For me, you are the scent of violins and vision of valleys smiling.

Viktor x Hunter

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    Viktor Asmodeus Dallaire
    Viktor Asmodeus Dallaire
    A volte si domandava come fosse vivere una vita normale.
    Fissando inespressivo i suoi compagni di scuola si chiedeva tacitamente il perché qualcuno fosse sempre più fortunato di qualcun altro. Osservava con sguardo critico i pacchetti spediti con tanta cura da genitori amorevoli, regali di compleanno, lettere talmente smielate da cariare i denti più delle caramelle Mou e non riusciva a darsi una risposta. Quegli occhietti brillanti, le esclamazioni di felicità che intonavano “Mamma e papà! Chissà cosa mi hanno spedito questa volta!” o le guance a diventare rosse dall’imbarazzo per l’ennesimo pigiama con gli orsetti del cuore. Erano degli alieni dal suo punto di vista. Delle specie rare da studiare e di cui non avrebbe mai compreso il comportamento; né prima, quando poteva vantarsi di essere l’anima della festa (anima… quale anima.), né in quei giorni di totale mutismo, dove il maggiore sentimento espresso sembrava essere lo sdegno.
    Che avevano da ridere, poi? Cosa c’era di così divertente in quel Castello fatto interamente di escrementi di gufo? Il che era anche un’offesa a quei poveri pennuti, candidi esserini sfruttati per la posta magica. In ogni caso, non aveva niente da ridere e non avrebbero dovuto farlo nemmeno gli altri, seduti al tavolo della Sala Grande ad ingozzarsi come se non avessero mai visto del cibo in vita loro, ignari che dietro quelle leccornie vi fossero degli Elfi Domestici privati della loro libertà, trattati come schiavi ed esseri inferiori.
    Ma perché ci pensava adesso? Guardando il piatto dorato davanti a sé, con qualche verdura dai colori brillanti, si poneva l’ennesimo quesito: chi siamo noi per decidere che sfruttarli sia corretto?
    Ah, diamine. Che il suo animo da ribellino si stesse svegliando a causa di tutta la merda che gli era piovuta addosso? E proprio con gli Elfi Domestici, poi? Gli era passata la fame.
    E più guardava i tavoli delle varie Casate, più sentiva l’odore delle spezie e dei dolciumi, più un profondo senso di insoddisfazione gli faceva ribollire le viscere. Avrebbe voluto salire sul tavolo, sgomberare quelle stoviglie scintillanti e colme di vivande e urlare a squarciagola “Non ci pensate a quei poveri disgraziati in cucina, maiali che non siete altro? Suini che pur di riempirsi lo stomaco non vanno al di là della loro stupida fame?!” ma poi che figura avrebbe fatto? Da pazzo, ecco (e già lo era abbastanza). Da visionario, che non era mai stato, ma che evidentemente aveva iniziato ad essere. Che l’anima di qualche studente infervorato dalle stesse cause si fosse impossessato di lui, involucro ormai vuoto e stantio? Non era ancora l’ora della putrefazione, si manteneva discretamente bene.

    La mattina, da dopo il Ministero, era un continuo rimuginare. Beh, fosse stata solo la mattina; la notte c’erano i pensieri molesti, i rigurgiti non espressi di un’intera giornata, mentre di giorno il veleno fresco e appena sfornato veniva ingoiato fino a formare quella poltiglia verde a marcire nel suo stomaco, come in quel momento. E gli dispiaceva pure non mangiare, quasi che potesse arrecare un’offesa indicibile a quei piccoli e teneri esserini raggrinziti. Afferrare un pasticcino era il minimo, sebbene mangiato controvoglia.
    Non erano comunque solo gli Elfi a rendere tutto meno appetitoso, ma il sentore di aver preso decisioni difficili in momenti critici della propria vita. Si era accorto di aver schiacciato il dolcino tra le mani solo dopo aver pensato a Charles e alla loro ultima (in tutti i sensi possibili) discussione all’Inferius.
    Forse aveva appurato d’avere qualche problema a controllare il proprio corpo nel momento in cui, una volta pulite le dita, aveva preso ad accoltellare con un certo trasporto il broccolo con la forchetta figurandosi, invece, Hunter.

    Sarebbe stata una lunga giornata scolastica.

    -----

    Le lezioni non avevano risollevato il suo umore, né erano riuscite a far mutare quell’espressione perennemente statica. Il che era ilare, perché ad ogni domanda posta dall’insegnante non aveva esitato a fornire la risposta. Era un secchione, mica un cretino come la maggior parte dei suoi compagni, con quel dannatissimo sorriso a deformargli le guanciotte da prendere a sberle. Stava diventando intollerante? Sì.
    Se prima fare finta di essere ugualmente felice era stata la sua migliore interpretazione, degna di un Oscar, era ormai quasi più di un mese che fingere gli veniva difficile. Se non complicato, pesante.
    Guardandosi allo specchio, ogni mattina, faticava a posare gli occhi sulle parti ormai tirate di pelle, a quegli obbrobri che erano diventate le sue braccia, il suo petto, le sue gambe. Faceva violenza su sé stesso per costringersi a guardarsi, perché era inutile fare finta che non esistessero o che non dovesse conviverci e se aveva potuto sopportare le continue visite al Ministero, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa.
    Ma era difficile, abituato a vedere almeno la bellezza esteriore, a dirsi che seppure non ci fosse niente di buono dentro di sé, almeno fuori! Almeno quello!
    Il suo malumore, quindi, era più che giustificato. L’aggiunta, in ogni caso, sembrava la totale assenza dell’Oakes, il che era preoccupate da molti punti di vista.
    Era stato gentile nell’aiutarlo, prendendosi cura di lui come promesso, il periodo necessario per permettergli di alzarsi senza bestemmiare in lingue nuove e fantasiose, ma era evidente che le gite fuori porta al Ministero avessero provato il giovane Corvonero e che avesse preferito dileguarsi per stare in pace con sé stesso. Se solo non fosse stato tanto incapace di provare dispiacere per i torturati, avrebbe detto che quella di Hunter fosse stata una fuga strategica per evitare di venire a patti con l’idea che avesse fatto del male ad un altro essere umano. Lui li curava, in genere, no?
    Ma quella era la vita, la loro miserevole ed ingiusta vita, fatta di Mangiamorte e Pavor pronti a prenderli per la manina e condurli all’Inferno.
    O forse lo erano già?

    ------

    Il vecchio Viktor avrebbe scrollato le spalle, si sarebbe fatto forza ed avrebbe continuato a sorridere. Ma a quello nuovo, un po’, gli rodeva il culo. Per così tante questioni da chiedersi come facesse ancora a sedersi senza mettere prima del ghiaccio al posto del cuscino. A parte gli Elfi (e diamine, avrebbe trovato il modo di liberarli tutti) era subentrato un altro cruccio fondamentale, ovvero quello del totale disinteresse dei docenti alla vita extracurriculare dei ragazzini. Ora, quando mai aveva prestato attenzione ad una cosa del genere? Mai.
    Però non era giusto e basta. Che cazzo, una scuola serviva per crescere, imparare, essere felici! Non per avere gli incubi e salutarsi con “ci becchiamo in Sala Torture, bro!”. Non così magari, ma era solo per rendere meglio il concetto.
    Da quanto tempo era che non parlava con un’altra persona, senza considerare le lunghe chiacchierate con Cochon al chiaro di luna? Perlopiù immaginarie?

    La Sala Comune dei Grifondoro era deserta. Avrebbe esultato, ma a quale scopo? La partita di Quidditch sembrava più importante persino delle questioni serie: “ma perché le Mandragole vengono travasate, povere piccine?” o “Ma quanto manca ai M.A.G.O.?!”.

    Il furetto bianco se ne stava comodamente acciambellato sulle sue gambe, sazio (“pure tu?! Traditore, non aiutare lo schiavismo!”) dopo una bella scorpacciata di manzo e lui, ancora più crucciato, stravaccato sulla poltroncina posizionata strategicamente di fronte al fuoco per riscaldarsi; accanto, il violino.
    Il problema era che pensava troppo e in quel periodo tutto sembrava accavallarsi fino a non acquisire più nessun senso.

    «Sai cosa, Cochon? Devo rilassarmi e tu non sei d’aiuto» bofonchia, accarezzando con delicatezza le corde dello strumento, conservato con cura quasi maniacale dallo scorrere del tempo. Da quanto era che non suonava? Che non lasciava che la musica quietasse i suoi demoni e li mettesse, per un attimo, a tacere? Quelle melodie erano l’unico ricordo positivo che possedeva della dimora dei suoi genitori, l’àncora che non l’aveva lasciato sprofondare.

    Afferra dunque l’archetto, approfittando del silenzio della stanza per… dedicarsi alla musica. Una cosa così semplice, ma altrettanto liberatoria. Un sospiro alla prima nota, gli occhi chiusi alla seconda e così via. C’erano solo lui, il suo violino e il fuoco a scoppiettare tra la brace.

    17 y.o. | Gryffindor
    Anger | Frustrated
    …the violin —
    that most human
    of all instruments.
    For me, you are fresh water that falls from trees when it has stopped raining.


