my wheels have started to jam.

charles x dante

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    charles dumont
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    «okay, ho finito» ma aveva finito davvero? Rimase immobile per qualche istante, il braccio del Rinaldi ancora stretto fra le mani e lo sguardo dubbioso sulla sua pelle lievemente arrossata. Quando l'avevano chiamato in infermeria per occuparsi del piccolo incidente di trasfigurazione del Grifondoro, non aveva potuto fare a meno di lasciarsi sfuggire una risata, salvo poi tornare incredibilmente serio una volta compreso che no, non si trattava affatto di uno scherzo. E dire che avrebbe dovuto aspettarselo: insomma, per quanto molto poco rilevante, aveva una certa responsabilità in nome del ruolo che aveva scelto di ricoprire e, sebbene fosse sempre stato abile nello sfuggire alle situazioni più incresciose, in fondo sapeva di non poter scappare per sempre — in tutti i sensi, davvero. La sua vita oramai poteva dividersi in un 'prima dell'occupazione' ed un 'dopo l'occupazione', e trovava ironico come quel prima, che paradossalmente avrebbe dovuto essere più stabile, fosse invece stato un susseguirsi di porte serrate e fughe da sé stesso, mentre in quel dopo, quello in cui aveva perso tutto ed ogni istante avrebbe potuto fare la differenza tra la vita e la morte, pareva star prendendo una forma meno fragile, quasi che nell'immaturità avesse iniziato ad imparare qualcosa il Dumont. Quasi, perché per quanto si sforzasse restava palese persino a lui quanto fosse difficile cambiare, eppure nessuno avrebbe potuto negare che il Charles d'un tempo non avrebbe esitato un istante a fingere una scusa per restare nella propria stanza, per evitare di prender parte a lezioni di cui non poteva importargli meno, per potersi fumare una cazzo di sigaretta in santa pace, pur conscio di poter dare pericolosamente nell'occhio. Ma quel Charles, quello vuoto e disilluso, quello del dopo, aveva imparato ad essere Eméric Lacroix, l'assistente dell'insegnante di Corpo a Corpo, uno fra tanti ma non uno sciocco. Quel Charles voleva provarci davvero a sopravvivere, sebbene avesse ormai messo da un pezzo il pilota automatico, sebbene non avesse una reale ragione per farlo. Quel Charles aveva una paura fottuta di morire nonostante non avesse niente per cui vivere.
    C'era Viktor sì, e c'era Amélie, ma che senso aveva essere una famiglia senza poterlo essere davvero? Per quanto a lungo avrebbe potuto guardare negli occhi Heather, o Perses, e fingere che non fossero mai stati amici, che non avessero mai passato una sera assieme a bere ed a fare assurdi progetti da dimenticare la mattina seguente? Come poteva continuare ad ignorare la finestra nella sua stanza per non dover incontrare il profilo della Stamberga lì fuori e sentire quella solita morsa a stringergli lo stomaco? Non ne aveva idea, eppure era ancora lì e ci stava provando, ci stava davvero provando.
    «sarebbe il caso di aspettare un po' per assicurarci che non torni a fare...cose» era stato un bravo studente il Dumont, ma non aveva mai concluso gli studi e non era così ferrato negli incantesimi di Trasfigurazione come si supponeva fosse. Al di là del fatto che non desiderasse affatto destare sospetti incasinando tutto e trasformando il braccio del Grifondoro in un tentacolo, trattandosi del Rinaldi non poteva che avere un minimo di considerazione in più: non aveva scordato chi era rimasto al suo fianco quando tutti gli avevano voltato le spalle in quell'ormai nota sera. Lo conosceva appena, e l'altro non aveva neppure idea di chi si nascondesse oltre gli occhi spenti del Lacroix, ma era una questione di lealtà selettiva ed altra roba da teste di cazzo Serpeverde qual'era.
    «dovrebbe già essere tornato del suo normale colore in effetti, ma penso d'aver fatto del mio meglio» si passò una mano fra i capelli con una certa frustrazione, indietreggiando per potersi sedere sul letto affianco a quello dell'italiano «in ogni caso, nella peggiore delle ipotesi tornerà come prima e dovrò riprovarci» scrollò le spalle, forse più per rassicurare sé stesso che l'altro. Non era abituato a non sapere cosa fare, a trovarsi impotente, ma negli ultimi tempi si sentiva così praticamente per la maggior parte del tempo e lo odiava, si odiava.
    «mi spiace che ti sia toccato io come infirmière» una risata roca gli sfuggì dalle labbra, ancora incredulo per l'ennesimo casino in cui era riuscito a ficcarsi con le sue stesse mani. Quand'è che aveva pensato che fosse una buona idea tornare sotto mentite spoglie? Prendere le sembianze dell'assistente di un professore, per altro? Stupido, irresponsabile e ben al di sopra delle sue capacità. Siamo onesti: non sarebbe neppure stato in grado di liberarsi da solo da uno degli incantesimi mostrati alla lezione congiunta dei prof Mitchell e Campbell se avesse dovuto. "Richiamare alla mente la volta in cui più ci si è sentiti fisicamente liberi, impossibili da fermare." Ci aveva riflettuto Charles, ma non era riuscito a pensare ad una sola cosa che potesse risultare d'aiuto. Persino quelli che nel prima avrebbe potuto classificare come 'ricordi piacevoli' ora gli parevano banali, privi d'importanza. Non era facile fingere il contrario.
    «solo - se il mio incantesimo non dovesse pienamente riuscire, potresti non dirlo al prof Campbell?» oh, e quella era la parte più difficile per il Dumont: chiedere favori, ammettere di essere debole. Non sarebbe mai riuscito a farlo col suo vero aspetto, coi suoi veri occhi. «giuro che in ogni caso non perderai il braccio» forse.
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    Edited by wait‚ wat? - 27/3/2019, 23:56
     
