Broken glass

Hunter x Viktor

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    Ricordava poco, pochissimo, Hunter di quel 21 Dicembre 2018.
    C’era stato l’incontro con i professori nell’ufficio del professor Cambpell e poi l’attesa del proprio turno dalla Queen. Era stata quella, forse, la parte peggiore. Erano tutti in fila, come se avessero un numerino, sperando che il proprio nome non fosse mai pronunciato dalla donna. Sentivano tutto. Le grida di dolore e le ossa spezzarsi. O quella era solo una suggestione, perché sapevano che prima o poi sarebbe toccato a tutti. Nessuno escluso. Si vedeva giocherellare con l’orlo della divisa, rigirarsi il bracciale tra le dita quasi quell’oggetto fosse abbastanza per essere di conforto o, meglio, allentare la tensione. Non parlavano, erano tutti in una bolla di solitudine che li schiacciava ancora di più. Erano stati graziati: nessuna espulsione e nessun coinvolgimento del Preside. Aveva alzato il sopracciglio in modo scettico a quella comunicazione, ne era quasi convinto, incapace di dissimulare una finta riconoscenza, mascherando in questo modo il suo scetticismo.
    Sapeva di essere entrato per la seconda volta in meno di ventiquattro ore in quella Sala Maledetta, ma… i suoi ricordi finivano lì.
    Troppo ovattati, troppo frammentati per poter ricostruire le dinamiche dell’evento. Aveva urlato? Sicuramente, la gola gli raschiava ogni volta che provava a deglutire. Aveva provato a liberarsi? Dati i segni sui polsi, il suo istinto gli suggeriva che, effettivamente, aveva tentato di divincolarsi per sfuggire alle maledizioni che gli erano state rivolte contro.
    Poi… poi non riusciva ad andare oltre. Si chiedeva se fosse stato, se non altro, uno spettacolo dignitoso, se fosse riuscito a innervosire la donna provando a trattenere anche il più piccolo suono per il maggior tempo possibile. Si domandava se almeno l’avesse privata del gusto di vederlo piangere o supplicare di porre fine a quel supplizio.
    La mente era un meccanismo bellissimo. Per quanto lui volesse sapere cosa fosse successo in quei minuti, o ore - era tutto relativo -, lei gli impediva di rivivere quei momenti, di rintanarsi in quell’angolo del suo cervello per analizzare ogni cosa. Lo shock aveva rimosso parte dei suoi ricordi e tutto era come sfuocato. Non ricordava le parole della donna o l’anatema che gli era stato lanciato, ma il suo corpo lo aiutava a non dimenticare. Come avrebbe potuto farlo? Poteva ignorare come fosse arrivato in infermeria, se fosse stato lasciato a terra come un sacco di immondizia - la quale sicuramente era agli occhi del sistema scolastico, come biasimarli -, o se qualcuno lo avesse trascinato lì di peso, senza curarsi delle sue ferite. Sicuramente non avrebbe mai dimenticato quella sofferenza. Le fitte lancinanti che gli sconquassavano il corpo, trafiggendolo da parte a parte. Non poteva respirare, Hunter, senza provare dolore a ogni leggero movimento dell’addome. Il primo giorno era stato così debole da non riuscire neanche a restare a sveglio troppo a lungo, dicevano avesse perso troppo sangue e non potessero somministrargli nessuna pozione per ripristinarne i livelli a causa della ferita che stentava a rimarginarsi- e per via di quel simpatico veto di curarli con la magia -.
    Quando aveva ripreso quasi del tutto conoscenza, quando aveva smesso di oscillare prepotentemente tra la realtà e quel vuoto onirico, aveva finalmente allungato le dita verso quei fili dorati sparsi sul materasso e che vegliavano su di lui. Aveva provato a sorridere, a dire che stava bene, ma tutto quello che uscì dalle sue labbra fu un breve rantolo, la mano levata di un soffio che cercava quel calore che non lo aveva mai abbandonato. Fu un contatto breve, il tempo necessario ad asciugare una lacrima. Si sentì terribilmente in colpa, ma felice. Felice che per una volta i loro ruoli fossero invertiti, che non ci fosse lei, come al solito, sul lettino dell’infermeria, che fosse lui a portare il peso della responsabilità delle sue azioni. Se avesse espresso quel pensiero ad alta voce, probabilmente Halley gli avrebbe dato il colpo di grazia, lo avrebbe accusato di non aver pensato alle conseguenze che una tortura avrebbe potuto causare ad entrambi, alla preoccupazione cui l’aveva costretta. Eppure saperla al sicuro gli era bastato a sopportare tutto quel dolore.
    Ci mise un po’ a mettere a fuoco l’ambiente circostante, a registrare la presenza degli altri attorno a lui, celati alla sua vista dai separé color panna. Ci mise un po’ di più a collegare tutte le informazioni di cui era entrato in possesso grazie a Nicky e Beh. Non aveva avuto modo di leggere il Morsmordre, ma il riassunto che i suoi amici gli avevano fatto era bastato a fargli ribollire quel poco sangue che ancora gli scorreva nelle vene. I volti tumefatti dei suoi compagni lo fissavano dal comodino e non tutte le fitte che provò quel giorno furono di dolore. C’era una rabbia latente che rischiava di emergere, travolgendo quella calma proverbiale che lo aveva sempre contraddistinto, che gli aveva dato la forza di pretendere le cartelle di tutti gli ospiti dell’infermeria e che gli aveva quasi fatto riaprire la ferita quando quel permesso gli era stato negato. Voleva sapere come stessero gli altri, voleva vedere i loro volti, uno ad uno, per assicurarsi che tutti fossero ancora interi, nonostante qualche osso spezzato. Era rimasto a letto solo perché le braccia forti di Meh lo avevano trattenuto quando aveva iniziato a minacciare tutti coloro che lo tenevano bloccato lì, senza le cure adeguate, assicurandosi solo restassero in vita. Il principio di una deformazione professionale? Probabilmente. La verità è che non riusciva a starsene con le mani in mano, per questo coinvolse i suoi amici in un piccolo compromesso: loro gli dicevano cosa avessero gli altri, le torture che avevano subito, e Hunter suggeriva ai Losers cosa fare per alleviare il dolore degli altri studenti, usando più o meno la magia - con discrezione per non dare il via a un nuovo ciclo di incontri con la Queen -. Ovviamente, Halley lo sorvegliava a vista. Non si era spostata di un centimetro, mantenendo la posizione al suo fianco e controllando ogni suo movimento. Finse di non notare il tremore delle dita sottili quando gli controllava la ferita o quando gli sistemava i cuscini, quando gli avvicinava un libro o sistemava i piccoli pensierini che gli altri avevano lasciato sul suo comodino. Era spenta, quasi pacata. Erano quelli i momenti di quiete che precedevano le più grandi delle tempeste, che non facevano altro che annunciare una catastrofe. Non poteva parlarle, non tra quelle mura traditrici, che al posto di proteggerli li gettavano in pasto ai leoni, ma le avrebbe raccontato ogni cosa quando sarebbero stati davvero al sicuro.