    La canzone è questa qui, cià ♡ -----> Schindler's List
     
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    Tornare a Hogwarts era stato un inferno.
    No, non per la sospensione dalla carica di Prefetto, per la perdita di quei privilegi connessi alla sua spilla - quello era davvero l’ultimo dei suoi problemi -, né per gli sguardi che sentiva sempre addosso da parte degli altri studenti. Non sapeva se fosse disprezzo, ammirazione, o semplice curiosità, come se si aspettassero tutti che potesse dare di matto da un momento all’altro, inconsapevoli di quanto fossero vicini dall’ottenere uno spettacolo degno della loro attenzione. Halley lo sorvegliava a vista, monitorando ogni suo movimento, e, se non fosse stato per l’intercessione di Rudy, probabilmente avrebbe messo a ferro e fuoco l’intero Castello pur di trascorrere ogni notte nel dormitorio Corvonero, controllando ogni suo respiro. Non poteva darle torto, non quando camminava su un filo talmente sottile che, alla prima oscillazione sbagliata, lo avrebbe fatto precipitare in un baratro talmente oscuro da far dubitare persino potesse avere una fine, figuriamoci un’opportunità di salvezza. Era a un passo dal tracollo mentale e, se non fosse stato per Stiles - quello vero -, sarebbe piombato nel più profondo degli abissi, incapace di tornare a galla, di provare anche solo a respirare. Combatteva una guerra con se stesso e, ad essere sinceri, era davvero difficile dire quale delle due parti stesse avendo la meglio.
    Da quando aveva iniziato a scontare la punizione al Ministero, si era incrinato qualcosa dentro di lui, fino a quasi spezzarsi. Aveva smesso di guardare la sorella negli occhi, nascondendosi dietro un muro di silenzi che imploravano un aiuto che non avrebbe mai potuto chiederle. Non voleva tirarla dentro i suoi problemi, non voleva che restasse scottata da una questione che riguardava soltanto lui, arrivando addirittura a mettersi in pericolo pur di difenderlo. Perché era questo che gli Oakes facevano: si proteggevano a vicenda, si supportavano l’un l’altro anche quando non si aveva più la forza di restare in piedi, noncuranti di tutto il resto. Ciononostante, in quel caso la cosa migliore da fare era evitare che Halley si esponesse troppo, che per colpa sua potesse andare incontro a conseguenze ben peggiori di quelle che lui aveva subito. Si limitava a poche parole, lo stretto necessario per non farla preoccupare più del dovuto, fallendo miseramente; perché era tutto quello che non le diceva a opprimerlo, a schiacciarlo con quel suo peso intollerabile. Con che coraggio le avrebbe detto che lo stavano trasformando in un mostro? Con quale ardire l’avrebbe affrontata, dicendo che aveva torturato delle persone, degli esseri umani, per mero scopo di intelligence?
    Era sporco. Compromesso al punto da non riuscire più a distinguere i colori, benché meno il riflesso di quello sguardo che gli rimandava lo specchio. Era tutto nero, nero, nero fino a farlo scomparire.
    Aveva bisogno di qualcuno con cui parlare e lo psicomago, nonché guru dei Losers, era l’unico che avrebbe potuto aiutarlo. Lo ascoltava senza giudicare, lo lasciava sfogare le sue paure e le sue frustrazioni senza mai interromperlo. Non aveva visto pietà nel suo sguardo, non lo trattava come se fosse sul punto di esplodere da un momento all’altro e, con lui, non aveva paura di vomitare le sue preoccupazioni, di addossargli un fardello troppo grande da sopportare. Era un estraneo, un punto di vista esterno, lontano dai fatti, e questo aveva spinto Hunter a fidarsi di lui, ad assimilare le sue parole, a seguire la sua guida. Stiles lo stava aiutando ad accettare quel che era stato costretto a compiere, a scendere a patti con se stesso, a ristabilire un legame con la sua bacchetta, con quella sua stessa magia che aveva provato a proteggerlo fino a quando la minaccia di coinvolgere anche le persone che amava non aveva avuto la meglio su di lui.
    Chiedere aiuto, ammettere di avere dei limiti e di essere solo un ragazzino, non era mai stato così difficile. Doveva andare sullo skate, doveva suonare con la band, doveva progettare il suo futuro non… non levare una bacchetta contro un presunto colpevole, innocente fino a prova contraria, costringendolo a confessare crimini che non aveva commesso pur di non provare più dolore, pur di mettere fine a quella tortura. Non doveva domandarsi se Halley, una volta saputo che le sue mani erano sporche del sangue di un altro essere umano, avrebbe voluto continuare ad essere sua sorella, a stare al suo fianco. Non doveva chiedersi se Rudy, Nicky, Mehan e Behan lo avressero visto ancora con gli stessi occhi, se avessero visto ancora quell’Hunter che lui stentava a riconoscere. Non era mai stato catastrofista, eppure non riusciva a chiedere il perdono di sua sorella e dei suoi amici per ciò che era stato obbligato a fare, in quanto non era riuscito ancora ad assolvere se stesso da quelle colpe che gravavano come un tradimento, in primis a se stesso, alla persona che voleva diventare.
    Riviveva ogni istante, ogni momento di quella punizione, in un loop continuo. Non dormiva più, incapace di chiudere gli occhi senza ritrovarsi al Ministero, protagonista di un unico, lungo, lunghissimo, incubo. Neanche la pozione soporifera riusciva a spegnere quelle immagini sempre vivide, a dargli tregua, specialmente da quando era tornato a Hogwarts. Sentiva il sangue sulle mani, le urla strazianti che riecheggiavano a ogni passo mosso in quella scuola che era diventata una prigione. La sua condizione peggiorava durante le lezioni di Pozioni: il retrogusto ferroso in gola si univa a quello della bile ogni volta che la Queen gli rivolgeva la parola o posava il suo sguardo su di lui. Avrebbe dovuto provare paura davanti al sadismo di quegli occhi, eppure c’era una rabbia profonda che, pian piano, lo stava animando. C’era quel senso di ingiustizia che scalpitava, che pretendeva di essere liberato. C’era ancora una parte di lui che aveva voglia di combattere, animata dal desiderio di cambiare le cose, resettando completamente il sistema. Perché dopo quello che aveva visto, dopo quello che aveva subito, non poteva restare seduto in disparte, in un angolino, lasciando che altri sistemassero le cose per lui, che lottassero le sue battaglie.
    Gli avevano marchiato il braccio, squarciato il corpo e lacerato l’anima. Eppure non si erano resi conto di avergli dato una ragione, un motivo per cui alzarsi in piedi e, quanto meno, provare a combattere.
    Quella mattina era sceso in Sala Grande con calma, evitando quanto più possibile la bolgia e l’euforia pre-partita. Grifondoro-Serpeverde era il grande classico di Hogwarts, e per quanto avesse voluto assistere alla McPherson che si lanciava contro il primo giocatore avversario le capitasse a tiro, mentre la Weasley la teneva per la collottola impedendole di ricevere il cartellino rosso ancora prima di scendere in campo, non se la sentiva di essere travolto da tutto quell’entusiasmo. Non era ancora pronto a far finta di niente, ad andare avanti come se niente fosse, come se tutto in quel Castello fosse normale. Voleva davvero avere la forza necessaria per voltare pagina, ma tutto ciò che riusciva a fare era rileggere sempre le stesse righe, incapace di andare oltre.
    Era solo nell’enorme sala, la piuma che grattava la pergamena, tingendola di blu ogni volta che annotava qualcosa al margine o che correggeva alcuni errori (soprattutto la sovrabbondanza di Erin usati come intercalare nel compito sull’Incanto Erebus del Tryhard - il fatto che Hunter avesse la percezione che fosse più di una svista la diceva lunga su quanto fosse palese che l’amico avesse ancora la testa tra nuvole e boa piumati -), la tazza di caffé ormai freddo accanto a lui. Si dava sempre qualcosa da fare per tenere la mente impegnata e revisionare i compiti di Mehan e Halley era un ottimo modo per distrarsi, per non pensare. Da quando lo avevano temporaneamente sollevato dall’incarico di Prefetto, aveva più tempo libero e, in quel momento, era l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Attese qualche istante per far asciugare l’inchiostro, prima di arrotolare i fogli davanti a lui e dirigersi verso la Torre di Grifondoro. Una volta lasciate le pergamene nella loro Sala Comune, non aveva davvero idea di come impegnare il suo tempo. Poteva scendere fino al Campo di Quidditch e cercare la grande testa di leone del Tryhard per stare un po’ con i suoi amici, nonostante volesse ancora bearsi di quel silenzio e di quella tranquillità che regnavano in tutto il Castello.
    Passò oltre il ritratto della Signora Grassa, contemplando l’eventualità di rintanarsi in Biblioteca, e si fermò poco prima di entrare nella stanza bardata di rosso e oro, il suono di un violino a dargli il benvenuto. Fece qualche passo in avanti, fino a scorgere la figura sottile di Viktor accanto al camino, i raggi del sole che trapelavano dalle tende giocavano col suo profilo, risaltandone le dita sottili e leggere sulle corde, o il volto concentrato.
    Chiuse gli occhi, lasciandosi trasportare dalla melanconia di quella melodia. Quello della musica era un linguaggio che capiva, che era in grado di comprendere perfettamente. Percepiva la tristezza di quelle note prenderlo per mano, accompagnarlo in quel viaggio che aveva a lungo rimandato. Quando era stata l’ultima volta che aveva ascoltato veramente qualcosa, che si era concesso il lusso di provare un’emozione che fosse diversa dalla rabbia o dalla paura? Lasciò indietro l’apatia di quei giorni, abbracciando quella leggera sinfonia. Sentì il bisogno di andare via, di tornare nella sua stanza, di tuffarsi nella musica, di prendere in mano le sue bacchette e abbandonarsi completamente ad essa, lasciando che si portasse via quell’inquietudine che lo seguiva come un’ombra, fedele compagna di quei giorni. Non suonava da quasi un mese, nonostante la ferita fosse ormai perfettamente rimarginata. L’ultima volta che aveva provato a pestare il piede sul pedale, era finito con l’urlare contro tutti e contro nessuno, incapace di produrre alcun suono. Ora… ora non voleva far altro che sentire nuovamente il ritmo scorrere tra le sue dita, impossessandosi di lui, e dimenticare così tutto il resto.
    Riaprì gli occhi solo quando il motivo finì e il silenzio tornò a fare da padrone nella stanza. Restò paralizzato sul posto, le iridi trasparenti del grifondoro puntate su di lui.
    “Scusami, non volevo disturbarti.” Si staccò dal muro impacciato, colpevole di non essere andato via subito e sprizzando imbarazzo ad ogni movimento. “Son passato solo a lasciare questi…” Indicò le pergamene che aveva ancora tra le braccia, avvicinandosi al primo tavolino disponibile. Si sentiva d’intralcio, spettatore non voluto di quel piccolo spettacolo improvvisato e talmente intimo da fargli venire i brividi. “Non volevo spiare o altro, davvero.” Passò nervosamente una mano tra i capelli, trovando infinitamente interessante l’intreccio del tappeto ai suoi piedi. Dall’ultimo giorno della loro punizione al Ministero non avevano scambiato più di qualche parola e Hunter era consapevole del suo allontanamento, del suo voler restare solo per non intossicare, con la sua presenza, l’umore di chi gli stava attorno. Era cosciente del fatto non fosse la strategia migliore del mondo, ma era l’unico modo per provare a trovarsi, per provare a stare meglio.
    Osservò la parte scoperta delle braccia del coetaneo, lo stomaco che tornava a contorcersi di rabbia al ricordo di quelle bruciature che avevano trasformato il corpo del francese.
    “Stanno meglio.” e tu? Mormorò piano, più a se stesso che a Viktor, sistemando al meglio i rotoli, allineandoli al millimetro per tenere le mani occupate e stemperare il disagio che provava in quel momento. “Se ti dovesse servire dell’unguento, o se hai finito quello che hai, fammelo sapere.”
    Sorrise appena, indeciso se andar via o restare, muovendosi verso l’uscita e fermandosi a metà strada, le dita strette attorno al tessuto della felpa, l’urgenza di dire qualcosa e non sapere cosa.
    There are no winners
    when the die is cast
    There's only tears
    when it's the final task
    Broken | Not Found | Lost
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    Hunter
    Oakes


    Edited by Messier_43 - 22/1/2019, 02:11
     
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    Viktor Asmodeus Dallaire
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    L’intimità della musica era sempre stata una costante della sua vita, perché condividerla avrebbe significato mettersi a nudo e lui, semplicemente, non ne era in grado. Più che altro, nelle note a scivolare via dal suo violino c’era quella naturale malinconia ad accompagnarlo, quasi che ormai fosse una parte indissolubile del proprio modo di vivere. La tristezza, il risentimento, la passione erano tutti sentimenti che incanalava sottoforma di note, quietandosi un po’ sebbene per poco tempo. Ed era da tanto che non si concedeva un attimo per lasciarsi trasportare, per esprimere le emozioni che in quel periodo avevano rischiato di condurlo verso il non ritorno; forse c’era già e per questo non aveva sentito troppo la differenza. Dentro di sé aveva sempre saputo che, prima o poi, quel momento di rivelazione sarebbe arrivato. Aveva negato il proprio Io, imponendosi una facciata che altro non era che lo specchio di un malessere profondo lasciato a marcire e, solo dopo l’ennesimo rifiuto, l’ennesima violenza, quella disperazione era venuta a galla, quel gelo a circondargli il cuore visibile nelle iridi azzurre, ghiacciate dalla solitudine. Si era reso intoccabile per un tempo che gli era parso infinito, lasciandosi scalfire solo dall’idea che uno tra tanti potesse in qualche modo essere diverso. Aveva promesso a sé stesso di non lasciare che nessuno prendesse il controllo. Si era detto che innamorarsi fosse sciocco, perché avrebbe significato cadere in altre delusioni, altri dolori che lui non voleva sopportare. Si era imposto di mantenere la superficialità a galla, nascondendosi dietro un corpo voglioso e frivolo, mettendo da parte tutto ciò che di superfluo c’era nella sua persona, a partire dal violino, suo unico compagno in casa Dallaire.
    Mostrarsi intelligenti, spesso, creava solo problemi, ed evidentemente non si era sbagliato. Il Regime teneva d’occhio quelli che mostravano un acume spiccato e li classificava come pericolosi; alle volte cercavano di tirarli verso la parte oscura, pronti ad iniziarli come Mangiamorte. Il problema era quando fallivano e si ritrovavano nemici furbi, scaltri, per nulla intenzionati a collaborare. E allora, qual era la soluzione? La più semplice: costringerli. Renderli inermi.
    Nel suo caso non avevano fatto altro che renderlo più cinico di quanto già non fosse, abituato alla visione del sangue e della morte, indifferente alle urla perché di queste ne aveva sentite anche troppe. Conosceva quelle preghiere a memoria; erano le stesse che risuonavano nella sua mente ogni notte, lì nel salone di villa Dallaire.

