What are we here for If not to run straight through all our tormentors?

jane + eugene

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    Il click della fotocamera sotto l’indice di Jane, era dolorosamente e ironicamente familiare. Scattare una fotografia, d’altronde, non era poi così diverso dallo sparare a qualcuno, sangue e cervella sparpagliate sul pavimento a parte: trovavi l’obiettivo, miravi - click. Osservò con aria critica l’immagine apparsa in anteprima, i denti a stritolare l’interno della guancia. Febbraio, così come Gennaio ed i mesi ad esso precedenti, non era stato clemente nei confronti della cittadina magica, schiacciandola in una morsa di freddo e gelo che avrebbe, idealmente, convinto Jane Gabriel Darko a non abbandonare la calda postazione sul divano del suo dormitorio. Idealmente, certo: in pratica, erano due i fattori a spingerla in quel di Diagon Alley, avvolta dentro felpe più grandi di lei con due paia di sciarpe a combattere l’aria antartica. Il primo, ed alquanto scontato, era che Hogwarts fosse diventata un’immensa presa per il culo, più di quanto già non fosse stata i quasi quattro anni precedenti; non solo non le era concesso seguire lezioni (come potessero pensare di punire degli adolescenti eliminando delle lezioni scolastiche, le sfuggiva) ma ogni occasione era buona per punire gli intrusi nel mondo magico, se non aumentare le ore di servizio per la comunità spazzando i pavimenti come dei carcerati. Fare le pulizie insieme agli Elfi Domestici non le dispiaceva quanto avrebbe dovuto; gli sfottii dei ragazzi più grandi che lasciavano volontariamente cadere a terra pergamene e altra pattumiera, d’altro canto, le facevano rivalutare gli attentati nelle scuole, e doveva ricorrere a tutto il proprio autocontrollo per non spaccargli la scopa sulla collottola. Il secondo motivo, era un ragazzo. Sembrava la classica storia adolescenziale da leggere su watt pad, uh? Una di quelle fan fiction romantiche ricche di clichè e falsi colpi di scena che impedivano al lettore di abbandonare il racconto, convincendolo sempre – con una delle più grandi menzogne conosciute, insieme a “domani inizio la dieta” o “questo è l’ultimo pg” - a leggere un ultimo capitolo, giuro, poi vado a letto. Jane Darko aveva quasi sedici anni; un ragazzo avrebbe dovuto, di sacrosanto diritto di nascita in quanto ella in fase adolescenziale, essere il motivo delle sue fughe.
    Un vero peccato, che non ci fosse nulla di romantico.
    La prima volta che l’aveva visto, aveva creduto fosse un allucinazione, lo scherzo di una mente che si divertiva a percolarla quando meno se lo aspettava. La seconda volta, credeva di aver – nuovamente – esagerato con la fiaschetta di vodka sempre conservata in tasca. E quando la terza aveva incolpato la droga, e la quarta un effetto collaterale della narcolessia, alla quinta aveva cominciato a domandarsi se stesse realmente, e fottutamente, perdendo il cervello, o se il ragazzo, contro ogni razionale prognostico, esistesse davvero. Ed ecco perché le fotografie: una macchina non mentiva, e contava di far vedere quelle immagini ad uno sguardo più obiettivo del proprio – non si fidava di se stessa, Jane Darko. Perlomeno, non in un contesto simile; non sarebbe certo stata la prima volta in cui il suo corpo la ingannava, uh? Altrimenti non si sarebbe svegliata ogni mese con sto cazzo, letteralmente parlando. Passò la lingua sul labbro superiore, stringendolo poi fra i denti. Fece guizzare lo sguardo sulle due figure oltre l’angolo, ben attenta a mantenere la propria copertura segreta dietro uno dei tanti muretti dell’Inferius. Non era psicologicamente pronta ad un tete-a-tete con il ragazzo cui appartenevano i fottuti lineamenti che ricambiavano il suo sguardo mensilmente dallo stra maledetto specchio di Different Lodge – cosa gli avrebbe potuto dire, poi? Ehi, buongiornissimo, kaffèè? Mi chiamo Jane ed ogni mese mi sveglio con la tua faccia, quindi sì, ti ho già visto nudo – ma non sono una maniaca, giuro!!&& Volgare, perfino per i suoi standard. Non era abbastanza vicina da sentire cosa i due stessero dicendo, ma non le importava: non era Kim Possible, non era lì per spiarli. Si poteva forse biasimare una ragazza per volere delle prove concrete che verificassero non fosse completamente e fottutamente pazza? Perché lo temeva realmente, Jane; poteva accettare i vuoti di memoria, poteva sopportare di non sapere un cazzo della sua vita e di non averne più controllo perché ennesima pedina di un governo che se ne sbatteva le palle dei propri cittadini, e – seppur con fatica – poteva tollerare di perdere la vagina una volta ogni ventotto giorni.