    Tuttavia, prima che si addormentasse al suo fianco, le aveva chiesto un piccolo favore. Aveva sentito tante, troppe voci quel giorno - specialmente di quelle due drama queen conosciute come JJ e Charlie, li capiva, eh! Ma li voleva anche silenziare -, tranne una. C’era un tarlo che lo tormentava dal leggero sussulto di Nicky quando aveva pronunciato il suo nome. Non riusciva a pensare che ci fosse qualcosa che gli altri gli stavano nascondendo e questo stava solo a significare che non si trattava di qualche osso rotto o di qualche taglio che faceva fatica a rimarginarsi, né tantomeno solo di un volto tumefatto.
    Non si erano lasciati nel migliore dei modi, non sapeva se per un fraintendimento o se fossero solo troppo diversi per poter anche solo immaginare di avere un punto di contatto, una leggera connessione. Chiuse le palpebre, trattenendo il respiro, quando si liberò dalla presa della sorella addormentata, troppo stanca per poter anche solo percepire il suo movimento. Stava facendo una cazzata? Sicuramente. Ne era consapevole? Ovviamente.
    Si mise a sedere a bordo del letto, i piedi nudi che sfioravano la fredda pietra del pavimento alla ricerca dello zainetto che Halley aveva sempre con sé. Lo appellò poco prima di alzarsi e… barcollò leggermente, rischiando di cadere sulla sedia accanto a lui o, peggio, sulla Grifondoro addormentata. Portò una mano sul ventre, mentre con l’altra si reggeva al separè, aiutandosi a muovere i primi passi verso il lettino alla sua sinistra. Si sentiva debole, spossato, la testa che stava iniziando a vorticare pericolosamente a causa di tutto quello sforzo. Erano passi piccoli e si sentì quasi fortunato nel sapere che la distanza da percorrere non fosse poi così lunga. Si fermò qualche istante ai piedi del letto accanto al suo, osservando la figura che ci giaceva sopra, paralizzato.
    Oh no.
    Si avvicinò alla poltroncina accanto a lui, le gambe che iniziarono a tradirlo, tremando pericolosamente. Non sapeva se per lo shock o per essersi affaticato per giungere fin lì. Passò una mano tra i capelli, prima di abbandonarla sul materasso, le dita che sfioravano leggere quelle del bendate del Grifondoro.
    Aprì lo zainetto, sistemando sul comodino del ragazzo garze pulite e boccette di dittamo, prima di rivolgere la sua attenzione al corpo fasciato del Dallaire.
    Bruciature gli avevano detto.
    Non avevano specificato il grado di ustione.
    Lo hanno interrogato, lo avevano aggiornato, mostrandogli il volto tumefatto che doveva servire come monito per allontanarsi dalla Resistenza e che non faceva altro che ricordargli quanto quella versione fosse sbagliata, quanto quella non fosse altro che l’ennesima menzogna del Regime.
    Passò una mano sul volto del Dallaire, assicurandosi respirasse ancora - meglio esserne sicuri - e si abbandonò sulla seduta, le iridi azzurre puntate sul viso di Viktor, le sopracciglia aggrottate per la preoccupazione.
    Sperava di poter agire nell’ombra, senza che neanche il ragazzo se ne accorgesse, di dargli un po’ di sollievo applicando del dittamo sulle ferite più superficiali, ma non aveva messo in conto che avrebbe potuto trattarsi di una parte piuttosto estesa del corpo, che rischiava la presenza di flitteni da ustione, che avrebbe dovuto chiedergli di spogliarsi, che probabilmente Hunter in primis non avrebbe retto lo sforzo di essere in piedi per troppo tempo, che la sua ferita avrebbe potuto riprendere a sanguinare a momenti o, peggio, sua sorella avrebbe potuto percepire la sua assenza.
    Eppure, pur di fargli capire che non gli aveva voltato le spalle - non completamente, almeno -, aveva deciso di prendersi personalmente cura di lui. Erano come sottilissimi vetri, la cui minima crepa avrebbe rischiato di mandarli in frantumi. Per Viktor, però, forse valeva davvero la pena correre il rischio di essere beccati.
    “Hey, sono io… Hunter.” Sussurrò avvicinandosi al Dallaire. Certo, poteva anche passare per un maniaco che andava a svegliare la gente durante la notte per somministrare cure clandestine ed espressamente vietate quando non era neanche di turno in infermeria ma… beh, ormai il danno era fatto. “Forse non vuoi sia qui, ma non ti hanno neanche cambiato i bendaggi…” #priorità Arricciò il naso, consapevole della gravità di quella negligenza e ripromettendosi di bacchettare chiunque gli capitasse a tiro se avesse avuto di nuovo l’opportunità di indossare il camice in quell’Infermeria. “Ti prego, permettimi di aiutarti.”
    Se si fosse rifiutato, probabilmente sarebbe comunque rimasto lì, su quella poltroncina. Più che altro perché non sarebbe riuscito a tornare al suo posto, almeno non prima di un quarto d’ora.
    I am not a hero.
    I am a scientist.
    Tortured | Not Found | Kind
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    Hunter
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    Viktor Asmodeus Dallaire
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    Se qualcuno gli avesse chiesto quale parola descrivesse la sua vita avrebbe risposto, senza esitazione, dolore. Spesso si domandava perché il destino (o Dio qualora quest’ultimo esistesse sul serio) si ostinasse a tenerlo in vita, apparentemente solo per il gusto di vederlo sprofondare un passo per volta verso il baratro.
    Quando aveva preso parte alla rivoluzione ideata da Charles aveva messo in conto la possibilità d’essere torturato; uno tra tanti, si era detto. Uno in mezzo alla folla e con le spalle abbastanza larghe da poter sopportare ogni supplizio. Aveva pensato, ingenuamente, di essere abbastanza forte da non urlare alle frustate, ai calci e le pedate della Queen, perché ciò che l’aveva reso Viktor si nascondeva sotto le pieghe della sua pelle, nelle cicatrici sul corpo, nella parte più buia e solitaria della sua mente.
    Ed aveva peccato di superbia, forse, credendo di non essere nulla di più che un alunno in mezzo a tutti gli altri e ne aveva pagato le conseguenze.

