Wtf is Going On Here

Aaron&Mabel

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    Alla fine l’aveva utilizzato.
    Quel piccolo ciondolo dorato trovato tra le cianfrusaglie della Stanza delle Necessità e che aveva scoperto fosse utile per tornare indietro nel tempo, precisamente di due minuti. Era stato avventato? Stupido? Non sapeva dirlo, ma si era lasciato sicuramente prendere dal panico, tanto che nel dire “ti amo” aveva rischiato di farsi venire un infarto. Aveva sentito chiaramente la risposta di Mabel, ma era pronto per avere un peso così grande sul petto? La responsabilità del cuore del Withpotatoes tra le mani? No. Decisamente non era pronto e non sapeva nemmeno se lo sarebbe mai stato. Non perché non amasse il Tassorosso con ogni fibra delle sue povere carni, al contrario; era proprio quel sentimento a renderlo instabile, completamente in balia di emozioni talmente forti da ridurlo in uno stato di totale oppressione. Sentiva spesso il petto fremere solo nel fissare lo sguardo in quello del minore, ricordandogli quanti sacrifici, quanto dolore avessero passato, solo per ritrovarsi ancora bloccati in quel loop che sembrava non volerli lasciare in pace.
    Se da una parte voleva che Mabel fosse suo, dall’altra era conscio che prima o poi qualcosa si sarebbe spezzato; era inutile fare finta che le situazioni future non fossero in grado di influenzarli, che non si sarebbero ritrovati a dover fare i conti con qualcosa che andava al di là della loro volontà.

    Per questo aveva strofinato il medaglione, cancellando le ultime parole scambiate con il Withpotatoes, preferendo scontrarsi con quegli occhi carichi d’astio piuttosto che sorpresi, che animati dallo stesso bisogno. Ed aveva preferito persino rovinare la serata, tornado al Castello in silenzio, pur di non ammettere che amarlo fosse estenuante e che avrebbe solo voluto un’esistenza normale.
    Avrebbe preferito mille volte non venire a conoscenza di Maverick e Eugéne. Si sarebbe risparmiato le lettere colme di rimpianti, di dolore, di negazione, solo per vivere un’esistenza più serena; avrebbe volentieri preso la bacchetta, obliviando ogni traccia di quello strano gioco del destino, cancellando ogni traccia che potesse fargli sorgere dubbi, paranoie, che tentava di mascherare con una finta spavalderia.
    Diceva spesso che nulla riuscisse a toccarlo, che fosse abbastanza indifferente a ciò che gli altri avrebbero potuto pensare di lui, di loro. Ed era vero. Ma Mabel? Era lui che riusciva, sempre, a renderlo insicuro, come un bambino alle prese con qualcosa di troppo complicato; c’era la paura di non potersi esporre. In un mondo governato da Mangiamorte non avrebbe dovuto pensare alle conseguenze delle proprie azioni, eppure c’era sempre quel pizzico di totale amarezza a solleticargli le labbra. Pensava fosse un residuo del Baudelaire-Hansen, un ritorno alle origini, perché per quanto volesse liberarsi di quel richiamo, era sempre lì a ricordagli chi fosse stato. Era Aaron, allo stesso tempo conservava in sé qualcosa di Eugéne, perché altri non erano che la stessa, identica persona. Forse con ideali e obbiettivi diversi, ma pur sempre affannati nel trovare una via d’uscita o una soluzione per un problema tanto grande come l’amore per il proprio fratello.

    Com’era arrivato a provare un simile bisogno? Perché il suo Io futuro aveva sviluppato quella malsana voglia di poter stringere Maverick tra le braccia? Non era stato un capriccio, né una voglia di una notte. Un pensiero passeggero dettato da pulsioni sbagliate; sulla lingua sentiva il sapore di buono, di cioccolata. Tra le mani la morbidezza delle guance altrui, il ricordo del sorriso leggero, delle iridi azzurre che continuavano a perseguitarlo persino nel passato. Eugéne aveva sofferto come un cane, preferendo l’isolamento e il rifiuto piuttosto che accettare il suo desiderio, confessando al minore ciò che pensava potesse sconvolgerlo, e lui? Lui era meno codardo (forse in realtà era più codardo), ma non per questo fiducioso. Il dubbio dell’errore stava sempre lì, a corroderlo, a renderlo fragile come un bicchiere di cristallo, perché se da una parte era cosciente che fossero entrambi decisi a volersi nel modo più genuino che potessero credere, dall’altra parte il tormento di Eugéne non faceva che frenarlo.

