come si dice? A mali estremi, estremi rimedi, e forse, vuoi per effetto placebo, vuoi perché concentrarsi tanto per quella spasmodica ricerca gli portava via ogni briciolo d'energia mentale, a volte funzionava davvero.
    La prima cosa a cui pensava era sempre il Quidditch. Banale, forse un po' superficiale ad un primo sguardo, ma per Mabel quello era davvero un porto sicuro entro cui rifugiarsi. Era l'unica cosa in cui fosse mai riuscito ad eccellere, l'unica in grado di scaricare per una buona volta tutta l'adrenalina che aveva in corpo nella maniera più straordinaria di sempre: volando. Ed anche se non sarebbe stato il suo futuro, come invece era stato per Maverick, anche se senza magia non sarebbe più riuscito a librarsi in aria su una scopa, il solo ricordo gli sarebbe bastato, sempre.
    Poi c'erano i Withpotatoes, l'incasinata famiglia che l'aveva preso con sé senza farsi domande, senza mai farlo sentire giudicato, neppure una volta. Forse non sarebbe mai riuscito a sentire quel cognome davvero suo, a sentirsi parte integrante di qualcosa, eppure non avrebbe mai smesso di ringraziarli, da Idem sino a Gemes, di volergli bene - seppure a suo modo -.
    La terza cosa era Accio, un gatto stupido tanto quanto pigro, che tuttavia riusciva sempre a strappargli un sorriso, che nella sua piccola semplicità gli faceva per un po' dimenticare tutto il caos che era la sua testa. Non aveva niente di speciale, niente che potesse renderlo il degno compagno d'un aspirante mago, ma probabilmente era proprio quello a renderlo unico agli occhi di Mabel: erano, in un certo senso, simili.
    La quarta era la musica. Una novità? Beh, non propriamente. Il fatto era che aveva imparato a suonare la chitarra da solo, in sordina, assicurandosi di metter mano sulle corde solo quando nessuno si trovava nei paraggi. Non era vergogna, è che era una cosa soltanto sua, che condividere con qualcun altro avrebbe inevitabilmente potuto rovinare, che gli distendeva i nervi come poche altre cose erano in grado di fare.
    La quinta era sempre stata un problema.
    Variava di tanto in tanto, da una canzone, a un film, al ricordo di una breve conversazione che l'aveva fatto sentire un po' meno inadeguato, ma che poi perdeva d'efficacia dopo il primo o secondo utilizzo.
    E poi era arrivato Aaron. La sua quinta cosa, quella a cui affidarsi nei momenti peggiori, l'ultima a cui fare appello nei casi disperati, ad un passo dal crollo. E non soltanto Aaron in sé, come persona, come entità, ma quella specifica sensazione che era trovarsi tra le sue braccia, il naso affondato nella maglietta dall'odore ormai inconfondibile, le spalle ad avvolgerlo come uno scudo dal resto del mondo.
    Ed in quella sensazione, in quell'abbraccio, in quella sua quinta cosa, Mabel per un istante riuscì a dimenticare la lontananza, il dolore della perdita, lo stravolgimento di una vita diversa, la paura di non essere compreso. E la consapevolezza, forse la più grande, d'essere in possesso di un'informazione che avrebbe potuto cambiare ogni cosa, se solo avesse voluto pronunciarla ad alta voce.
    Ma non l'avrebbe fatto.
    No, signori e signore, Mabel non l'avrebbe detto ad Aaron che il proprio sangue non era lo stesso dell'Icesprite, che non c'era alcuna parentela biologicamente dimostrabile fra loro, che i dati ai Laboratori avevano parlato fin troppo chiaramente. Avrebbe reso tutto più semplice, invero, eliminare tutto ciò che di sbagliato aveva sempre contaminato la loro relazione, poterla vivere come se quell'errore non fosse mai esistito, ma che senso avrebbe avuto? Che senso avrebbe avuto ricominciare da capo soltanto per una sciocca convinzione che nessuno dei due s'era neppure premurato di confutare prima di accettare come valida, quasi che entrambi stessero cercando una scusa per poter giustificare i propri errori? Perché ormai Mabel lo sapeva, che non era stata la consapevolezza di essere fratelli ad averli allontanati, né il ricordo delle lettere di Maverick e di Eugéne. Era stato il casino nella sua testa, l'orgoglio di Aaron, l'incapacità di entrambi di parlare davvero. E se fossero stati disposti a mettere da parte tutte quelle cose, se fossero riusciti a trovare un punto d'incontro al di là di tutto il resto, se fosse arrivato il tempo e il destino avesse deciso d'essere finalmente clemente con loro - allora sì, a quel punto, che confessarlo avrebbe acquisito un significato.