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    Alle volte pensava che la sfiga, quella nera, gli si fosse appiccicata addosso come una chewingum intrappolata sotto la suola delle scarpe. Difficile da togliere, ancora di più ignorarla.
    Forse aveva sbagliato quando, l’estate precedente, aveva rifiutato il cornetto portafortuna gentilmente offerto da suo nonno “metti che quei maghi, lì, ti fanno il malocchio?! San Gennaro, pensaci tu!” e sottovalutato la portata degli avvenimenti catastrofici di quell’anno. In particolar modo perché quello stesso braccio che era stato sfortunatamente trasfigurato in un ciocco di legno era lo stesso che gli avevano rotto in Sala Torture qualche mese prima (oltre che la gamba) e sul quale avevano stampato la lettera I a fuoco, a causa dell’occupazione, ma soprattutto perché aveva scoperto così tante cose su di sé da rimanerne incredulo. Primo, c’era la nuova consapevolezza di essere moderatamente gay, cosa che aveva taciuto persino ai Golden, troppo spaventato di ricevere una risata in faccia e di perdere quel briciolo di autostima che aveva, faticosamente, costruito in quegli anni ad Hogwarts; secondo, la cotta per l’Allen bruciava come lava ed ogni volta che ci pensava si ritrovava con un antiacido effervescente tra le mani e lo stomaco in subbuglio. Era diventato difficile passare le serate insieme ai suoi amici, più per le occhiate indagatrici di Godric che per tutto il resto. L’Osbourne era sveglio, troppo sveglio, e non aveva la minima intenzione di permettergli di scavare così a fondo da scoprire quel vergognoso segreto che si sarebbe portato, probabilmente, nella tomba. Terzo, la realizzazione di non sapere assolutamente cosa fare della propria vita dopo i M.A.G.O., lo smarrimento dovuto al fatto che nel mondo magico si sentisse un pesce fuor d’acqua. Gli mancava casa, la sua famiglia, ma soprattutto lo studio di cose normali come la Filosofia e la Storia, cosa che nel mondo dei maghi era, chiaramente, incentrata sulle loro credenze e vicende. Interessanti, per carità, adorava Storia della Magia, ma a suo avviso non era assolutamente paragonabile con le Guerre Mondiali o con avvenimenti importanti come l’invenzione della bomba atomica e la caduta dell’Unione Sovietica.
    Era intrigato dalla magia, allo stesso tempo i Mangiamorte lo rendevano inquieto; erano al potere da troppo tempo, si permettevano il lusso di mortificare e umiliare gli studenti indifesi per puro gioco, facendo passare le torture come metodi educativi senza nessuna vergogna. E quindi, per quale motivo avrebbe dovuto desiderare di continuare ad avere a che fare con un mondo tanto corrotto?
    Era disagiante. Era frustrante.
    Poi, però, c’erano le persone buone come i Golden, Hazel, Chelsey a ricordargli il perché fosse ancora lì. Per proteggerli, per evitare che accadesse loro qualcosa di male; era un maledetto Grifondoro, dopotutto.

    In quel momento, comunque, la sua preoccupazione era chiaramente un’altra e non riguardava di certo le sorti del mondo magico, tuttalpiù del suo povero arto.
    «… cose?» era preoccupato? Eh, sì.
    Non perché non avesse fiducia nel Lacroix (anche), ma perché l’ansia era sempre il suo punto debole e il più piccolo problema aveva il potere di renderlo un fascio di nervi. Odiava non avere il controllo e forse era una caratteristica della sua famiglia quella di voler tenere tutto perfettamente imbrigliato in modo da non avere sorprese. Doveva avere fede nella buona istruzione di Emèric, d'altronde era o no l’assistente del professor Campbell? «Beh, dai. Il fatto che sia rosso e non marrone dovrebbe rassicurarci un attimo, no?» no, assistente del professore? Non voleva diventare un albero. Una pluffa inanimata magari, incapace di sentire il minimo dolore, ma un vegetale? Se doveva smettere di vivere, quantomeno, voleva essere sicuro di non essere cosciente.

    Per un attimo si ritrova a fissare il volto del Lacroix, dubbioso, notandone il guizzo infastidito o, meglio, colmo di frustrazione, domandandosi il perché una persona che tecnicamente doveva avere il controllo su avvenimenti tanto ordinari fosse così nervoso. Stava facendo innervosire persino lui.
    «Spero di no» si affretta a rispondere, schiarendosi la gola per evitare di far squillare la voce più del necessario; riprovarci, diceva? Il suo povero braccio non aveva subito già abbastanza angherie? Era evidente che l’amputazione, dopo quella vicenda, fosse il prossimo passo verso la pratica per diventare mancino.

    «Mi spiace che ti sia toccato io come infirmière» awww che caruccio però. L’ultima nota finale sembrava quasi una melodia classica. Avrebbe potuto dirgli anche “ti cadrà il braccio” e lui sarebbe solo riuscito a sorridergli come un ebete, annuendo per il modo in cui quella lingua riuscisse a farlo sognare. Era magica, davvero. Con i suoi genitori era uscito spesso fuori dall’Italia; era andato a Parigi, a Nizza, Marsiglia e persino in Costa Azzurra e… dio, i francesi. Persino il più buzzurro sembrava essere uscito da boh, una copertina di Vogue.
    «Nah. Poteva capitarmi di peggio, tipo Phobos. Mi avrebbe implorato di portargli le arancine per tutto il tempo e si sarebbe dimenticato di far tornare il mio braccio normale» alza entrambe le sopracciglia, rivolgendo al ragazzo un sorriso divertito, molto sicuro delle proprie parole, prima di tornare a fissarsi le dita pregando ogni Santo conosciuto di non veder spuntare rametti o, meglio ancora, fiorellini.

    «solo – se il mio incantesimo non dovesse pienamente riuscire, potresti non dirlo al prof Campbell?» ma davvero gli stava chiedendo una cosa simile? Oh boy. B o y.
    Sbatte le palpebre, confusamente, alzando nuovamente lo sguardo per incontrare gli occhi neri dell’altro, cercando di capire se stesse scherzando o meno ma, a giudicare dall’espressione preoccupata, sembrava proprio di no «Non dirò nulla» lo rassicura alla fine, piegando le falangi e controllando di tanto in tanto se la sensibilità fosse tornata alla normalità «hai problemi con la bacchetta, per caso? Perché è normale, sai? È capitato anche a me un paio di volte. È lo stress» asserisce, schioccando la lingua sui denti, mettendo da parte il dubbio per poter rassicurare il Lacroix «l’altro giorno si è rifiutata di lanciare un Expelliarmus perché ero nervoso» aveva Ryan troppo vicino shh «e piuttosto che l’incantesimo, sono apparse delle scintille che mi hanno bruciacchiato la mano. Persino la bacchetta voleva che la lasciassi cadere» ridacchia, non nascondendo un pizzico di sarcasmo, sistemandosi meglio sul lettino «quindi—penso che il professor Campbell capirebbe se glielo dicessi. Sai com’è, sei il suo assistente—è molto gentile» uno dei pochi insegnanti che non trattava gli studenti come delle inutili macchine da guerra.
    «… se dovessi perdere il braccio, in ogni caso, me ne resterebbe un altro. Ma preferirei tenerlo, se è possibile» il che sarebbe stato immensamente gradito.

