Hate is... It's too easy. Love. Love takes courage.

Viktor x Charles

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    Viktor Asmodeus Dallaire
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    Un codardo lo era sempre stato e per quanto si ripetesse che non fosse così, alla fine dei conti riusciva sempre a dimostrare – e dimostrarsi – il contrario. Scappare da Charles era stato facile, perché in quel modo aveva messo dei paletti, una sorta di “non voglio la tua presenza nella mia vita” ma meno definitivo, più un pensiero che aveva tenuto per sé e che si era ritrovato a rigettare seduto sul proprio letto, incapace di frenare il tremore delle mani, il bruciore negli occhi, le spalle tese come delle corde di violino.
    Spaccare tutto non lo avrebbe aiutato a sentirsi meglio, né credeva che i suoi compagni Grifondoro meritassero di trovarsi il caos in camera; non poteva prendersela con nessuno se non con sé stesso. Per la propria incapacità di affrontare le situazioni senza lasciarsi sconvolgere e farsi venire un attacco di panico. Perché di quello si poteva parlare: puro, semplice, terrificante panico.
    Era arrivato al punto di credere che respirare fosse superfluo e che la sensazione di dolore all’altezza del cuore non fosse altro che una conseguenza di tutte le azioni commesse e di tutte le promesse infrante. Di come si era sentito il secondo per troppo tempo e di come sentiva ancora di esserlo, per tutti: mai il primo.
    Era una realtà che lo corrodeva dall’interno e che l’aveva sempre portato a domandarsi cosa ci fosse di sbagliato nella sua vita, il perché tutto e tutti sembrassero accanirsi su di lui come se avesse una maledizione addosso. E forse l’aveva davvero, perché non era possibile che dalla sua nascita avesse solo sperimentato odio, indecenza, violenza e abbandono; alle volte si domandava il perché fosse ancora vivo, cosa l’avesse spinto a tentare di andare avanti e provare a sistemare ciò che in lui sembrava essersi rotto in mille pezzi.

    Mortimer avrebbe dovuto lasciarlo a terra a morire. Lasciarlo spirare in pace, senza l’incombenza di riprendere in mano le redini di un’esistenza già di per sé deleteria, fatta di vizi e totale apatia.
    Con Charles non aveva mai avuto nulla ed ora sembrava essere diventato tutto: la sua famiglia, il suo migliore amico, ciò per cui sentiva ancora un legame. Ma quest’ultimo l’aveva abbandonato, lasciandolo in un vuoto incolmabile che il suo cuore non era riuscito più a reggere; si domandava, quindi, se in un momento tanto delicato non avesse avuto un sostegno, Hunter in quel caso, cosa ne sarebbe stato di lui.
    Forse sarebbe apparso nei giornali con un sottotitolo inneggiante al Regime, magari un “morto per essere stato uno stupido”, il che sarebbe calzato perfettamente con ciò che sentiva di essere.
    Il suo modo di vivere era mutato con il tempo, ma alle volte rimpiangeva il Lilium, il modo in cui riusciva a tenere tutto il resto fuori e concentrarsi solo sulla musica, sugli insegnamenti di Svetlana. Sul suono della sua voce, delle sue movenze; non c’erano amore, sentimenti, amicizia, dolcezza. Solo sesso, un porto sicuro in cui sfogare la rabbia, in cui imparare ad essere tutto ciò che gli altri desideravano fosse.

    Prima del Corvonero, prima delle Torture, prima che il suo corpo fosse brutalmente sfregiato, prima ancora di capire chi fosse Charles, aveva vissuto come un pezzo di carne vuoto con dei tagli a solcargli la pelle, ma con ancora abbastanza amor proprio da pensare a se stesso, a contare solo sulla propria bellezza.
    Poi era cambiato tutto. Il suo mondo era stato capovolto, le certezze frantumate, l’idea che fosse più di quello che appariva era riuscito a fargli crollare ogni sicurezza.
    La consapevolezza che avrebbe dato la vita per Hunter e per Charles sarebbe stata inconcepibile mesi prima, eppure.
    Nonostante questa nuova visione fosse il sintomo che non avesse perso del tutto la propria umanità, trasformandosi in uno dei suoi fratelli, ciò non lo rendeva quieto, tutt’altro.
    Perché era stanco, e triste, e solo e non sentiva di essere abbastanza. Non c’era niente che riuscisse a farlo sorridere per più di qualche minuto se non il tempo speso con l’Oakes, che in ogni caso sembrava sempre più spaventato dai sentimenti, da ciò che le sue dichiarazioni sembravano mettere in luce. La paura del Corvonero, quasi come se fossero connessi, era anche la propria.