    Nonostante la spiacevole serata passata tra le strade di Londra si fosse conclusa in modo imprevisto, alla fine non avevano propriamente… litigato? Il suo continuo punzecchiare Mabel l’aveva portato, inevitabilmente, a toccare dei nervi scoperti e, alla fine, si era ritrovato a fare i conti sia con il fatto che il Tassorosso infuriato gli risultasse ancora più irresistibile e quindi una totale minaccia per il suo autocontrollo e che, in secondo luogo, era abbastanza certo che quegli stessi dubbi esplicati con le più posate delle affermazioni fossero tutt’altro che stupidi e, piuttosto, condivisi da entrambi.
    Se ne pentiva? Beh, sì. Se non avesse dato il via libera a quella maledettissima lingua serpentina avrebbero potuto passare una notte piacevole mangiando al Thailandese, poi un gelato e magari, alla fine, avrebbero dormito insieme. Sarebbe stato un ottimo appuntamento, forse non alla Aaron e Mabel, ovvero pieno di casini, ma pur sempre decente.
    Ma giacché non erano mai stati normali, beh.

    «Devi dirmi come hai fatto» sistema i libri nella tracolla con un’aria neutra, afferrando una mela dal lungo tavolo della Sala Grande; stava ancora dormendo. La lezione congiunta del Campbell e del Mitchell l’aveva annoiato a morte, non si sarebbe mai più ripreso «perché hai ricordato tutto. Pensavo che ti fossi scritto le cose sulla mano» senza pensarci lancia un’occhiata ai palmi del Withpotatoes, dando un morso al frutto, per poi puntare le iridi blu, scettiche, sul viso del minore «però il fatto che quello che ti spiego non si perda nell’etere mi rincuora» sì, ovvio, era il suo modo di dirgli che fosse stato bravo. Alla Aaron, incapace di riservare parole gentili persino a suo fratello.
    «Devo ancora capire il perché di quelle corde appese al soffitto…» mormora, perplesso, alzando lo sguardo come se fossero ancora lì, senza riuscire però a darsi una spiegazione.
    Mah.

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    Edited by ‚soft boy - 4/2/2021, 11:55
     