    Ma non accettava di essere presa per il culo dalla propria testa, l’unica cosa sulla quale oramai potesse fare affidamento. C’era un limite di merda che ciascuna persona fosse in grado di spalare, e l’elettrocineta aveva superato il proprio una decina d’anni prima. Aveva imparato a nuotarci, ma Cristo, oramai ci stava affogando: fra le migliaia di modi in cui avrebbe potuto morire, soffocare in un mare di merda non rientrava nelle sue preferenze, grazie tante. Fece nuovamente capolino oltre il muro, puntò la macchinetta - click. In compagnia del ragazzo c’era un tipo che conosceva di vista (o di fama, più che altro: per quelli come Jane era incomprensibile ed inaccettabile che un mago scegliesse volontariamente di vivere a New Hovel – cosa non andava in lui? E no, non tiriamo in ballo il bambino, perché il mago aveva residenza nel quartiere da ben prima della sua nascita) e perché, nelle occasioni in cui i minorenni venivano abbandonati nel quartiere dei maggiorenni, recuperava le loro padelle nell’ultima mensola della cucina. Fosse dipeso da Jane, avrebbe creato una montagna di sedie da scalare per raggiungerla senza dover chiedere aiuto a nessuno, ma Narah era preoccupata potesse cadere e spezzarsi l’osso del collo, quindi…cosa, credevate forse fosse lei a domandare al moro di aiutarle? Ma per favore, avevano una Fitz apposta. Non ne aveva mai colto il nome, ma fino a quel momento non le era neanche mai sembrato particolarmente importante.
    Quando sentì dei passi avvicinarsi, imprecò fra i denti e si nascose fra due muri, rannicchiandosi su se stessa così che non fosse visibile. Ringraziò mentalmente la società magica per non interessarsi alla luminosità nei quartieri malfamati come Inferius, dove i lampioni non funzionavano trecento giorni all’anno – grazie, negligenza burocratica! Attese fino a che non udì più alcun rumore, quindi, cauta come un gatto, si rialzò lentamente, seguendo con lo sguardo la schiena del ragazzo (il suo, ragazzo) allontanarsi. Volse le iridi azzurre verso quello ancora al centro dell’Inferius, domandandosi, per la prima volta, se quella fosse stata una buona idea. Non si era domandata il perché dell’incontro in un luogo simile, non era affar suo, ma, con il senno di poi, l’unica motivazione che le venisse in mente, riguardava spaccio e contrabbando. Il fatto poi che lasciassero la sede in tempi diversi, non lasciava presagire nulla di buono. Nah avrebbe suggerito un incontro d’amore clandestino, e poteva quasi sentire la voce eccitata di Fitz sussurrarle all’orecchio GOMBLODDO, ma – com’era tipico della Darko – non credeva a nessuna delle due interpretazioni. Si risparmiava un sacco di tempo ad ignorare le teorie delle due special, comprovato. Scosse il capo, decidendo di giocarsi il tutto per tutto. Cos’aveva da perdere, d’altronde? Non aveva molto a cui tenere, Jane; anche della sua vita, non le importava poi così tanto. Uscì con non curanza dal suo nascondiglio, sistemando le due sciarpe attorno al collo. Lasciò scivolare la fotocamera all’interno della borsa a tracolla, sostituendola nella propria mano con un pacchetto di sigarette, ed un accendino che aveva visto giorni migliori. «passeggiata di salute?» domandò, con un lieve sorriso ironico sulle labbra, alzando lo sguardo sull’altro. Diplomatica, gli offrì una sigaretta prendendone una per sé; non la accese, infilandola invece dietro l’orecchio. Ruotò il capo per lanciare un’occhiata alle proprie spalle, un cenno con il capo alla strada dalla quale era appena sparito IL ragazzo. «lo conosci?» Troppo diretta? Sentì (…forse stava impazzendo sul serio) la voce di Nikita suggerirle una storia di copertura, e, con un enorme atto di fede, inspirò dalle narici e socchiuse gli occhi, stringendosi poi nelle spalle. «credo mi abbia rubato il portafoglio» Sempre meglio di la sua faccia è il mio personale ciclo mestruale.