    Non era stato semplice ignorare Eméric con la consapevolezza che dietro quegli occhi neri ci fossero, invece, quelli azzurri del cugino. Mantenere il segreto, tacere ogni singola parola fino a farsi scoppiare il fegato; perché non era così facile fare finta di non vederlo, di non volergli parlare, ed ogni volta sembrava come se volesse sporgersi per dirgli qualcosa, per iniziare un discorso, per poi ritornare fermo a dirsi che no, non poteva. Non davanti a tutti. Era spaventato che gli altri studenti potessero capire qualcosa o peggio insinuare che tra di loro potesse esserci una relazione; visti i suoi trascorsi non avrebbe di certo faticato a credere che qualcuno, vedendolo insieme ad un assistente privatamente, potesse pensare ad altro che non fossero parole. C’era abituato, non era niente di nuovo, ma non voleva che quegli stupidi pettegolezzi arrivassero alle orecchie sbagliate.

    Era stato veloce a lasciare un biglietto al Dumont, a metterglielo in tasca senza farsi notare dalla classe, né dal professor Campbell, lo sguardo gelido a trafiggerlo senza pietà.
    Barnaba il Babbeo bastonato dai Troll 0 0 1 0.” era l’unica cosa che, sperava, non fosse così intuibile all’esterno, ma che per Charles risultasse abbastanza chiara. La Stanza delle Necessità era l’unico luogo in cui avrebbero potuto parlare senza essere scoperti e i numeri non erano altro che l’orario e non di certo un codice binario.

    ------

    Il coprifuoco era passato da un pezzo, ma ormai era abituato a girovagare per il castello in piena notte, quasi che desiderasse farsi scoprire. Era sadico? No, solo insonne.
    Senza l’Oakes a dormire accanto a lui, ormai, gli risultava difficile persino pensare di chiudere occhio; era un’abitudine che però avrebbe dovuto smettere di considerare terapeutica. Un giorno il Corvonero avrebbe potuto decidere che non volesse più avere nulla a che fare con lui e… poi? Cos’avrebbe fatto?
    Non voleva pensarci.

    Le elucubrazioni mentali vengono interrotte dal rumore di passi in corridoio e dalla presenza dinoccolata del Lacroix. Senza dire nulla, si appresta a passeggiare tre volte di fronte ad un ampio muro, desiderando con assoluta urgenza un luogo confortevole dove poter parlare senza essere disturbati. Un’immensa porta dorata, dalle rifiniture elaborate, gli appare davanti agli occhi quasi immediatamente. Piano, quindi, spinge un’anta, attendendo che il francese facesse il suo ingresso, per poi chiudersela alle spalle. In tutto questo, non aveva nemmeno avuto il coraggio di alzare lo sguardo per poterlo fissare. Ah, se qualcuno li avesse visti per caso…

    «Come sei tornato?»

    Non era la domanda giusta con cui iniziare quel discorso, ma era l’unica che gli ronzava in testa da quella volta nella Torre dell’Orologio. In quell’occasione, con loro, c’era stata anche Amélie, ma… come spiegare il bisogno di essere soli? Di avere davanti suo cugino senza essere interrotti?

    Le iridi azzurre, prima puntate verso il muro, si sollevano a guardarlo finalmente in viso, avanzando di qualche passo per colmare la distanza. Eméric non era Charles ed era palese la differenza d’altezza, il viso più affilato, i capelli più lunghi e le spalle più ampie. Aveva rubato l’identità a qualcuno? Di sicuro doveva essere stato aiutato, perché le difese ad Hogwarts non erano di certo facili da espugnare, tanto meno da aggirare.

    «Perché hai deciso che ne valesse la pena?» per me? Avrebbe voluto domandare, ma era così disilluso da non avere nemmeno la forza di domandare una simile sciocchezza. Non era lì per lui o se lo era, doveva essere accaduto qualcosa tra lui e Iden tanto da spingerlo a ricercare un perdono che non sapeva neanche come concedere.
    Tuttavia, oltre il rancore e la diffidenza, c’era anche quell’affetto che non sapeva nascondere e che sarebbe stato, sicuramente, la propria rovina.
    «Ho…» sentito la tua mancanza «pensato che fossi morto» e sono morto nel pensarlo.