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    Dante Renzo
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    Edited by Snow|Flake - 28/3/2019, 03:01
     
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    C'erano giorni in cui pensava di meritare la manciata di merda che gli era rimasta fra le dita, quasi che poter essere nient'altro che Eméric rappresentasse una giusta punizione per gli errori che aveva commesso. In quei momenti, gli piaceva vederla come un'opportunità quella di poter mettere in pausa il gran casino che era stato come Charles e poter fingere di essere una persona differente, una tavola bianca da poter pitturare dal principio. Altre volte, però, le macchie del tempo tornavano visibili sulla superficie di quella trama sporca, e la solitudine cominciava a stargli più stretta di quanto non fosse in grado di sopportare. Gli sguardi sdegnati di suo padre ed il suo conseguente abbandono gli avevano insegnato, paradossalmente, a non dar peso al giudizio degli altri, ad essere sé stesso prima di qualunque altra cosa. Il tradimento di Louis l'aveva reso accorto, diffidente abbastanza da non esser facile da ferire. Trovarsi impotente dinanzi alla sofferenza di sua madre gli aveva costruito una corazza con cui proteggersi dalla propria debolezza. Perdere la sua famiglia l'aveva spronato a cavarsela da solo. Deludere Viktor gli aveva aperto gli occhi su quanto fosse importante avere qualcuno al proprio fianco. Perdere Iden... Niente, quella ferita non si era ancora rimarginata abbastanza per riuscire a vedere oltre il dolore che gli aveva causato, ma in fondo lo sapeva Charles che un giorno anche quello sarebbe diventato solo un altro tassello della sua vita, un punto di partenza per ciò che sarebbe venuto dopo.
    Eppure il problema restava quella fase di transizione, se così vogliamo definirla. Era quel baratro fra ciò che era stato e ciò che era diventato a spaventarlo, a renderlo insicuro anche delle cose più banali come uno sciocco contro-incantesimo di trasfigurazione. E poi c'era l'ironia della sorte, quella maledetta che pareva provare gusto a versare il sale sulla sua carne lacerata, ricordandogli costantemente tutte quelle cose che avrebbe solo voluto dimenticare: una volta era un lembo della pelle ustionata di Vik, un'altra il marchio a fuoco sulla pelle del Rinaldi. Anche quello era colpa sua, ed ecco perché s'era premurato di non guardarlo troppo a lungo, perché non poteva permettere alle proprie mani di tremare ancora.
    «in effetti sarebbe stato assolutamente da Phobos» non era certo di ricordare come si facesse a sorridere davvero, ma l'ombra di una smorfia divertita tornò a insinuarsi sulle sue labbra, facendogli per qualche istante ingoiare il boccone amaro che pareva esserglisi bloccato in gola da quando aveva rimesso piede al Castello «ma ciò non toglie che non possa chiedertele anch'io una volta sistemato questo braccio» ed avrebbe davvero voluto continuare a parlare di qualsiasi altra cosa che non fosse la sua evidente incertezza, a rifugiarsi nelle chiacchiere prive di contenuto come aveva sempre fatto, a lasciare che la sua lingua danzasse più veloce dei suoi pensieri - ma aveva smesso. L'aveva giurato a sé stesso, se l'era imposto così fermamente da non riuscire a far altro che ubbidire ed imparare a tacere. Il più delle volte avrebbe finito per pentirsene, lo sapeva bene, ed altre ancora l'istinto sarebbe forse riuscito a prevalere su quel suo improvviso barlume di ragione, ma aveva imparato a sue spese le conseguenze dell'altra faccia della medaglia e, in fin dei conti, tanto valeva provare.
    «hai problemi con la bacchetta, per caso? Perché è normale, sai? È capitato anche a me un paio di volte. È lo stress» ecco, era precisamente una di quelle cose che avrebbe potuto evitare se avesse continuato a parlare, se gli avesse impedito di proferir parola o se avesse celato meglio il proprio stato d'animo. Eppure una parte di sé, una molto riluttante ad ammetterlo, aveva provato una sorta di sollievo nel sentirsi in qualche modo compreso. Probabilmente era colpa della solitudine, del non poter parlare con nessuno, del doversi accontentare di guardare dal di fuori quel mondo che ormai aveva perso, ma l'idea di dar sfogo a tutte le sue frustrazioni senza curarsi delle conseguenze prese a pungergli le tempie come uno spillo, non così insistentemente da renderlo un totale irresponsabile, ma abbastanza da lasciargli sfuggire un «probabilmente hai ragione» appena sussurrato. Non avrebbe dovuto permettersi neppure quello, non se voleva mantenere una parvenza di serietà, ma era solo un essere umano, e neppure uno dei più forti. «sì beh, è solo che non mi va di apparire» debole «poco professionale. Fare l'assistente a vita non rientra fra i miei progetti» non che i suoi progetti oramai contassero qualcosa, ma tant'è «perciò vorrei risolverla da solo quanto prima» peccato non stesse procedendo affatto bene «in fondo è solo stress» si strinse nelle spalle, lo sguardo ancora perso chissà dove. Rimase in silenzio qualche istante, ponderando l'idea di non riaprire la bocca fino a che non fosse stato strettamente necessario. Ma era Charles, e quindi «ha fatto parecchio male quella bruciatura?» indicò il marchio sul braccio dell'altro con un cenno del capo, pur senza osare ancora guardarlo «non sembra particolarmente allettante» esattamente il tipo di cose che non doveva chiedere, ma... I Dumont.
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    Ecco, se c’era una cosa che odiava forse più del parlare in pubblico era la sua maledetta capacità d’essere empatico, di percepire le emozioni degli altri come se fossero le proprie. Lo stato di profondo disagio di Emèric era palese, tanto da fargli contrarre le spalle e arricciare le labbra in una smorfia dispiaciuta. C’erano giorni in cui avrebbe fatto volentieri a meno di provare così tanto, perché il suo corpo non era fatto per quello, per contenere non solo le proprie emozioni traballanti, ma anche quelle degli altri.
    Aveva compreso di essere sensibile agli stati d’animo nel momento in cui aveva avuto a che fare per la prima volta con Beatrice; ogni piccolo cambiamento d’espressione, ogni sorriso, lacrima, persino quelle più personali erano, per lui, palesi. E forse si poteva imputare al fatto che quella fosse sua sorella, che avesse vissuto con lei la maggior parte della sua vita, ma non era affatto così, e lo dimostrava ogni giorno quando, persino con i Golden, riusciva a tradurre i loro silenzi o chiacchiericci in qualcosa in più.
    Era qualcosa che non controllava, che era parte di lui e che lo aiutava spesso a comprendere le persone che aveva davanti; il Lacroix, per esempio, gli sembrava… inquieto. No, forse più turbato.
    Certo, non erano assolutamente affari suoi se il suo pseudo professore aveva dei pensieri a frullargli per la testa, ma gli dispiaceva; era palese che il più grande non riuscisse negli incantesimi di base solo per distrazione e non per reale mancanza di capacità. Altrimenti perché Phobos avrebbe deciso di prenderlo come assistente?