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    «baaaaaciamiiii» con una mano premuta contro l'orecchio destro e l'indice della mancina rivolto al cielo sporcato da nuvole simili a zucchero filato, eugene jackson raggiunse l'intonazione desiderata, immedesimandosi perfettamente in una lady gaga fresca di nomination agli oscars.«il cuuuuloooo, feee e e e rgieeee» and the oscar goes to: euge, sempre, perché era il più bello e bravo di tutti. E anche perché, dopo aver appena perso una scommessa con quello squinzietto del fratellino alternativo, si meritava almeno un riconoscimento alle sue innegabili ed inestimabili doti canore. «solo se tu mi baci questo» gli stava forse mostrando il dito medio? aaawww, quanto gli voleva già bene.
    Si vedeva che appartenevano alla stessa razza (sapete, no? i coglioni), se non esattamente alla stesso famiglia, e all'ex pavor era bastato un giorno, poco più di ventiquattro ore, per dimenticare che quel fergie non faceva parte del suo mondo. Che non avrebbe dovuto far parte nemmeno della sua vita, eppure eccoli lì, uno di fronte all'altro ad insultarsi amorevolmente tra la feccia dell'inferius. Era quello il rapporto che eugene aveva sempre immaginato di condividere con il fratellino minore, sognando il volto del ragazzo trasformarsi negli anni e quel sorriso rubacuori affilarsi di giorno in giorno com'era tipico dei fratelli jackson. Pur non avendo lo stesso sangue a scorrergli nelle vene, qualcosa nel cuore del ventisettenne gli suggeriva che la faccia da schiaffi ferguson l'avrebbe ereditata comunque. Tale e quale a suo fratello, ma abbastanza intelligente e scaltro da poter competere persino con delilah.
    Supposizioni, fantasie, storie che euge si era raccontato negli anni per non ammettere quella che ormai sembrava in tutto e per tutto la verità, senza mai poterne avere conferma; finché ferguson jackson non era piombato nella realtà che conosceva come tale mescolando nuovamente le carte in tavola. Pensava di averlo perso per sempre, e invece era lì. «gen zí. quanto avevamo scommesso?» stava già frugando nelle tasche del giubbino, il serpeverde, che un portafogli come le persone normali non ce l'aveva. Infilava spiccioli in ogni pertugio disponibile - mlmlml - e d'estate, quando la giacca spariva e rimanevano solo magliette inutili alla causa, teneva i documenti direttamente nelle mutande. Nemmeno cosi tanto sicuro come nascondiglio, conoscendo il soggetto. «cento galeoni. idea tua, eh» e ridacchiava, lo stronzetto. Ok, euge aveva forse abbondato puntando così tanto sul piatto, ma chi avrebbe immaginato che au!fergie sarebbe riuscito nell'intento? Devi farti dare il numero dalla prima ragazza che incontriamo, con una sola frase, gli aveva detto, affrettandosi a spegnere l'entusiasmo del fratellino con una mano posata sulla sua spalla, un sorrisetto a spuntare sulle labbra piene, e la frase dovrà essere: vuoi sgranare il mio cous cous ricco?