    E di certo non era passato inosservato l’arrivo di Hunter nella Sala Comune, sensibile ad ogni minimo rumore. D’altronde l’Oakes non avrebbe avuto motivo d’essere silenzioso, non quando tutti erano alla partita di Quidditch, convinto forse di essere il solo nel Castello a godersi il tepore dell’ambiente chiuso. Nonostante l’avesse sentito arrivare, sbirciando con la coda dell’occhio la silhouette inconfondibile, non aveva accennato a smettere di suonare. Più per sé che per reale interesse di mettersi in mostra. C’era qualcosa, in quella condivisione, che stonava con la voglia di rimanere da solo, perché eccolo, come sempre, Hunter riusciva a renderlo discordante, a non fargli comprendere nulla di ciò che già di per sé nella sua testa proprio non andava. C’era caos, rancore, amarezza, desiderio, tenerezza. Un mix che se lasciato libero avrebbe rovinato quel minimo d’intesa che avevano costruito la notte in infermeria, l’uno stretto tra le braccia dell’altro. O era solo lui che, stupidamente, aveva sentito quella connessione? Quei baci rubati erano stati solo… dimenticati?
    Era strano da pensare, ma aveva sperato che qualcosa da quella notte cambiasse.
    Qualcosa, in realtà, era mutato sul serio. La percezione della vita era diversa e non aveva idea di cosa avessero fatto ad Hunter, di come avesse affrontato l’idea di far del male, di essere costretto a Cruciare qualcuno macchiandosi così le mani di rosso. Di liquido vermiglio e caldo, bollente tra le dita.
    Si domandava il perché avesse deciso di evitarlo, quando sapeva bene che l’avrebbe accolto senza fare domande, senza chiedere nulla in cambio, capendo il suo dolore e facendolo proprio, perché almeno in quello era bravo. Forse non come essere umano, come individuo utile alla società, ma come ascoltatore… non aveva eguali. Magari era solo perché non gli piaceva parlare di sé ed aveva sviluppato quel talento innato, utile per essere la spalla su cui piangere o un aiuto fedele e silenzioso. Quello che parlava troppo, ma che alla fine non diceva mai niente; se Hunter avesse domandato in giro sul suo conto, non avrebbe trovato nulla di più che stupidaggini. “Gli piace il giallo” o “Ha uno spazio tra gli incisivi”, avrebbero risposto, o magari “gira in mutande per la Sala Comune”. Nulla di rilevante, insomma.

    Solo quando finisce la canzone, apre gli occhi puntando le iridi sulla figura del ragazzo, rilassato contro al muro. La reazione di Hunter gli fa alzare impercettibilmente un sopracciglio, non sapeva dire se stupito dall’evidente imbarazzo dell’altro o se esasperato.
    «Scusami, non volevo disturbarti» wow. W o w. Dopo tutto quel tempo l’unica cosa intelligente che riusciva a dirgli era “non volevo disturbarti”. Ma perché si stava arrabbiando? Che diritto aveva? Nessuno, ed era una cosa stupida da parte propria prendersela con l’Oakes che, probabilmente, già di per sé era stato scosso dagli eventi recenti. Per questo lo lascia balbettare, fissandolo senza staccargli gli occhi di dosso, se per metterlo a disagio o per imprimere meglio la sua immagine in testa non era importante. Sapeva quanto gli occhi potessero dire più delle parole o, almeno, sperava che i propri fossero ancora in grado di esprimere qualcosa.

    «Stanno meglio» cosa? Avrebbe domandato se non che «Se ti dovesse servire dell’unguento, o se hai finito quello che hai, fammelo sapere» di riflesso, si abbassa le maniche della maglia, lanciandogli un’occhiata fulminante, con le sopracciglia aggrottate e le labbra stirate in una linea dritta.
    Cos’aveva da sorridere? Cosa c’era di confortante? Che ne sapeva lui? Che gli interessava? Se ne stava già andando?

    «Non ho bisogno di niente» risponde, secco, mettendo da parte il violino. Non voleva ripetere la discussione avuta con Charles, perché gli sembrava come se quella fosse stata solo una piccola parte di tutta la rabbia accumulata negli anni, d’altra parte non era nemmeno così entusiasta di scaricare la frustrazione sull’Oakes che, fino a prova contraria, non gli doveva niente. Era stato lui a farsi tutti i film in testa, a dirsi che magari non era solo uno stupido corpo da usare e abbandonare. La verità era che aveva permesso di illudersi, di dirsi che qualcuno per lui, alla fine, potesse esserci; a maggior ragione, sfigurato ed esaurito, non ci sarebbe stato proprio nessuno «sto una meraviglia. Splendente e raggiante come il sole in primavera» accenna un mezzo sorriso, storto e finto, incupendo lo sguardo, stringendo per un attimo i braccioli della poltrona.
    L’incertezza nei passi di Hunter lo porta a riflettere solo un istante, prima di spostare delicatamente Cochon ed alzarsi, abbandonando il violino tra i cuscini.

    «Perché.»

    Non una domanda, nemmeno un’affermazione. Solo un perché ad aleggiare tra di loro o nella sua mente, piena di interrogativi inespressi.

    «Spiegamelo. Cosa c’è che non va in me?» si avvicina alla finestra, fissando il cortile, sentendo in lontananza gli schiamazzi dei tifosi. Li invidiava, allo stesso tempo li detestava per quella spensieratezza che gli era stata negata. «Dato che siamo stati onesti, tra di noi, illuminami» si volta appena, fissando la schiena del Corvonero, seriamente interessato ad una risposta «Ho rivisto Charles qualche notte fa» sputa, tra i denti, incrociando le braccia al petto e tornando a guardare l’orizzonte. Aveva voglia di rompere qualcosa. Qualsiasi cosa «e avrei davvero voluto—scaricargli addosso tutto, perché non si merita un centesimo della mia vita. Ma chiaramente» si lascia scappare una risata, vuota come lo era lui «non sono riuscito a farlo. È la mia famiglia e, maledetto me, gli voglio bene. Per quanto sia una bella convinzione, lui non è la causa dei miei problemi. Come non lo sei tu. Come non lo sono quei ragazzi tra gli spalti. Sono arrivato alla brillante deduzione, Watson» ironizza, sventolando una mano in aria «che mi sarei risparmiato tutta questa merda, se solo Mephistophele avesse fatto centro. Se si fosse impegnato un pelino di più. Che dici, mh? Il fianco, per dio. Che dilettante.» si tocca la parte incriminata scuotendo il capo, fintamente amareggiato, ma voltandosi questa volta per affrontare Hunter sorridendogli affabile «Ma sì, loro» sottolinea, riferendosi alle ustioni, calcando la mano forse un po’ troppo, ma ormai senza controllo «stanno bene. Sono quasi guarite. Non sono belle, ma di che mi lamento?» fa spallucce, come se non gli importasse, assottigliando le palpebre, ferino «e tu?» prende la custodia dello strumento posandolo all’interno. Una volta chiusi i gancetti, torna a parlare «Spero che le tue fiammelle ti abbiano tenuto stretto, mon amour. Mi dispiace solo non essere stato una di queste» frecciatina? Frecciatina. Ah, si era ripromesso di non farlo.
    Chiude gli occhi, dunque, strofinandoseli con la punta delle dita, sospirando dal naso.

    «Lascia stare. Scusa, non intendevo prendermela con te» e per cosa, poi? La verità era solo che—vederlo gli aveva fatto ricordare che non fosse poi così immune ai sentimenti. Che gli faceva male sapere di non essere abbastanza importante, specie dopo quello che avevano condiviso. Hunter gli piaceva, ma gli sembrava che fosse tutto a senso unico, che quei tocchi, quelle carezze, persino quei baci non avessero avuto alcun significato. O era lui che vedeva tutto distorto?

    «Ho i nervi a fior di pelle e sei capitato tu nel mirino» il che era anche la verità. Prima di quella vicenda non avrebbe fatto mai simili confessioni, non si sarebbe spinto più in là di un’alzata di spalle. Sembrava esausto, senza il minimo controllo. Un’anima che alla prima parola tentava di scalpitare e lasciarsi andare a tutto ciò che non aveva mai potuto raccontare «mi è solo dispiaciuto non vederti, non esserti stato vicino. Tutto qui.» si massaggia le tempie, chiudendo gli occhi e continuando a dargli le spalle.

    Dio, aveva mal di testa.
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    Edited by Fancy|Bitch - 22/1/2019, 08:44
     
