i want you to stay a while

al + mae

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    «stai davvero una merda, non c’è che dire.» eccole lì, le parole che ogni persona sulla soglia dei trent’anni smaniava dalla voglia di sentirsi dire, specie da parte di un qualsiasi operatore sanitario. Non che Aloysius Crane avesse realmente bisogno di uno Shot, improvvisatosi infermiere – o… qualsiasi cosa facesse nell’ospedale parigino, ancora non ne era certo; per quanto ne sapeva lui, avrebbe potuto essere lì solo per rubare organi da rivendere al mercato nero -, che gli ricordasse la propria situazione attuale. Se si trovava seduto su quel lettino, nel tardo pomeriggio di una domenica a metà marzo, non era certo per farsi fare le analisi del sangue: lo sapeva bene anche da sé, di stare davvero una merda. Abbassò lo sguardo sulle ginocchia, ove le mani ancora sozze di sangue, sfregando con fin troppa inutile forza sulla salvietta umidificata, cercavano di liberarsi da quella sensazione di appiccicume, sperando di non insudiciare anche lo scuro cotone dei pantaloni oltre alla camicia. Con intenzionale flemma, quasi preferendo evitarsi un rituale che da diversi mesi aveva iniziato ad essere una costante sempre più opprimente nella propria quotidianità, il biondo lasciò che lo sguardo smeraldo cadesse sull’orologio da taschino abbandonato al suo fianco. Un sospiro, appena rauco a graffiargli il palato, fu tutto ciò che si lasciò sfuggire nel constatare quanto la lancetta fosse avanzata da quando il Lancaster dell’altro universo gli aveva affidato l’oggetto, e quanto poco mancasse prima del suo ritorno al punto di partenza - troppo poco.
    Così maledettamente troppo poco da fargli domandare, talvolta, nelle notti più buie ed insonni, se dovesse sperare o meno il tempo si accorciasse, e che tutto finisse il più in fretta possibile. Non voleva morire, Al: era letteralmente l’ultima cosa che avesse intenzione di fare, e non mal sopportava quel dolore a tal punto da dover scongiurare smettesse – aveva sopportato di peggio per una vita intera, e nonostante tutto quella era una pena che già aveva conosciuto in maniera diretta; non lo spaventava la sofferenza, al massimo lo infastidiva. Quel che non poteva reggere, quando il proprio battito era tutto ciò che rimbombasse nella camera di Villa Hamilton 2119 version, era la consapevolezza che non fosse soltanto il suo quello a battere nello sterno. A fare male era l’idea che suo fratello e Shia, distanti più di quanto la fisica potesse concedergli di misurare, stessero patendo quella stessa merda senza nemmeno capire realmente cosa non andava. Non riusciva a pensare a Sinclair che chiedeva l’aiuto di Lydia per medicare ferite che non si era mai procurato, chiedendosi quanto ancora il minore dei Quinn avrebbe retto - sperando sempre un giorno di più, così che potesse restare ancorato al sogno di rivedere sua figlia tornare da quel viaggio nel tempo sana e salva. O a Shia che sputava sangue mentre raccoglieva le barbabietole, domandando a Run e Gemes se fosse normale una cosa del genere, maledicendo costantemente quella missione a Brecon e la volta che era stato troppo buono per chi non se lo meritava davvero. Il Crane sarebbe potuto andare avanti a quella maniera tutto il tempo necessario in quel di Parigi, sempre più rintanato nelle proprie stanze per non dover giustificare corse improvvise a medicarsi le fasciature: gli stava decisamente bene, e già reputava illecita quella seconda opportunità che gli era stata offerta.
    Ma la sola idea, la sola idea!, che persone a cui teneva potessero soffrire in quel modo per colpa sua, non riusciva a sopportarlo senza chiedersi se fosse meglio, per loro, che la fine giungesse in anticipo e senza preavviso; in una visione molto idealizzata delle cose, lo riusciva quasi a vedere come un atto d’amore nei loro confronti. In pratica, invece, si sentiva giustamente una bestia – e si ripeteva, chiudendo gli occhi, che sarebbe stato meglio continuare a resistere piuttosto che arrendersi; che non v’era alcuna certezza gli altri stessero effettivamente male, e che anzi avrebbero potuto stare benissimo. Si rendeva conto quelli fossero ragionamenti privi di fondamenta, e ch’egli stesso repelleva con ogni singola fibra del proprio essere, ma era arrivato ad un livello di stanchezza esistenziale per il quale, in tutta onestà, ragionare seriamente per più ore consecutive diventava snervante e poco utile alla causa. Era un loop continuo in cui la mancanza di Run e River, la lontananza dalla propria famiglia - e che fosse quella biologica, quella adottiva o quella che si era conquistato negli ultimi anni in una villa alle porte di Londra, smetteva di importare nell’immediato -, lo portavano a toccare l’apice della malinconia, facendogli rimpiangere il momento in cui aveva deciso di rimanere sobrio. Ma rimembrandogli anche, ad un certo buon punto, il motivo per cui aveva fatto quella scelta: doveva comportarsi al meglio, con la famiglia che aveva lì.