    O forse aveva soltanto paura.
    «ehi» mormorò, allacciando le braccia alla vita altrui e beandosi di quella vicinanza tanto agognata, che manco s'era accorto di desiderare tanto fino a che non si era ritrovato ad avercela, lì, finalmente. «vuoi mica strozzarmi?» non riuscì a impedirsi di sorridere il Withpotatoes, malgrado forse a quel punto avrebbe persino potuto piangere, e urlare, ed ammettere quanto cazzo gli fosse mancato. Ma non lo fece, perché ormai avevano preso una decisione lui ed Aaron, non l'aveva dimenticato.
    Per questo fece scorrere le dita fino al petto dell'altro, allontanandolo gentilmente da sé - non troppo, solo abbastanza da poterlo guardare in viso.
    «sto bene» annuì, fissando le iridi in quelle altrui «sono a casa» perché persino Hogwarts, che non era mai stata clemente con lui, aveva significato casa da quando gli aveva permesso di conoscere Aaron; perché le braccia dell'Icesprite, alla fine, erano casa.
    «mi dispiace di essere sparito senza dire una parola, so che se l'avessi fatto tu...» probabilmente sarebbe morto, senza ombra di dubbio «ma c'erano cose che dovevo fare da solo» sollevò un braccio per passarsi una mano sul mento, accarezzandosi quella barba del tutto nuova sul suo viso generalmente glabro. «tu, uhm, sai dove sono stato?» e forse in parte sperava di sì, perché sarebbe senza dubbio stato più semplice spiegare.
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    Edited by ‚abso-maybe - 2/5/2019, 23:18
     
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    Era stato orribile vivere con il peso della mancanza.
    C’era stato un momento in cui aveva pensato di mollare tutto, di lasciare Hogwarts con il solo scopo di cercarlo. “Un altro mese” si era detto; dopo di che, M.A.G.O. o meno, diploma o no, avrebbe lasciato l’istituto per tentare una ricerca disperata, un tentativo per dimostrare che Mabel fosse vivo.
    Ma lo era, tra le sue braccia. Solido come non lo era mai stato fino a quel momento, consistente tra le dita, quasi che lo stesse stringendo per la prima volta. Era stato il terrore a tenerlo in piedi, la paranoia, il dolore; ciò che aveva provato al pensiero che il Withpotatoes fosse morto era indescrivibile. Perché fisicamente… beh, era ovvio che si vedesse, che trasparisse il malessere che l’aveva accompagnato in quelle settimane, ma dentro? Oh, quello sarebbe stato ancora peggio se solo fosse stato visibile. Perché non erano le guance incavate, la barba incolta, i capelli lunghi o le labbra secche il problema; quelle cose erano risolvibili, poteva tentare di riprendersi per ritornare in forma. Ma la paura? Difficilmente quella sarebbe andata via. E se Mabel fosse nuovamente sparito? Questa volta per sempre? Aveva lo stomaco chiuso per quanto quell’idea lo tormentasse; non bastava tenerlo al suo petto, rischiando addirittura di soffocarlo. Non bastava sentire l’odore dell’altro, o avvertire quelle braccia stringersi alla sua vita. Non bastava. Niente sarebbe più bastato.
    Ed era crudele che il minore lo stesse scostando, stesse mettendo distanza tra loro, perché così avrebbe visto quelle iridi glaciali sciolte dall’apprensione; la mascella serrata per lo sforzo di non crollare.
    Per quanto gli riguardava, avrebbe solo continuato ad abbracciare Mabel fino a sentire le braccia formicolare, le gambe cedere e la notte calare.

    «sto bene» io no, avrebbe voluto rispondergli, ma non era importante. Non quando fissandolo poteva notare l’incarnato roseo, la barba a sporcargli il viso generalmente glabro e gli occhi più vivi, più attenti. Era cambiato qualcosa? Non aveva idea di cosa gli fosse accaduto. Lo voleva sapere? In realtà c’era una parte di sé che avrebbe preferito ignorare ogni cosa e ricominciare da zero, facendo finta di non aver mai sentito la mancanza del ragazzo, di non aver pensato che fosse stata colpa sua, che fosse stato troppo incauto nel lasciarlo solo. Perché in un primo, devastante momento, aveva creduto che l’altro si fosse suicidato; prima di sentire il nome del Dallaire, ciò che gli aveva fatto mancare il respiro era stato sentire “Il signor Withpotatoes è scomparso”.