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    «mh?» aveva sentito una sola parola di quel che aveva detto Aaron? Assolutamente no. Non aveva più aperto bocca da che aveva lasciato l'aula di Trasfigurazione, ed aveva ricordi piuttosto vaghi di come i suoi piedi fossero riusciti a trascinarlo fino alla Sala Grande. Chissà poi per quanto tempo era rimasto lì seduto, immobile, con lo sguardo perso e le dita intente a torturare le maniche della felpa senza la minima consapevolezza di ciò che aveva intorno. Per una volta, però, Mabel stava davvero pensando a qualcosa. Non si trattava di uno dei suoi solidi episodi di dissociazione, non stava combattendo contro nessun altro sé interiore, non era sul punto di dimenticare ogni pensiero come fosse stato cenere: era un dubbio, forse più simile ad un tormento, ad incasinargli il cervello offuscando qualunque altra cosa, e andava avanti da giorni ma s'era fatto più intenso dopo la lezione. Perché? Perché l'esser riuscito a liberarsi dall'incantesimo richiamando alla mente uno dei suoi ultimi momenti con Eugéne l'aveva scosso più di quanto non si sarebbe aspettato.
    La lettera di Maverick, l'idea che Aaron potesse effettivamente essere suo fratello, che entrambi avessero condiviso un passato persino peggiore di quel tormentato presente - erano tutte cose che aveva accettato senza batter ciglio, che non aveva neppure voluto considerare come una discriminante per il suo rapporto con l'Icesprite. Eppure quella consapevolezza, seppur silente, aveva mosso qualcosa dentro di sé, qualcosa che pareva continuare a mettersi fra loro ed a colpirli ancora e ancora. Non era la normalità quella che Mabel chiedeva, ma quella diversità che insieme avevano scelto di condividere non sembrava star funzionando nel modo giusto - non quando non erano in grado di terminare un appuntamento senza litigare, non quando entrambi si rifiutavano di riprendere l'argomento come se niente fosse accaduto. Aveva dato la colpa ai suoi continui vuoti di memoria il Withpotatoes, ma credere che essi potessero rappresentare una giustificazione ai piccoli eppure taglienti screzi che continuavano ad affiorare tra lui e il Serpeverde non era giusto, non poteva esserlo. E ne era sempre più convinto Mabel che, al di là di ogni altra cosa, fossero quelle dannate lettere dal futuro ad aver messo addosso a entrambi quell'impercettibile eppure presente paura di star sbagliando tutto quanto.
    Gli sarebbe piaciuto poterla ignorare, fingere che non fosse un problema pur di mantenere quella parvenza di tranquillità con Aaron, perché avrebbe preferito morire piuttosto che non poter più sfiorare la sua pelle o assaporare i suoi baci, ma sapeva bene che continuare a negare l'evidenza li avrebbe in ogni caso condotti presto o tardi alla deriva.
    «scusa, avevo la testa da un'altra parte» e non era mica una novità, inutile affermare il contrario. Abbassò lo sguardo sulle sua unghia mangiucchiate, nascondendole sotto il tessuto e voltandosi verso l'Icesprite per poterlo osservare.
    Non c'era niente di lui che gli suggerisse d'aver condiviso molto più di quel che riusciva a ricordare, non un solo tratto che non desiderasse toccare per lo sdegno di ciò che essere fratelli inevitabilmente comportava. Allora perché doveva essere tanto complicato?
    «volevo, uhm, parlarti di una cosa» ammise infine, sbuffando lieve e scuotendo il capo con aria rassegnata «è per la lezione, prima» che avesse una seria difficoltà a mettere in fila due frasi di senso compiuto era ormai cosa nota, eppure voleva davvero che l'altro capisse ciò che nella sua testa era perfettamente chiaro «sai, quando ci hanno detto di pensare a qualcosa per liberarci dall'incantesimo - meh, credo di aver tipo ricordato qualcosa di prima» allungò il collo verso l'altro, continuando in un sussurro «di Eugéne e Maverick» fissò lo sguardo contro quello altrui, come alla ricerca di un minimo segnale da parte sua «e, non lo so, questa cosa mi ha fatto pensare» allungò una mano sotto al tavolo per poter afferrare quella del Serpeverde, ed immediatamente il contatto con le sue dita riuscì a fargli tornare la tranquillità di cui aveva bisogno per continuare a parlare «che non sta andando come dovrebbe» mormorò, spostando ora gli occhi in un punto indefinito oltre la sua testa «e che invece io voglio che funzioni, ma che non credo possa farlo se continuiamo a far finta che certi problemi non esistano» strinse la mano altrui con più forza, terrorizzato dall'idea che questi potesse alzarsi e voltargli le spalle, lasciandolo lì coi propri tormenti.
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    Mabel non lo stava minimamente degnando di considerazione ed era palese che non si trattasse dei suoi soliti momenti di dissociazione, ovvero quando perdeva il focus sull’argomento principale e lo fissava con lo sguardo perso, come se non avesse sentito una singola parola. In quegli occhi preoccupati poteva vedere che ci fosse molto di più che un semplice momento di smarrimento e forse era proprio quello il problema. Che avesse ricordato qualcosa dell’appuntamento? Del suo essersi tirato indietro facendo, letteralmente, un salto nel tempo per impedirgli di poter ascoltare il “ti amo” che gli era scivolato via dalle labbra senza pensarci? In cuor proprio sperava di no. Di non dover fare i conti con quella colpa, con quell’essersi preso così tanto di panico da aver preferito lo scontro piuttosto che il confronto e del sentirsi dire a propria volta che quel sentimento fosse ricambiato.
    Non ci riusciva. Era più forte di lui.
    Aveva tentato disperatamente di sotterrare e di far finta che quella parentela tra di loro non esistesse, che non fosse importante, ma stava miseramente fallendo. Era come un’ossessione, un richiamo a quello che era stato Eugène e che sembrava essere tornato per perseguitarlo, ancora, ed ancora, fino a condurlo al punto di non ritorno. A differenza del Baudelaire-Hansen era meno affetto dal senso di colpa nell’aver toccato, baciato e accarezzato il corpo diafano di Mabel, solcato da piccole ma evidenti cicatrici; per il suo Io futuro tutto quello sarebbe stato impensabile e nella lettera ammetteva con un certo pentimento che l’unico modo per poterlo sfiorare, per sentire il calore di quel corpo, fosse solo quello di picchiarlo. Di trattarlo male, di avvicinarsi così tanto da stringere le dita fino a lasciare dei segni sulla carne di Maverick. In un modo molto simile e contorto, persino lui desiderava essere il fautore dei lividi sulla pelle di Mabel. Gli piaceva maledettamente l’idea di sporcare quella tela segnata dal dolore e renderla violacea. Non di certo per cattiveria, non con lui perlomeno, ma per necessità; tuttavia, quando fissava quegli occhi azzurri, aveva come un vuoto nello stomaco che gli impediva di essere sincero, di dirgli quanta paura avesse di ripetere la storia, di ritrovarsi a dover nascondersi, uccidersi solo perché quel loro amore non poteva finire che male, lasciandoli con l’amaro in bocca. Non per gli altri, di cui non gli importava, che potevano persino additarli come squilibrati, ma per se stesso. Era disposto ad annullarsi ancora per suo fratello?