    «Non mi metterò a contestare le tue parole, perché—beh, sei comunque un mezzo insegnante o quello che vuoi» e ne avrebbe avute cose da dire al riguardo, perché essere in difficoltà e lasciarsi aiutare non implicava nulla, solo coraggio. Nel suo modo di vedere, forse fin troppo distorto dal suo essere un irrimediabile speranzoso, avere le palle di chiedere aiuto era la forma più alta di eroismo. Non era facile dimostrare debolezza, essere capaci di dire “ho bisogno di te” e capiva che per molti fosse… impensabile. Lo era anche per lui, alle volte, e se rammaricava; con i suoi migliori amici avrebbe dovuto essere sincero, confessare ogni malessere, ogni sentimento che lo metteva a disagio, ma farlo avrebbe comportato ammissioni che non era pronto a snocciolare tanto facilmente. Per cui, nonostante continuasse a pensare che Emèric avesse bisogno di una mano, non voleva nemmeno insistere; ognuno aveva i propri demoni da controllare e combattere, non si sarebbe di certo messo lì a fare la predica «una bella vacanza?» sdrammatizza, evitando accuratamente l’argomento arancine. Aveva come la sensazione che se le avesse nominate troppo ad alta voce sarebbe comparso sulla soglia il professor Campbell pronto all’attacco.

    «ha fatto parecchio male quella bruciatura?»

    Quella domanda, invece, non se la sarebbe mai aspettata.
    Non perché l’altro gli sembrasse—come dire, meno piacevole di Phobos, ma solo perché da quella notte era diventato un argomento tabù. Scottante.
    Dimenticare ciò che avevano fatto a lui e agli altri era praticamente impossibile. Aveva avuto Ryan, Godric e Jack al suo fianco durante la convalescenza, sebbene anche loro non fossero messi meglio; nel dormitorio Grifondoro si era sentito male alla vista di ciò che avevano fatto a Viktor; durante i giorni seguenti aveva visto Erin zoppicare, così come Scott. Ognuno di loro aveva ricevuto quel marchio a fuoco con una lettera della frase “Il Regime è Potere”.
    Se si era pentito? Sì. Ma non di aver partecipato, quello pensava che non sarebbe mai stato possibile. Piuttosto, quello che realmente gli bruciava nelle viscere, era stato il comportamento da stupido, il non aver capito dal principio le motivazioni dietro quella rivolta. Eppure, quando aveva sentito le parole di Charles, non aveva esitato un attimo nel lasciare l’ilarità indietro e nell’ascoltarlo; i Mangiamorte erano animali.
    Erano bestie assetate di potere, sangue e violenza e la Sala Torture non era che l’espressione massima di tale brutalità. Certo, tutto quello era stato un enorme fiasco. Charles e Iden costretti a fuggire chissà dove e gli altri a patire le conseguenze di un gesto avventato, chi più, chi meno degli altri, ma con lo stesso vuoto negli occhi.
    Ogni giorno erano costretti ad andare al Ministero ad assistere alle esecuzioni o alle torture inflitte ai traditori del Regime, solo per dimostrare loro quanto fosse pericoloso giocare con il fuoco.

    La realtà? L’avrebbe rifatto mille volte. Forse con un’organizzazione migliore, con una spiegazione adeguata che non lo facesse apparire come un rinfresco, ma come una presa di posizione. Forse, addirittura, avrebbe seguito nuovamente il Dumont, se fosse riapparso per invogliarli ad entrare nelle file di quella che sarebbe potuta essere una rivolta contro la dittatura dei Mangiamorte.

    Ma poteva dire quelle cose all’assistente di un professore? Probabilmente no, ma non gli importava. Era stanco di sottostare a quello schifo. Se dopo la sua risposta il Lacroix l’avesse mandato in Sala Torture con la Queen, beh… ne avrebbe pagato il prezzo senza fiatare.
    «Mh-mh» annuisce, abbassando lo sguardo a fissare la I impressa sulla carne, stringendo poi il pugno «brucia ancora» corruccia le sopracciglia, prendendo un profondo respiro dal naso «perché alla fine potranno anche marchiarci a fuoco, una, due, tre, mille volte, ma il fuoco prende tutti prima o poi» solleva appena le iridi verso il volto del francese, enigmatico «questa I non significa niente. O magari posso trasformarla in altro. In “Insorgenza”, magari?» lo stava sfidando con lo sguardo? Sì.
    Quella che gli aveva posto era una domanda molto, molto delicata; era una beffa o era stato serio nel domandargli se avesse bruciato? La risposta comune sarebbe stata un secco sì, ma quella giusta?
    «Non mentirò dicendo che ha bruciato solo a livello fisico. Brucia a più livelli» soprattutto bruciava nel vedere gli altri suoi amici soffrire «però» fa spallucce, quasi indifferente. La verità era che parlarne gli faceva salire solo una grande rabbia «lo rifarei» dice alla fine, onesto.

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    Dante Renzo
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    Edited by Snow|Flake - 30/3/2019, 15:50
     