    C’era rigidità nei suoi movimenti, il leggero tremore del nervosismo, il febbrile tentativo di nascondersi da Charles. Perché poteva anche far finta che non fosse così, ma il Dumont aveva visto spesso quell’espressione sul suo volto, quella colpevole e che sapeva di sangue più di ogni altra.
    «Cosa ti ha fatto pensare che venire qui e fingerti un assistente di una materia in cui non eccelli nemmeno sia stata una buona idea?» affila le palpebre, girandogli intorno per scaricare lo stress, ma sembrando più un avvoltoio pronto a cibarsi della carcassa. Non lo era. Non si chiamava Mephisto.
    «Incosciente. Sconsiderato. Totalmente senza senso. Stai mettendo a rischio la tua vita passeggiando tra i corridoi del Castello. E la cosa ancora più idiota» sottolinea, sventolando un dito in aria, tremolante «è che dicendolo a me e Amélie hai messo ancora più a rischio la tua posizione, perché se decidessero di usare il Veritaserum su uno di noi, non saprei nemmeno io come fare per aiutarti!» gli tira un pugno sul braccio, forte, arricciando le labbra in una smorfia arrabbiata «lezione di pozione del quinto anno, Charles» sbuffa dal naso, con la mascella serrata tanto da far vedere le ossa muoversi sotto la pelle sottile «Imbecille» un pugno «saresti dovuto tornare in Francia» altro pugno «e nasconderti» e… sì. Altro pugno.
    E dire che non era mai stato manesco, non fino a quel momento. Ma Charles se li meritava, tutti, nessuno escluso, e sperava che quel braccio gli diventasse viola e che colmasse almeno in parte quel dolore che gli aveva fatto provare e che sentiva ancora scorrere dentro, come un veleno.

    Si passa la mano sulla fronte, esausto, scuotendo il capo.
    «Mi ero ripromesso che non ti avrei aiutato, non di nuovo, perché ero quasi in pace. Non tanto, un poco. Ma eccoci qui» avrebbe mai smesso di mettersi in pericolo per Charles? Spoiler: no.