    Rendersi conto della mancanza di Charles era stato un pugno nello stomaco.
    Per quanto il cugino l’avesse trascinato via da quella sala, guardandolo negli occhi e chiedendogli di fidarsi di lui, il vuoto sulla sedia destinata ai traditori era un peso che gli gravava nel petto come un macigno.
    Era solo.
    Né Mortimer, né il Dumont erano lì a sostenerlo; aveva paura delle lame, delle Maledizioni Senza Perdono, ma ancora di più dell’idea di dover soffrire.
    Avrebbe voluto un abbraccio, ma allo stesso tempo non desiderava altro che la solitudine; avrebbe voluto un bacio, ma le sue labbra erano così serrate da tingersi di viola. Era così stanco da non avere la forza di combattere, né per sé stesso, né per nessun altro.
    Aveva atteso il suo turno come un condannato a morte attendeva il patibolo, nella consapevolezza che non avrebbe ricevuto sconti; ma non avrebbe mai pensato che la sorte più ignobile sarebbe stata la sua.

    All’inizio, quando avevano chiamato il suo nome, era rimasto paralizzato sulla sedia. Le domande a corrodergli la mente come veleno, poiché in quegli anni ad Hogwarts non aveva mai messo piede nella Sala delle Torture e se n’era tenuto bene alla larga, per evitare di dover ascoltare i lamenti e le preghiere degli altri studenti. Aveva fatto finta che non esistesse, che fosse normale e che andasse bene essere puniti, purché non fosse lui a dover patire. Era stato sempre egoista e cinico, ma mai crudele.
    Aveva dovuto trovare le forze per alzarsi da quella sedia, con le mani tremanti e il viso pallido come un lenzuolo.

    A differenza della mente di Hunter, in grado di sopire i ricordi e lo shock, lui ricordava tutto, come se il proprio cervello fosse così assuefatto dall’idea del dolore da non essere più in grado di nasconderlo.
    La professoressa l’aveva dapprima fatto spogliare e legare al centro della Sala, le catene spesse e pesanti a tintinnare sul pavimento lercio di sangue rappreso, che se solo avesse avuto un minimo di rigurgito, avrebbe coperto con il proprio vomito. Era nauseante, così come l’odore ferroso ad impregnargli le narici.
    Erano stati attimi, prima che la Queen lo Cruciasse ripetutamente, godendo forse delle sue urla e delle sue lacrime; l’umiliazione d’essere ridotto ad un verme rantolante era stata cocente sulla pelle.
    Mai quanto il seguito, invero.

    Essere il parente prossimo e più caro del traditore aveva dovuto far credere ai piani alti che si meritasse una pena brutale. Perché afferrarlo per i capelli corvini e tirarlo fino ad un calderone colmo di liquido bollente, presumibilmente magico, e versarglielo addosso non era umano. Non era umano ridere delle sue urla disperate, del sangue a colare da ogni angolo del corpo maciullato, né vedere la pelle liquefarsi e ustionarsi rovinandolo per sempre.
    Avrebbe preferito morire.
    Sarebbe stato meglio avere una lama piantata nel petto e farla finita una volta per tutte. Nei momenti di panico, si chiedeva se Mephistophele avrebbe alzato un dito per impedire che gli facessero del male, se come fratello potesse tollerare un simile oltraggio.
    Se valesse la pena prendersela con un ragazzino e rovinargli la vita.
    Poi si ricordava che Mephisto l’aveva accoltellato a morte, che gli aveva voltato le spalle quando delle mani viscide avevano approfittato di un bambino inerme facendogli capire fin troppo presto che fosse solo un corpo e che l’uomo fosse una creatura debole; poi pensava a Charles cieco di fronte alla depressione e ai tentativi di mettere fine ad una vita che non aveva niente di bello per essere chiamata tale, eppure lo amava come un fratello e avrebbe ripetuto ogni pena pur di saperlo al sicuro; o di Mortimer lontano da lui ed in perenne fuga, le sue braccia unico rifugio che aveva trovato anni addietro e che in quel momento mancavano. E allora realizzava di essere solo e che nessuno l’avrebbe mai salvato.
    E, mentre il liquido dorato colava ancora sulla carne ormai rossa e lucida, qualcosa aveva fatto crack.

    Il giorno seguente aveva avuto la febbre e l’avevano interrogato.
    Il suo sguardo era così spento da far dubitare che fosse ancora vivo o che non si trattasse di un fantasma appena più tangibile. Aveva percepito le torture come l’acqua sulla pelle, ma piuttosto che disperarsi aveva iniziato a ridere istericamente gridando “uccidetemi, uccidetemi”. Aveva sentito l’ennesimo crack.
    Le domande erano state insistenti e pressanti, riguardanti Charles. “Dove si trova” o “Cosa ti ha confessato prima di andare via”, ma le sue labbra erano rimaste sigillate.
    Non aveva risposto, piuttosto aveva sputato sangue e sorriso ai suoi aguzzini.
    Il Dumont era scappato, ma lui non l’avrebbe tradito.

    Era stato proibito a chiunque di curarsi magicamente, il che era stata l’idea peggiore che il Regime avesse mai partorito. L’infermeria era piena, ma era troppo intontito dalla febbre e dai deliri per riuscire a comprendere la gravità della situazione. Le ustioni sembravano peggiorare di giorno in giorno, lasciandogli solchi profondi sulle braccia, nel petto e nelle gambe. La guancia destra e parte del collo bruciavano come lava colata; non aveva idea di chi fossero state le mani a denudarlo e bendarlo, a poggiarlo sul letto e tirare le tende, silenziando il suo spazio per timore che i lamenti svegliassero gli altri malati. Oh, beati loro.
    Avrebbe pagato qualsiasi prezzo per avere le ossa rotte, piuttosto che delle deformazioni sul corpo.

    La febbre era gradualmente scemata, ma mai del tutto sparita, forse a causa delle infezioni. Se ne avesse avuto le forze, avrebbe spalancato le finestre e si sarebbe buttato di sotto, perché lo schianto netto sulla pietra dura sarebbe stato un sollievo rispetto alle pene che stava subendo.
    Era… come ubriaco.
    Di tanto in tanto rideva, altre volte piangeva, addirittura spesso faceva entrambe le cose insieme; era arrivato ad un punto di rottura.