    L'evoluzione delle pannocchie sbucciate.
    «beh, credo che sarai felice di sapere che ho sette galeoni in tutto, goditeli.» aveva delle bocche da sfamare, eugene jackson. «portaci barry2 a prendere un gelato, si vede che ne ha bisogno.» anche se non era esattamente quello a cui stava pensando. Gli era bastato chiacchierare con il biondo per dieci minuti al better run e subito era stato lampante quanto a barrow mancasse essere limomato duro contro un muro. Si trattava di qualcosa in cui l'ex pavor non poteva essergli di molto aiuto. Ignoró volutamente gli insulti - amorevoli, sempre - che volarono subito dopo, mentre fergie faceva sparire bottino dalla mano tesa del ventisettenne con la grazia di un borseggiatore provetto. Era così fiero del fatto che fosse diventato un piccolo criminale, e tutto senza la sua guida! Il pensiero lo aveva anche sfiorato, nel momento in cui si era reso conto che quel ferguson non conosceva alcun eugene, il tipo di pensiero che non ti permette di dormire bene la notte, ma alla fine il fattore euge aveva prevalso: molto meglio l'ignoranza. La curiosità poteva essere un'arma a doppio taglio, con la quale il jackson aveva sempre preferito non giocare. Troppe responsabilità in ballo, un peso spesso esagerato da portare sulle spalle e sul cuore, senza alcun pagamento in cambio. Non esistevano ricompense per chi desiderava la verità, solo il rimorso di non essersi fatti i cazzi propri al momento giusto. «non capisco se sei un poraccio o solo tirchio.» intanto però i soldi glieli aveva scippati, lo stronzino. Si strinse nelle spalle, eugene, sul volto da cciovane l'espressione di chi la sa lunga; gli piaceva mostrarsi responsabile e carico di quel bagaglio di esperienza del quale fergie, in quanto bambino, non aveva ancora sperimentato, anche se era ovvio che il ragazzo avesse già capito come stessero le cose. Bastava parlare con il ventisettenne per cinque minuti, e il gioco era fatto. «una cosa non esclude l'altra, ciccio» lezioni di vita da un vero adulto™.
    Si salutarono con l'ormai consolidata stretta di mano alla jake peralta&doug judy, ulteriore motivo di vanto e orgoglio per il serpeverde, e solo quando fergie si fu allontanato scomparendo dietro al primo angolo euge si accorse di non avere più il pacchetto di sigarette nel taschino della giacca di pelle. «ma tu guarda quella piccola bestia di satana.» per risultare credibile come fratello maggiore il suo tono di voce sarebbe dovuto suonare più carico di disappunto, ma proprio non ce la faceva a mascherare l'orgoglio che provava per quello stronzino intradimensionale, così simile a lui da fargli provare nostalgia per i bei tempi andati. Doveva passare a trovare Chuck al ministero, uno di quei giorni, magari con una grande torta al cioccolato #warflashback
    «passeggiata di salute?» attraeva gen z come le mosche, eugene jackson. Per lo più gli chiedevano di recuperare pentole e padelle dagli scaffali più alti, o comprare loro da bere illegalmente (cosa che nella maggior parte dei casi eugene faceva volentieri, portando avanti la tradizione che il professor peralta prima e spaco poi avevano iniziato con lui); in questo caso, da bravo badger, rimaneva a bere con loro per tenerli d'occhio, e fino a quel momento nessuno di loro era finito disperso o all'ospedale. O in obitorio. «certo. mi tengo in forma e respiro aria buona!» gliel'aveva prescritta anche il medico di famiglia, una bella corsetta per le vie dell'inferius, insieme al solito consiglio sullo smettere una volta per tutte di farsi le canne e diminuire la ricerca forsennata del piacere autoindotto. Ebbe giusto un istante di tentannamento, quando la ragazzina gli porse una sigaretta, un gesto tanto innocuo quanto in quel momento al