    Le tendenze di Mabel erano state sempre fonte di preoccupazione; non poteva dimenticare i tagli a solcargli la pelle o il sangue a sporcarlo sulle labbra. Erano immagini che difficilmente avrebbe potuto cancellare e proprio per questo erano state il focus principale delle sue ansie.
    Il punto era che non riguardava le altre persone, perché—andiamo, non avrebbe provato lo stesso per nessun altro che non fosse il Tassorosso; non gli importava che la gente si ammazzasse, succedeva sempre, ogni giorno.

    «mi dispiace di essere sparito senza dire una parola» confuso, sbatte le palpebre un paio di volte, indeciso se fare finta di non aver sentito o «cosa?» non c’erano scuse. Non poteva arrivare lì, dopo giorni, e uscirsene con un “mi dispiace”. Qualsiasi cosa dovesse fare da solo… un biglietto, per Dio! Un gufo! Qualsiasi cosa! «Mi stai dicendo che…» le labbra gli tremano, per un istante e le iridi blu si fanno subito pericolose, uno sguardo che sapeva di un “mi hai tradito” «sei andato via? Volontariamente?» mormora, gli occhi appena sgranati, le narici ad allargarsi come un toro.
    Prende un profondo respiro, stringendo le labbra fino a farle sbiancare «tu, uhm, sai dove sono stato?» non… aveva parole. Davvero.
    «Per un mese» era complicato persino parlare, perché sentiva la mascella rigida, il corpo teso come la corda di un violino, le dita a stringersi in un pugno ed abbandonare le spalle dell’altro; era tutto così… «Per. Un. Cazzo. Di. Mese.» scandisce, incenerendolo con lo sguardo «Non un avvertimento, non—non mi hai lasciato niente. E mi dici—mi dispiace se sono sparito?» la voce gradualmente si alza, per la delusione, per lo spavento, per tutte le emozioni che aveva represso fino a quell’istate «Pensavo che ti avessero rapito e ucciso! O che quei folli della Resistenza ti avessero portato in qualche struttura per farti del male! Dovunque tu sia stato—qualsiasi cosa tu abbia fatto, come cazzo hai potuto!» d’istinto, lo spintona, reprimendo la voglia di tirargli un pugno, più perché non aveva idea se Mabel stesse realmente bene o meno, che per reale mancanza di forza «Mi sono sentito morire, lo capisci!? Egoista maledetto! Ho passato giorni a cercarti!» era così stanco. Se solo non avesse avuto tutta quella rabbia in corpo, quella che prima non era altro che sofferenza, si sarebbe seduto sull’erba per riprendere fiato. Lo sentiva, l’attacco di panico. Lo percepiva nel petto come una coltellata; ma sarebbe morto piuttosto che far vedere all’altro quanto difficile, quanto male gli avesse fatto quell’azione avventata. Non lo avrebbe mai fermato, se solo gli avesse spiegato o anche solo accennato le sue intenzioni. Avrebbe convissuto con la mancanza serenamente; ma così? «Dio santo» mormora, portandosi una mano sul viso, nascondendolo alla vista del minore «tu non—non hai idea. Non ne hai idea» e non l’avrebbe mai avuta. Era arrivato al punto di pensare di Obliviarsi pur di non stare male. Di attuare il gesto più estremo per non sentire il cuore stringersi e le lacrime scivolargli sulle guance; odiava sentirsi debole, ancora di più essere alla mercé di sentimenti che non aveva richiesto. Di un affetto che non voleva che fosse così preponderante nella propria vita.

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    C'era stato un momento, ad un passo dal cancellare il vecchio Mabel una volta per tutte, in cui il terrore aveva preso ad attanagliargli le viscere come una morsa. Aveva preso quella decisione come riguardasse qualcun altro, non sé stesso: ci aveva pensato a lungo, era giunto alla conclusione che fosse l'unica cosa sensata da fare, ma l'aveva fatto in maniera razionale, asettica. Così si era sentito da che lui ed Aaron si era separato: vuoto, incapace di sentire alcunché. La paura era arrivata solo nell'istante in cui ogni suo progetto aveva cominciato a farsi reale, fin troppo concreto per poter tornare indietro. L'aveva realizzato solo a quel punto cosa avrebbe comportato, ma oramai si era spinto troppo oltre per potersi pentire. Non era il terrore della morte, dell'incertezza o del dolore, era semplicemente la concreta possibilità che, dopo quello, l'Icesprite non avrebbe mai più potuto guardarlo negli occhi come aveva sempre fatto. Al di là del tradimento dell'essere sparito senza dire niente, c'era una scelta troppo importante per poter essere semplicemente ignorata, e c'era il fatto che, così, avrebbe compromesso il suo sangue più di quanto non lo fosse già - a lui non era mai importato, ma ad Aaron? Era pur sempre un Mangiamorte, e credeva in quelle cose.