    -----

    La mano sul viso lo fa sobbalzare così violentemente da causargli un singulto carico di dolore, ma spalanca le palpebre terrorizzato. La delusione del non avere Charles vicino scema fino a tramutarsi in stupore, poi in un gracchiante «Hunter» e nelle labbra che si stringono nello sforzo di non piangere. «Ti prego, permettimi di aiutarti.» avrebbe voluto gridare. Dirgli di sparire dalla sua vista, perché non aveva dimenticato il tono perentorio nella voce dell’Oakes mentre gli diceva «Non ti permettere, Dallaire» quasi che avesse a che fare con un criminale, senza capire il significato dietro alle sue parole. Non si era scordato degli occhi carichi di delusione, delle iridi azzurre a vagare per la sala, né delle labbra strette in disappunto. Avrebbe voluto dirgli che quella sua gentilezza, ormai, non servisse a niente perché erano riusciti a distruggerlo, ma nessun altro era stato tanto vicino in quei giorni e la preoccupazione sembrava sincera mentre con fatica si era tirato su dal letto solo per vederlo.

    «Ah, aiutarmi» con sforzo, si aggrappa alle lenzuola per mettersi a sedere, scoprendosi e mostrandosi senza pudore; le bende gli fasciavano tutto il corpo, ormai impregnate di dittamo e di sangue. Figurarsi… nessuno gliele avrebbe mai cambiate; d’altronde non era forse il cugino di Charles? Nessuno voleva rogne, né essere associato a loro. Avrebbe dovuto imparare ad utilizzare le garze «aprimi la finestra, pasticcino. Così posso buttarmi giù.» soffia una risata inquietante, prima di serrare gli occhi e gemere di dolore. Ogni punto della pelle tirava e si stracciava, ormai rovinata. Per quanto il tono fosse velato da ilarità, era chiara la rottura.

    Deglutisce, respirando tremulo; a dispetto delle parole, le dita si avvicinano a quelle dell’Oakes. Un contatto, un “ti prego, non mi lasciare” sottinteso.
    «Vai a letto, piccolo infermiere, devi guarire. I bravi bambini a quest’ora dormono» accenna appena un sorriso. A tradirlo, solo le iridi azzurre più liquide e le occhiaie violacee «e non stanno a prendersi cura delle cose rotte» stringe i denti per un istante, cercando di schiarirsi la voce «e rovinate» mormora, abbassando poi lo sguardo sulla propria mano, vicina a quella appena graffiata del compagno. Viste così sembravano la rappresentazione fisica della loro diversità; eppure, nonostante tutto, averlo accanto era… «Non ne vale la pena, mon chéri.» era tutto.

    17 y.o. | Gryffindor
    Broken | Tortured
    I became insane,
    with long intervals
    of horrible sanity.
    I should never be left alone with my mind for too long.
     