    «Volevo, uhm, parlarti di una cosa»

    Il suo corpo si era teso come una corda di violino senza che potesse fare nulla per impedirlo, perché la verità era che fosse abbastanza certo di dove la discussione sarebbe andata a parare. Dopo la sera passata a Londra che era culminata con una lite, non erano più tornati sull’argomento; sapeva di essere riuscito a ferire il Withpotatoes più di quanto avrebbe voluto, ma il non capirlo era diventato estenuante e la frustrazione aveva preso il posto della razionalità. Le sue preoccupazioni, seppure lanciate lì solo per pura voglia di testare il comportamento del minore, non erano altro che quelle che lo accompagnavano ogni notte, quando poggiava la testa sul cuscino e fissava le tende verdi del baldacchino, domandandosi cosa avesse fatto di male per ritornare al punto di partenza. Una vita non era bastata per dimenticare il desiderio per Maverick, ne serviva un’altra per struggersi e colpevolizzarsi. Non gli era mai accaduto di percepire tutte quelle emozioni insieme, non nei confronti di una singola persona.

    «credo di aver tipo ricordato qualcosa di prima, di Eugéne e Maverick» non poteva dire sul serio. Non era fisicamente possibile ricordare una vita mai vissuta, delle esperienze che nessuno dei due poteva riportare alla mente. Ma quello era un mondo magico e sebbene lo shock fosse visibile nelle iridi appena sgranate e nello sguardo fisso in quello dell’altro, gelato sul posto, non poteva dire di esserne totalmente esterrefatto. Sì, chiaramente era assurdo, ma era stato testimone di eventi che andavano oltre la comprensione umana e quindi poteva davvero essere sconvolto?
    «e, non lo so, questa cosa mi ha fatto pensare che non sta andando come dovrebbe» un sospiro gli sfugge dal naso, lasciandosi afferrare la mano senza però riuscire a dire nulla «e che invece io voglio che funzioni, ma che non credo possa farlo se continuiamo a far finta che certi problemi non esistano» si passa la mano libera dietro al collo, chiudendo le palpebre per un istante, prima di riaprirle e annuire, quasi che fosse rassegnato. Sembrava più che stessero per lasciarsi che per avvicinarsi; le parole tra di loro non avevano che complicato le cose, erano incapaci di portare avanti delle discussioni senza accendere gli animi. Doveva ammettere che la colpa, molto spesso, fosse solo ed esclusivamente sua; non era in grado di essere decente, nemmeno con la persona che si era ritrovato ad amare.