    Che vita stressante. «beh…» alzò gli occhi, cercando quelli scuri del Deadman. «quanto pensi possa reggere?» perché alla fine, messa da parte qualsivoglia speculazione su quanto volesse effettivamente resistere, stava tutto lì: non era Al a decidere. Il moro incrociò le braccia al petto, la schiena poggiata contro un pilastro; avrebbe voluto poter dire che gli sembrasse particolarmente tranquillo, ma se c’era una cosa che aveva imparato in quell’anno e mezzo, era che fosse impossibile dire alcunché dell’emotività del guaritore. «non è che me ne intenda particolarmente di ferite magiche letali e retroattive, quindi sinceramente non saprei dirti.» arricciò il naso, puntando l’attenzione su quella appena medicata del Crane – un’occhiata che, a quest’ultimo, non piacque affatto. «ma considerando la periodicità con cui ormai vieni qua, meh - direi poco, al massimo un paio di mesi?» wow, rassicurante – ma soprattutto, lo stava chiedendo a lui? Aveva le conoscenze in campo ferme al primo anno di medicina babbana, non aveva idea di come rispondere a quel… quesito. «o forse di più, chi può dirlo.» a quanto pareva, non lui.
    Che cosa bella avere un’aspettativa di vita così vaga! «ad ogni modo, mi potete dare un cambio?» ecco una cosa che adorava del ventiduesimo secolo: se chiedevi delle camicie, o qualsiasi altro tipo di indumento, ad un ospedale, sicuramente lo aveva. Non era certo di quando il progresso avesse deciso che era cosa buona e giusta tenere delle scorte per i degenti, né era la prima cosa che gli veniva in mente di cercare nei momenti morti delle proprie giornate, evolvendo quel che era stato l’ufficio oggetti smarriti, ma ne era entusiasta; nella sua Londra, se avesse fatto una domanda del genere, gli avrebbero senza ombra di dubbio appioppato un toppino arancione fluorescente lasciato da qualche adolescente. Se non fosse stato per gli innumerevoli contro che quel pensiero si portava dietro strascicando, avrebbe volentieri passato il resto della sua vita nel futuro. «avrei un appuntamento.» «con il tuo notaio?» silenzio. «per il testamento.» Aloysius Angus Crane, una mano infilata nella camicia nuova e l’altra a tenerne i lembi, rimase immobile a fissare l’altro. «fai sul serio, chariton?» «era una battuta.» sbatté le palpebre più volte, socchiuse la bocca ripetutamente e senza trovare bene i termini per mandarlo a fare in culo. «non… non è divertente, lo sai?» «sì, è un po’ rude in effetti» spalancò gli occhi smeraldo, piegando appena la testa; un po’ rude??? Ma buon Dio, era mai possibile??? Come facevano Run e Murphy ad essere sue amiche??? «immagino ti serva un passaggio, comunque.» se quello era il suo modo di scusarsi per la gaffe, al biondo andava bene; era troppo vecchio per soffermarsi sul senso dell’umorismo bacato che aveva il Deadman.

    In parte, aveva sinceramente sperato che gliela lasciasse guidare, la sua moto; immaginava fosse davvero il minimo, ma quando provò a sedersi davanti e si ritrovò una pistola puntata alla tempia – in un battito di ciglia, tra l’altro: come diavolo aveva fatto? -, intuì di essersi spinto un po’ troppo oltre con la confidenza. E lui che pensava fossero amiconi, ormai! La speranza nutrita dal Crane non era soltanto relativa al fatto che erano passati diversi anni da quando aveva portato qualcosa a due ruote: si fidava di Shot come consulente medico, discreto e taciturno e decisamente poco desideroso di andare a parlare dei suoi problemi a chicchessia, ma come essere umano? Eh, difficile a dirsi. Alla guida non lo aveva mai provato, e ci teneva abbastanza a quel tanto che gli rimaneva da vivere da non voler necessariamente rischiare.