    L'aveva fatto comunque, perché il tempo per i ripensamenti l'aveva già passato da un pezzo.
    Ma l'aveva immaginato, ecco, che per l'altro non sarebbe stato semplice capire. Non si era mai aspettato diversamente e, ad esser sinceri, a parti invertite probabilmente anche lui avrebbe fatto fatica ad accettare una cosa così, però — però non l'aveva previsto, neanche un po', che Aaron potesse diventare tanto fragile dinanzi al timore di perderlo. L'aveva sempre idealizzato, quasi si fosse trattato di un'entità impossibile da scalfire, e sebbene avesse messo in conto l'idea di poterlo deludere con quel gesto, non pensava di poterlo davvero ferire. Non così tanto, almeno.
    «aaron» mormorò, azzardando un passo verso il Serpeverde per poi subito indietreggiare, conscio di non poter dire o fare niente per rendere le cose meno incasinate di quanto non fossero.
    «Pensavo che ti avessero rapito e ucciso! O che quei folli della Resistenza ti avessero portato in qualche struttura per farti del male! Dovunque tu sia stato—qualsiasi cosa tu abbia fatto, come cazzo hai potuto!» ancora una volta fece per aprir bocca, per scusarsi o per dire chissà cosa, non ne era troppo sicuro, ma cristo: quella spinta, seppur legittimata, gli fece istintivamente salire il sangue al cervello.
    Riusciva a capirla, davvero la sua frustrazione, la sua rabbia, la sua paura, ma al contempo era evidente che l'altro non si stesse sforzando di capire, che non volesse neppure provarci. Magari era questione di tempo, sicuramente lo era, ma probabilmente per la tensione accumulata, per l'adrenalina, per la difficoltà a gestire tutte quelle emozioni nuove (il vecchio sé non l'aveva mai percepita la rabbia, non nei momenti di lucidità almeno), non riuscì a fare a meno di provare un certo fastidio.
    «d'accordo, io non ne ho idea» ripeté in un sibilo, scuotendo il capo e reprimendo a stento un amaro sorriso «ma tu invece, ce l'hai? Hai mai avuto una vaga idea di come fosse essere me, Aaron?» poggiò una mano sul gomito dell'altro, spingendo appena perché smettesse di nascondere il viso «di come fosse non sapere cosa cazzo stesse succedendo per la maggior parte del tempo, perdersi dei pezzi, dire cose senza volerle dire davvero? Certo che no, come potresti?» fermò il palmo sulla sua guancia, allungando il pollice per stringergli leggermente il viso «so che hai avuto paura. Ne ho avuta anch'io, per tutta la vita. Ma avrei preferito morire che continuare così, riesci a capirlo?» lo sguardo a cercare insistentemente quello altrui, la presa sul volto a farsi un po' più salda per qualche istante, per poi lasciarlo andare definitivamente.
    «non ho mai voluto ferirti e, credimi, l'avrei fatto di più se fossi rimasto» ed avrebbe potuto farlo in mille modi, davvero, non era neppure necessario spiegarlo «perché non è mai stato l'essere fratelli il problema» mormorò, mordendosi una guancia per impedire alle labbra di tremare «il problema sono sempre stato soltanto io, ed in fondo lo sapevi anche tu, solo che avevi troppa paura che dandomi un pugno in faccia e chiedendomi che cazzo di problemi avessi avrei finito per fare una cazzata, tipo uccidermi senza neanche accorgermene. Beh, adesso sono io e basta, e le mie stronzate sono solo una mia responsabilità» si strinse nelle spalle, passandosi la lingua sulle labbra prima di parlare ancora «perciò se vuoi addossarmi la colpa, o colpirmi: prego».
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    Aaron Felix Icesprite
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    Tra di loro c’era da sempre stato un problema – uno solo? – che nessuno dei due era stato in grado di risolvere; era enorme, tanto quanto quello che era riuscito a separarli la prima volta. E di nuovo, in quel momento.