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    eméric lacroix
    Quante volte si era pentito d'aver aperto bocca? Tante, troppe.
    Se quella volta con Iden non avesse fatto alcuna menzione all'averlo usato come capro espiatorio, per esempio, forse le cose tra loro sarebbero andate diversamente. Il corvonero non l'avrebbe odiato sin dal principio magari, avrebbero col tempo potuto costruire qualcosa in più d'una manciata di schegge di vetro, rimastegli incagliate nella pelle tanto a fondo da farlo sanguinare; oppure il kaufmann sarebbe partito prevenuto in ogni caso, ma senza un'espediente non l'avrebbe colpito in pieno volto, non avrebbe scatenato in lui alcuna reazione: niente Sala Torture, nessuna grande rivelazione sulla scorrettezza di quel Regime, nessun pomeriggio passato a leccarsi le ferite ed a sentire il cuore battere più velocemente di quel che avrebbe dovuto.
    Un unica volta in silenzio, ed avrebbe potuto cambiare ogni cosa.
    Ma non l'aveva fatto Charles, e non riusciva neppure a provare rimpianto per come aveva lasciato che le cose s'ingarbugliassero al punto tale da divenire impossibili da sciogliere: presto o tardi, Iden o non Iden, si sarebbe comunque ritrovato a dover fare i conti con sé stesso. Sentire il cuore spezzarsi era stata soltanto la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, un vaso colmo d'amarezza, di frustrazione, di debolezze mai espresse e di strati e strati di polvere a celare quel che era davvero: un ragazzino traumatizzato. E sebbene ormai si odiasse, se anche ogni secondo di quell'esistenza pareva tanto doloroso da risultare insopportabile, in qualche modo sentiva di non essere più soltanto un codardo. Avrebbe affrontato lo sguardo disilluso di Viktor, il timore di Amélie nel concedergli fiducia, la sensazione di perdita e di infinito vuoto a costringergli il petto, ma almeno avrebbe potuto guardarsi allo specchio senza fingere di essere migliore di come in verità non fosse.
    Per questo non riuscì a pentirsi neppure dell'essersi esposto troppo col Rinaldi, d'aver tastato un campo minato, d'aver per l'ennesima volta messo potenzialmente a rischio la propria sicurezza al solo scopo di, cosa? Ritrovare un po' di sé nel parlare in un argomento più che familiare? Soddisfare la propria curiosità su quello che si era perso in quei mesi d'assenza dalla civiltà? Neppure una buona ragione a tirata dei conti, ma non era proprio riuscito a impedirselo il Dumont, perché in fondo sperava dannatamente di sentirgli dire... Precisamente quelle parole.
    Non ci aveva creduto davvero, conscio di non poter aspirare a tanto nei panni di un insegnante apparentemente fedele al Regime, ma per una manciata di secondi una sorta di commozione s'impossessò comunque delle sue viscere, facendolo sentire così orgoglioso ed al contempo grato a quel fragile eppure straordinariamente coraggioso - e forse anche un po' incosciente, com'egli stesso era sempre stato - grifondoro, da impedirgli di ragionare lucidamente, di essere razionale come invece sarebbe stato il caso d'essere. E sorrise in quegli istanti il Dumont, il capo ancora lievemente chino ma le labbra visibilmente piegate all'insù, la rinnovata sensazione di non essere più completamente solo.
    E poi, d'improvviso, il dubbio.
    Perché come poteva credere ancora che tutti fossero dalla sua parte? Che non vi fosse sempre dietro l'angolo qualcuno pronto a fare la spia, a spedirlo direttamente ad Azkaban o, senza troppi convenevoli, incontro alla morte? Come poteva vivere sereno sapendo che un solo passo falso avrebbe potuto determinare non solo la sua fine, ma anche e sopratutto quella delle persone a cui voleva bene?
    Avrebbe voluto credergli, lo avrebbe voluto dannatamente, perché le sue parole lo avrebbero aiutato a dormire la notte, a smorzare quel peso sul suo petto, a ridargli un minimo della speranza che aveva perduto - ma non poteva farlo, non così alla leggera. Non quando in ballo c'era così tanto.
    Si sollevò con uno scatto, passando in rassegna la stanza con lo sguardo per assicurarsi che nessuno avesse potuto udire il minore, ed estrasse la bacchetta per puntarla dritta contro il suo petto «potrei anche aver bisogno di una vacanza, ma sono ancora in grado di usarla» ribatté gelido, posando infine gli occhi su quelli altrui. L'aveva messo alla prova? Stava cercando di farlo smascherare fingendosi dalla sua parte? Invero, si era sempre schierato dalla sua parte il Rinaldi, sin dal principio, ma siamo sinceri: l'aveva fatto più con leggerezza che col reale intento d'appoggiare la sua causa. Non gliene avrebbe fatto una colpa, al contrario, ma quella spassionata confessione senza la minima accortezza avevano insinuato in lui il dubbio che, dopo le torture e le punizioni, la scuola avesse anche potuto istruire i suoi studenti a fare la spia.
    Il tremore alle mani ora più evidente, il petto sul punto di esplodere e lo sguardo ormai fermo sul grifondoro, esitò ancora per qualche istante prima d'azzardarsi ad aprir nuovamente bocca.
    «hai idea di quanto sia grave quello che hai appena detto?» domandò circospetto, senza avere una reale idea di come procedere «potrei - dovrei farlo immediatamente presente ad un professore» porca. puttana.
    Ma in che situazione era andato a cacciarsi? Perché no, non avrebbe mai mandato uno studente al patibolo, ma al contempo sottrarsi dal farlo avrebbe senz'altro rappresentato un rischio che non poteva permettersi di correre. Lo fissò ancora in silenzio, finendo poi per abbassare la bacchetta senza neppure accorgersene, chinandosi abbastanza da poter avvicinare le labbra all'orecchio dell'altro «dovresti davvero stare attento a parlare di certe cose» e ancora porca. puttana. «fidati, finiresti per pentirtene» oh, e lui sapeva bene ciò di cui stava parlando «e potresti non essere così fortunato con qualcuno altro».
    Allontanò il viso da quello altrui, tornando a sedersi con rinnovata pace, abbozzando persino un sorriso su quel viso segnato dal turbamento.
    «conto sul fatto che a parlare sia stata la confusione indotta dal mio incantesimo un po' instabile» pronunciò dunque ad alta voce, rivolgendo all'altro uno sguardo eloquente e tornando a riporre la bacchetta «perciò quanto accaduto rimarrà fra noi, per questa volta» poggiò i gomiti sulle ginocchia per sporgersi verso il grifondoro «a meno che tu non abbia voglia di raccontarlo a qualcuno» chissà se sarebbe bastato a far scoprire le carte all'altro o se invece l'avrebbe spinto a concedergli fiducia «io ho comunque agito esclusivamente in buona fede» charles dumont: come lavarsene le mani e pregare nella buona sorte.
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    Edited by wait‚ wat? - 30/3/2019, 14:49
     
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    Era stato incauto? Maledettamente. Se n’era pentito? Nemmeno per un istante.
    Il punto della questione era molto più profondo dell’essere additato come traditore o l’essere torturato fino alla morte; lì si parlava della libertà che era venuta a mancargli nell’esatto istante in cui aveva varcato la soglia di Hogwarts, fiducioso di trovare qualcosa di emozionante e non di certo un cumulo di merda. Ora, forse era la sua indole focosa a parlare, la rabbia e lo spirito di rivalsa della sua Casata, ma non aveva nessun dubbio su quanto pronunciato. Se i Mangiamorte volevano sottometterli, umiliarli e farli sentire piccoli, avrebbe trovato il modo di combattere fino all’ultimo dei suoi respiri per fare in modo che ciò non accadesse. Certo, aveva tanto, tantissimo da perdere, la sua famiglia era indubbiamente una delle motivazioni che lo aveva tenuto a freno. Tuttavia, sottopelle e dopo essere stato torturato e marchiato con il fuoco, qualcosa in lui era scattato; era una piccola, forse flebile scintilla, animata dalle visite al Ministero che, piuttosto che quietarlo e rimetterlo a posto, erano riuscite solo ad aprirgli gli occhi.
    La storia si ripeteva, sempre; che fosse magica o babbana non aveva importanza. Ci sarebbe stato sempre un folle a bramare il potere, a desiderare di schiacciare tutti indistintamente. Ci sarebbero sempre stati gli indifesi e gli emarginati, ma soprattutto quelli che pur di innalzarsi a divinità erano disposti ad uccidere a sangue freddo, senza curarsi dell’individuo.
    Quindi sì, alla domanda «ha idea di quanto sia grave quello che hai appena detto?» non pensava nemmeno fosse necessario rispondere, più per lo sguardo pieno di rabbia ad animargli gli occhi azzurri, accesi come due tizzoni ardenti, che per effettiva mancanza di rispetto.
    Era stato un azzardo, un esporsi volontariamente con un estraneo che di quell’informazione avrebbe potuto farci qualsiasi cosa. Dirlo ai professori, denunciarlo al Ministero, ucciderlo lì su due piedi e giustificare l’atto dicendo che fosse uno dei Ribelli. Non era un Purosangue, era solo un Mudblood e nessuno se ne sarebbe preoccupato, perché feccia era e feccia sarebbe rimasto persino da morto.