    Dovette ricredersi - aveva l’adrenalina a mille per l’assurda velocità con cui erano arrivati a destinazione, ma almeno non avevano mai rischiato la vita. Voleva comunque baciare la terra, una volta sceso: misure cautelari. «ti devo un favore» constatò semplice, stirandosi con le mani la stoffa della giacca. «limitati a non morire» fu così sorpreso dalla risposta che ci mise troppo ad alzare lo sguardo, tanto che, accompagnato da un «cià» impassibile, era già ripartito senza venire salutato. Non era decisamente da lui, sebbene fosse consapevole che non fosse particolarmente interessato alla sua vita – non che potesse dargli torto: la pensava come lui, sotto tutti i punti di vista; se fosse morto, sarebbe caduto con lui anche Sin, che sapeva essere suo amico nonché padre della ragazza di cui era innamorato («smettila di ripeterlo» «aw, e tu smettila di fing- puoi togliere quella pistola dalla mia fronte?» «no.» «ok, la smetto.»). Senza contare che se lui si trovava in quelle condizioni, anche Run doveva passarsela particolarmente di merda. A Shot importava di loro, non di Al – e per quest’ultimo, il sentimento era lo stesso, aggiungendoci anche la sorte di altri.
    Sospirò, guardandosi veloce intorno per poi adocchiare l’orologio al polso. Naturalmente era in ritardo.
    Si accese una sigaretta, constatando quanto avesse iniziato bene con le figure di merda. Che sarebbero continuate nel momento in cui, ad un certo punto (tipo subito), avrebbe dovuto confessare di non avere assolutamente idea del perché si fossero incontrati sul Viale dei Campi Elisi. Non che gli dispiacesse - anzi: era davvero felice dell’invito di Maeve, e dire che non sapesse il perché di quell’entusiasmo sarebbe una menzogna.
    Era difficile non pensare alle parole di Amalie sul futuro dal quale proveniva, al fatto che con la Winston avesse costruito una famiglia, ma non aveva mai voluto soffermarsi particolarmente su tutta quella storia - già era complicato per lui immaginarsi un futuro prossimo, figurarsi uno che praticamente non esisteva più: a detta della Shapherd, dovevano essere cambiate fin troppe cose dal loro ritorno. Non erano informazioni attendibili, per la loro vita a seguire.
    Con Maeve, complice anche la convivenza in casa di Leonard, si trovava bene a prescindere da uno spazio-tempo in rovina, o da quello che erano stati: era qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di trovare nella sua vita, così diversa da lui da essergli simile sotto troppi punti di vista, e volendo godersi la sua compagnia - la compagnia di tutti, sia chiaro, ma la sua e quella delle sue figlie un po’ di più – il più a lungo possibile, si era ritrovato semplicemente impossibilitato a non volerle bene.
    Ciò non poteva comunque togliere il fatto che quell’invito era stato inatteso. Era la prima volta che si incontravano su personale invito e fuori dalle mura domestiche: si era perso qualcosa? C’era qualche festa per la quale non aveva fatto il regalo? Era il loro anniversario e se ne era scordato? Sì, insomma, quello nel futuro cosa? cosa. Si rese conto camminando che, dunque, avrebbe sicuramente fatto una doppia figura di merda soltanto arrivando: in ritardo, e senza regalo. Quando la vide su di una panchina, troppi meccanismi scattarono nel suo cervello – pochi volontari, la maggior parte decisamente autonomi. Le sorrise placido e a distanza, sebbene sapesse che nemmeno l’avrebbe visto, una mano in tasca ed una a tenere il cilindro di tabacco stretto tra indice e medio, e l’attimo seguente si disse che, vaffanculo, in quel viale immenso c’erano fin troppi fiori. Poteva prenderne qualcuno, no?
    Come gli fece notare un vigilante di passaggio mentre si appropinquava verso un’aiuola, la risposta era effettivamente negativa. Il cervello gli suggerì che un’ottima idea sarebbe stata fingere di andarsene per poi gettarsi di peso sui fiori, ma quando ci provò l’opinione del vigilante non cambiò di una virgola. «va bene, allora. tieniti pure i tuoi segreti.» «???» but in french. «baguette.» essere stato cresciuto da una madrelingua francese, non lo aveva aiutato nella lingua. Beh dai, era già bello e simpatico, non poteva essere anche poliglotta.