    Perché Mabel poteva stringergli le guance, sibilare che non potesse capirlo, che fosse rimasto intrappolato nella propria mente per tanto, troppo tempo, ma la verità era che quel gesto, quegli occhi azzurri a fissarlo con sprezzo, erano il chiaro esempio di come fosse tutto… ancora più incasinato.
    Non riuscivano a capirsi e a quel punto dubitava persino che l’avrebbero mai fatto.
    Ed avrebbe voluto picchiarlo, davvero. Si sarebbe volentieri avventato su di lui, dandogli un pugno, due pugni, tre pugni, fino a fargli perdere la concezione di se stesso rendendolo un ammasso morente di sangue, ma… non sarebbe cambiato nulla.
    Non avrebbe ottenuto nessuna soddisfazione e il dolore sarebbe rimasto immutato, come lo era quel pensiero fisso che andava sempre, costantemente, alle lettere e al loro passato.
    E stava quasi per alzare il braccio, per rispondere a quella provocazione, per dare sazio all’idea che Mabel si era fatto di lui, ovvero di un violento accecato dall’ira e forse prima di quel mese, passato a morire dentro, l’avrebbe fatto, ma adesso? Era troppo stanco, troppo spento per riuscire anche solo a pensare a qualcosa che non fosse… il niente. Era arrabbiato? Certo che sì. Ma non c’era quel fervore, quel desiderio rabbioso che l’aveva accompagnato per la maggior parte della propria vita.

    «Sai cosa? No» fa qualche passo indietro, alzando le mani in segno di resa, le labbra arricciate per nascondere una smorfia «Anche se ti dessi un pugno, uno schiaffo, se ti prendessi di peso e ti facessi conoscere da vicino il mostro del lago… non cambierebbe niente. Perché non è… utile?» scuote il capo, allargando un po’ le palpebre come per dirgli “ho torto?”, prima di continuare «Sai cosa non capisci? Che sei totalmente, irrimediabilmente accecato dal puro, semplice compatimento, tanto da non pensare nemmeno per un singolo, piccolo, infinitesimale secondo che avresti potuto dire, senza specificare altro, 'Aaron andrò via per un po' di tempo', e a me sarebbe andato bene, perché avrei saputo che quella era una tua scelta, che nessuno ti avrebbe fatto del male (avrebbe potuto farti del male) e che avresti utilizzato le tue gambe per andare via» le indica, con sprezzo, sospirando dal naso «invece, proprio perché quel tuo essere diverso era diventato un peso, hai pensato che non ti avrei capito. Perché lo hai fatto e continui a farlo e no, davvero, sono una merda d'uomo. Lo so. Ma anche se non stiamo insieme, avevo promesso di aiutarti. Wow, è scioccante, vero?» fa un’espressione fintamente sorpresa, aggiungendo quasi un *gasp* per completare il tutto «E non so nemmeno che cosa hai fatto, se sei andato a fare un viaggio eremitico insieme al Dallaire sulle Alpi, se hai—non so, fatto yoga con i monaci Tibetani. Ma non mi interessa nemmeno, perché era una cosa tua e la rispetto» e dio, non era mai stato tanto sincero in vita propria «Probabilmente sei riuscito a sistemare tutto il casino che avevi in testa, ma rimani comunque lo stesso di sempre. Quello che deve assolutamente dimostrare d’avere ragione e che non ascolta una singola parola perché troppo preso a dare per scontato che gli altri non possano capire. E questo mi riporta ad un’altra questione» alza il dito, sventolandolo, stringendo le labbra secche e fissandolo con uno sguardo chiaramente spiritato - bello non dormire, eh??