    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
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    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    L'aveva temuto e sperato insieme, per settimane, che Viktor accennasse a volerlo avvicinare. Un po' era per la nostalgia, perché sebbene per troppo tempo l'avesse dato per scontato, in quei mesi d'assenza si era finalmente reso conto di quanto fosse importante, di quanto gli volesse bene. Un po' era il senso di colpa, andava ammesso, che non l'aveva mai lasciato da quando quel giorno all'Inferius il Dallaire gli aveva mostrato i segni sulla sua pelle, il dolore nei suoi occhi. Un po' ancora era la rabbia, perché non riusciva ad accettare l'idea di essere tornato nel luogo che più di tutti aveva ferito e continuava a ferire il suo già fragile ego per il grifondoro, e di non poterlo comunque avere accanto come avrebbe voluto. Ed infine era la solitudine, perché la consapevolezza di non potersi più appigliare alla speranza di avere ancora un accenno di famiglia si era fatta più acuta una volta affrontata la realtà fuori dalla Stamberga.
    Non l'aveva più cercato. Non perché non l'avesse voluto, al contrario, ma perché comprendeva le ragioni del cugino, perché non gli sembrava giusto insistere fino a che l'altro non fosse stato pronto a volerlo perdonare e, qualora non lo sarebbe stato mai, allora avrebbe imparato ad accettarlo.
    Avrebbe voluto dire che si aspettava, prima o poi, un passo dal Dallaire, ma non era così: un tempo sì, il francese gli era stato tanto devoto da accettare pazientemente ogni suo gesto sconsiderato; ma, da quella famosa sera di Dicembre, erano entrambi cambiati fin troppo per poter prevedere l'uno il comportamento dell'altro.
    Viktor era ferito, schiacciato dal peso dell'ennesima violenza, in bilico fra il desiderio di reagire con rabbia e quello di lasciarsi andare alla disperazione. E Charles, per la prima volta, poteva capirlo davvero, perché anche lui si sentiva così: ancora aggrappato con tutte le sue forze a quell'esistenza vana, pur consapevole che bastasse semplicemente mollare la presa per avere finalmente un po' di quiete. Come avevano fatto a ridursi così, gli stessi che fino a qualche mese prima parlavano esclusivamente di argomenti superficiali, fumavano assieme e riuscivano persino a ridere davvero? Oh, la risposta era semplice: era, ancora una volta, colpa sua. Forse in fondo a Charles era servita, forse l'aveva aiutato a crescere, ma Viktor? Non ne aveva bisogno, e certo lui non aveva il diritto di trascinarlo dentro a quel casino. Ma era stato sconsiderato, egoista, irresponsabile, e non aveva riflettuto un solo istante su come le conseguenze delle proprie azioni avrebbero potuto irrimediabilmente influire sulla fragilità del cugino.
    Ecco perché non riusciva più a guardarlo negli occhi.
    Non lo faceva durante le lezioni, né tanto meno nei corridoi, né lo fece una volta giunto nei pressi della Stanza delle Necessità dove questi gli aveva dato appuntamento. Si limitò a rivolgergli un cenno del capo prima di seguirlo all'interno della stanza, relegando il ricordo ad essa connesso nell'angolo più angusto della propria mente.
    «Come sei tornato?»
    L'ambiente non era affatto come quello che ricordava. Non c'erano più mobili rotti, polvere, teli a coprire carcasse di vecchi armadi e letti oramai inutilizzabili. Quel posto, che si trasformava in base alle necessità di chi vi metteva piede, somigliava meno ad uno sgabuzzino dimenticato e più alla camera che condivideva con Viktor nella casa dei suoi nonni. Era ironico a pensarci, ma in un certo senso lo faceva sentire meno estraneo, più a suo agio.
    Poggiò la schiena contro la cassettiera di legno, incrociando le braccia al petto e restando in silenzio per qualche istante alla ricerca della cosa giusta da dire.
    «a quanto pare non sono tutti seguaci del regime in questa scuola» che, per quel che riusciva a ricordare, non era poi così scontato «e mi hanno dato una mano, soprattutto erin, e il professor campbell» ammise, sollevando il capo vero il Dallaire ma non osando guardarlo direttamente in viso «ma se quello che mi stai chiedendo è "di chi è questo corpo?", allora la risposta è "non lo so"» quasi per riflesso, si passò una mano fra quei capelli non suoi e sospirò, scrollando appena la testa «o almeno, ho scelto di non sapere più dello stretto indispensabile, per non perdere la testa del tutto» perché no, se già di per sé l'idea di perdere il proprio normale aspetto l'aveva turbato sin dal principio, la consapevolezza di aver letteralmente rubato l'identità a qualcun altro era decisamente troppo da sopportare.
    «Perché hai deciso che ne valesse la pena?»
    E se la prima domanda era già stata difficile, quella richiedeva uno sforzo ancora maggiore. Non era semplice spiegare cosa l'avesse spinto a tornare, né cosa gli avesse impedito di restare con Iden. A malapena riusciva a raccontarlo a sé tesso, e doverlo esprimere a voce gli appariva ancora più complicato, ancora più doloroso.
    Restò in silenzio più del necessario, abbastanza da lasciare che Viktor parlasse ancora, che sfogasse tutte le domande che certamente dovevano frullargli in testa da chissà quanto, che lo colpisse finché volesse - che senso aveva opporsi? La sua rabbia non era niente in confronto a ciò che sentiva di meritare.
    «saresti dovuto tornare in Francia e nasconderti»
    A quel punto, però, non dovette neppure pensarci. Gli afferrò il polso, pronto a sferrare l'ennesimo pugno, e lo strinse, posando finalmente le iridi scure su quelle del cugino.
    «io non posso tornare in francia, vik» sibilò a denti stretti, avvicinando il volto a quello altrui «non posso rimettere piede in quella casa, lo capisci?» lo lasciò andare, staccandosi dal mobile a cui si era poggiato ed avanzando qualche passo oltre il cugino «per quello che ne so, è ancora come l'ho lasciata quella sera» mormorò, la voce improvvisamente arrochita da un doloroso nodo alla gola «ma, in effetti, c'erano altre cose che potevo fare, non credere che non ci abbia pensato a fondo» ci aveva pensato così tanto che, ad un certo punto, aveva temuto che gli scoppiasse la testa. Andò a sedersi su quello che somigliava terribilmente al proprio letto di casa, assaporando per un istante la sensazione di familiare «potevo contattare dei vecchi amici di mia madre, gli stessi stronzi che l'hanno mollata quando non gli è più stata utile ma che, con un po' di fortuna, forse avrebbero aiutato me» in fondo, glielo dovevano «potevo racimolare un po' di soldi e pagare una passaporta per qualsiasi altro posto che non fosse la francia» ecco, questa era stata l'idea che l'aveva allettato maggiormente «o potevo restare alla Stamberga, in fondo era quello che volevo» aggiunse in un mormorio sommesso, ricordando a sé stesso che, no, quella non era un'opzione davvero attuabile. Ci aveva provato, con tutto sé stesso, ma alla fine aveva dovuto ammettere di non poterlo semplicemente fare. «ti assicuro che venire ad hogwarts era l'unica cosa che non volevo fare eppure, nel caso non lo avessi ancora capito, certo che l'ho fatto per te».
    Poggiò la schiena contro il muro, allungando le gambe sul materasso e prendendo a mordicchiarsi nervosamente la guancia. Era sempre così difficile esprimere ciò a cui stava realmente pensando.
    «non ci crederesti nemmeno tu se ti dicessi che ho mollato la mia vita felice per tornare in questo posto del cazzo» stava quasi per aggiungere 'con iden' dopo 'vita felice', ma non era certo di poter ancora pronunciare il suo nome senza che la voce gli tremasse «sai, pensavo davvero di potercela fare a vivere come un fuggitivo, rischiare la vita persino per andare a comprare le sigarette, diventare davvero il ribelle che tutti i giornali dicevano che fossi e, chi lo sa?, magari morire per la causa» ed a quel punto gli sembrava tutto così assurdo, così stupido, che quasi gli venne da sorridere al solo pensiero «non so esattamente quand'è che me ne sono accorto, ma ho realizzato che avrei potuto fare letteralmente qualsiasi cosa pur di restare» e, per intenderci, non si riferiva alla Stamberga «forse avrei persino accettato di diventare un vero seguace del regime, o di buttare via anche quel poco che restava del mio futuro come se non avessi già fatto abbastanza» si tastò una tasca alla ricerca della fiaschetta con la pozione polisucco e, tiratola fuori, ne ingollò un sorso prima di continuare «il fatto che io mi sia annullato completamente per... insomma, quello, non è una giustificazione a niente, lo so bene. Non sono improvvisamente diventato incapace d'intendere e di volere, e tutto quello che ho fatto è stata una mia scelta, ma vorrei che tu capissi che non ho lasciato te per capriccio, o perché non m'importava abbastanza» in quel caso sarebbe stato, con tutta probabilità, molto più semplice di come invece era «ma perché, odio ammetterlo, ma ero completamente perso e, in un certo senso, non ho potuto fare altrimenti. E, credimi, non è stato semplice capirlo, né tanto meno accettarlo. E' passato un mese prima che decidessi di andarmene davvero» e, se non avesse assistito alla tortura di sua madre da bambino, probabilmente quel mese avrebbe vinto il premio come peggior momento della sua vita «e che mi accorgessi che non c'era nessun altro posto in cui potessi andare se non dov'eri tu. E non perché avessi bisogno di qualcuno, o perché mi aspettassi una tua accoglienza a braccia aperte - in realtà mi sarei fatto andar bene anche se avessi scelto di non parlarmi più. Però volevo che sapessi che, per qualsiasi cosa, io sono qui. Di solito faccio solo casini, lo so, ma giuro che ci sto provando veramente ad essere... migliore
    Maybe I'm defective
    Or maybe I'm dumb. I'm
    sorry, so sorry for what I've done.
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    Edited by wait‚ wat? - 8/4/2019, 13:33
     