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    Hunter restò interdetto qualche istante, lo sguardo perso. Sbatté una, due, tre volte le palpebre, domandandosi se avesse sbagliato qualcosa. Come al suo solito. Come gli volevano far credere ogni dannata volta. Ok, gli andava bene essere socially awkward, era consapevole dei suoi limiti nelle relazioni interpersonali, che non fosse un campione di popolarità e che parlare con lui era esaltante tanto quanto sfogliare un compendio sullo Statuto Internazionale di Segretezza, fatto solo di paroloni impossibili da pronunciare, figuriamoci da capire; tuttavia, non era uno sprovveduto. Non accettava la cattiveria gratuita, benché meno quando era rivolta a lui. Quando era, apparentemente, la causa di ogni problema esistente al mondo. Stigmatizzato come il peggiore dei mali. E al diavolo il passare per la Drama Queen del momento - ce ne stavano di ben peggiori e, a quanto pare, una era proprio davanti a lui -, ma ne aveva i testicoli pieni di quel nuovo sport nazionale che prevedeva vomitargli addosso ogni sorta di veleno. Non era il punchball di Charlie, né il parafulmini di Viktor. Non era un cuscinetto contro cui sfogare la propria rabbia e frustrazione, aspettandosi poi, una volta finito, un caldo abbraccio e un cioccolatino di conforto, giusto per farla completa e per non farsi mancare nulla. Non sempre, almeno.
    Era stanco di quell’immagine che dava di sé, di passare costantemente per il bonaccione di turno, per quello che ascoltava e basta, che non rispondeva mai, il cui unico compito era stare zitto e/o parlare solo per dispensare ottimi consigli su come affrontare la propria vita. Che poi lo avrebbe fatto comunque, perché in fondo era un idiota, troppo buono per dire no, era un altro paio di maniche. Lui voleva solo essere gentile, per Merlino! Cosa si aspettava il Dallaire in quel momento? Che iniziasse a battere le mani come una scimmietta ben ammaestrata? Che gli dicesse quanto fosse bravo e talentuoso? Quanto la sua musica fosse bella? Davvero? Lo faceva così inetto da credere non potesse leggere oltre le note? Che non avesse notato la tristezza di quella melodia che rifletteva le stesse emozioni e tribolazioni di chi la stava suonando? Voleva sul serio che Hunter gli dicesse che tutto quel dolore fosse bello? Per chi lo aveva preso, per uno stupido? Probabilmente sì. E va bene che ormai non si sentiva dire altro dalla mattina alla sera, che veniva trattato come un bambino che stava sempre per combinarne una, neanche Halley si fosse impossessata del suo corpo, ma qui si stava un po’ esagerando. Sapeva di non dover essere lì, era consapevole di quanto la sua presenza fosse di troppo in quella stanza, di quanto non fosse desiderato. Era come se gli avesse rubato qualcosa di prezioso, di importante, di personale e il minimo che potesse fare era quello di scusarsi; e, come al solito, non era mai abbastanza.
    “Non c’è niente che non va in te, Viktor. Forse, per fartelo comprendere una volta per tutte, dovrei dirtelo in francese.” Lo avrebbe fatto, se non fosse per la sua conoscenza meno che elementare di quella lingua d’oltre Manica; o, tutt’al più, se avesse avuto la certezza di mettere un punto e chiudere quell’argomento che si stavano trascinando da tempo. Era come se l’altro non volesse ascoltare le sue parole, quasi la sua opinione non valesse abbastanza da poter essere considerata. “Oppure, più semplicemente, sei tu a non voler capire.” Tenne a freno l’esasperazione nella voce, evitò di portare le dita a massaggiare le tempie o i polpastrelli sulle palpebre gonfie per l’assenza di sonno dell’ultimo periodo. Parlare con Viktor stava diventando sempre più difficile. C’erano momenti in cui si avvicinavano, in cui riuscivano a mettere a nudo un piccola parte di loro stessi, in cui sentiva ci fosse una sorta di connessione, quasi fossero in grado di decifrarsi a vicenda, e altri, sempre più frequenti, in cui erano distanti anni luce, due pianeti appartenenti a galassie distinte e inavvicinabili. “Troppo impegnato a sminuirti, a rimuginare su quello che ti è successo in passato, a gettare sale sulle tue ferite, per provare anche solo a pensare per un istante che ci sia ancora qualcosa di buono. In te. Negli altri.”
    Faceva male vederlo, faceva male quello sguardo glaciale puntato contro, faceva male rendersi conto di non averlo mai conosciuto, non per davvero. In fondo, Hunter era solo qualcuno di passaggio nella vita del Dallaire, non era così? Pochi altri mesi e non si sarebbero più rivisti, quindi perché preoccuparsi e provare ad andare oltre, instaurando un vero legame? Perché fidarsi di lui quando poteva benissimo sparargli addosso proiettili al vetriolo come stava facendo in quel momento? In fondo, il Corvonero non valeva neanche la sua amicizia. “A te, però, semplicemente non importa.”
    Non gli avrebbe mai chiesto di scoperchiare il suo passato, non lo avrebbe mai costretto a parlare della sua famiglia, o di ciò che ne era rimasto, se Viktor non avesse voluto, se non fosse stato pronto ad affrontare l’argomento. E ora era lì, in piedi davanti al Grifone ferito, impotente come non lo era mai stato prima e con la realizzazione di un qualcosa di troppo grande e complesso da assimilare. Sapeva chi fosse Mephistophele o, almeno, aveva letto di lui sui giornali quando venne fuori la notizia della strage in villa Dallaire. La mano sul fianco del francese gli fece tornare alla mente un dettaglio che aveva notato quando lo aveva medicato la prima volta, la pelle leggermente più dura nel punto che stava indicando in quel momento, segni di una ferita ben più antica e profonda delle bruciature infertegli in Sala Torture. Non ci aveva fatto molto caso, troppo impegnato a medicare le ustioni e non a formulare domande che, comunque, non avrebbe posto.
    Tutto iniziò a prender pian piano senso, ma Hunter era troppo ferito e colpito da quell’invettiva per poter soprassedere, per provare a giustificare ogni comportamento, ogni decisione, ogni scelta. Compresa la grande rivelazione del momento.
    “Non ti son bastate le percosse, il volto tumefatto e il corpo quasi completamente bruciato. No. Dovevi alzare l’asticella. Tieni così poco alla tua vita che preferisci andare in giro con un bersaglio enorme sulla schiena, incontrarti con un Traditore, e serviva a poco sapere che il Dumont non lo fosse, che tutta la storia attorno a lui era solo una montatura, una delle tante di quel Governo corrotto, per farlo tacere una volta per tutte, “nel cuore della notte e infrangere tutte le altre restanti regole della Scuola, sprezzante del pericolo. Di quello che potrebbero farti ancora. E sai qual è la cosa peggiore? Che non ci provi neanche a vedere le cose da un’altra prospettiva, a credere che a qualcuno possa importare di te.”
    Strinse le labbra in una linea sottile, la mano che scompigliava nervosamente il ciuffo castano, prima di ricadere lungo il fianco, sconfitta. No, non lo avrebbe giudicato per aver incontrato Charles. Come avrebbe potuto farlo? Se fosse stato nei suoi panni e Halley avesse chiesto di vederlo, non ci avrebbe pensato più di due volte prima di prendere in mano il suo giaccone e avviarsi verso il luogo dell’incontro, anche solo per farle una sfuriata, per ricordarle quanto il suo comportamento potesse essere stato sventato e stupido, per assicurarsi stesse bene e, soprattutto, per vederla un’ultima volta. Come poteva mettere bocca in una questione così delicata, specialmente quando si parlava di famiglia?
    “Non ti dirò che non dovevi farlo, che dovevi restare al sicuro qui nel Castello.” Termine abbastanza ironico per indicare la condizione in cui versavano in quella scuola. “Non ti dirò che è stato un azzardo, che i Pavor avrebbero potuto prendere entrambi, perché solo tu conosci le ragioni che ti hanno spinto ad andare da tuo cugino, solo che…” con che coraggio avrebbe potuto concludere quella frase? Con che coraggio avrebbe aggiunto speravo potessi parlane con me? Chi era lui per il Grifondoro da poter dire una cosa simile? Come poteva arrogarsi un tale diritto? Certo, avrebbe provato prima a dissuaderlo, lo avrebbe messo al corrente del rischio che stavano per correre, di quello che sarebbe potuto succedere - era nella natura dell’Oakes, non ci poteva fare niente - ma lo avrebbe aiutato. O, almeno, ci avrebbe provato. Se avesse avuto ancora quella spilla avrebbe provato addirittura a coprirlo, a fare in modo che nessuno lo vedesse, e si sarebbe preoccupato per lui. Ancora una volta. Un’altra, dannatissima, volta. Ma non sarebbe stato comunque abbastanza. Non era mai abbastanza.
    “Non sei il solo che sta affrontando un periodo difficile. Ammetto di essere stato scostante, ma tu non puoi dire di essere stato presente. Hai scelto di spegnerti ancor prima di diventare una fiammella, Viktor. Sei tu che hai deciso di non volermi accanto.”
    Serrò le nocche in un pugno, fino a farle sbiancare. Si domandò se Viktor riteneva se la stesse spassando allegramente in quei giorni, se pensava che la sua vita fosse ripartita come se il 21 dicembre non fosse mai esistito. Perché, SPOILER ALERT, le cose non andavano affatto bene e il mondo intero non ruotava attorno al favoloso-super-fantastico Viktor Asmodeus Dallaire, ai suoi bisogni, ai suoi capricci, alle sue richieste di attenzioni. Non doveva essere sempre l’Oakes a fare il primo passo, non doveva essere sempre lui ad inseguire gli altri, ritrovandosi continuamente a stringere il nulla tra le dita. Non voleva neanche essere quello che fuggiva, perché lui non era così e non avrebbe iniziato ad esserlo in quel momento.
    Entrambi avevano perso tanto, forse anche troppo, ma se uno aveva scelto di isolarsi dal mondo, nascondendosi dietro un’eccentrica maschera di sorrisi e provocazioni che si stava inesorabilmente sgretolando; l’altro combatteva ogni giorno con la consapevolezza che, nello sguardo di chi aveva accanto, avrebbe trovato angoscia, preoccupazione e, soprattutto, la paura di perderlo, come se il mostro che volevano diventasse albergasse già lì dentro di lui. Che bastasse un battito di ciglia per farlo apparire, relegando Hunter in una cella senza via uscita.
    “Potevi cercarmi. Potevi starmi vicino. Ma non lo hai fatto... Non lo abbiamo fatto.”
    Allentò la tensione delle dita, sconfitto dalle sue stesse parole. I rapporti non erano mai a senso unico e non sarebbe stato giusto fosse lui il solo a fare ammenda per le sue mancanze. Non quando era ben conscio dei suoi limiti, del fatto che non avrebbe potuto supportare il Grifondoro come avrebbe voluto, specialmente quando era il Custode il primo ad aver bisogno di aiuto, di qualcuno che fosse in grado di tenere insieme i frammenti che restavano di lui.
    Non aveva alzato la voce, non aveva urlato, non si era imposto nella conversazione. Non riusciva a farlo neanche quando ogni fibra del suo corpo gli implorava di esplodere, di risvegliare quel vulcano che sembrava sempre essere inattivo. Tutto quello che riusciva ad avere era uno sguardo triste, le labbra piegate verso il basso, le spalle curve e un senso di vuoto all’altezza del petto, come se avesse appena perso qualcosa di importante, qualcosa per cui lottare ne sarebbe valsa la pena.
    Non rispose alle scuse di Viktor, né le accettò, non fino in fondo. Poteva chiudere un occhio sui toni utilizzati dal più grande, sul modo utilizzato per rivolgersi a lui, ma non su quello che era stato detto, sulle parole che il Grifondoro aveva pronunciato. Se le aveva dette, allora le pensava e, in quel caso, c’era ben poco che lui potesse fare.
    “Sono sempre stato onesto con te, mi chiedo solo quando tu inizierai a esserlo nei miei confronti.”
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    Viktor Asmodeus Dallaire
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    «Troppo impegnato a sminuirti, a rimuginare su quello che ti è successo in passato, a gettare sale sulle tue ferite, per provare anche solo a pensare per un istante che ci sia ancora qualcosa di buono. In te. Negli altri.»

    Perché doveva essere sempre così difficile? Era tutto sbagliato. Dalla prima all’ultima parola che si erano scambiati nella Sala Comune. C’era così tanto di non detto ad aleggiare tra di loro, come un muro invisibile a separarli, che chissà se si sarebbe mai sgretolato. C’erano anche i pugni stretti, la testa a pulsare, il cuore a martellare frenetico nel petto al ritmo delle frasi sputate da Hunter, tutte mirate a farlo sentire più miserabile di quanto già non pensasse di essere, consapevolmente o meno. Non capiva.
    Non riusciva a comprendere come fossero arrivati a quel punto, in che modo il rancore e l’evidente sdegno erano riusciti a prendere il posto dei sentimenti positivi provati in quel letto d’Infermeria. Dove si erano baciati, stretti e compresi; dove aveva trovato rifugio in quelle braccia forti.
    Ed era stanco di dover passare sempre, costantemente, per l’idiota che si autocommiserava; era snervante esprimere un malessere e venire additato come qualcuno in cerca di attenzioni. Ma attenzioni di cosa? Da chi? Chi le voleva quelle fottute attenzioni? Perché, in un modo o in un altro, non poteva parlare senza avere addosso la sensazione d’aver detto la cosa sbagliata?

    C’erano ferite difficili da rimarginare.
    C’era la mancanza di affetto ad averlo reso un animale restio e guardingo, che faticava a ricevere una carezza senza pensare, subito dopo, ad uno schiaffo. Aveva paura dell’amore come se questo avesse potuto ucciderlo e allo stesso tempo avrebbe voluto provarlo, vivere un qualcosa di speciale senza sentirsi come si era sempre sentito: un niente.
    E forse Hunter non poteva capirlo o non riusciva a vederlo. Probabilmente era tutto nella sua mente, ormai schiacciata dalle continue violenze, perso in pensieri cupi e tristi, incapace come diceva l’Oakes di pensare che ci fosse qualcosa di buono in sé o negli altri.

    «Non ti son bastate le percosse, il volto tumefatto e il corpo quasi completamente bruciato. No. Dovevi alzare l’asticella. Tieni così poco alla tua vita che preferisci andare in giro con un bersaglio enorme sulla schiena, incontrarti con un Traditore.»

    Ah, questo era un colpo basso.
    Parlare così di Charles era uno smacco che non avrebbe potuto tollerare; “Traditore”, lo chiamava, nonostante sapesse perfettamente che non lo fosse, che aveva lottato stupidamente per una causa giusta, andando incontro al proprio destino da reietto. E Hunter gli diceva “sprezzante del pericolo” quando avrebbe fatto la stessa maledettissima cosa se i ruoli fossero stati diversi, se al posto di Charles ci fosse stata Halley. Ed era stato stupido, sì, ad andare nell’Inferius da solo, senza bacchetta e di notte, solo per accertarsi che quell’incommensurabile coglione di suo cugino fosse vivo, che respirasse ancora, perché aveva avuto il cuore in gola dalla preoccupazione per tutto il tempo, nonostante le torture e il sangue a colare sul pavimento logoro. Era stato terrorizzato all’idea di perdere anche lui, perché aveva perso tutto, non aveva niente e nessuno, se non polvere di quello che era stato il suo mondo prima che Mephistophele decidesse di farla finita con i giochi.

    «No. Non ti permetto di parlare così di Charles» si volta per fronteggiarlo, stringendo la mascella per il nervoso «e sei un ipocrita. Un maledettissimo ipocrita a dirmi queste cose» si avvicina, incurante, puntellandogli il dito sul petto e fissandolo negli occhi «perché lo sai anche tu che quando hai qualcuno da proteggere lo fai fino alla fine, non importa il costo. Ero pronto a farmi arrestare dai Pavor, ma—lui per me è casa. Non ho nessuno. Sono morti tutti davanti ai miei occhi, non avrei retto ancora. Dovevo sapere che stesse bene» prende un sospiro dal naso, per poi continuare «Cosa vuoi che ti dica, Hunter? Qualsiasi cosa esca dalla mia bocca verrà sempre presa come un tentativo per farmi compatire. Se ti raccontassi lo schifo che mi hanno fatto, come mi hanno ridotto fisicamente e mentalmente, cambierebbe il tuo modo di vedermi, di trattarmi e non voglio questo. Non me ne frega un cazzo di essere preso per mano, rassicurato o qualsiasi altra stronzata. Non ho bisogno di rassicurazioni, perché che diamine me ne faccio? Lo so come gira il mondo. Questo mondo di merda. Dato che dall’alto della tua scienza infusa mi hai classificato come quello che “se ne frega” o che “non gli importa” cosa dovrei fare?» alza le braccia e poi le fa ricadere ai fianchi, cercando una risposta.

    «Non sei il solo che sta affrontando un periodo difficile. Ammetto di essere stato scostante, ma tu non puoi dire di essere stato presente. Hai scelto di spegnerti ancor prima di diventare una fiammella, Viktor. Sei tu che hai deciso di non volermi accanto.»