    «Siamo sbagliati» ammette, alla fine, facendo schioccare insieme le labbra «e quelle lettere sono state solo la conferma. Eravamo attratti anche nel futuro e—non è andata bene» lo dimostrava il fatto che Eugéne avesse preferito morire e che Maverick l’avesse seguito poco dopo «non andremo mai bene, perché siamo fratelli e, come dici tu, stiamo solo facendo finta che non ci sia l’elefante nella stanza» e c’era, perché riusciva a sentirlo tra di loro, enorme, forse una delle bugie più grandi che tentavano di raccontarsi «anche io vorrei che funzionasse, tra di noi» mormora; ed era vero, non era mai stato tanto onesto come in quell’istante «però» c’era sempre un però. Non voleva voltare le spalle al Withpotatoes, allo stesso tempo non riusciva nemmeno a capire come avesse fatto ad impantanarsi per l’ennesima volta nello stesso errore, nella stessa relazione senza sbocchi. Perché forse Eugéne l’aveva amato e Maverick inconsapevolmente aveva ricambiato quei sentimenti, ma quella era un’altra realtà e non voleva che si ripetesse.
    «non so come fare per farla andare bene» scuote il capo, sedendosi accanto al ragazzo, tamburellando le dita libere sul tavolo in legno «non possiamo cancellare quello che siamo e le opzioni a nostra disposizione sono solo due. Credo tu sappia quali senza che te lo dica» si mordicchia l’interno guancia, stringendo appena la presa sulla mano del minore, in attesa.