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    Non voleva spaventarlo. Non voleva fargli del male. Non voleva si facesse del male. Avrebbe voluto dirgli di far piano, di non fare movimenti avventati, di evitare qualsiasi cosa potesse peggiorare la sua situazione, arrecandogli ulteriore dolore. Sebbene fossero queste le sue intenzioni, le parole gli morirono in gola davanti a quel sussulto terrorizzato, al sentire il suo nome pronunciato in quel modo così distorto. Non gli chiese se stesse bene, se necessitasse di aiuto, se avesse bisogno di qualcosa perché la risposta era lì, davanti ai suoi occhi, in tutto il suo dannato splendore.
    Non fece in tempo a sporsi in avanti, ad aiutarlo mentre si metteva a sedere, i riflessi troppo lenti anche solo per nascondere l’espressione sconvolta quando le lenzuola scoprirono il corpo ferito e fasciato del Grifondoro.
    Era sorpreso, Hunter, e non in senso positivo. Non quando era a conoscenza del fatto che ciò che avevano subito gli altri, ciò che aveva subito lui stesso, era niente in confronto a quello che avevano fatto al Dallaire. Non chiuse gli occhi davanti alla visione di quel corpo martoriato, non indietreggiò, non mosse un muscolo. Si limitò a osservarlo, la mente già operativa. Gli occhi scivolarono sulle bende più o meno insanguinate, processando già le azioni che avrebbe dovuto compiere. Il distacco emotivo, in una circostanza simile, era tutto ciò che gli serviva per poter pensare, per rendersi veramente utile in quella situazione. Ma, c’era sempre un ma, per quanto volesse essere in quel momento un automa, svolgere il suo lavoro come una macchina e lasciare le questioni personali in secondo piano, l’Oakes era pur sempre umano. Vulnerabile. Le parole del ragazzo lo colpirono come fendenti e anche solo l’idea di perderlo in maniera definitiva ebbe su di lui l’effetto di un pugno all’altezza della bocca dello stomaco, di quelli che tolgono il respiro.
    “Non… non dire così.” Sollevò appena lo sguardo cerchiato, le orecchie impregnate di quella risata vuota, il cui dolore era diventato quasi assordante. “Non dirlo neanche per scherzo.”
    Non dirlo. perché vali molto di più di quanto tu sia disposto a credere.
    Non dirlo. Perché meriti una seconda, terza, settima, ennesima opportunità.
    Non dirlo. Perché hai sicuramente sogni e speranze da realizzare, per quanto ora sia difficile ricordarsene, per quanto tu possa credere sia tutto perduto.
    Non dirlo. Perché nessuno potrà mai essere come te. Nessuno potrà mai essere in grado di sorridere con malizia e, contemporaneamente, avere lo sguardo di una trasparenza disarmante.
    Non dirlo. Perché per me sei importante.
    Non dirlo. Punto.
    Non era ancora disposto a perdere qualcun altro, Hunter. Forse non lo sarebbe mai stato del tutto. Al Grifondoro era bastato poco, pochissimo, per fare la differenza nella sua vita. Gli era bastato ascoltarlo, senza giudicarlo. Gli era bastato essere lì, davanti a lui, e fargli credere che tutto sarebbe davvero andato per il verso giusto.
    Non lo aveva ancora ringraziato, non abbastanza, e forse non sarebbe mai riuscito a sdebitarsi davvero nei confronti del Dallaire, ma se gli avesse chiesto di aprire una finestra, lo avrebbe fatto. No, non per assecondare quel desiderio suicida, quanto per mostrargli un panorama mozzafiato, un mondo ricco di prospettive e che aveva ancora bisogno di lui. Hunter aveva ancora bisogno di lui, di averlo al suo fianco, di essere suo amico.
    Sentì il contatto ruvido della stoffa con le sue dita, quella muta richiesta che riecheggiava nella stanza. Sorrise appena, maledicendo mentalmente quell’orgoglio tipicamente Grifondoro che contraddistingueva i piccoli seguaci di Godric. Mosse piano la mano, una carezza leggera che andava a sfiorare quella del Dallare, avvolgendola con la propria.
    Non lo avrebbe più lasciato indietro, anche a costo di schiantarlo e caricarlo sulle spalle sottili, riservandogli lo stesso trattamento di Halley. Non poteva far tornare indietro le lancette, non poteva cancellare dalla sua memoria gli eventi passati, lo sguardo deluso che gli aveva riservato in Sala Torture, non poteva ritrattare le parole dette e il tono usato, ma poteva provare a comprendere il comportamento del compagno. Poteva mettersi nei suoi panni e rendersi conto che aveva sbagliato a giudicarlo. Poteva sempre chiedere Scusa perché sapeva di aver sbagliato, di aver giudicato quella situazione troppo in fretta. Perché in fondo entrambi erano simili quando si trattava di mettere gli altri al primo posto, soprattutto quando si trattava dei membri della propria famiglia, arrivando al punto di rischiare tutto per loro. Se Hunter aveva Halley, Viktor aveva Charles e lui lo aveva capito troppo tardi.
    Voleva abbracciarlo. Voleva stringere quel corpo rotto e rovinato fino a tenerne in piedi tutti i cocci, il più a lungo possibile. Voleva dirgli che avrebbero superato ogni cosa, ma Hunter non faceva promesse vane. Non poteva dire con certezza se, un giorno, si sarebbero ripresi del tutto, non credeva di essere abbastanza forte per sorreggere entrambi.
    “A quanto pare sono nella lista dei naughty boys adesso; non vedevo l’ora di godere di tutti i vantaggi. scherzò, lasciando andare la mano del Dallaire per provare ad alzarsi in piedi, sistemandosi al meglio per poter avere un ampio margine di lavoro e, nello stesso tempo, provare a muoversi il meno possibile per non riaprire la ferita.
    “Quindi non solo resto sveglio, ma mi prendo anche cura di te. Non sono il solo a dover guarire.” Rispedì le parole al mittente, la bozza di un sorriso sulle labbra. Viktor gli aveva dato il permesso di medicarlo, ma non quello di poter scherzare con lui come se niente fosse, dimenticando tutto quello che era successo. Non si sentì di rischiare, non quando aveva appena fatto un passo nella sua direzione.
    Igienizzò le mani e infilò i guanti dopo aver riempito una delle bacinelle che aveva appena evocato con l’essenza di dittamo, mettendoci a bagno delle garze sterilizzate. Evocò le pinze, il rotolo di cotone pressato e iniziò a scoprire le gambe del Grifondoro, liberandole da quel bendaggio che doveva essere cambiato molto tempo prima.
    “Non potendo usare la magia per curare le ferite, dovremmo ricorrere alla medicina babbana. Sarà un percorso più lento, le ferite ci metteranno di più a sanare, ma almeno avremo la certezza di star arginando eventuali infezioni ed eviteremo la presenza di fitteni o, peggio, che le piaghe peggiorino. Non potrai muoverti per un po’ di tempo e sono uno dei rischi che dobbiamo evitare.”
    Si muoveva piano, Hunter, e con delicatezza. La mano era ferma, gli occhi vigili per cercare di leggere quel corpo distrutto nonostante la fioca luce della luna. Spiegava ogni cosa, ogni passaggio, anche il più piccolo. Non era per sfoggio di erudizione, quanto un modo per calmare e informare quello che era diventato, a tutti gli effetti, un suo paziente. Aveva utilizzato una soluzione antisettica a base di iodopovidone per curare le infezioni, poi anestetici con benzocodaina per le ustioni minori e unguenti per la cicatrizzazione delle piaghe. Riempiva i silenzi con parole che probabilmente solo lui avrebbe capito e con il leggero fruscio dei suoi gesti. Castò un Ferula sugli arti inferiori e aiutò Viktor ad alzare leggermente il bacino, lasciando che le bende lo avvolgessero anche lì prima di farlo stendere nuovamente. Si mise in piedi per sistemargli il lenzuolo sulle gambe, avendo prima l’accortezza di pulirlo con un incantesimo. Avrebbe voluto prendere un nuovo set per rifare completamente il letto del Grifondoro, ma sentiva le forze iniziare a venir pian piano meno.
    Passò al busto, alle braccia e si interruppe un attimo solo prima di passare alla schiena, asciugando con la manica la fronte imperlata di sudore. Provò a non farsi vedere, mentre di spalle a Viktor si controllava la ferita, l’ultima cosa che voleva era che si aprisse davanti a lui, costringendolo a tornare al suo posto per chiedere un aiuto alla sorella.
    Tornò a sedersi sul letto, avvicinando a sé il comodino, invitando il Dallaire a farsi in avanti per consentirgli una visuale maggiore. Fasciò la zona addominale, il busto e la schiena dopo le medicazioni e solo in quel momento si rese conto di quanto fossero vicini, del respiro caldo di Viktor, del leggero sentore del suo profumo, nonostante tutti i prodotti che stava applicando sul suo corpo. Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse fragile tra le sue dita. Solo in quel momento si rese conto che aveva paura di ferirlo.
    Gli passò una mano tra i capelli con delicatezza, accertandosi così che non avesse altre ferite, mentre con l’altra gli sistemava i cuscini dietro la schiena. Lo aiutò a poggiarsi lì con la schiena, e iniziò a congelare delle garze che avrebbe applicato su quel viso gonfio e pesto.
    “Per ora dobbiamo accontentarci di un po’ di ghiaccio, non possiamo far sparire i lividi dal volto. Tuttavia, possiamo farli sgonfiare e renderli meno dolorosi. Qui sto lasciando degli anti-infiammatori e anti-dolorifici. Quando torneremo per le vacanze, voglio ti faccia vedere da uno specialista. Da qualcuno più bravo di me. Devi farti curare Viktor… Non sei rotto, né rovinato; hai solo bisogno di aiuto.” Sia fisicamente, che psicologicamente, ma ancora non si sentiva abbastanza sicuro di voler infierire anche con quell’aspetto. “Se ti dovesse servire qualcosa, qualsiasi cosa, puoi sempre mandare un gufo. A me, ad Halley, a Nicky o ai gemelli.”
    Poggiò una mano sulla guancia del Grifondoro, facendo attenzione a non fare alcuna pressione sui punti più dolorosi, sperando non allontanasse il volto a quel contatto.
    “Ne vale la pena Vik.” Mosse il pollice lentamente, accarezzandone lo zigomo pronunciato. Per te, "ne vale sempre la pena."
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    Viktor Asmodeus Dallaire
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    «Non… non dire così. Non dirlo neanche per scherzo.»