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    Viktor Asmodeus Dallaire
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    Forse avrebbe dovuto stupirsi.
    Mostrare un’espressione allucinata di fronte alla rivelazione che Erin e Phobos fossero dalla parte opposta della medaglia, ma poteva davvero? Le persone citate da Charles erano quelle che più di tutti gli erano sempre sembrate così… palesi. Non perché stupide o, peggio ancora, facilmente intuibili, ma i modi di entrambi gridavano gioia, affetto, voglia di vivere e non aveva mai scorto nulla di diverso, niente che potesse fargli credere anche solo per un istante che fossero dei Mangiamorte. Neutrali, forse, ma non persone cattive.
    Era sollevato nel sapere che un adulto, un professore, avesse preso in mano le redini della vita del Dumont, perché era evidente: da solo non avrebbe saputo nemmeno cosa farne. Non era presunzione la sua, né pensava che avrebbe fatto meglio nei panni del cugino, solo… l’incoscienza dimostrata da Charles tradiva la sua età e il furore che sembrava essergli sbocciato nel petto troppo presto.
    Campbell era da ammirare, ma riportare un fuggitivo ad Hogwarts era… pericoloso. Forse ancora di più del tenerlo al sicuro da un’altra parte, lontano dalla pressione dell’essere un assistente di una materia che, doveva ammetterlo anche Charles, fosse ostica e difficile.