-, senza più abbassare gli occhi «che tu parli, parli, per dio—quanto parli? E non sai niente di chi ti circonda. Cosa sai di me? A parte che sono uno dei Cacciatori della Squadra di Serpeverde? O che—mhm. Ecco, mi piace Pozioni? Sai qualcosa di come sono morti i miei genitori—e parlo di questi, qui, nel tempo che non ci appartiene? Mi hai mai chiesto se questa cosa mi toccasse? No. Perché pensi che non mi tocchi niente. Erano dei Ribelli, Mabel. Hanno lottato per la causa e quando sono deceduti, sai cosa è successo? Niente. Sono rimasto solo con mio nonno» fa spallucce, amaro «la Resistenza ha del marcio dentro tanto quanto i Mangiamorte. E se il Regime non ti aveva preso per torturarti, il mio primo pensiero è andato ai Ribelli, oltre che sì-- che ti fossi ammazzato e tutta quella roba lì» perché era traumatizzato dall’accaduto. Perché era rancoroso. Perché aveva visto le foto di sua madre e di suo padre senza aver avuto la possibilità di abbracciarli nemmeno una fottutissima, singola volta «Hai una famiglia alle spalle che sono certo ti avrebbe capito più di quanto tu possa pensare» e non si riferiva a se stesso, ma ai Withpotatoes; Mabel era bravo a tagliare fuori le persone, così come lo era lui «alla fine è un difetto di fabbrica quello di tentare la fuga e fare di tutto per rimanere soli» era un chiaro riferimento a Maverick e Eugéne, entrambi distrutti dalle loro stesse paure «a parte questo» si schiarisce la gola, incrociando le braccia al petto, piatto «il nostro problema non è né il fatto di essere fratelli, né il tuo comportamento, né il mio. Ho sbagliato. In realtà siamo ancora quei ragazzi che abbiamo deciso di cancellare bruciando le lettere» e mai, prima di quell’istante, si era sentito tanto affine al Baudelaire-Hansen; perché ora comprendeva il cruccio di Eugéne, la lotta perenne con il fratello, il sentirsi totalmente inutile di fronte alle loro diversità, ai problemi dell'altro. Erano sempre stati bravi a tagliarsi fuori «Quindi okay. Lieto che tu abbia trovato quello che cercavi» aveva davvero bisogno di—stendersi. Chiudere gli occhi e lavare via tutta quella tensione che avvertiva sulle spalle «io vado a cercare un letto, invece. Non dovrebbe richiedere un mese. Ho bisogno di dormire» sarcastico, per un attimo chiude gli occhi, alzando la mano come cenno di saluto.

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    E dire che, col senno di poi, gli pareva talmente tanto evidente la verità, talmente palese, da riuscire a stento a trattenere una risata. Avevano entrambi convenuto che condividere lo stesso sangue avrebbe inevitabilmente complicato le cose ma, a conti fatti, Mabel vedeva ormai un quadro ben diverso: credere di essere fratelli, dare retta a due stupide lettere fidandosi sulla parola, era in verità stata una scelta comoda, per entrambi. Perché era più semplice attribuire i propri fallimenti a quel futuro-passato, più semplice fingere che quello fosse l'unico vero fulcro del problema. Le liti? Colpa di un rammarico che aveva attraversato il tempo e lo spazio. La voglia di morire? Un'inconscia incapacità di accettare a pieno quell'innaturale relazione. Perché si erano lasciati? Perché erano fratelli. Facile.
    Facile, sì, eppure non risolutivo.
    Era vero, Mabel tendeva ad autocommiserarsi più di quanto non fosse in verità stato necessario e, in quell'autocommiserazione, c'era probabilmente più egocentrismo di quando non avrebbe mai potuto ammettere. Tuttavia, osservando il tutto nel suo insieme, risultava evidente che la colpa fosse stata, in parte, anche dell'Icesprite, con il suo orgoglio, con quel ti amo detto e cancellato l'attimo dopo, con i suoi dannati ideali radicati fino al midollo. Avrebbero potuto negarlo all'infinito, attribuire le colpe a sé stessi o all'altro, ma la verità era che quella rottura l'avevano voluta entrambi, e non per mancanza di sentimento, o di volontà, ma per pura e semplice paura.
    Paura, la stessa che, dal cervello ancora fragile del Withpotatoes, si propagò giù fino al suo petto, allo stomaco, alle gambe, per poi risalire fino alle braccia e farle scattare in avanti senza alcun preavviso, abbastanza da poter afferrare la felpa dell'altro e trattenerlo, chissà poi con quale fine. Non ci aveva pensato Mabel, neppure per un istante, un po' come era solito fare: agiva d'impulso, pregando nella buona sorte, ficcandosi nei casini con le proprie stesse mani.