    C’erano volte in cui dimenticava che le persone comuni, quelle buone, quelle sane, non volessero sentirsi dire frasi tanto disturbanti.
    Era stato sempre così bravo nel mentire, nell’impedire nella maniera più assoluta che le persone si avvicinassero rischiando di ferirlo o, peggio, di scoprire quanto vuoto ci fosse nel suo cuore. Perché era inutile negarlo: era arido. Arido come Mephisto e Yves, con un animo forgiato dalle ingiustizie e dalle prepotenze, che non aveva mai ricevuto una carezza se non per umiliarlo. Non sapeva amare e non aveva idea di come iniziare a farlo e quell’unica scintilla che c’era stata tra lui e Hunter gli incuteva terrore. Uno di quelli difficili da elaborare e da trattare, che lo costringeva a ritrarsi per non rimanerne scottato; al contempo, l’idea di essere ancora in grado di provare qualcosa era confortante e lo faceva apparire meno orribile dei suoi due fratelli.
    La dinastia dei Dallaire portava solo sventura e chiunque vi si trovasse invischiato finiva con il patirne le conseguenze; una maledizione, avrebbe detto, che aleggiava sulla sua testa come una scure pronta a calare sul collo, tranciandolo di netto. E quella lama doveva aver tagliato qualcosa, se non il capo, forse la sua anima. L’aveva dilaniata e ricucita così tante volte che forse il filo a tenerla unita aveva finito con lo spezzarsi definitivamente. Si sentiva lacerato, con la mente spaccata a metà e con la lucidità altalenante. Cosa ci facesse lì Hunter era un mistero: non gli doveva niente, l’Oakes. Non aveva fatto altro che essere il solito Viktor, capace di ascoltare ma incapace di raccontarsi. Era stato paziente, non aveva riso alle confessioni del coetaneo, perché capiva quanto il mondo potesse essere crudele e quanto avrebbe sofferto nel ricevere l’ennesimo rifiuto. L’aveva baciato perché ne era rimasto folgorato e lo era tutt’ora, rotto e malandato, ma ancora terribilmente perso in quello sguardo preoccupato, intelligente; la mente di Hunter viaggiava come un treno, provava a razionalizzare, ma tutto ciò che leggeva in quegli occhi era sgomento. No, non disgusto, solo… genuina sorpresa.

    Tutto quello che poteva fare era concedergli pietà.
    Per questo, con sforzo, gli rivolge un sorriso. Non bello, non attraente o malizioso, solo… un lieve movimento delle labbra. Ed era piacevole sentire quella mano stretta nella propria a ricordargli che qualcuno, in quel Castello, volesse il suo bene.
    «Ah… è stato uno slancio poetico. Non badare alle mie parole» di poetico non aveva nulla il desiderio che da anni l’accompagnava, quello di mettere fine alla propria vita come il codardo che era. Non c’era più alcuna testimonianza dei segni a solcargli la pelle, delle notti passate a piangere e maledirsi per la propria incapacità, per quel maledetto istinto che lo privava persino di scegliere se morire o meno. Poteva considerarla fortuna, quella di aver sostituito i tagli con dei solchi; non avrebbe dovuto più spiegare nulla, non avrebbe ricevuto domande inopportune. Forse avrebbe potuto fare un vanto di quelle ustioni, raccontando storie mirabolanti su come se l’era procurate.

    Ma a chi voleva darla a bere
    .
    Era un pupazzo logoro e dimenticato, un pezzo che non valeva i soldi spesi. La sicurezza del suo aspetto era stata l’unica che l’aveva tenuto buono per un po’ e adesso non aveva nemmeno quella, sostituita dalla consapevolezza di non avere niente se non un paio di occhi azzurri velati di dolore. Ora, quel malessere era visibile, ora non sapeva come fare per nasconderlo e, se sommato a tutto il resto, lo faceva sentire nudo.

    In un altro contesto avrebbe riso alle parole dell’Oakes. L’avrebbe preso in giro, si sarebbe sporto persino per baciarlo, perché era quello che sapeva fare meglio e che desiderava. Si sarebbe comportato da stupido, per poi finire a parlare di quella scienza che l’altro tanto amava e che lo affascinava; si sarebbe messo seduto sul letto e lo avrebbe ascoltato per ore, perché il suono della sua voce era uno spazio sicuro e lo faceva stare bene, lo faceva sentire vivo e desideroso di potergli stare accanto. Perché Hunter l’aveva rapito con quella stupida domanda posta con ingenuità, ma che era riuscita a sorprenderlo; il caso, il destino era imprevedibile. Forse fin troppo.

    «Hunter…» scuote il capo, convinto più che mai di volerlo fermare. Ma l’avrebbe ascoltato? Certo che no. Era un testardo, un maledetto Corvonero incapace di tenere le mani nelle tasche dei pantaloni, cocciuto tanto quanto la sorella di cui si lamentava. Erano fatti della stessa pasta, lui e Halley, che gli piacesse o meno. E saperlo sofferente gli faceva male. Male da spezzargli il cuore o quello che ne era rimasto.

    Si limita quindi ad osservarlo, impotente; il più piccolo movimento era come un’altra tortura ed era certo di poter sentire la pelle tirare, spaccarsi, bruciare come se nuovamente vi fosse stato versato del liquido sopra. Hunter era bravo, di una bravura che non aveva mai messo in dubbio.
    Ed era inflessibile, concentrato, attento a non arrecargli altre fitte. Parlava per tenere la mente impegnata, per non dover ragionare troppo sulle implicazioni di quello che stava facendo, perché curandolo si stava tacitamente scusando, mettendo da parte le loro diatribe per venirgli incontro.
    E gli veniva da piangere e trattenersi diventava sempre più difficile. Non erano le ustioni a fargli pizzicare gli occhi, né le bende appiccicate alla pelle difficili da togliere, né le ferite superficiali a pulsare per via del dittamo. La gratitudine, era quella. La maledetta che si era insinuata dentro lo stomaco fino a fargli desiderare d’avvolgere le braccia intorno al collo dell’altro per stringerlo a sé e sussurrargli un “grazie” carico di mille sottintesi.
    Era solo, lì, senza un’anima che gli tenesse la mano. Senza nessuno che si degnasse di chiedergli “Viktor, stai bene?”. Perché no! No! Non stava bene e non lo sarebbe stato mai più, perché ogni cosa bruciava, ogni cosa cadeva e si inabissava fino a sparire alla vista. E la sua mente si sgretolava e il suo cuore cercava disperatamente di non farlo perché c’era qualcuno per cui valesse la pena tenerlo.
    C’era qualcuno per cui valeva la pena restare.