    «ehi» sconfitto e a mani vuote, si decise a non perdere ulteriore tempo. «scusami il ritardo,» stavo morendo dissanguato ahah. «ho avuto un contrattempo.» piegò le labbra in un sorriso morbido, portando poi su d’esse la sigaretta. «le bambine?» eh, le priorità: le avrebbe subito viste, e ci si sarebbe fiondato sopra immediatamente. O magari no, forse erano dietro un albero? Forse le aveva nascoste per giocare a nascondino - ma ce l’avevano l’età per giocare a nascondino???
    A meno che non se le fosse perse - ecco perché erano lì.
    Oddio, sperava di no.
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    Edited by insomniac; - 4/4/2019, 03:20
     
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    Lo sguardo ceruleo di Maeve scivolò inesorabile sulle lancette dell’orologio da polso, un’occhiata rivolta poi nervosa alla strada. Lo sapeva, lo sapeva, che era stata una pessima idea; l’aveva rimpianto nel momento stesso in cui aveva aperto bocca, la lingua già incollata al palato ad impedirle però di rimangiarsi l’invito. Si era sentita un po’ più leggera quando, con distratta non curanza, Al le aveva detto [throws confetti in the air] di sì, ma in quell’istante, la biondissima insegnante di incantesimi non poteva fare a meno di ricadere nelle vecchie abitudini: incertezze. Fra un cambio di pannolini e l’altro, le era sembrato ovvio che entrambi avessero bisogno di una pausa; amava Lev e Care, ma essere madre era davvero - davvero</> - impegnativo, e per quanto le adorasse, sentiva il bisogno di prendersi un po’ di tempo per se stessa. Includere il Crane era stato naturale, considerando ch’egli passava tanto tempo quanto lei, in compagnia delle gemelle. <i>Facile - perlomeno sul momento, un sorriso stanco ed una mano a stropicciare le palpebre pesanti.
    Poi: «era ora che chiedessi ad al un appuntamento» e nell’espressione allegra di Dakota Wayne, le dita di lui a sfiorarle appena le guance, Maeve Winston aveva sentito il peso dell’esistenza di quegli scarsi, ma troppo vissuti, ventitré anni di vita, calarle sulle spalle. «in che senso un appuntamento» intelligente, sveglia, brillante, ma raramente applicava quelle qualità alle relazioni intrapersonali - difficile per la Winston connettere i puntini, quando si entrava nella sfera privata. «non gli hai chiesto di uscire?» conosceva l’espressione del Wayne, la stessa che le rivolgeva ogni volta che faceva qualcosa ai suoi occhi adorabile, e che il settanta per cento delle volte la Winston non comprendeva, ma per la quale si ritrovava a sua volta a sorridere. Non quel giorno, le labbra una linea dura e le sopracciglia corrugate. «sì, ma -» «allora è un appuntamento» e con un bacio sulla fronte e Carole stretta al petto, se n’era andato.
    Era stato in quell’esatto, preciso!, istante, che la costante ansia con la quale condivideva ogni secondo di vita, era entrata in causa: aveva chiesto al crane un appuntamento? Non che – non che avesse qualcosa in contrario, ecco, e passavano comunque più tempo insieme di quasi chiunque altro fatte poche eccezioni, ma…un appuntamento? Era una …una cosa seria, credeva. Malgrado vantasse onniscienza su all’incirca ogni ambito conosciuto, o almeno così volesse credere per dormire sonni tranquilli la notte, quel campo le era sempre stato oscuro. Quand’era giovane (tempi che furono, qualunque millenials può comprendere a cosa si riferiva) aveva avuto degli appuntamenti, ovviamente, ma perché era quel che ci si aspettava da una ragazza della sua età; la maggior parte delle cose che Maeve aveva fatto nella sua adolescenza, erano clichè generazionali, le tappe che la società imponeva ai propri cittadini di vivere per sentirsi completi: una menzogna, per inciso. Non si era mai trattato di qualcuno con il quale condividesse realmente qualcosa – di certo non una persona che in un futuro au era stato padre dei suoi figli.
    Insomma. Un po’ di nervosismo le pareva del tutto lecito. Non sapeva neanche lei se fosse il caso di spiegare che non ci fosse alcun secondo fine, o se andasse bene dare l’impressione…sbagliata. Che poi, era così sbagliata? Quant’era che Maeve Winston non trovava qualcuno di gentile, di divertente, di disposto a passare del tempo con lei? Si era sempre fidata delle persone sbagliate, ed il prezzo da pagare era a lungo termine: perché la realtà, era che Maeve fosse terrorizzata - da quella gentilezza, dai sorrisi morbidi che rivolgeva alle sue bimbe, dai “non preoccuparti, ci penso io” che potevano apparire scontati, ed invece non lo erano mai. Non era il tempo passato con Al a turbarla, ma il fatto che volesse passarne altro: perché era incredibilmente, dannatamente, troppo facile passare le giornate con un Aloysius Angus Crane che riusciva a farle alzare gli occhi al cielo ogni volta che apriva bocca, ed il secondo successivo strapparle un debole, ma concreto, sorriso.