    Scuote il capo, chiudendo per un attimo gli occhi.
    Aveva pensato spesso di andare da lui, di chiedergli come stesse, di essere quella fiammella di cui l’altro avrebbe avuto bisogno. Ma non l’aveva fatto, perché era incapace, perché non aveva idea di come fare per dargli sollievo quando non lo trovava nemmeno per sé stesso. E Hunter si chiuso nel suo dolore, specchio del proprio. Entrambi erano stati completamente assorti, incapaci di essere l’uno la spalla dell’altro.
    Un passo avanti e cento indietro. Sembravano giocare a rincorrersi, ma quanto sarebbe durata quella situazione?

    «Pensi che non lo sappia?» domanda, mordendosi nervosamente l’interno guancia, esausto «Lo so cosa stai passando. Lo so di non essere l’unico e non l’ho mai detto. Non sono la povera vittima, non sono una persona che sa come comportarsi. Non ho idea di come si fa a prendersi cura di qualcuno e non ho idea di come si voglia bene sinceramente» ammette, alzando le mani in segno di resa, stringendo le labbra «sono stato egoista.»

    Come sempre, no? Eppure, se solo avesse preso coraggio e fosse andato prima da Hunter, si sarebbero risparmiati tutto quel teatrino. Quel rancore, quella frustrazione palpabile tra di loro, che sembrava sempre aleggiare come un promemoria, ricordandogli quanto fossero diversi, ma estremamente affini.
    Non sapeva come fare. Per rimediare, per lasciarsi capire, per essere migliore per Hunter. Per far sì di avere un’opportunità di potergli stare vicino; sentiva di essersela giocata, di aver sbagliato, di essere stato un idiota.

    «Sono sempre stato onesto con te, mi chiedo solo quando tu inizierai a esserlo nei miei confronti.»

    La verità non era mai stata il suo forte, abituato a non dire niente di più delle solite frasi stupide. Era abbastanza certo d’aver affinato la tecnica del raggiro, l’abilità sviluppata nel condire il brodo senza aggiungere consistenza. No, non gli piaceva parlare di sé, né mettersi a nudo, ma—

    «Mi piaci» confessa d’istinto esasperato, lasciandosi andare ad una risata nervosa «mi piaci e non posso farci niente» si umetta le labbra, sentendo gli occhi appena più umidi e il cuore a galoppare veloce nel petto «e non riesco a respirare quando ti vedo, o ti penso. Non mangio, ho lo stomaco chiuso. Non dormo. Penso a te tutto il tempo, ai tuoi baci, alle tue mani, alla tua voce--» prende un sospiro, trovando il coraggio per tenere fisse le iridi in quelle dell’altro «e ho paura. Conosco solo il sesso, la violenza e non ho idea di cosa significhi sentire—questo. Quello che provo per te. Questo sbatacchiare fastidioso nello stomaco ogni volta che ti vedo» si morde il labbro superiore, abbassando lo sguardo al pavimento, trovando il legno più interessante che mai «questo è il motivo per cui non ti ho cercato, nonostante sapessi che fosse la scelta più stupida.» si allontana appena, forse timoroso di una risposta. Non la voleva. Non voleva sentire. Perché glielo aveva detto. Perché non aveva solo girato i tacchi, scappando dalle situazioni difficili così com’era abituato a fare, da sempre.
    Deglutisce, sgranando appena le palpebre alla realizzazione di quanto detto.

    «Sono stato onesto, vedi?» sdrammatizza con difficoltà, la gola secca e la sensazione d’aver appena fatto una stronzata, andando verso il divano intenzionato a prendere il violino e sparire alla velocità della luce da quella stanza.
    Non avrebbe retto un rifiuto. Non in quel momento.

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    Per quanto Hunter gli dicesse fosse importante, che per lui ne sarebbe sempre valsa la pena, era frustrante vedere che l’altro tornava a barricarsi nella sua fortezza, fatta di quella visione distorta che Viktor aveva di sé. Non riusciva a prenderlo per mano, non riusciva a mostrargli il valore di ciò che aveva fatto per lui e, davvero, non capiva dove stesse sbagliando, né quale fosse la giusta chiave di lettura. Non voleva mortificarlo, non voleva abbatterlo, non voleva neanche dargli addosso; gli aveva chiesto di essere onesto e lo era stato, forse non aveva usato il giusto tatto, probabilmente avrebbe dovuto scegliere con più cura le sue parole, ma, in quel momento, non aveva altro da rimproverarsi. In fondo, era questo quello che aveva mostrato di sé il francese in quei due mesi di frequentazione, ammesso si potesse chiamare tale, ammesso abbia voluto farsi conoscere davvero e non mostrargli l’ennesima sfaccettatura di quella maschera che ormai era divenuta la sua seconda pelle, quella corazza che si era costruito per proteggersi. Era questo quello che Hunter aveva scoperto del Dallaire, ciò che l’altro aveva deciso di fargli vedere: un ragazzo la cui elevata complessità celava una fragilità figlia dei traumi che aveva vissuto. Freddo, scostante e, al tempo stesso, bisognoso del più piccolo gesto di conforto. Stupidamente, gli andava anche bene quell’altalena di umori, quello swing costante, il fatto che fosse imprevedibile. Lo incuriosiva e, al tempo stesso, lo tormentava. Lo tormentava il non dire mai la cosa giusta, lo tormentava il non sapere come comportarsi, cosa fare, quando tacere. Lo tormentava non riuscire a capirlo, continuare a sbagliare, quel fare una maratona sull’orlo di un precipizio. Bastava una piccola imprecisione ed eccoli lì, costretti in una stanza che a stento riusciva a contenere l’elettricità di quel momento. Il dito puntato contro il petto, lo sguardo avvelenato e le parole usate come pugnali per infliggere quanto più danno fosse possibile. A quanto pare, tra loro non esistevano le mezze misure.
    DEVI lasciarmi parlare così di Charles.” Sbottò in un sospiro, allontanando con un gesto secco della mano quella del francese ancora intenta a perforargli lo sterno. “Devi lasciare che gli altri parlino così del Dumont, ma, soprattutto tu devi iniziare a rivolgerti a lui in questi termini. Se vuoi davvero proteggerlo, se vuoi proteggerti, devi sfruttare le apparenze, devi passare per quello tradito dai suoi atteggiamenti e dal suo comportamento, prenderne le distanze. Non puoi andare a dire in giro che ti saresti fatto arrestare per lui!” Arrestare, poi. Era parecchio ottimista il Grifondoro se credeva che un soggiorno ad Azkaban fosse il massimo che i Pavor gli potessero fare, soprattutto una volta scoperto avesse contatti con due ricercati tacciati come Ribelli e Traditori. Ma non era quello né il momento, né il luogo per spiegargli che i complici di un crimine, o di ciò che il Regime considerava tale, subivano la stessa pena di coloro che avevano materialmente compiuto la fattispecie criminosa. Poco importava a loro fosse parte della famiglia, che ci fosse tra loro un legame. Senza contare che non avrebbe comunque risolto nulla. Sarebbe stata l’ennesima pedina fatta fuori dal piano di gioco, lasciata marcire ai margini di quel tabellone in cui, alla fine, non ci sarebbero stati né vincitori, né vinti. “E non puoi dare di matto se qualcuno lo chiama traditore. Sfrutta la situazione a tuo vantaggio, Viktor! Instilla il dubbio si siano sbagliati, che tutto il Sistema sia marcio, ma non difendere a spada tratta la sua innocenza, non così.” Odiava la spavalderia dei Grifondoro, odiava quell’impazienza che avevano di difendere con grande determinazione tutto ciò che faceva parte del loro mondo, quel lanciarsi a capofitto nelle situazioni senza pensare alle conseguenze delle loro gesta, più o meno, eroiche. “Ti capisco quando dici che è tutto ciò che ti resta, che è quel porto sicuro cui vorresti far sempre ritorno, ma devi farti furbo.”
    Hunter non era un ipocrita e, forse, era questo che lo aveva ferito più di tutto il resto, quel sentirsi costantemente accusato di essere falso, quasi non cogliesse il significato stesso delle sue parole. Sì, se fossero stati a parti invertite, se fosse stata sua sorella la fuggitiva, sicuramente avrebbe fatto di tutto per saperla al sicuro e per farlo non si sarebbe gettato tra le braccia dei pavor, non si sarebbe fatto rinchiudere in una cella, inerme. Avrebbe sempre usato quell’unica arma che possedeva e che lo faceva quasi sentire speciale: la testa.
    “Non ho mai preteso tu mi dicessi niente. Non chiedo che tu mi dica niente, così come non ti ho mai compatito. In un modo o nell’altro, siamo entrambi vittime. È questo quello che siamo.” L’unica cosa che cambiava era il loro modo di affrontare le situazioni, di rialzarsi dopo una caduta. Dall’alto della mia scienza infusa?” Sentì la voce alzarsi di un tono, la mascella irrigidirsi in una linea dura, le nocche nuovamente strette in un pugno, concentrando tutta la tensione del corpo in un unico punto più facile da controllare. “Per la seconda volta nel giro di pochissimo tempo dici di preferire la morte alla vita, che ti saresti fatto catturare volentieri dai Pavor, che per te non è un problema venire arrestati, che tuo fratello avrebbe fatto meglio a…” passò una mano sul viso, non riuscendo a continuare la frase, il peso di quella verità farsi strada man mano in lui, insieme alla consapevolezza che non tutti i rapporti tra fratelli erano come il suo con Halley, che nonostante gli alti e bassi, lui non avrebbe mai levato una lama contro costato diafano di lei, che non avrebbe mai permesso a nessuno di farle del male. Si ammutolì del tutto, la mano che premeva sulla bocca per distrarlo da quel pizzicorio degli occhi, da quel bruciore improvviso. Spostò lo sguardo sugli arazzi che bardavano la stanza, fissandolo poi sulle fiamme che scoppiettavano nel camino, colonna sonora di quel momento.
    “Aiutami a capire. A capirti.” Mormorò piano, una volta certo che la voce sarebbe rimasta ferma, stabile, che non si sarebbe rotta alla prima parola. “Non puoi sapere come reagirò, non puoi escludermi a priori. Non posso garantirti nulla, solo di ascoltarti.” Era tutto quello che poteva fare per lui in quel momento. Avrebbe voluto allungare la mano e poggiarla sul braccio dell’altro, avrebbe voluto confortarlo in qualche modo, qualsiasi modo, ma il Dallaire era stato cristallino: nessun contatto, nessuna rassicurazione. Non gli restava altro da fare se non sentire la sua storia o, quanto meno, provarci qualora l’altro avesse deciso di aprirsi con lui, Gli aveva sbocconcellato informazioni random, una dietro l’altra, scaricando su di lui un intero revolver sul suo passato. Non era stato facile collegare i pezzi, quei frammenti di storia, quel passato che si stava dimostrando essere più oscuro di quanto non potesse anche solo lontanamente immaginare. Tutto quello che sapeva di Viktor, tutto quello che gli aveva mostrato di sé, stava assumendo pian piano un altro significato e, probabilmente, non era ancora abbastanza saldo sulle sue gambe per poterne reggere l’impatto. Sentiva addosso gli strascichi del Ministero, il peso di quei giorni, il trauma di quella punizione che lo teneva sveglio ogni notte, incapace di addormentarsi senza sentire le urla di dolore rimbombargli nella testa, quasi fossero reali, quasi fossero ancora tutti lì, davanti a lui, in attesa di un piccolo, quasi impercettibile, movimento del polso. Tuttavia, voleva almeno provarci, avere l’opportunità di comprenderlo. Non sapeva da cosa scaturisse questo bisogno, del perché fosse quasi ossessionato dall’idea di andare oltre le apparenze, oltre ciò che l’altro decideva al mondo di mostrare. Avrebbe soltanto desiderato essergli amico, di essergli vicino senza la consapevolezza che anche solo una parola sbagliata poteva ferirlo più di una maledizione, di meritare la sua fiducia. L’Oakes stava studiando per blindare la sua mente, per proteggere quanto più possibile la sua Missione e coloro che ne facevano parte; non avrebbe detto nulla neanche dell’incontro che l’altro aveva avuto col Dumont, custodire quell’informazione era il minimo che potesse fare.
    “Se ci fosse un manuale sui sentimenti o su come prendersi cura di chi ci sta vicino, lo avrei già letto da tempo.” lo sbuffo di un sorriso gli attraversò il volto, prima di lasciare spazio all’amarezza. A volte si domandava perché non fosse nato come un automa, con un’intelligenza artificiale che gli avrebbe permesso di restare immune alle emozioni, ai sentimenti. Nulla sarebbe stato in grado di scalfirlo, di modificarne i codici di programmazione. Non era lui l’Oakes espansivo, quello che andava in giro a placcare gli altri per dispensare affetto al mondo. Non era lui quello che sapeva sempre cosa dire quando qualcuno aveva bisogno del suo aiuto, anzi. Si concentrava talmente tanto sulla risoluzione di un problema che finiva sempre col dimenticarsi di tutto il resto, che non tutti capivano la sua visione del mondo, spesso dimentica di colori e sfumature. Sapeva solo abbracciare e, in quel momento, sapeva fosse l’ultima cosa da fare, l’unica opzione che non doveva essere neanche lontanamente presa in considerazione.
    Non aveva più nulla da dire, non aveva più alcun motivo per restare lì. Era stremato come non lo era mai stato prima, di quella stanchezza che andava a minare la mente e che non sarebbe passata con una semplice dormita, con la lettura di un libro, con una passeggiata nel parco.
    Stava per voltarsi e lasciare la Torre di Grifondoro quando due parole lo inchiodarono sul posto. Se non avesse avuto la consapevolezza di essere l’unico interlocutore di Viktor in quella stanza, se non nell’intero Castello, si sarebbe convinto del fatto che quelle parole non fossero rivolte a lui. Si sarebbe girato per vedere con chi stesse parlando l’altro e si sarebbe dato dello stupido per essersi preoccupato inutilmente. O illuso senza motivo. O avuto anche solo l’ardire di credere che potesse davvero piacere a qualcuno.
    No, non un semplice qualcuno. Qualcuno che aveva sempre creduto fosse inavvicinabile.
    A Viktor.
    Poggiò la mano sullo schienale della poltrona accanto a lui, lo sguardo perso e l’espressione confusa.
    Cosa… Cosa voleva dire?
    In che senso Viktor era interessato a lui?
    Ma, soprattutto “Perché…?”
    Un respiro di troppo e lo avrebbe perso.
    Si spostò in avanti, seguendo i movimenti del coetaneo senza vederli davvero, le dita che si andavano a stringere attorno al polso del Grifondoro, la muta richiesta di restare. Non era una presa stretta, se avesse voluto divincolarsi lo avrebbe fatto senza difficoltà alcuna; era incapace di tenere insieme tutte quelle parole che l’altro gli aveva appena rivolto, figuriamoci la sua persona.
    Spostò lo sguardo nuovamente verso il basso, il senso di vuoto all’altezza dello stomaco lo stava risucchiando, al pari di un buco nero. Aveva bisogno di Halley, di qualcuno che gli tirasse uno schiaffo e che gli intimasse di star calmo, tranquillo, che le situazioni nuove e inaspettate non erano poi così brutte, che non era niente di grave, che non stava avendo un attacco di panico. Le sue mani erano asciutte e non aveva difficoltà a respirare. Aveva difficoltà a capire. Non aveva il respiro mozzato, non aveva difficoltà a prendere aria, era solo più pallido di Nick-Senza-Testa ma quella era una costante dell’ultimo periodo, perdere colorito non era una novità, non in quei giorni almeno.
    Stava per dire che gli dispiaceva.
    Merlino, Hunter, che dilettante.
    Tenne a freno quel pensiero e gli ci volle tutta la (poca) forza di volontà che gli era rimasta in corpo.
    Le dita bruciavano attorno al polso del Dallaire e sentiva l’autocombustione avvicinarsi inesorabilmente, come lo scoppio di magia accidentale.
    Non aveva logica, niente in quel momento aveva senso.
    Come poteva piacergli? Come poteva anche solo suscitare il minimo interesse?
    Ma non era quello il vero problema: si sentiva in colpa perché era la causa di parte del malessere del francese. E fino a quel momento non si era accorto di nulla. Era questa la parte peggiore. Non si era reso conto di nulla e, forse, aveva inconsapevolmente alimentato il tutto.
    Continuava a ripeterselo nella mente, quasi potesse attutire l’impatto di quella doccia gelida. Quasi colpevolizzarsi potesse essere un modo per fare ammenda.
    “Io non…” Non sapeva cosa dire, per una volta a corto di parole. Non aveva mai pensato a Viktor in quel modo. Cioè, sì. Ma non romanticamente parlando e si sentiva la peggiore delle bestie per questo motivo. “Non mi sei indifferente.” Riuscì a dire a fatica, deglutendo appena. “Mi piace quando mi baci. Mi piace quando parli di Trasfigurazione, come ti brillano gli occhi quando studi Erbologia. Mi piace la tua compagnia, ma…” è troppo presto.
    Non avrebbe potuto dirlo, non senza dargli la speranza che prima o poi si sarebbe potuto sbloccare qualcosa. Non poteva chiedergli del tempo, non poteva esporsi quando non aveva mai creduto potesse essere interessato a un rapporto che andasse oltre l’amicizia.
    Aveva paura di ferirlo, di fargli male, di far danno e di non rendersene neanche conto. Perché lo aveva già fatto.
    Senza contare che la sua vita non gli apparteneva, non del tutto almeno. Ed era già un già tutto abbastanza complesso così, senza sganciare la bomba sulle sue origini.
    C’era tanto, troppo, nella sua testa a cui pensare. Doveva cercare la sua famiglia. Doveva trovare i suoi genitori, sentiva la necessità di conoscerli, anche solo di vederli da lontano. Lo doveva a lui, ad Halley, a quel senso di vuoto che li accompagnava da quando erano bambini. Dovevano andare avanti e quello era l’unico modo per farlo.
    Non era Viktor il problema, dirlo avrebbe solo fatto precipitare il problema, facendogli credere l’esatto opposto, allontanandolo ancora di più. Come se già non l’avesse perso. Come se già la sua reazione non fosse stata abbastanza da stroncare ogni possibilità di confronto, di dialogo, di quella conoscenza che cercava di approfondire da mesi.
    “Resta.”
    There are no winners
    when the die is cast
    There's only tears
    when it's the final task
    Broken | Not Found | Lost
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    Hunter
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    Viktor Asmodeus Dallaire
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    Le interazioni sociali con le personalità più disparate gli avevano insegnato che, se una situazione diventava improvvisamente spinosa, fosse meglio evitare qualsiasi discussione e girare i tacchi. Nessuna spiegazione, nessuna presa di posizione, nessuna confessione. Ed aveva sempre funzionato; aveva rifiutato tanti spasimanti, tra uomini e donne, infischiandosene dei loro sentimenti. Non era un bruto, non aveva di certo umiliato quei poveri ragazzi, eppure non si era mai premurato di essere galante.
    Era come un’anguilla: scivoloso e inafferrabile. Sguisciava via dalla vita della gente senza che questa riuscisse nemmeno a capire cosa fosse successo, tutto pur di non affrontare la spiacevolezza dell’addio.
    Il sesso occasionale era facile e c’erano poche regole da rispettare, tutte volte a non rivedersi mai più; quindi era comodo, un metodo efficiente che gli permetteva di non pensare per quei pochi istanti di piacere. Era una macchina oliata, in cui ogni tanto si inceppavano degli ingranaggi ma, fino a quel momento, era riuscito sempre a farla funzionare abbastanza egregiamente, facendo in modo di sotterrare il sé stesso malinconico, quello che nessuno avrebbe voluto come amante, e fare uscire una personalità frizzantina. Forse, uno esperto, qualcuno con un occhio attento, avrebbe visto in quegli atteggiamenti un bisogno ossessivo di affetto. Una ricerca costante di attenzioni, il provocare per ricevere occhiate lascive, perché erano pur sempre qualcosa di simile all’accettazione. C’era sicurezza in quei gesti ripetuti, come un automa programmato per svolgere sempre la stessa funzione.