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    Ammettere che le parole di Aaron corrispondessero alla realtà più di quanto non la contraddicessero non era certo semplice. Eppure Mabel non era uno sciocco: sapeva, in fondo, che il serpeverde aveva ragione. Sbagliati? Sì, probabilmente lo erano davvero, o non avrebbe saputo spiegare altrimenti perché la loro relazione continuasse a navigare su una zattera piena di buchi pronti ad affondarli alla più lieve onda. Per quel che ne sapeva era sempre stato così: Maverick ed Eugéne avevano lasciato che ciò li consumasse, Mabel e Aaron stavano silenziosamente intraprendendo lo stesso cammino di autodistruzione, sebbene in maniera differente. Allora, perché continuare? Perché non farla finita con quegli evidentemente inutili tentativi di formare un incastro eternamente imperfetto e trovare ciascuno la felicità altrove? Perché, a conti fatti, pro e contro si contendevano una bilancia fondamentalmente iniqua. Da una parte c'erano le cose belle, che per il Withpotatoes erano la sensazione d'avere un porto sicuro a cui fare ritorno, una coperta entro cui avvolgersi nelle sere d'inverno, la sensazione del vento fra i capelli durante uno scontro di Quidditch in cui non lasciarsi distrarre dalla presenza in campo dell'altro era un compito più che arduo. Aveva imparato tanto di sé da quando aveva Aaron: ad accettarsi un po' di più, a confrontarsi con le proprie paure, a non gettare la spugna dinanzi ai suoi fallimenti. Aveva provato il brivido del sentirsi apprezzati, amati persino, del poter dar sfogo a tutte le proprie più intime fantasie senza sentirsi giudicato, od inadeguato. La vicinanza nello sconforto più buio, il carattere nelle discussioni più accese.
    Tutte quelle cose, se messe insieme, facevano sembrare tutto il resto roba da niente: che importanza avevano i suoi passeggeri blackout dinanzi a tutto quello? Perché preoccuparsi del suo disturbo d'attenzione, delle parole che di tanto in tanto lasciavano la sua bocca senza che se ne accorgesse?
    Per un motivo molto semplice: perché tutti quei sintomi non avevano fatto altro che peggiorare, e peggiorare ancora, da quando c'era Aaron.
    Forse era l'inaspettato turbinio d'emozioni che solo l'Icesprite era in grado di procurargli, forse era semplicemente il naturale degenerarsi del suo cervello già malato, o magari era proprio la consapevolezza di star facendo qualcosa di tanto sbagliato quanto intrinsecamente inaccettabile.
    E quanto a lungo sarebbe bastato ripetersi che no, non era di alcuna importanza il fatto che fossero fratelli, che non avrebbe mai compromesso la loro relazione? Evidentemente, non abbastanza.
    «prendere o lasciare, suppongo» posò lo sguardo sul serpeverde, cercando in lui la risposta a quel quesito. Ora, se Mabel fosse stato un tipo razionale, avrebbe preso ad elencare tutte le ragioni per cui era il caso di fare l'una o l'altra cosa, ma - invero, non lo era mai stato. Non aveva idea di come confrontarsi con quel genere di cose, era tutto così nuovo e complicato e troppo grande per la sua mente già fin troppo fragile. Voleva lasciarlo? No, mai. Eppure restare diventava sempre più un'opzione difficile da valutare.
    «io non voglio lasciare, aaron» era tutto ciò che sapeva, l'unica cosa di cui era davvero certo. Posò anche l'altra mano su quella dell'Icesprite, quasi a volerla trattenere tra le dita per impedire che gli sfuggisse. «non voglio tornare a com'era prima di incontrarti» silenzioso, vuoto, incasinato, insignificante «non saprei neanche come fare» ammise infine, avvertendo chiaramente quella sensazione di sopraffazione che lo portava ogni volta al limite di sé stesso, fino a farlo perdere. Strinse i denti per evitare che accadesse, per imporsi di restare lucido in un momento tanto importante «perché, ecco, stare con te è stato in qualche modo... soddisfacente, in tutti i sensi» le labbra avevano preso a tremargli, quasi fossero in lotta tra l'istinto di parlare oltre e quello di tacere «ma è evidente che non è ciò di cui ho bisogno» era necessario dire chi avesse vinto? «perché non sono debole, non voglio esserlo» lasciò andare la mano di Aaron per stringere le proprie sulle ginocchia, salde «dunque non vedo altra soluzione».
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    Aveva sempre pensato che i sentimenti fossero sopravvalutati, perché innamorarsi di una persona fino a farla diventare tutto era… impensabile. Stare da solo non era mai stato un problema, né avere la piena consapevolezza di se stesso e della propria magia. Prima di Mabel, prima delle lettere e di Eugéne e Maverick, era stato completamente sicuro di chi fosse e di cosa volesse dalla sua vita.
    Per molti aspetti era ancora così, forse però soltanto quelli più pratici; era un Mangiamorte, lo sarebbe sempre stato e non credeva nemmeno che fosse possibile tornare indietro, perso com’era nel desiderio di entrare tra le file dei Pavor Torturatori. Un’altra cosa che non sarebbe mai mutata era il disinteresse verso le altre persone, la totale mancanza di empatia che gli consentiva di comprendere il perché alcuni fossero così mielosamente amichevoli senza una ragione valida – come se potesse esistere una spiegazione per quel tipo di atteggiamenti -, solo per il loro “buon cuore”.
    Non sarebbe dovuta esistere nemmeno una scintilla di bontà in quel mondo regnato da caos, morte e violenza, eppure c’era e sembrava presagire qualcosa di cui non era a conoscenza, se non nelle lettere del futuro o di quello che aveva appreso dalla morte dei suoi – finti – genitori.