    Come avrebbe potuto contraddire il Serpeverde, d'altro canto? Aveva centrato il punto, inutile provare ad affermare il contrario. Accecato dai suoi timori, non aveva effettivamente neppure considerato che l'altro avrebbe potuto capirlo, aiutarlo persino. Non aveva voluto scommettere su Aaron, dando per scontato che non dir niente sarebbe stata la scelta con meno rischi, ponendo in secondo piano la preoccupazione e la sofferenza che avrebbe potuto causare sparendo senza lasciarsi dietro neppure una parola. Invero: era stato, ancora una volta, un egoista. E cos'avrebbe fatto, il vecchio Mabel, a quel punto? Sarebbe rimasto immobile, avrebbe lasciato che l'altro lo mollasse lì senza provare a fermarlo, convinto di meritarsi quella solitudine in cui, alla fine, tornava sempre a rinchiudersi. O magari ne sarebbe uscito risentito, tanto da non trovare neppure una ragione valida per porre tanto sforzo nel cercare di rimettere insieme i pezzi. Ma quel Mabel adesso non c'era più. O meglio, c'era ancora, ma i suoi estremi riuscivano a bilanciarsi in un equilibrio che, malgrado l'inesperienza, riusciva comunque a dargli un'idea piuttosto chiaro di quello che voleva: Aaron, sempre. E nel desiderarlo, ci avrebbe provato a non perderlo, ci avrebbe provato anche a costo di fallire e farsi ancora più male, perché rinunciare in quel momento avrebbe significato vivere per sempre nel rimorso di non aver fatto niente per cambiare le cose.
    «non mi sono fidato di te, è vero» mormorò dunque, sollevando lo sguardo per incontrare quello altrui «onestamente, non trovo nessuna giustificazione per questo. Avevo paura che avresti provato a fermarmi o che, lasciandomi trasparire anche solo lievemente il tuo disaccordo, avrei perso quel briciolo di coraggio che avrebbe dovuto spingermi ad agire» gli mollò il braccio, infilandosi invece le mani in tasca ed incurvando appena le spalle, come a volersi proteggere dalla sua stessa consapevolezza «l'ho dato per scontato perché, hai ragione, non ti conosco. Ti ho idealizzato talmente tanto da pensare che tu fossi soltanto questo, una persona impossibile da ferire, una che avrebbe potuto proteggermi, e mi dispiace, da morire, perché questo mi ha impedito di conoscerti veramente» se ne stava rendendo conto solo in quell'istante e, se da una parte non poteva che sentirsi ancora una volta deluso da sé stesso, dall'altro lo rendeva ancora più lieto di aver trovato la forza per cambiare le cose «ma vorrei avere la possibilità di farlo adesso, di ricominciare da capo» perché sentiva ancora d'amarlo, ed avrebbe voluto dirglielo, ma non era certo che avrebbe avuto senso a quel punto: amava Aaron, o solo l'idea che si era fatto di lui? Non ne aveva idea, ed aveva un po' paura a scoprirlo, ma voleva provarci comunque, con tutto sé stesso.
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    Non era certo di voler rinunciare a Mabel. Allo stesso tempo, però, era innegabile che fosse stremato dai loro continui battibecchi. E sì, ne era stato la causa principale più volte, ne era pienamente consapevole; era bravo a mettere il dito nella piaga, ad approfittarsi dei momenti di debolezza dell’altro per essere considerato forse più di quanto in realtà meritasse e, doveva ammetterlo, rimangiarsi il ti amo (sebbene l’altro non ne avesse idea) era stato un atto di codardia, di totale incapacità di venire a patti con un sentimento tanto importante. Perché gli era sfuggito e non aveva potuto fare altro se non sentire la propria voce pronunciarle con sicurezza, con quel trasporto che non credeva nemmeno di poter avvertire nei confronti di un’altra persona. Ne era rimasto terribilmente spaventato; prima di Mabel, nessuno era riuscito a scalfire quel muro di silenzi e sguardi truci che soleva rivolgere agli altri studenti di Hogwarts. Nonostante la loro storia fosse durata poco, complici le lettere di Eugéne e Maverick, voleva bene al Withpotatoes. Non quell’affetto per cui gli avrebbe preso le guance tra le dita e tirato come una zia affettuosa, ma quello più delicato di un amico. Perché prima di essere qualsiasi altra cosa, Mabel, per lui, era stato il primo a poter considerare parte della sua vita; un altro essere umano con cui condividere le passioni, i momenti di svago, persino lo studio. Che poi il Tassorosso non lo ascoltasse praticamente mai durante le spiegazioni… beh, quello era un altro discorso e di quello non gliene aveva mai fatto una colpa, conscio dei suoi problemi di concentrazione.
    Ma, appunto, alla fine della fiera il problema era che avevano dato troppa importanza a due sconosciuti, focalizzandosi solo sull’idea che avessero condiviso il futuro, senza fare la cosa più saggia, ovvero quella di badare al presente e darsi una possibilità.