    Sbagliare, non sbagliare, dire la cosa giusta, non dirla. Era tutto relativo.
    Poteva vedere la mente di Hunter fumare per lo sforzo ed avrebbe riso se fosse stata un’altra occasione. Si sarebbe poggiato a lui con affetto, l’avrebbe preso in giro e avrebbe continuato a parlargli di stupidaggini per smorzare l’imbarazzo. Ma quella non era una situazione in cui ridere fosse contemplato, piuttosto avrebbe preferito gettare un urlo al vento per esprimere la frustrazione e il totale stato di disagio in cui si trovava.

    «Devi lasciare che gli altri parlino così del Dumont, ma, soprattutto tu devi iniziare a rivolgerti a lui in questi termini. Se vuoi davvero proteggerlo, se vuoi proteggerti, devi sfruttare le apparenze, devi passare per quello tradito dai suoi atteggiamenti e dal suo comportamento, prenderne le distanze. Non puoi andare a dire in giro che ti saresti fatto arrestare per lui!»

    E lo sapeva che l’Oakes avesse maledettamente ragione, che si stesse comportando da idiota a difendere a spada tratta Charles dalle accuse. Che non fosse saggio mettersi in prima linea rischiando di essere ucciso e che fosse più intelligente rimanere nell’ombra ed agire con buonsenso. In genere non era così—impulsivo. Non si poneva in mezzo alla mischia per salvare una vita o per difenderla, cercando sempre di valutare la situazione, i pro e conto, in modo da non attirare troppo l’attenzione. Ma era un Grifondoro e forse era per quel motivo che aveva agito senza riflettere; privato della propria dignità, coperto di vergogna, aveva perso completamente la ragione. Aveva abbandonato la cautela in favore della stoltezza e di questo se ne rammaricava. Se quella notte, per malaugurata ipotesi, uno dei Pavor l’avesse seguito, avrebbe perso tutto, compresa la propria vita. Per quanto si sforzasse di pensare che fosse importante, non riusciva a concepire come potesse esserlo. Cosa gli era rimasto da tutto quello?
    Non Hunter, non così. Non quando era bastata una piccola scintilla per far divampare un incendio.
    Ed era stato estremamente stupido da parte propria lasciarsi andare a quella confessione senza valutare quanto avrebbe fatto male non essere ricambiati. Come aveva detto una volta al Corvonero, in un tempo che sembrava ormai distante anni luce, l’amore non era una cosa semplice da comprendere, né il rifiuto da digerire, eppure nessun obbligo poteva essere imposto. Nessuna catena o nessun vincolo.
    Altro che logica, intelligenza, pragmatismo e cinismo. Bastava essere innamorati per vivere in uno stato di perenne ansia, di tremolii e dubbi e nessuna di quelle maledettissime cose avrebbe mai potuto dare una spiegazione al perché gli tremassero le mani o perché la stretta sul suo polso bruciasse come se a toccarlo fosse stato un tizzone ardente piuttosto che le dita di Hunter (che in ogni caso sembrava aver rimosso le ustioni che, ancora, tiravano facendolo sibilare dal dolore). Che quello sguardo non gli stesse perforando la nuca, rendendo difficile far finta di non sentire la voce spezzata dell’altro dilaniargli il cuore.

    «Per la seconda volta nel giro di pochissimo tempo dici di preferire la morte alla vita, che ti saresti fatto catturare volentieri dai Pavor, che per te non è un problema venire arrestati, che tuo fratello avrebbe fatto meglio a…»

    «Hunter…» mormora, stringendo per un attimo la mascella, teso come la corda di un violino «Non puoi sapere come reagirò, non puoi escludermi a priori. Non posso garantirti nulla, solo di ascoltarti.»
    No, non poteva sapere la sua reazione, ma poteva immaginarla. Poteva sentire già il singulto di orrore scuotere il petto del giovane Corvonero, la rabbia nei confronti di Mephistophele e Yves, il totale sbigottimento dovuto alla vita a casa Dallaire e la pena ad attraversargli lo sguardo al racconto di mani a trascinarlo fuori dalla sua stanza contro la sua volontà. Semplicemente, Hunter, non aveva idea di cosa gli stesse chiedendo. E non avrebbe saputo spiegargli il perché, nonostante il male subito, non riuscisse a provare rancore per Mephisto, di come si sentisse legato a lui comprendendo così a fondo il suo dolore da renderlo proprio. Aveva paura di lui, ma non lo odiava. Non avrebbe mai potuto, non ci sarebbe mai riuscito ed era frustrante, perché sapeva che non l’aveva aiutato a fuggire dal suo aggressore, che l’aveva accoltellato senza pietà come se fosse carne da macello facendogli perdere per sempre un pezzo di sé, ma tant’é. Una parte che pensava non avrebbe mai recuperato, troppo impegnato a cercare modi nuovi e creativi per ammazzarsi. Era questo quello che Hunter voleva sentirsi dire? Quanto patetico e privo di amor proprio fosse? Che senza l’aiuto di un estraneo, Mortimer, sarebbe stato un cadavere come tanti altri sparpagliati al campo santo?
    Azkaban non gli faceva né caldo, né freddo. Ma l’Oakes aveva ragione: se voleva proteggere Charles doveva farsi furbo. Smetterla di comportarsi come l’idiota che non era e agire nel modo meno consono per un Grifondoro.