    Erano ovvietà quelle che gli stava gettando addosso.
    Non aveva nemmeno bisogno di sapere di chi fosse quel corpo, perché alla fine non gli importava. Cos’avrebbe cambiato venire a conoscenza del passato del vero Eméric Lacroix? Per quanto gli riguardava, poteva anche essere morto in un vicolo sperduto di Parigi.
    Non si sarebbe aspettato una reazione diversa dal francese, ma la mano a stringergli il polso—ecco, quella faceva male. Non perché si sentisse punto nell’orgoglio, al contrario, piuttosto era ciò che nascondeva sotto i vestiti a bruciare, a fargli contrarre il viso in una smorfia di dolore. Non era passato tanto tempo ed erano ancora freschi i tagli sulla carne, tanto da essere stato costretto a bendarsi per evitare che il sangue zampillasse e sporcasse la veste. Che ne poteva sapere il Dumont? Il suo gesto non era altro che un modo per far sì che lo guardasse negli occhi, che comprendesse il perché aveva deciso di rischiare piuttosto che rintanarsi in un luogo più sicuro. Pensava, forse, che non l’avesse capito? Che non avesse intuito che il non ritornare in Francia fosse un modo per non dover combattere contro gli spettri ad infestare le pareti di quella casa dove, da bambino, aveva assistito alla tortura della madre?
    Charles dava per scontato che tutte quelle cose non le avesse messe in conto, tuttavia lui pensava, pensava, pensava e ogni volta cercava sempre di unire il puzzle, per dare una spiegazione ai maldestri tentativi del Dumont di espiare le colpe che si portava dietro.

    «ti assicuro che venire ad hogwarts era l'unica cosa che non volevo fare eppure, nel caso non lo avessi ancora capito, certo che l'ho fatto per te»

    E forse questo non l’aveva considerato possibile, perché già una volta all’Inferius si era sentito dire cose del genere, ma… era stato il tono, il modo in cui le spalle del cugino sembravano essersi curvate, il riferimento ad una vita felice che aveva lasciato per tornare lì, da loro. Da lui. Magari era anche perché non credeva affatto che il piano di fuggire con Iden fosse andato a buon fine, perché il Corvonero non aveva mai avuto parole gentili per Charles, né pensava le avrebbe mai avute. Da una parte era sollevato che il Dumont avesse lasciato quel violento; l’aveva detestato dalla prima volta in cui gli aveva messo le mani addosso e le cose non erano andate a migliorare con il tempo. Solo… qualche mese prima sarebbe stato diverso. Non si era mai spinto oltre per dire al ragazzo “Ti prego, smettila. Ti farà soffrire” o preso in mano la situazione andando a gonfiare di botte il Kaufmann. Il vecchio Viktor si sarebbe fatto gli affari propri, lasciando spazio al Dumont, dicendosi che non fossero affari propri, nonostante la preoccupazione; il nuovo Viktor, d’altro canto, aveva perso la pazienza, sviluppando in primis un’intolleranza verso i prepotenti e, in generale, un odio profondo per chiunque potesse anche solo pensare di mettere le mani addosso a chi amava. Che fosse Hunter, Amélie, Charles… non aveva importanza.

    «e che mi accorgessi che non c’era nessun altro posto in cui potessi andare se non dov’eri tu» ecco. Erano quelle le cose che gli facevano credere che il cugino sapesse sempre dove mirare, con una precisione millimetrica, per renderlo totalmente inerme. Privo di difese.
    Quelle parole le aveva aspettate per tutta la vita, ancora prima di capire che avesse bisogno di sentirle pronunciare. Forse prima non avrebbe dato il giusto peso ad una confessione del genere, ma adesso era tutto diverso, le loro vite erano in pericolo e Charles non si sarebbe mai sbilanciato solo per mettere una toppa sulla loro relazione.

    Piano, quindi, si massaggia la parte lesa, rimanendo in silenzio fino alla fine. Per lasciarlo sfogare? In parte, ma soprattutto per pensare a cosa poter rispondere, a cosa dire affinché potessero mettere una pietra su quanto accaduto e, perlomeno, coprirsi le spalle a vicenda. La fiducia era un’altra storia, per quella il cugino avrebbe dovuto penare, forse addirittura non l’avrebbe più riavuta indietro; perché l’abbandono era difficile da dimenticare e, conoscendosi, non riusciva nemmeno a mangiare un gelato senza segnare a vita sulla lista nera chi tentava di rubarglielo.