    Era consapevole della vicinanza di Hunter, forse anche troppo. Le dita a sfiorargli le parti lese bruciavano come lava, ma allo stesso tempo erano un sollievo. Avrebbe voluto che quelle mani l’avessero toccato prima, quando ancora poteva e voleva che lo sfiorassero, quando era macchiato, sì, ma non così irrimediabilmente. Cosa poteva offrire a Hunter? Cosa poteva dargli? Non c’era più bellezza, né spirito, né intraprendenza. Non aveva più senso nemmeno tenerlo nel cuore.
    La mano tra i capelli lo fa sospirare dal naso e per quanto stesse cercando di evitarlo, un brivido gli fa stringere lo stomaco. Le mani dell’Oakes bruciavano sulla pelle più delle ustioni.

    «Se ti dovesse servire qualcosa, qualsiasi cosa, puoi sempre mandare un gufo. A me, ad Halley, a Nicky o ai gemelli» in un altro contesto, quelle parole, l’avrebbero commosso. Probabilmente gli avrebbe rivolto il suo solito sorriso sbieco senza aggiungere nulla, eppure quella volta non era così semplice. Il fatto era che nessuna delle persone elencate da Hunter gli aveva fatto visita; a nessuno di loro era importato del suo destino o di come stesse. Non li biasimava, anzi, li capiva. Perfettamente. D’altronde era stato sempre il primo ad infischiarsene, ponendosi al primo posto su tutti, evitando di stringere legami duraturi, incapace di andare al di là delle proprie paure. Tutti gli facevano terrore, nessuno escluso: era solo bravo a fingere che andasse bene. Che le parole e le chiacchiere fossero il suo pane quotidiano, che stare in mezzo alla folla non lo turbasse, che la malizia fosse in qualche modo parte di sé. Ogni singola cosa era distorta e plasmata in modo da costruirsi un’immagine e nessuno, nemmeno Charles, aveva mai avuto modo di capire fino a che punto si fosse spinto per costruire quel muro alto e spesso che serviva per rimanere al sicuro.
    Alla fine, nonostante gli sforzi, era finito per lasciare una crepa nel quale Hunter si era introdotto con prepotenza, quasi a voler sfidare quell’enigma che era diventato. Magari, al coetaneo, piacevano e la sfida lo intrigava. O forse, più probabilmente, non si era reso conto con chi avesse a che fare.
    Non c’era da biasimare gli altri, dunque, se non fossero venuti al suo capezzale; o almeno, da che ne sapesse, visto che aveva passato i giorni successivi alla pena a rantolare e urlare di dolore.
    Quindi era logico pensare che non avrebbe mai chiesto aiuto. Era orgoglioso e testardo, in più dubitava che ci fosse qualcosa da recuperare tra i cocci di vetro che formavano la sua integrità.

    «Ne vale la pena Vik, ne vale sempre la pena.»

    Non voleva stare disteso, perché la schiena doleva e non poteva sfuggire allo sguardo dell’altro. Non poteva impedire alle lacrime di rigargli il volto. Odiava quella situazione, il suo essere ormai troppo in là per credere che per l’Oakes valesse ancora qualcosa.
    Non ne valeva la pena. Lui non valeva mai la pena.
    Charles l’aveva dimostrato egregiamente lasciandolo a morire, scappando via con Iden e rifugiandosi chissà dove. Un estraneo, invece, era lì ad aiutarlo. Perché, poi? Per potergli dire “te l’avevo detto?”, per rinfacciargli quanto accaduto? No, Hunter non lo avrebbe mai fatto. Eppure, in un angolo della sua coscienza, avrebbe preferito uscire da quella Sala delle Torture, lavarsene le mani come aveva sempre fatto e vivere, se non serenamente, decentemente. Si sarebbe risparmiato la solitudine, l’umiliazione, il rimpianto. Il voler bene senza ritorno alcuno ed un altro sguardo perentorio, deluso.
    Ma il Dumont era la sua famiglia, suo fratello e per lui sarebbe morto certo volte, incurante di essere il solo tra i due a pensarla così. Charles era… Charles e l’aveva accettato da tanto tempo.

    «Sei sempre così…» stupidamente «ottimista» la carezza sullo zigomo lo porta a dover chiudere le palpebre e aggrottare le sopracciglia, incapace di trattenersi oltre. Il respiro si spezza e si porta una mano alle labbra, coprendo i singhiozzi. Ah, diamine. Diamine.
    Era riuscito a non piangere fino a quel momento, ma per un misero tocco aveva perso il controllo. Perché quello valeva più di ogni benda a fasciargli le ustioni; dimostrava la dolcezza che non meritava. Il fatto che Hunter non avesse visto il suo corpo con sdegno, ma che si fosse soffermato sulla parte ancora sana, sebbene coperta da lividi... «mi dispiace» snocciola a fatica, lasciando cadere le lacrime copiose sul cuscino «non volevo che ti facessero del male, Hunter. Mi dispiace.» la voce rotta dal pianto, mentre il palmo passa a coprire gli occhi, lasciando intravedere le labbra tremanti, vergognandosi come un ladro.

    Avrebbe dato tutto pur di non vedere la sofferenza nei movimenti di quel ragazzo, quella ferita appena rimarginata a ricordargli il fallimento.

    17 y.o. | Gryffindor
    Broken | Tortured
    I became insane,
    with long intervals
    of horrible sanity.
    I should never be left alone with my mind for too long.
     