    Il “perché” di Hunter lo fa ritornare immediatamente alla realtà, seguito poi dal “non mi sei indifferente, ma…”. C’era sempre un ma. Era una cosa che non riusciva a sopportare. “Sei bello, ma”, “sei intelligente, ma”, “Mi piace la tua compagnia, ma”. Era un ma. La sua vita si concentrava su quella maledettissima, fottutissima congiunzione coordinativa avversativa. Avrebbe dovuto farselo tatuare in fronte, così che tutti avrebbero capito subito l'antifona. L’uomo del ma.

    Ma non c’era nulla da dire.
    La verità era che quello, seppur implicitamente, era un rifiuto e dalle parole di Hunter, dalla sorpresa con cui aveva accolto la sua pseudo dichiarazione raffazzonata, non aveva nemmeno realizzato che quei baci, quelle carezze e quelle condivisioni non li concedesse a chiunque. Come poteva dargli torto? Il suo primo approccio era stato il classico, quello che usava spesso per scherzare, per provocare reazioni, per essere al centro delle attenzioni e sulla bocca di tutti. Il problema (perché era diventato un problema) era venuto dopo. Quando il loro primo bacio gli aveva fatto salire il cuore in gola. Quando avevano intrecciato le mani e avevano sorriso come due deficienti. Era arrivato dopo, negli sguardi di fuoco che si erano lanciati in Sala Torture, in cui l’ardore aveva acceso in lui la miccia che avrebbe volentieri sfogato martoriando quel maledetto collo di lividi violacei. E si era concluso, alla fine, con la premura di Hunter, con i racconti al chiaro di luna in infermeria e i baci velati di bisogno.
    Ed era stato uno stupido a credere, anche solo per un istante, che dietro quelle attenzioni potesse esserci interesse romantico. Wow, faceva male lo stesso.
    Più delle ustioni, più della coltellata, più di qualsiasi altra cosa.

    «Resta.»

    Non sarebbe comunque potuto andare da nessuna parte, nemmeno volendo. Si sentiva bloccato, le orecchie a fischiare. Era la pressione che si stava alzando? Era il proprio cervello che cercava di ovattare le parole del Corvonero per evitare di ascoltare quanto avesse da dirgli? Era stato troppo lento nel scappare; aveva perso tempo a recuperare quello stupido strumento e ora—avrebbe solo dovuto voltarsi, non degnarlo di uno sguardo e salire in dormitorio.

    «Non devi dire niente» si umetta le labbra, con le iridi puntante sui cuscini rossi del divano «non è necessario» ah, davvero? Guardarlo ogni singola volta gli avrebbe ricordato il perché si fosse ritrovato succube di un sentimento tanto scomodo. Era come tutte le altre volte, quelle maledette farfalle a sbattere prepotenti in giro per lo stomaco. Le avrebbe uccise tutte con l’insetticida, se solo avesse potuto.
    «Ho puntato in alto e—sono caduto. È okay» e no, non era okay e avrebbe voluto solo rifugiarsi sotto le coperte, impedendo a chiunque di capire come si sentisse, ma… «non è qualcosa che—si comanda» a chi voleva darla a bere? A Hunter? Quando gli aveva chiesto di essere onesto? Non si meritava la facciata intoccabile, quella velata di così tanta, abitudinaria apatia da essere solo contornata da un sorrisetto accomodante «e… mi dispiace. Mi è sfuggito» per un attimo trema, stringendo le palpebre, sentendo la rabbia montare nuovamente, ma in una misura più intima, più personale perché era difficile venire a patti con l’idea che potesse fidarsi di Hunter «io voglio restare» snocciola a fatica, la gola bloccata dall’ingente nervoso, dalla difficoltà nel potersi aprire con qualcuno che non fosse il proprio riflesso, dal quale spesso fuggiva «perché tu ne vali la pena» fa scivolare via il braccio dalla presa dell’Oakes, prima voltarsi e prendergli la mano «vali sempre la pena» sospira, indeciso su cosa dire, temendo di non avere le parole «mi dispiace di non averti capito e per non essere in grado di volermi bene come tu vorresti» accenna un sorriso triste «e che questo ti faccia dubitare dell’importanza che hai per me, in qualsiasi forma. Vedi» gli afferra anche l’altra mano, accarezzandone il dorso e concentrandosi sulle vene appena in rilievo, verdastre per via del pallore «mi piacerebbe dirti tutto, ma non voglio turbarti. Non voglio accentuare il malessere che ti porti sulle spalle. Non voglio che quello che è successo a me possa, in qualche modo, assillarti. Ma, se me lo chiederai, risponderò alle tue domande onestamente. Potrebbe non piacerti.» annuisce, onesto, sebbene la fatica di tali parole pesasse come un macigno. Ma doveva pur iniziare da qualche parte, no? «Se vorrai baciarmi, potrai farlo. Se vorrai parlarmi, non mi tirerò indietro. Voglio restare perché non c’è altro a trattenermi qui, al Castello, se non te. Amici, amanti, non importa. Impariamo a venirci incontro. Ricominciamo da qui, vuoi?» le spalle si rilassano, quasi che tutta la tensione si fosse persa per via di quelle parole dette con pacatezza. Il cuore faceva male, malissimo, tanto da fargli mancare il fiato. Eppure, c’era una sorta di tacita comprensione; non poteva chiedere ad Hunter più di quanto non avesse sopportato in quei giorni. Non era pronto, non sapeva nemmeno se lo sarebbe mai stato per lui, né se in un futuro l’avrebbe guardato con altri occhi.
    In ogni caso, aveva fatto una promessa all'Oakes e lui, le promesse, le manteneva. Sempre.
    17 y.o. | Gryffindor
    Anger | Frustrated
    …the violin —
    that most human
    of all instruments.
    For me, you are fresh water that falls from trees when it has stopped raining.
     
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    Descrivere come si sentiva Hunter in quel momento è… difficile. Provate a immaginare come vi sentireste voi in una situazione simile, mentre nella vostra mente scorrono immagini, frammenti di dialoghi, e sulla vostra pelle percepite l’eco di quei tocchi leggeri. Provate a immaginare il senso di smarrimento una volta messi insieme i pezzi e aver capito, in quel momento, di aver frainteso tutto. No, forse fraintendere non è il giusto verbo, implicherebbe una conoscenza di base, un essersi reso conto delle proprie azioni e aver misinterpretato il tutto. Era andato a briglia sciolta, senza pensare alle conseguenze. Aveva provato a seguire l’istinto e, in quell’unica volta che lo aveva fatto, si era ritrovato tra le mani qualcosa di fin troppo grande e inaspettato, impossibile da gestire.
    Non gli piacevano i sentimenti per questo motivo: per l’incapacità di prevedere cosa sarebbe potuto accadere e, per una mente sempre organizzata come quella del Corvonero, era spaventoso.
    Era sotto shock e, per un attimo, aveva creduto di non essere più in grado di provare nulla. Era mortificato e non sapeva cosa fare.
    Era mortificato e voleva rimediare.
    Era mortificato e non riusciva a pensare ad altro se non a quanto sarebbe stato facile rispondere a quel mi piaci con un anche tu. Sarebbe stata la soluzione più semplice. Sarebbe stato come uno di quei film romantici che, di solito, evitava come il vaiolo di drago: troppo banale e scontato, troppo pieno di cliché, al punto da essere in grado di prevedere non solo quello che sarebbe successo, ma anche i dialoghi, quasi fosse stato lui lo sceneggiatore di pochi zellini a cui era stato affidato il compito di buttare giù qualche riga, qualche frase a effetto. Seguendo il copione, si sarebbe avvicinato, avrebbe azzerato la distanza tra loro con un bacio e si sarebbe concluso tutto lì, in quel fotogramma prima dell’ultima dissolvenza che annuncia titoli di coda. Sarebbe stato un finale aperto, che avrebbe lasciato allo spettatore la libertà di continuare la storia, di essere clemente con i due protagonisti, o di odiarli al punto da maledire quell’unione. In entrambi i casi, avrebbe immaginato quello che sarebbe potuto accadere, quello che a lui sarebbe piaciuto accadesse, lasciando così spazio alla propria creatività.
    La realtà, tuttavia, era ben lontana da quel mondo cinematografico fatto di luci ed effetti speciali, non c’era nessuna sceneggiatura da seguire, nessun testo da sfogliare fino ad arrivare alla fine e scoprire cosa ne sarebbe stato dei due personaggi principali. Non c’era nessun telecomando in grado di accelerare il tempo e far vedere in anteprima cosa sarebbe successo di lì a qualche istante, giusto per prepararsi, per giocare d’anticipo.
    Tutto quello che Hunter voleva in quel momento, era che una voragine si aprisse sotto di lui, facendolo precipitare di qualche piano, fino a farlo arrivare oltre i sotterranei, ben al di sotto del Lago Nero, fino quasi ad accarezzare il centro esatto della Terra.
    Era stato così superficiale che, se fosse stato un amante della violenza, si sarebbe preso a schiaffi da solo. Il che non escludeva automaticamente l’andare a prendere a testate la prima parete a disposizione. No, non per dimenticare le parole che Viktor gli aveva appena rivolto. Come avrebbe potuto anche solo voler cancellare la dolcezza dietro quelle due semplici parole? Se fosse stato meno prudente, se fosse stato meno accorto nei confronti dell’altro, sicuramente avrebbe camminato sui muri per la gioia, perché, per una volta, qualcuno lo aveva scelto. Lo aveva scelto, capito? Lui! E non era una persona qualunque, ma qualcuno che a lui importava veramente, che riteneva speciale. E proprio perché lo riteneva straordinario non poteva permettersi di sbagliare, perché il prendersi cura di lui partiva dal dovere di farlo star bene; e Hunter, in quel momento, non ne era in grado.
    Si aggrappò con tutto se stesso al fatto che non avesse aggiunto vorrei stessimo insieme o vuoi diventare il mio fidanzato?, perché aveva bisogno di credere che fosse una semplice affermazione, che non fosse implicato altro, che i sentimenti fossero ben lontani da quella frase che lo aveva fatto tremare.
    Hunter non credeva in quel tipo di legame, non ancora almeno. Aveva paura di non essere all’altezza, di non essere in grado di amare; era come se tutto quello che potesse dare fosse ancorato esclusivamente ad una sola persona, come se essere tornato indietro per lei, per proteggerla, era l’unica ragione per cui il suo cuore fosse ancora in grado di battere. Non sapeva se ci fosse abbastanza spazio per altri e non voleva rischiare, non sulla pelle di Viktor.
    Lasciò che il polso dell’altro scivolò via dalla sua presa, vide la sua mano ricadere lungo il fianco, ancora una volta impotente. Non sapeva come o dove classificare il francese nella cerchia delle sue amicizie, non sapeva che posto dargli e, forse, andava bene così; andava bene restare in quel limbo di incertezza, perché era chiaro che non fossero in grado di camminare insieme, di compiere gli stessi passi. Procedevano a velocità diverse, in direzioni diverse e no, non era per colpa di quei venti centimetri di differenza. In realtà non sapeva neanche di chi fosse la colpa, né se ci fosse effettivamente qualcuno da colpevolizzare. Poteva essere maturo in tanti aspetti, poteva essere il migliore della classe, ma c’erano situazioni, come questa, in cui si sentiva un bambino messo in acqua per la prima volta, incapace anche solo di restare a galla, e più muoveva le braccia, più si sentiva andare a fondo. Non riusciva a parlare, non riusciva neanche ad articolare un pensiero.
    “Non è un no.” Mormorò piano, lo sguardo puntato verso il basso, traboccante di dispiacere. Non aveva idea se gli fosse bastato sapere che non lo stava rifiutando, non del tutto almeno. Avrebbe voluto dargli di più, avrebbe voluto dargli quello che meritava, avrebbe voluto essere davvero in grado di essere quella stella che rischiarava le sue giornate, quella a cui fare affidamento nelle notti in cui rischiava di perdere la rotta, ma c’erano troppe parentesi ancora aperte nella sua vita e non voleva che Viktor fosse un rimpiazzo, un tappabuchi. E pensare che solo pochissimi mesi prima era stato lui a ubriacarsi fino a dimenticare il proprio nome per un rifiuto e, ironia della sorte, era stato proprio il Dallaire a tendergli la mano, evitando che affogasse nella sua stessa delusione, nelle sue stesse lacrime.
    Spostò le iridi cobalto in quelle chiare dell’altro, stupido dalle sue parole, dal tocco della sua mano. Trattenne a stento il sorriso quando gli disse che sarebbe rimasto, nonostante il dolore che permeava la sua voce, nonostante fosse la reazione meno opportuna che potesse avere.
    “Dispiace più a me.” Per tutto. Per ogni singola parola fuori posto, per ogni carezza indesiderata, per ogni bacio fuorviante. Tuttavia, non si sarebbe mai pentito di nessuno di quei gesti. Ed era strano, era contraddittorio, forse era anche sbagliato, ma non si sarebbe mai pentito di quel contatto delicato che, più volte, lo aveva mandato a fuoco.
    “Ti voglio bene, Viktor. Forse per te non è abbastanza, forse vorresti di più, ma spero basti per entrambi.” Ed era tutto quello che aveva da offrirgli. Gli accarezzò la guancia con il dorso della mano, le dita intrecciate con quelle del francese. Quel movimento era così naturale che faceva male. Faceva male pensare che, forse, per il benessere di entrambi sarebbe stato meglio prendere le distanze, sarebbe stato meglio allontanarsi. O, forse, il distacco sarebbe stata la loro rovina.
    “Vorrei esserci per te. Vorrei conoscerti, vorrei vederti per davvero e… non ho paura di quello che potrai dirmi perché non cambierà l’opinione che io ho di te.” Sospirò piano, smettendo di carezzare la guancia del coetaneo, le mani di entrambi che scivolavano verso il basso, senza mollare la presa. “Non devi preoccuparti per me.” Non quando la sua vita era già abbastanza complicata di per sé. Apprezzava il gesto, apprezzava quell’accortezza che aveva avuto nei suoi riguardi, ma avrebbe aspettato fosse pronto a parlare del suo passato, avrebbe fatto in modo si fidasse di lui.
    Scosse piano la testa, lo sguardo leggermente offuscato da quelle lacrime che erano salite all’improvviso e che rischiavano di rigargli il viso. “Ti ferirei. Ti farei del male e non potrei perdonarmelo...” Non voleva trattarlo come una bambola priva di ogni volontà, non voleva che Viktor si sentisse utilizzato da lui. Non lo avrebbe baciato perché ne aveva voglia, perché ogni fibra del suo corpo urlava per sentire quel brivido che provava ogni volta che la pallina metallica sfiorava il suo palato. Non lo avrebbe cercato solo quando ne avrebbe avuto bisogno, né quando il suo istinto lo avrebbe spinto tra le braccia dell’altro, in cerca di un conforto che da solo non sarebbe riuscito ad ottenere. Era stato a un passo dall’essere uno dei tanti, approfittando inconsapevolmente di quel corpo che aveva rischiato di essere solo un oggetto, nonostante si fosse ripromesso di non trattarlo come tale, di essere migliore. Perché non poteva negare fosse attratto da lui, non poteva ignorare - non sempre almeno - le immagini che la sua mente, ogni tanto, gli proiettava. “... perché ti rispetto, Viktor, e meriti molto più di questo”. Forse molto più di me.
    Guardò un’ultima volta il francese negli occhi, sperando di non aver complicato il tutto. Sapeva che gli aveva chiesto di non parlare, di restare in silenzio, ma non poteva restare zitto, non quando gli aveva detto che era uno dei motivi per cui non era andato via. Non sapeva perché fosse stato proprio lui a trattenerlo, cosa avesse detto o fatto in precedenza per spingerlo a restare e, con ogni probabilità, in quel momento sarebbe stato meglio continuare a vivere nell’ignoranza, senza porre domande che lo avrebbero colto nuovamente impreparato, la cui risposta avrebbe potuto nuocere ad entrambi.
    Vide le spalle del coetaneo rilassarsi e lasciò andare le sue mani, ma solo per tirarlo a sé e stringerlo in un abbraccio, noncurante dei pensieri di qualche istante prima. Sapeva fosse la cosa giusta da fare, sapeva fosse l’unica cosa da fare. Forse fu troppo brusco, forse le ferite di Viktor non erano poi così messe bene come credeva, ma non riuscì a trattenersi oltre. Erano troppo distanti e non riusciva più a sopportarlo. Voleva tenerlo vicino, voleva lo sentisse vicino. Voleva proteggerlo dal mondo, anche da se stesso se necessario.
    Sentì qualcosa tornare al suo posto nell’istante in cui lo avvolse con le sue braccia, accogliendo, probabilmente con troppo entusiasmo, la proposta di ricominciare. Non era ancora disposto a perderlo.
    “Sono Hunter Oakes. 17 anni. Corvonero.” Si presentò di nuovo, il volto perso in quei capelli d’inchiostro, i polmoni pieni del suo profumo. “E sono felice tu sia ancora qui.” che tu abbia scelto di restare. Felice che tu mi abbia scelto ancora. Felice di poter ricominciare da me, da te, da noi. Di conoscerti. Di avere ancora la possibilità, un giorno, di poter essere la persona che meriti. Non so ancora come, non so ancora quando, non so ancora il perché; so solo che vorrei essere al tuo fianco.
    There are no winners
    when the die is cast
    There's only tears
    when it's the final task
    Broken | Not Found | Lost
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    Hunter
    Oakes