limite del predestinato; per eugene una coincidenza rimaneva tale la maggior parte delle volte, ma che jane gli stesse offrendo qualche tiro gratis proprio quando quello stronzetto di suo fratello gli aveva appena ciulato il pacchetto nuovo suonava persino a lui come un piano divino. Qualcosa di più grande di entrambi. gombloddo «lo conosci? credo mi abbia rubato il portafoglio» euge non avrebbe voluto, vista la faccetta seria di jane, ma non riuscì comunque a trattenere un giggle alla ron swanson, con tanto di saltello all'indietro e colpo di tosse strategico a tentare di mascherare quell'eccesso di eccitazione fuori luogo. Una mossa inutile: gli si leggeva negli occhi che l'idea di avere un fratellino scippatore lo rendeva orgoglioso quanto uran che cavalcava tjade per il soggiorno. «ah si? ihihihih quel teppista! ihihih difficile darsi un contegno quando il proprio nome era eugene jackson e non se ne aveva mai avuto uno. Portó la sigaretta offerta tra le labbra, recuperando dalle mani della ragazzina anche l'accendino arrivato quasi a fine vita, sebbene in tasca ne avesse uno suo, ed un guizzo di fiammella bastó ad accendere quell'ennesimo piccolo passo verso la cancrenizzazione dei suoi polmoni. O, almeno, cosi gli ripeteva sua madre da quando lo aveva beccato a fumare per la prima volta, senza che la prospettiva di una morte in agonia riuscisse a fare presa. Dopotutto, il serpeverde era nato per le missioni suicide. «comunque è mio...» alt. sappiamo che è difficile per te euge, ma fermati un istante a pensare. non conosceva quella ragazzina dagli occhi così blu che gli sembrava quasi di vederci i propri riflessi dentro, per quanto ne sapeva poteva anche essere una spia del ministero e cazzi&mazzi. Se avesse definito fergie suo fratello, cosa diventata ormai dato di fatto, un professionista avrebbe anche saputo indagare sulla faccenda, scoprendo che eugene jackson di fratelli non ne aveva più nemmeno uno (stare vicino a barrow coooer aveva sortito uno strane effetto scie chimiche complotti adam kadmon): in pratica non poteva rischiare. «cugino di terzo o quarto grado, chi se lo ricorda più.» a genius. «se davvero ti ha fregato il portafogli posso fartelo riavere.» magari in cambio dei galeoni che ancora gli doveva per la scommessa, in caso lo stronzino di fosse dimostrato poco magnanimo. «tu sei? domanda lecita. Chissà quanti portafogli aveva collezionato fergie nei mesi passati nella sua dimensione, senza un dato di partenza con cui cercare era probabile che non lo avrebbe trovato mai.


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    Jane non aveva neanche avuto bisogno d’addestramento, nella sua vita, per masterizzare l’occhiata impassibile con la quale osservò l’adulto TM ridacchiare come un dodicenne: le veniva naturale. Quasi istintivo, ma che ne sapeva d’aver preso quel cipiglio severo dagli occhi zaffiro di una Delilah Jackson che sguardi del genere li faceva sempre seguire da un sonoro, e sempre sentito, coppino sulla nuca del fratello. Battè lenta le ciglia, arcuando appena un sopracciglio corvino in direzione di Eugene. Che cazzo hai da ridere, dicevano gli occhi della Darko; ma che adorabile essere umano, il sorriso a tirare gli angoli delle labbra. «ah si? ihihihih quel teppista! ihihih.» ma qual era il suo problema. Continuò a guardarlo senza cambiare espressione, distogliendo l’attenzione giusto per la melodrammatica, e davvero non necessaria (e superflua, dato che non possedeva l’oggetto in questione) occhiata al proprio all’ora sul proprio non esistente orologio da polso: quanto avrebbe continuato ancora? E sì che di casi umani ce n’erano al mondo, eh; il fatto che capitassero sempre a lei, cominciava ad apparire più predestinazione che coincidenza.