    «potrei – dovrei farlo immediatamente presente ad un professore»

    Paradossalmente, quella minaccia, era ormai come acqua fresca sulle sue ferite e non pensava di certo a quelle fisiche; gli ematomi, i graffi, le rotture erano tutte cose facili a cui si poteva porre rimedio. Ma la mente? Era un pozzo nero e senza fondo in cui sentiva solo le urla di dolore, le suppliche rivolte alla sua persona, i gemiti sommessi dei morenti. Se chiudeva gli occhi vedeva ancora le ossa frantumate di Godric, il taglio sanguinolento di Ryan e il braccio rotto di Jack.
    Aveva sperimentato sulla pelle la paura ed era talmente disilluso e incosciente da non pensare di avere nulla da rimproverarsi.

    Il fiato caldo di Emèric a soffiargli nell’orecchio era fastidioso come il sangue a ribollirgli nelle vene, perché se non avesse davvero avuto il minimo controllo delle proprie azioni, avrebbe preso il Lacroix a pugni, fino a fargli perdere ogni, singolo, maledetto dente.
    Si limita a serrare la mascella, il respiro duro e lo sguardo velato dal rancore, quasi che più che essergli grato di non voler dire nulla, ne fosse rimasto deluso. Cos’era, voleva giocare al buon samaritano? Era o no un Mangiamorte?
    «Confusione?» risponde, abbassando la voce, sporgendosi verso l’assistente con un sopracciglio ben alzato, scettico. Il Lacroix sapeva benissimo che quell’ammissione non fosse dovuta a nessuna cazzo di confusione, ma solo alla tremenda voglia di cambiare le cose, prima di lasciare quella fottuta scuola «Raccontiamoci che sia stata la confusione a farmi parlare» azzarda nuovamente, mosso dallo spirito suicida dell’Osbourne «Dato che sai… sono ancora così confuso dall’incantesimo» fa finta di posarsi una mano sul capo, sofferente «mi perdonerai se non ti ringrazierò per non avermi mandato dalla Queen» accenna un sorriso tirato, fissandolo con una tale intensità che se solo avesse messo un po’ più di volontà, avrebbe potuto perforargli la fronte «ma hai chiesto e io ho risposto. Mandami pure il Sala Torture se la cosa può toglierti dall’inghippo, sia mai che qualcuno possa dubitare della tua fedeltà al Regime» alza poi entrambe le mani in segno di resa, palesemente provocatorio. Anche se per quella volta Emèric avesse deciso di lasciarlo andare, questo non l’avrebbe di certo frenato dall’essere conscio delle proprie idee. Avrebbero potuto anche torturarlo tutta la notte, cruciando ogni più piccola parte della sua mente, ma mai, m a i l’avrebbero sentito pronunciare la frase “fedele al Regime”. Dalle sue labbra non sarebbe mai uscito nulla di tutto quello.
    «Cosa posso dirti, dopo essere stato Cruciato, frustato, picchiato, marchiato con il fuoco e costretto a fare lo stesso, cos’altro dovrei sentire? Sento a malapena il dolore al braccio. Hai deciso di risparmiarmi in buona fede? La verità è che non c’è affatto buona fede, è solo un modo come un altro per avere la coscienza pulita» fa spallucce, abbassando lo sguardo sul braccio ancora rosso, quasi a chiazze «e preferisco che tu non ce l’abbia, quindi mandami pure a scontare la pena, il mio pensiero confuso dubito che cambierà» era una provocazione? Ormai si era spinto troppo in là. La sua bocca era stata serrata per troppo tempo, accumulando il veleno e il disgusto. Non ne aveva mai parlato perché, in genere, era un ragazzo mansueto e gentile che difficilmente si lasciava prendere dalla rabbia. Non aveva detto nulla nemmeno ai Golden, forse perché nessuno di loro era mai riuscito a prendere l’argomento; se lo avessero fatto, se si fosse sfogato, forse avrebbe evitato tutto quel macello, quell’essersi ritrovato in Infermeria con lo sguardo gelido di Emèric puntato addosso.
    Fargli quella domanda era stata la goccia. Il sospiro prima dello schiaffo e se doveva essere sincero… beh, si sentiva quasi sollevato.

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    Diciamocelo: sebbene in tante cose l'ex-Serpeverde sentiva di essere profondamente cambiato rispetto a quel che era stato fino a qualche mese prima, c'erano degli aspetti di sé che forse sarebbero rimasti sempre gli stessi, che in fondo lo rendevano Charles Dumont e non un'altra persona. Non era nato diffidente il francese, ma lo era diventato con l'esperienza, eppure quel suo lato da irrecuperabile imprudente l'avrebbe con tutta probabilità fregato prima o poi. Chiunque altro, qualunque sano di mente con un'accusa di tradimento sulle spalle ed una copertura più che precaria come unica speranza, sarebbe fuggito a qualunque situazione potenzialmente a rischio. Non avrebbe dovuto mai porre quella domanda al Rinaldi, né sarebbe dovuto restare ad ascoltare quella che pareva essere una confessione incriminante in piena regola e, se anche non avesse voluto denunciarlo, avrebbe comunque dovuto assicurarsi di non lasciarlo proseguire. Avrebbe dovuto ponderare con maggiore attenzione la possibilità che l'altro volesse solo testare la sua fedeltà, che il fatto d'averlo avuto al proprio fianco la notte in cui ogni cosa era cambiata non certificava la sua indiscutibile credibilità, che rischiare la propria pelle e quella della sua famiglia solo per il desiderio di sentire appagato il proprio orgoglio ora sciocco, oltre che irresponsabile.
    Ma forse era colpa di quell'amore per il rischio che da sempre aveva mosso le sue azioni più sconsiderate, forse era l'esasperazione del dover guardare la sua vita scivolargli dalle mani come uno spettatore esterno, incapace di riprenderne il controllo, o forse era semplicemente masochismo, la voglia di mettersi completamente a nudo per porre fine a quell'inutile agonia. Oppure erano gli occhi di Dante, infiammati d'una luce che conosceva fin troppo bene per tutte le volte che l'aveva vista guardandosi allo specchio, e la genuinità con cui aveva snocciolato quelle parole una dietro all'altra, quasi fosse incapace di tenerle a freno. Magari era solo un bravo bugiardo, il migliore che avesse mai conosciuto - ma Charles non riusciva a vedervi alcun male, niente che potesse impedirgli di sorridere e di sporgersi d'un soffio più vicino, abbastanza da poter parlare facendosi sentire solo dal Grifondoro.
    «pensi che se avessi voluto mandarti dalla Queen non l'avrei già fatto?» gli avrebbe anche risparmiato parecchi problemi a dire il vero, sebbene forse avrebbe avuto qualche difficoltà a perdonare sé stesso dopo - ma hey, a convivere con le proprie colpe c'era ben che abituato «o che io abbia un qualche interesse a farti cambiare idea?» si passò una mano fra i capelli, scontrandosi per la centesima volta con la delusione di non trovare fra le dita la sua solita pettinatura «una volta—» nope, fare qualsiasi riferimento al proprio passato da ribelle era senza alcuna ombra di dubbio una pessima idea «lo so che pensi di aver già provato il peggio che si possa provare, lo capisco» sbuffò alla fine, traendosi indietro e reclinando il capo per guardare il soffitto «ma ti assicuro che quello che hai passato non è niente in confronto a quello che potrebbe succedere se—» cristo, quant'era difficile portare avanti una discussione fingendo di non essere sé stesso «non ti sto suggerendo di soffocare quello in cui credi» che lo incastrassero per quelle parole, che gli strappassero pure il cuore dal petto: probabilmente avrebbe vissuto meglio senza «solo di prestare maggiore cautela» tornò a fissarlo a quel punto, desiderando con tutto sé stesso di poter essere d'aiuto al Rinaldi, di non lasciare che commettesse i suoi stessi errori «perché gli sciocchi finiscono sempre ammazzati, e non cambiano mai un cazzo» parlava di sé stesso? Ovvio che sì, peccato Dante non potesse averne idea.
    «come probabilmente finirò io continuando a parlarti in questo modo» fece spallucce a quel punto, perché oramai era fatta: se l'altro avesse voluto far rapporto su quanto aveva detto, era libero di farlo. «ma se le cose dovessero cominciare a starti troppo strette, o se dovessi semplicemente aver bisogno di parlarne» si bloccò di colpo, conscio di dove le sue parole volessero andare a parare: che cazzo gli era passato per la testa? Aveva davvero completamente perso il lume della ragione? «magari non farlo in infermeria» tagliò corto, desiderando colpirsi in pieno volto per permettere al suo cervello di resettarsi e riprendere a funzionare correttamente. Da quanto era talmente disperato da fregarsene della propria incolumità pur di avere qualcuno con cui parlare? Qual'era stato l'esatto momento in cui aveva cominciato a trasformarsi in quella patetica e fragile versione di sé? Era forse sempre stato così?
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    Era stato il sorriso di Eméric a farlo tentennare un attimo, perché piuttosto che trovare su quel viso la rabbia e l’indignazione tipica dei seguaci del Regime, aveva visto solo ed esclusivamente comprensione. Non era normale. Non lo era affatto. Tuttavia, quell’espressione compiaciuta, quelle labbra stirate verso l’alto erano riuscite a quietare per un istante l’animo da ribelle, quel fuoco che sembrava essergli divampato nel petto senza poterlo frenare. Forse, se al posto del Lacroix ci fosse stato un altro professore si sarebbe beccato una delle punizioni più dolorose di tutta la sua vita, ma l’avrebbe accettata senza battere ciglio, conscio di essersela cercata; eppure, quella volta, non era andata come aveva immaginato.