    Edited by Messier_43 - 27/1/2019, 14:38
     
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    Era ironico come si fosse tenuto ben distante dai sentimenti, dalle relazioni, dai legami, per poi provare per la prima volta amore ed essere rifiutato. Ah, no, non rifiutato. Non definitivamente. Era in una fase di stasi, un limbo ancora incerto, ma di per sé meglio di un totale rigetto. Non poteva mentire, né dire che il modo in cui Hunter avesse risposto non fosse stato tristemente aspettato o, quantomeno, doloroso, perché lo era. E tutto faceva male, come se avesse deciso di buttarsi volontariamente e nuovamente nel liquido dorato che gli aveva causato le ustioni; bruciava tutto. I polmoni, il cuore, gli occhi e non sapeva come fare per far smettere ai propri sentimenti di essere così palesi, quando era stato sempre così bravo nel nasconderli. Sapeva anche di non poter mentire all’Oakes, ormai abile nel decifrare i suoi occhi, con una bravura tale da lasciarlo sorpreso; e lo sapeva che l’ultima delle intenzioni del Corvonero fosse quella di ferirlo, poteva vederlo in quelle iridi chiare il dispiacere di non essere in grado di ricambiare.
    Non c’era sadismo o derisione nella sua voce, ma puro e semplice desiderio di sparire, di non essere lì per assistere a quel disastro. A propria volta, vederlo così provato, aveva acceso una lampadina che credeva si fosse fulminata, rivelazione del fatto che avesse inveito contro l’unica persona che in quel Castello sembrava averlo a cuore; o che avesse calcato la mano, troppo preso dalla propria visione distorta della realtà per curarsi di chi, dietro di lui, stava soffrendo in egual misura. Era stato cieco e stupido, con le palpebre calate e la mente persa in chissà quali elucubrazioni mentali, utili solo a perdere tempo e non vedere il mondo così com’era. A conoscere Hunter un pezzo alla volta, mettendo quel dannato egoismo da parte per curarsi di un altro essere umano.

    Erano stati gli eventi a renderlo incurante, il che non era di certo una giustificazione, solo un fatto come un altro. Piuttosto che darsi pena aveva solo preferito occuparsi di sé, facendo in modo di vivere più o meno bene, perché non aveva nessuno e nessuno aveva lui, quindi di chi avrebbe dovuto preoccuparsi?

    Con il palmo di Hunter ad accarezzargli la guancia, però, aveva finalmente compreso il suo errore. Aveva detto all’Oakes di provare sentimenti per lui, di non riuscire a pensare ad altro, di avere la mente sopraffatta dal suo viso. Eppure, era stato incapace di dedicargli del tempo, di chiedergli banalmente “come stai?” o di donargli delle carezze che avrebbero potuto alleviare quel senso di oppressione che sembrava crescergli nel petto. Aveva dato per scontato che il Corvonero fosse una persona forte, che avesse le spalle larghe, che non stesse così male da soffrire come aveva fatto lui. Che aveva amici intorno capaci di aiutarlo e che per questo non potesse permettersi un tale atteggiamento.
    Ed era stato un idiota. Uno stupido, inutile, egoista. E una persona innamorata, come pensava di essere, non si sarebbe mai potuta permettere delle nefandezze simili. Ma non aveva esperienza, né in amore, né in semplici contatti umani che andassero al di là del sesso, quindi come spiegare ad Hunter che nonostante si fosse comportato da incurante avesse sempre il pensiero fisso su di lui? Che gli importava? Che voleva solo il suo bene?
    Avrebbe dovuto imparare e… sperava solo di esserne in grado.

    C’era dolcezza in quel tocco, quasi che l’Oakes avesse paura di romperlo. Sentiva quelle dita solleticargli la pelle ed avrebbe solo voluto che non smettessero mai, che stessero sempre lì a fargli percepire quel contatto colmo di rispetto e delicatezza che nessuno si era mai premurato di riservagli.
    «Ti ferirei. Ti farei del male e non potrei perdonarmelo… perché ti rispetto, Viktor, e merito molto più di questo.»

    Valeva molto più di quello? Se si fosse visto allo specchio, in quel momento, avrebbe visto riflesso in suo viso sbigottito. Le iridi azzurre fisse in quelle dell’altro e le labbra appena dischiuse per la sorpresa. La sua espressione mutata da una tacita rassegnazione a totale confusione. Ed aveva dell’incredibile il fatto che quelle semplici parole l’avessero colpito più duramente di ogni singola affermazione detta in precedenza, che fossero riuscite a smuovere dentro di sé la consapevolezza che Hunter non lo vedesse solo come un semplice passatempo, ma che si preoccupasse per lui. Che non volesse ferirlo, che preferisse conoscerlo intimamente prima di qualsiasi altro aspetto. Il fatto era che la loro attrazione reciproca fosse palese. Non era negabile, non potevano far finta che non esistesse; ma era evidente, in quel momento più che mai, che la connessione mentale tra di loro potesse essere più intima di qualsiasi bacio, di qualsiasi tocco o desiderio.
    E capiva. Incredibilmente, aveva realizzato quanto l’altro fosse corretto.
    Che sebbene potesse piacergli, non si era azzardato a illuderlo. Che forse non voleva più baciarlo per non farlo soffrire, nonostante magari volesse ancora farlo. Probabilmente glielo avrebbe permesso, perché… diamine, non si sentiva usato! Non da lui, non per qualcosa di così spontaneo e naturale.

    Sta quasi per parlare, per raccontarsi e fargli capire quanto si fidasse di lui, senza nessuna remora, prima di venire agguantato e stretto in un abbraccio totalmente inaspettato. Per un attimo stringe gli occhi, dolorante, lasciandosi scappare un verso simile ad un lamento, ma alla realizzazione di quella stretta, le braccia prima distese lungo i fianchi si avvolgono immediatamente in quelli dell’altro. Affonda il viso nel petto di Hunter, percependo la stoffa della maglia solleticargli la guancia e notando per la prima volta quanto divario d’altezza ci fosse tra di loro. Il che era una realizzazione stupida in quel contesto, ma era così insignificante da essere, in qualche modo, importante. Ed avrebbe riso, stretto a quel corpo, con il profumo dell’Oakes a riempirgli i polmoni ed a farlo capitombolare ancora e ancora in quel sentimento che non avrebbe smesso di bruciare tanto presto, ma «Sono Hunter Oakes 17 anni. Corvonero. E sono felice tu sia ancora qui.» si morde il labbro superiore, le iridi liquide per via dell’emozione. Quello stupido Corvo.
    L’unica consolazione era quella di poter nascondere la voglia di piangere e che l’altro fosse troppo impegnato a stritolarlo per prestarvi attenzione.

    «Sono Viktor Dallaire. Diciassette anni. Sfortunatamente Grifondoro» la voce ridotta a meno di un sussurro, mentre parla, soffocata dalla stoffa «E anche io sono felice che tu sia ancora qui» mormora, nascondendo un sorriso tra le pieghe della maglia.

    Sarebbe andato tutto bene.
    17 y.o. | Gryffindor
    Anger | Frustrated
    …the violin —
    that most human
    of all instruments.
    For me, you are fresh water that falls from trees when it has stopped raining.
     
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