    «Possiamo… collaborare» si avvicina con cautela, sedendosi sul divano e cercando le parole adatte per poter mantenere la conversazione su toni meno accesi. Non era lì per litigare, ma nemmeno per abbracciarlo come un tempo «e voglio crederci» lo voleva sul serio, lo si poteva leggere in quegli occhi azzurri velati dalla stanchezza «tradiscimi o fai qualsiasi cosa che possa mettere in pericolo Amélie o Hunter e non ci penserò due volte a portare il tuo cadavere ai Mangiamorte» era mortalmente serio? Sì. Sul suo viso nemmeno l’ombra di una smorfia, solo il gelo in quella minaccia, perché le cose dovevano essere ben chiare: o lui o loro. E se avesse dovuto scegliere chi salvare, se Charles non avesse mantenuto fede a quanto detto, non avrebbe più avuto dubbi.

    Dopo si rilassa, sospirando dal naso, battendo il posto accanto a sé con la mano per invitare il cugino a sederglisi accanto. Okay, forse la minaccia di morte non aveva aiutato nell’impresa di mantenere il tutto meno… come dire—difficile, ma aver detto ciò che pensava l’aveva aiutato ad affrontarlo con ancora più convinzione «Vuoi dirmi cosa è successo?» domanda, fissandolo per un attimo, ma senza effettiva curiosità, forse con una punta di preoccupazione. Perché sì, Charles si era totalmente annullato per Iden, ma… «ti ha fatto qualcosa?» un’illuminazione, tanto da fargli sgranare le palpebre e stringere le labbra «che ti ha fatto quel cavernicolo?!» conoscendo il Dumont, non avrebbe mai abbandonato il Kaufmann se questo non avesse fatto qualcosa per ferirlo a tal punto da farlo pentire delle proprie scelte. Charles non si pentiva m a i, e questo era sempre stato un pregio, ma allo stesso tempo un difetto «Chéri» un appellativo che avrebbe dovuto sottolineare dell’affetto, ma che in realtà nascondeva un’intonazione tagliente, quasi un “lo sgozzo nel sonno” sottinteso. E sì, ne sarebbe stato capace.
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    Edited by Fancy|Bitch - 11/4/2019, 03:02
     