    Ma forse, aveva frainteso. Forse, non erano neanche amici, ed il fatto che passasse tanto tempo con le gemelle, era per sopperire la mancanza di River. Magari era noia: non era che ci fosse molto da fare, quando un giorno sì e l’altro pure stavi per morire, e tutti i tuoi amici e parenti si trovavano secoli addietro. Era stata una mossa davvero stupida - poi perché avrebbe dovuto prendersi una giornata di riposo con lei, quando già passavano quasi ogni giorno insieme? E SE NON SI FOSSE PRESENTATO? Non l’avrebbe ucciso perché vivevano con un poliziotto (…anche se forse, facendo gli occhioni feriti a Leonard, avrebbe potuto pensarci lui al suo posto: faceva il duro, ma Maeve sapeva fosse un patatone) ma l’avrebbe pensato così intensamente, che Al avrebbe saputo, di essere morto. Tamburellò con le dita sul ginocchio, i denti stretti sull’interno della guancia. Ma perché l’aveva fatto. Era sul punto di alzarsi e tornare a casa, offesa ed oltraggiata come solo i Vergini sapevano essere, quando, in lontananza, infine lo vide. Nessun colpo di fulmine, nessun in quel momento, c’eravamo solo io e lui al mondo, solo un: ERA IN MOTO CON SHOT? Maeve Winston e Chariton Deadman avevano dei trascorsi in comune (hashtag capodanno non ricordo quale anno) di cui preferiva non parlare; era abbastanza certa che il tacito cenno con il capo che s’erano rivolti atterrati in Francia, fosse significativo che nessuno dei due ne avrebbe mai parlato ad anima viva…ma non si sapeva mai, ecco. Ne seguì impassibile gli spostamenti, trasparente nel mostrare quanto poco amasse aspettare (era una ragazza precisa, okay? cinque minuti di ritardo erano cinque minuti di ritardo), arcuando scettica un sopracciglio nel notare che, ancora!, perdesse tempo a ciarlare con i vigili francesi. Non che avessero qualcosa fare, ma era il principio.
    «ehi» Reclinò il capo per ricambiarne l’occhiata, rifiutandosi di curvare le labbra in un sorriso. «scusami il ritardo, ho avuto un contrattempo.» tsk, ovviamente. Annuì distratta, sforzandosi infine a soffocare il bad habit del broncio, in favore di un espressione quanto meno cordiale. Il mondo non gira attorno a te, Maeve - e okay, ma almeno per un secondo sarebbe stato carino fingere il contrario. «le bambine?» Non aveva alcun motivo per sentirsi imbarazzata, eppure sentì comunque le guance imporporarsi appena. Appena: grazie al cielo aveva un ottimo auto controllo. «con dakota e jaz» che eleganza, che finezza austera!, nella non curanza con cui allisciò le pieghe (inesistenti) dell’abito, incrociando poi pacata le dita in grembo. «ho pensato che, mh» si schiarì la voce, lasciando infine spazio al sospiro di sgusciare dalle labbra. «ci avrebbe fatto bene un giorno di pausa» gesù santo, suonava davvero come una moglie al decimo anniversario di matrimonio. «se ti…va?» ma pensa te, era come chiedere un appuntamento due (2) volte: quando la sua vita era giunta a quello? «anche se siamo qui da più di un anno, non ho mai visitato parigi» si strinse nelle spalle, sistemando (ancora!) l’orlo dell’abito. «ho pensato che magari avremmo potuto farlo insieme?» Era una domanda? NO CERTO, Maeve Winston aveva solo certezze nella sua vita, quindi aggiustiamo il tiro: «magari troviamo qualche posto carino dove portare le bimbe» lewis, carole, e amalie, ovviamente. Accennò un sorriso imbarazzato, il naso ad arricciarsi debolmente. «e ti posso offrire il pranzo; mi pare il minimo, dopo quello che hai fatto per noi» tipo esserci: a Maeve, tanto bastava.
    23 y.o.
    24.08.1996
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