    «o che io abbia un qualche interesse a farti cambiare idea?»

    Per un secondo, si ritrova a sgranare le palpebre, le iridi azzurre a vagare su quel viso familiare, trovandovi però una luce diversa. Un atteggiamento diverso, quasi che l’espressione gelida di poco prima non fosse stata altro che una facciata per non esporsi, per poter evitare un simile confronto.
    Quello che gli stava dicendo Eméric era… assurdo. Allo stesso tempo, il non volergli far cambiare idea era sintomo di qualcosa che condividevano e, probabilmente, pensavano entrambi.
    Per quanto non volesse darlo a vedere, il piccolo sospiro di sollievo nell’essere di fronte a qualcuno che lo comprendeva gli era sfuggito dalle labbra senza poterlo frenare. Era come una liberazione, un peso che poteva condividere, finalmente, con un altro che non fosse uno studente. Una persona adulta, forte, che era lì non per fare in modo che dei ragazzi innocenti soffrissero, ma per proteggerli; si era fatto un’idea totalmente sbagliata del Lacroix, smentita solo da quelle poche parole. Forse lo stava mettendo alla prova, magari era tutto sbagliato e si stava illudendo e lo avrebbe venduto senza esitazioni ai Mangiamorte, ma sottopelle avvertiva quel brivido che l’aveva fatto sentire vivo, quello stesso che aveva sentito in Sala Torture nel momento in cui aveva deciso di appoggiare la causa di Charles.

    «non ti sto suggerendo di soffocare quello in cui credi, solo di prestare maggiore cautela perché gli sciocchi finiscono sempre ammazzati, e non cambiano mai un cazzo»

    Stringe le labbra, non abbassando lo sguardo, arrossendo però fino alla punta dei capelli per la vergogna. Non sapeva di chi stesse parlando Eméric, forse del Dumont, perché per quanto gli ideali del ragazzo fossero giusti, non aveva saputo mettere in atto un piano funzionale, ritrovandosi a dover scappare ed essere considerato un traditore. Alla fine era come se fosse morto. Lui era più intelligente? Nah. Era esattamente come il francese, se non peggio; una testa calda nascosta sotto strati di finta calma. Il problema era che il suo essere focoso, un Grifondoro sprezzante del pericolo e fiero dei propri ideali era un problema, ed aveva ragione il Lacroix nel dirgli di prestare maggiore attenzione. Era, però, qualcosa che lo corrodeva dall’interno, che lo rendeva un fascio di nervi che, come in quel momento, erano esplosi lasciando solo un’enorme voragine, colmata dalla comprensione del suo interlocutore.

    «… se dovessi semplicemente aver bisogno di parlarne, magari non farlo in infermeria» di nuovo, si morde le labbra, annuendo questa volta, non riuscendo a nascondere quel cocente imbarazzo dell’essere sembrato niente di più che un idiota.
    Il punto era che non poteva obbiettivamente discuterne con nessuno, nemmeno con i Golden, in particolar modo era anche evidente che farlo con Godric sarebbe stato deleterio. Ogni volta che si avvicinavano a quegli argomenti, finivano inevitabilmente con il pungersi più del dovuto e… dio, voleva così bene a quel ragazzo. L’ultima cosa che voleva era mandare a puttane la loro amicizia per delle opinioni divergenti. Ma cosa avrebbe fatto se avesse dovuto scegliere tra ciò che era giusto e ciò che il suo cuore desiderava? Non avrebbe mai rinunciato all’idea della libertà, allo stesso tempo non voleva nemmeno perdere i suoi amici. Era un gran casino.

    «Scusa» aveva sbagliato? Oh boy. Sì. Che senso aveva fare il macho e far finta di non essere rimasto toccato dalle parole dell’altro? Non era quel genere di persona, tutt’altro; se sbagliava, sapeva ammettere il suo errore e chiedere perdono, persino ad uno come il Lacroix che, com’era giusto che fosse, non gli aveva dato modo di capire dal principio la sua posizione al riguardo. Solo per avergli parlato in quel modo, probabilmente, Eméric aveva rischiato—forse fin troppo.
    «In realtà mi piacerebbe parlarne» ammette a bassa voce, puntando gli occhi sul pavimento, ancora terribilmente a disagio per la figura pessima che aveva fatto con l’assistente. Era sempre così. Non c’era un singolo giorno in cui le figure di merda non lo accompagnassero.
    Si tocca per un istante il marchio a fuoco, notando il braccio tornare al suo colore originario, perfettamente diafano, sollevato nell’averlo ancora attaccato al resto del corpo «perché mi fa incazzare che ci sia questo silenzio, come se fosse normale. Come se non fosse successo niente» stringe il pugno, sentendo la pelle del polso tirare, la carne raggrinzirsi per via dell’ustione «e farlo con un adulto potrebbe aiutarmi a tenere a freno la lingua» perché sì, lo sapeva. Aveva molto da imparare e voleva realmente fare la differenza.
    «Se vuoi…» alza solo gli occhi azzurri a fissare la figura dell’altro, ammansito, tornando più o meno calmo come sempre.
    Il rossore ancora presente a tingergli le guance e le orecchie, impossibile da nascondere.