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    Non era un calcolatore il Dumont, non lo era mai stato. Rimuginava spesso, quello sì, ma nella maggior parte dei casi finiva sempre per seguire l'istinto e mai la ragione. Neppure col senno di poi, dopo aver accumulato talmente tante cicatrici da non poterle più contare sulle dita di una sola mano, riusciva a smettere di essere il dannato impulsivo di sempre.
    Neanche le parole che aveva rivolto a Viktor erano state studiate. Sapeva, perché era stato lui stesso a dirglielo mesi prima, che il cugino agognasse il suo sincero interesse, la dimostrazione che fossero davvero una famiglia e non due sconosciuti con qualche gene in comune. Lo sapeva, eppure non aveva sfiorato quel tasto nel mirato tentativo di ottenere comprensione, o addirittura perdono - no, l'aveva fatto e basta, perché era quello che sentiva, perché non era mai stato bravo a tenere a freno la lingua quando in ballo c'erano le sue emozioni.
    E forse doveva sembrare un disperato, magari lo era davvero, ma voleva realmente essere il fratello che Viktor aveva sempre sperato che fosse, lo voleva come se al mondo non ci fosse altro da fare per lui che essere per il Dallaire il sostegno che non era mai riuscito ad essere prima.
    «Possiamo… collaborare» tornò a respirare il Dumont, rilassando le spalle da una tensione che aveva trattenuto fino a quel momento senza neanche accorgersene. Annuì, solenne, accomodandosi affianco al grifondoro e reclinando il capo indietro sulla spalliera del divano, chiudendo le palpebre per qualche istante.
    «non ti tradirei mai» e non era una cosa detta con leggerezza: Charles era un testardo, uno stronzo, un egoista ed un incosciente, ma non avrebbe mai fatto niente per mettere appositamente in pericolo le persone a cui voleva bene. L'aveva fatto una volta, invero, ma solo perché non aveva calcolato il reale costo delle sue azioni, e non avrebbe più commesso lo stesso sbaglio. «né è mia intenzione ferire ancora amélie» si fermò a quel nome, esitando qualche istante prima di aggiungere «o hunter. Non lo conosco, e sai che tendo a partire un po' prevenuto, ma se ti ha aiutato mentre non c'ero, se ti ha fatto star bene - farò del mio meglio affinché le mie azioni non mettano in pericolo neanche lui».
    Per qualche tempo, subito dopo la sua fuga, aveva odiato l'Oakes alla stregua di tutti quelli che quella sera gli avevano voltato le spalle,. Con più lucidità, successivamente, era quasi riuscito a comprendere le ragioni del corvonero, così come quelle degli altri suoi compagni, e la sua rabbia si era trasformata in puro istinto di protezione nei confronti del cugino. Non che egli stesso fosse mai stato esemplare in tal senso, andava ammesso, ma più acquisiva consapevolezza a riguardo, più le cose con Iden andavano incrinandosi, e meno fiducia sentiva di poter riporre nelle persone, specie se appartenenti alla casata di Corinna. Per farla breve: non voleva che Viktor soffrisse quanto aveva sofferto lui, che facesse i suoi stessi errori.
    «Vuoi dirmi cosa è successo?»
    Sapeva che, ad un certo punto, quella domanda sarebbe arrivata. Si era anche ripromesso che, per una volta, avrebbe fatto lo sforzo di lasciarsi andare, di buttare fuori tutto quello che aveva dentro - ma era così maledettamente difficile. Sentiva il cuore pompargli nel petto fastidiosamente, un nodo allo stomaco a impedirgli persino di fiatare, i denti a mordicchiare nervosamente l'interno della guancia.
    «ti ha fatto qualcosa?»
    Oh, ma era sveglio Viktor, non certo uno sprovveduto. Sarebbe dunque potuto risultare più semplice aprirsi, conscio che l'altro non avrebbe mai potuto esprimere un solo giudizio che potesse farlo sentire più inadeguato di quanto già non si sentisse, eppure non riusciva comunque a farlo il Dumont. Non voleva neppure pensarci, e disperatamente cercava d'aggrapparsi ad un ricordo, uno qualsiasi, che impedisse alla sua testa di correre a quella stramaledettissima notte, di rivivere quei momenti che avrebbe soltanto voluto dimenticare.
    Non si era obliviato, anche se avrebbe potuto, ma soltanto perché una parte di sé, evidentemente la più sciocca, ancora non se la sentiva di lasciare andare del tutto il ricordo di Iden Kaufman. Quella stessa parte, di tanto in tanto, guardava alla Stamberga e desiderava farvi ritorno, mollare tutto ancora una volta, ma Charles aveva smesso da un pezzo di dargli retta. Tuttavia, era ancora così difficile, così doloroso, così devastante.
    «no, dieu, no» mormorò, sforzandosi di sorridere «è colpa mia. Sapevo sin dal principio come stavano le cose e mi sono ostinato a volerci provare comunque. E' colpa mia, davvero.»
    Per una volta, non era una questione d'orgoglio: in fondo Iden non gli aveva mai promesso niente, non gli aveva mai dato neppure modo di credere che tra loro avrebbe mai potuto esserci qualcosa, dunque non poteva addossare a lui la colpa d'averlo rifiutato, questo no. Il problema era il come. Il come, pur potendo semplicemente mandarlo a fanculo, aveva scelto di spezzargli il cuore, di calpestarlo fino a non lasciare altro che vecchi rottami di una macchina già difettosa, di farlo sentire sciocco, e sbagliato, e tremendamente piccolo, insignificante, più di quanto non si fosse mai sentito.
    «vorrei solo -» si portò una mano sulla fronte, non accennando neppure a togliersi quell'amaro sorriso dalle labbra, esitando appena prima di riaprir bocca per impedire alla sua voce di tremare «niente, non vorrei niente» si passò le dita fra i capelli, prima di far schioccare la lingua sul palato e drizzarsi a sedere, voltando il capo verso il Dallaire per incontrare il suo sguardo.
    «noi - siamo stati insieme una volta, la scorsa estate. Io ero al Lilium come Charléne, lui aveva preso della polisucco, e non avevamo idea di chi fossimo davvero» non voleva sentire ancora le sue labbra, la sua lingua, le sue mani, il suo respiro addosso, ma li sentiva cristo, li sentiva eccome «io me ne sono accorto alla fine, e per qualche fottuto motivo ho voluto dirglielo» che coglione «e credo che per lui l'idea di essere stato con me sia rimasta inaccettabile. Probabilmente voleva solo -» riprovare le stesse cose? Fargliela pagare? Fargli male? Dimostrargli qualcosa? Dimostrarsi qualcosa? «- non lo so che cazzo voleva, davvero, non lo so» strinse i denti il Dumont, poggiando i gomiti sulle ginocchia, la fronte sui palmi aperti «io vorrei solo non parlarne più» e non pensare più, non sentire più, non soffrire più.
    Maybe I'm defective
    Or maybe I'm dumb. I'm
    sorry, so sorry for what I've done.
    eméric lacroix
    (charles dumont)
    20 y.o.
    french
    rebel
    polyjuice
     
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