    Poi era arrivato il Withpotatoes e con lui lo sconvolgimento di una vita che aveva sempre dedicato solo a se stesso. Sbagliando, cadendo, vedendo i sogni di una vita infranti, ma solo e ligio, serio e stoico come una statua di marmo. Il Tassorosso era riuscito con estrema facilità a rompere una parte della sua corazza, rendendo debole, misero, completamente sopraffatto dai sentimenti che aveva provato a sopprimere per il proprio bene. Il Regime prima di tutto.
    Ma ora se ne stava lì, lottando contro il desiderio di dirgli “non andare via” e con quel famoso cuore spezzato in piccoli frammenti, tutti caduti sul pavimento della Sala Grande. Perché era stato lui a porre il ragazzo di fronte alla verità, ma alle volte il suo essere razionale faceva schifo. Se fosse stato un altro avrebbe solo zuccherato la pillola, ribadendo che insieme avrebbero potuto superare tutto. Per qualche mese aveva creduto che sarebbe andata esattamente così; indifferenti al giudizio degli altri provenienti dal futuro e dell’essere uniti da un legame di sangue. L’immoralità sarebbe solo passata in secondo piano, lasciando tutto ad aleggiare lontano da loro, non importante.

    Ma poi c’erano stati i problemi. I disturbi di Mabel a confonderlo, il loro essere pericolosamente attratti dal sangue, la propria irascibilità, la mancanza di una sicurezza nella loro relazione. Il fatto che avesse annullato quella dichiarazione, che non si sentisse pronto per quello, non dopo aver avuto la certezza che il suo Io aveva sofferto e che Maverick non avesse fatto nulla per esporsi, forse solo perché ignaro. O bugiardo, forse più del fratello.
    Erano così sbagliati da risultare quasi logico allontanarsi. Inoltre erano anche due bombe sempre in procinto di esplodere; la vicinanza tra di loro sapeva di scontro, di tempesta ed ogni singola volta finivano a litigare, non più a baciarsi tra le lenzuola.

    «stare con te è stato in qualche modo… soddisfacente, in tutti i sensi»

    Beh, soddisfacente sapeva di contentino. “Quella zuppa è stata soddisfacente” o “la cheesecake che mi hai portato è stata davvero soddisfacente” ed era un termine che non avrebbe mai utilizzato per descrivere ciò che avevano vissuto, ma tant’è. Immaginava che il Withpotatoes non l’avesse fatto con l’idea di sminuire il tutto, forse sottolineare che per certi versi – soprattutto nel petting – fossero abbastanza affiatati, ma per il resto… beh. Soddisfacenti, per l’appunto.

    «ma è evidente che non è ciò di cui ho bisogno» era difficile mantenere un’espressione neutrale. Annuire e non dare a vedere quanto quelle parole fossero devastanti. L’aveva detto anche lui che far funzionare una cosa del genere fosse quasi impossibile, ma avrebbe davvero voluto farla andare bene. Davvero, davvero tanto. Ma Mabel meritava qualcuno che riuscisse a dargli di più, che riuscisse a comprenderlo là dove lui non riusciva, ma soprattutto che non fosse un pezzo di un futuro che non faceva altro che renderlo irrequieto.
    Non suo fratello, non di nuovo.
    «dunque non vedo altra soluzione» doveva rispondere a quella sentenza? Avrebbe voluto dire “come farò a stare senza di te”? Perché voleva toccarlo e non lasciare scivolare via quella mano che spesso si era portato alla guancia solo per sentirlo vicino. Avrebbe voluto baciarlo e dirgli che non poteva rinunciare. La verità? Non aveva senso.

    «Nemmeno in questa vita» accenna un sorriso amaro, scostandosi appena per evitare la vicinanza con l’altro, mantenendo il solito cipiglio «ma è giusto così. Non possiamo distruggerci di nuovo e non è solo… per quello che sentiamo, è per noi stessi» alza gli occhi al cielo, per un istante, sospirando dal naso «vorrei solo che sapessi…» si morde l’interno guancia, tornando a fissarlo «che a prescindere da questo, per te, sono qui» non importava se non stavano insieme, se quella storia era finita ancora prima di cominciare realmente. Per Mabel sarebbe sempre stato presente.

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