    Che fosse orgoglioso era un dato di fatto, testardo come un mulo anche, ma se c’era una cosa che aveva mostrato al minore era la fragilità dietro quegli occhi di ghiaccio; il pensiero che fosse morto l’aveva piegato come un pezzo di ferro esposto al calore di una fucina, riscaldato a tal punto da liquefarlo sul pavimento. Era rimasto inerme, devastato ed aveva vissuto quel mese con addosso l’ansia e la frustrazione di non aver fatto abbastanza.

    Ed ora lo aveva lì, a due passi, eppure la mancanza di sonno l’aveva portato a rivolgerglisi con un tono canzonatorio, forse fin troppo brusco, esponendo ciò che erano solo una parte dei suoi dubbi o delle proprie convinzioni.
    Avrebbe voluto scrollarsi di dosso le mani di Mabel, dirgli che non aveva senso dire ancora “mi dispiace” o “hai ragione”, ma ricominciare da capo sembrava allettante e forse avrebbe potuto dare loro un minimo di stabilità, con o senza sentimenti romantici in mezzo.
    Mabel era cambiato?
    Le dita strette nella felpa la dicevano lunga sulla persona nuova che aveva di fronte; il vecchio Tassorosso non si sarebbe mai sporto per prenderlo e fermarlo, piuttosto sarebbe rimasto impalato a fissargli le spalle mentre rientrava al Castello per, probabilmente, svenire sul proprio letto.
    In ogni caso, inaspettatamente (forse era la stanchezza a renderlo mansueto) aveva deciso di fermarsi, voltarsi ascoltare il minore.

    «Ti ho idealizzato talmente tanto da pensare che tu fossi soltanto questo» eh, same bro. Nel senso che era arrivato a proiettare un’immagine sbagliata di se stesso a chiunque, per protezione, per non dar modo di essere visto per ciò che era. Forse una merda. Indubbiamente una merda, ma non di certo totalmente privo di problemi; ne aveva anche troppi e farci i conti era… difficile.
    «una che avrebbe potuto proteggermi» il che era stupido, ma perfettamente comprensibile. In realtà avrebbe davvero fatto di tutto per Mabel, anche se era dura ammetterlo; se ne era reso conto esattamente in quei giorni ed aveva realizzato di essere totalmente dipendente dalla consapevolezza che l’altro stesse bene solo per stare bene di riflesso. Quindi sì, forse non era esattamente la persona che l’altro aveva idealizzato, ma proteggerlo rientrava nel suo essere Aaron «questo mi ha impedito di conoscerti veramente, vorrei avere la possibilità di farlo adesso, di ricominciare da capo» un sospiro, uno lieve, gli sfugge dal naso, mentre con la mano libera va a stropicciarsi gli occhi.

    «Okay» mormora, passandosi le dita ad accarezzarsi la barba «okay. Il punto è questo» in realtà c’erano tanto punti da dover mettere e altri da togliere, ma non era assolutamente in grado di esagerare con le parole, aveva già fatto abbastanza poco prima «adesso stai meglio, no?» a giudicare dall’aspetto fisico e dal modo di porsi… beh, doveva aver fatto davvero un ritiro spirituale in montagna o qualcosa del genere. No, non era così stupido da credere ad una tale cazzata, ma lo vedeva che qualcosa nel Withpotatoes non era più la stessa «Possiamo conoscerci. Magari questa volta senza partire dalla fine» e Mabel sapeva esattamente a cosa si stesse riferendo «non saltando step. Accantonando le lettere, provando a parlarne per chiudere il discorso. Non affrettando le cose. Ritornare insieme adesso… non avrebbe senso» e pensava che ne fossero coscienti entrambi, arrivati a quel punto. Ciò non escludeva che quel sentimento che condividevano potesse, in qualche modo, riportarli alla decisione di ritornare ad essere una coppia, ma per il momento pensava che fosse meglio non correre. Non quando doveva riprendersi da un infarto ma, soprattutto, recuperare sonno.

    «Sono davvero… contento che tu abbia trovato qualsiasi cosa volessi trovare» prima gli era uscito forse un po’ troppo sarcastico, ma era la verità «e quando vorrai, magari, ne parleremo. Se vorrai raccontarmi cosa è successo, ti ascolterò. Non ora, magari. Ho… tipo… davvero sonno e vorrei abbracciare il cuscino» era già tanto che non si fosse steso sull’erba a dormire come gli antichi nei giacigli.

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