    Ma vabbè, a Jane piacevano così.
    «comunque è mio...» Tuo? tUO? SUO CHE. Mantenne la facciata di cordiale curiosità, malgrado all’interno fosse partito uno screeching non indifferente: quelli sì, ch’erano anni di pratica. Quante probabilità c’erano che fosse un qualcosa, un qualcosa qualsiasi, di suo? ERANO AMICI? SAPEVA LA SUA IDENTITà? SPILL THE TEA SIS. E fece del proprio meglio, Jane Darko, per non mostrare quanto quella pausa di riflessione la stesse mandando fuori di testa, preferendo un diplomatico tiro dalla sigaretta oramai consumata fra le dita, ed una strizzata di giacca con il braccio con il quale si stringeva la vita. DILLO. AD ALTA VOCE.
    DILLO.
    «cugino di terzo o quarto grado, chi se lo ricorda più.»
    Ah, ochei.
    Corrugò le sopracciglia abbassando lo sguardo sulla punta dei propri piedi, celando così …la sorpresa? il disappunto? di qualunque cosa si trattasse, Jane sapeva meglio di molti altri che non sempre fosse opportuno mostrare le proprie reazioni; il Jackson le sembrava un tipo (affatto) a posto, ma insomma, di fiducia la gente ci moriva. «se davvero ti ha fregato il portafogli posso fartelo riavere. tu sei?» «povera» liquidò, sguardo azzurro posato sul nulla oltre le spalle del Jackson. A quel punto, non ne era più certa - ma come si dicevano robe del genere ad un perfetto sconosciuto? «quindi se lo può tenere» accennò un sorriso a metà, capo reclinato per osservare il viso, un prurito familiare, di Eugene. Era una specie di solletico alla gola, il più vago - più vago - dei sentori che Eugene Jackson, per chissà quale assurdo motivo, avrebbe dovuto saperne di più - di lei. Lo interpretò come mero fastidio, la Darko, considerando che condividevano lo stesso ghetto da un paio d’estati, perché le alternative erano irrazionali ed alquanto infantili: aveva smesso di dare la propria fiducia agli altri per risposte, Jane.
    Aveva smesso di fidarsi, punto.
    «jane» replica poi, dopo un istante di pensato silenzio in cui, affetta da fitzmania, era stata tentata di sparare un nome a caso e inventarsi una fantastika seconda identità – ma insomma, con la faccenda del pene Jane ce n’aveva per le palle (haha. aveva anche quelle!!!) di creare un altro alias. Un dispendio di energie davvero eccessivo, per chi viveva in risparmio energetico. «non ti devo stringere la mano, vero? perché fa molto anni ‘80» un modo carino per dirgli fosse vecchio. «in ogni caso, se è di queste parti, magari lo ribecco» [HINT: DOVE ABITA. DIMMELO] «anche perché nel portafoglio ho i nudes artistici dei miei amiki» ma quali amiki nudes. Indicò distrattamente la fotocamera appesa al collo, stringendosi poi nelle spalle. Magari eugene Jackson era il tipo che se ne sbatteva le palle di /legami affettivi/ con gli oggetti, ma era abbastanza certa che «tutti minorenni» il pericolo di pedofilia l’avrebbe convinta a prenderla sul serio.
    Eh.
    Non conosceva ancora Eugene Jackson, fatele causa se ancora ci credeva che la legalità avesse la meglio sui sentimenti.
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