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    Quando il Dumont aveva scelto di andare fino in fondo a quell'assurda idea dell'occupazione, non aveva sperato neppure per un istante che questa avesse potuto cambiare qualcosa nell'immediato. Non era un ribelle Charles, né tanto meno era mai stato interessato ad esserlo; sua madre aveva seguito quella strada diversi anni prima, e com'era finita? A tradirla era stato l'unico uomo di cui si fosse mai fidata davvero, sempre lui a torturarla fino allo sfinimento senza pietà alcuna, e da quella notte di lei non era rimasto altro che un guscio vuoto, incapace di mantenere i ricordi per più di qualche secondo, incapace persino di riconoscere il suo stesso figlio. A che scopo, dunque, mettere in pericolo la propria vita? Per vedersi poi voltare le spalle dai propri compagni nel momento della sconfitta? Era rancore quello di Charles, rabbia nei confronti di una madre che non aveva saputo riconoscere il rischio delle proprie azioni, che non aveva messo in conto la possibilità di ferire anche lui, che non era riuscita a farsi bastare la vita semplice che avrebbero potuto condurre assieme, da soli. E rabbia verso quella fantomatica Resistenza, di cui sapeva poco o nulla, che non aveva fatto niente per lui e sua madre da quando questi era diventata incapace di prendersi cura di sé stessa e della propria famiglia. Odio, verso quel Regime che si era prima portato via suo padre, plasmando la sua mente affinché non vi fosse altro che la propria fedeltà politica nei suoi pensieri, e poi sua madre, senza neppure dargli la possibilità d'avere un giusto processo.
    Avrebbe voluto tirarsene fuori il Dumont, fingere che tutto questo non l'avesse mai toccato nel profondo, che a differenza dei suoi genitori poteva vivere in un mondo pieno di contraddizioni senza curarsene più dello stretto indispensabile. Ma non ci era riuscito.
    Aveva ingoiato per sin troppo tempo il boccone amaro della sua infanzia rubata, e quelle visite al San Mungo non facevano ogni volta che rinnovare il suo dolore, il suo disprezzo. Ed infine, trovandosi egli stesso nel braccio della morte, assistendo coi propri occhi al modo in cui Hogwarts sceglieva di punire i suoi studenti per una banale rissa in cortile — oh, non era più riuscito a toglierselo dalla testa. L'aveva logorato dall'interno quel senso di profonda ingiustizia a cui non poteva più voltare le spalle, che a furia di soffocare aveva finito per rendere sempre più insistente, sempre più preponderante, fino ad esplodere. Boom, e l'idea di un'occupazione aveva iniziato ad acquisire un senso, al di là dei suoi risultati immediati - era più una questione di sostegno, di dimostrare a quel governo che gli studenti di Hogwarts erano uniti, che avevano una voce, che non avevano paura.
    Invece l'avevano, eccome. Peccato essersene accorto tardi.
    Ma a quel punto poteva comprenderlo l'ormai Lacroix, perché li aveva odiati tutti quand'era fuggito, aveva odiato quel posto ed il modo in cui tutti si erano rifiutati di comprendere. Aveva assaporato la rabbia repressa del Kaufmann e l'aveva resa la propria rabbia, se n'era nutrito fino a riempire quel vuoto che sentiva nel petto da troppi anni, e per un po' era bastato. Poi c'era stata la consapevolezza d'aver buttato in aria ogni suo sacrificio per raggiungere un futuro che non avrebbe più potuto avere, lo sguardo tradito di Viktor nel rivederlo in quella bettola all'Inferius, l'evidente spericolatezza fine a sé stessa di Iden, e persino di Mortimer, la grandezza dello sbaglio che aveva commesso. La parte più egoista di sé ringraziava Iden per averlo tirato fuori di lì prima d'avere inflitte le stesse conseguenze dei suoi compagni, perché più del dolore stesso non avrebbe sopportato l'idea di torturare qualcuno allo stesso modo in cui avevano fatto con sua madre, ma la parte un po' più matura aveva compreso perché una semplice occupazione non sarebbe mai potuta bastare: perché il Regime aveva tutto da togliere, niente da perdere.
    Non era mai stato un ribelle Charles, ma ora credeva di non poter essere nient altro. Lo doveva a sé stesso, a sua madre, a Viktor e persino a quella testa di cazzo che aveva lasciato alla Stamberga. Lo doveva al Grifondoro che era quasi riuscito a ridargli il respiro, che aveva finalmente risvegliato in lui qualcosa. Eméric, fino a quel momento, non era stato che l'ombra di un Charles ormai morto. Non sarebbe più stato così.
    «non devi scusarti» mosse una mano come a voler scacciare il rossore sul volto del Rinaldi, perché il suo errore non era niente in confronto a ciò che egli stesso sapeva d'aver commesso. Era una questione di temperamento per Dante, forse anche di risentimento verso qualcosa che Charles non poteva conoscere, ma non si trattava certo di stupidità. Fra i due c'era soltanto uno sciocco, e non era certo l'italiano.
    "Un adulto" diceva il grifondoro, non certo consapevole d'avere dinanzi nient'altro che un diciottenne spaventato, che aveva fatto tante cazzate da aver perso ogni cosa, persino la propria identità. Ma sapeva di cosa il minore avesse bisogno - della stessa guida che lui ricercava disperatamente al capezzale di sua madre ogni qual volta andava a trovarla. Non glie l'avrebbe tuttavia concesso per generosità o per compassione, ma per pura e semplice necessità: perché voleva provare ancora qualcosa, perché quel silenzio faceva male anche a lui, perché si sentiva disperatamente solo.
    «e - oh, il tuo braccio mi sembra tornato a posto» lo indicò con un cenno del mento, sviando un po' di proposito il fulcro del discorso per impedirsi di esagerare, per darsi il tempo di ragionare a fondo su ciò che stava facendo «perciò direi che possiamo entrambi tornare alle nostre cose» era una fuga? No, solo un tentativo di non dar troppo adito all'impulso. Si alzò in piedi dunque, avanzando qualche passo verso il corridoio, salvo poi fermarsi e voltare il capo in direzione del Rinaldi.
    «certo che voglio» annuì, incrociando il suo sguardo con una certa serietà «sai dove trovarmi, in qualsiasi momento».
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