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    Hunter non era un supereroe. Non saltava dai tetti, correndo da un isolato all’altro, inseguendo il cattivo di turno. Non era un lenzuolo, sebbene il colorito potesse trarre in inganno, che proteggeva dai demoni e dai mostri notturni che potevano venire a far visita una volta chiusi gli occhi e scivolati tra le braccia di Morfeo. Non era un gladiatore, non aveva una scintillante armatura, non combatteva le bestie feroci. Non era un giustiziere che agiva come un’ombra nella notte. Non sollevava automobili, non picchiava duro, non aveva lo sguardo di chi sapeva di poter essere temuto. Hunter aveva solo una bacchetta, un’intelligenza acuta e una conoscenza abbastanza vasta, e soprattutto teorica, di quel mondo e che gli permetteva di compiere sempre delle scelte ponderate. Di fare la cosa giusta, nonostante potesse essere quella più difficile. Non esistevano scorciatoie, non in quella testa fatta di tesi, antitesi e risultati. Non quando per avere la certezza matematica poteva arrivare a svolgere una serie infinita di calcoli, quando percorreva ipoteticamente ogni strada e percorso possibile prima di giungere a un determinato input, a una possibile soluzione.
    Hunter, per questo motivo, non era un ottimista. Si concentrava sui lati positivi, alla costante ricerca, anche nelle situazioni peggiori, di qualcosa di buono, di un vantaggio da poter sfruttare a proprio favore e da utilizzare come punto di partenza di un nuovo modus operandi, che gli potesse far vedere ogni cosa da un altro punto di vista. Poteva passare per un ragazzo previdente e calcolatore, per il nerd che viveva con la testa tra i libri e leggermente sconnesso dalla realtà. Era l’outsider, quello preferiva tacere e ascoltare in silenzio, piuttosto che dire una cosa stupida o fare una mossa azzardata.
    Scosse leggermente la testa, il volto parzialmente illuminato da quel mezzo sorriso di diniego che mostrava quanto poco si sentisse descritto da quell’aggettivo appena pronunciato. Non se lo sentiva cucito addosso, non era parte di lui; così come era consapevole che neanche il suo opposto, l’essere pessimista, potesse essergli attribuito. Si sentiva più termodinamico, ancorato a quei principi fatti di scambi e di equilibri, alla certezza che a ogni azione corrispondeva sempre una effetto pari e contrario ad essa. Hunter si concentrava su quelle conseguenze, su quella percentuale di rischio calcolato, che poteva permettergli una previsione quasi certa di ciò che sarebbe potuto accadere. E, per uno che utilizzava i dati fornitigli dall’ambiente circostante per anticipare o intuire le mosse e le azioni di coloro con cui interagiva, fu difficile metabolizzare la reazione del Grifondoro, del tutto inaspettata.
    Il Corvonero non era abituato alle lacrime, a quelle degli altri, almeno. E come avrebbe potuto? Tutte le volte che, sprezzante del pericolo, Halley si faceva male, imprecava un po’, urlava insulti a destra e a manca, si ostinava a rimettersi in piedi, lo fulminava con lo sguardo qualora avesse commesso l’errore di sottovalutare l’entità del danno subito, lanciava altri improperi e, solo alla fine, si decideva ad ascoltarlo e andare al San Mungo, o in Infermeria, permettendo a qualcun altro di aiutarla, di prendersi cura delle sue ferite. Tra i due Oakes, spettava a lui il ruolo di quello con la lacrima facile. Era il bambino che si scioglieva in un pianto disperato quando la bionda distruggeva, per sbaglio, uno dei suoi esperimenti; quando veniva colpito dalla goffaggine e dalla sbadataggine dei gesti energici di lei. Era lui che, ancor prima di imparare a leggere, era stato costretto a cercare un modo per sigillare quella voragine si portava dentro, quel vuoto che rischiava di risucchiare tutte le cose belle che costellavano le sue giornate. Aveva anche imparato che le sue braccia potevano essere un posto sicuro durante le notti buie e tempestose, quando doveva fingere una forza che non aveva per fare da scudo alle paure e agli incubi che impedivano alla più piccola di dormire, rannicchiata contro un petto troppo piccolo per poter essere usato come riparo, eppure abbastanza grande da proteggerla.
    Col tempo, aveva capito che doveva trasformare le lacrime in occhi lucidi. Gli occhi lucidi in silenzi.
    Era lui il fratello maggiore, spettava a lui essere il porto sicuro, nonostante non esistessero manuali sull’argomento, nonostante gli sbagli e gli errori, nonostante gli obblighi, nonostante la Missione, nonostante l’assenza, per Hunter, di punti di riferimento.
    Tuttavia, non tutti erano come sua sorella e, purtroppo, questa era una verità che aveva scoperto da poco, ampliando pian piano le sue conoscenze, arrivando a capire che ogni essere umano poteva contenere un’infinità di sfumature: alcune più visibili, altre più nascoste.
    Il suo palmo era ancora lì, poggiato contro la guancia di Viktor, il movimento delle dita arrestato da quel tremore improvviso. Non credeva ai propri occhi, al calore di quelle lacrime a contatto con la sua pelle. Non avrebbe mai potuto immaginare che dietro gli atteggiamenti eccentrici, flirtuosi e vivaci del Grifondoro si celasse una tale fragilità. Non era consapevole di aver già rotto il Dallaire una volta, né tanto meno di aver valicato un muro quasi insormontabile, di aver fatto breccia in un’armatura che nascondeva un’essenza talmente delicata da fargli provare terrore anche solo al pensiero di sfiorarla. Eppure avrebbe voluto conoscerlo. Conoscerlo davvero. Forse non meritava quel privilegio, forse stava chiedendo troppo; ciò nonostante, ogni volta che interagiva con lui restava affascinato sempre da qualcosa di diverso: da una passione in comune, dalla sua pazienza o da un frammento della sua essenza. Viktor gli aveva già dimostrato, forse inconsciamente, di non essere solo un corpo, di non essere un oggetto da utilizzare all’occorrenza, un giocattolo nuovo da accantonare una volta persa l’attrattiva. Se il Corvonero avesse saputo del suo passato, se fosse venuto a conoscenza del significato di anche solo una di quelle cicatrici che le ustioni avevano cancellato, si sarebbe sentito morire per quella richiesta che gli aveva fatto a cuor leggero, per quella domanda posta con superficialità, per essere stato uno dei tanti, per aver fatto l’errore di sottovalutare il suo passato, per averlo quasi dato per scontato. Il minimo che poteva fare, era provare a restituirgli quella bellezza che gli era stata sottratta con la violenza.
    “Non colpevolizzarti. Non sei tu a dover chiedere scusa.”
    Riprese ad accarezzarlo piano, con l’intento di tranquillizzarlo. Non ce l’aveva con lui, sapeva che il nome del francese non figurava insieme a quello degli artefici di quell’occupazione; non era stato il ragazzo che aveva di fronte ad aver rischiato di mettere a repentaglio la sicurezza e l’incolumità dell’intero corpo studentesco. Per quanto i complici di un reato, per legge, subiscono la stessa pena di chi commette un determinato illecito, il Corvonero non se la sentiva di condannare il Dallaire, non quando, se a ruoli invertiti e in una circostanza simile, avrebbe potuto rischiare di comportarsi esattamente come lui.
    “Se mia sorella fosse stata lì con voi, non so come avrei reagito.” Male, sicuramente. “Continuo a credere sia stata un’idea stupida, ma… non eri lì per te.”
    Non era sua intenzione parlare del Dumont, non in quel momento. Non quando non era ancora abbastanza lucido da poter pensare in modo freddo, distaccato e razionale. Non quando le immagini del corpo dilaniato di Viktor erano ancora vivide nella sua mente e lo sarebbero state anche nelle settimane successive. Non quando il petto del Grifondoro era scosso da singhiozzi e tremiti che non riusciva più a contenere.
    Non sapeva consolare, Hunter, non con le parole; rischiava di essere sempre troppo duro, di far passare messaggi sbagliati o di dire qualcosa di sbagliato. Tuttavia, sapeva abbracciare e non poterlo fare, non poter stringere a sé il coetaneo per paura di fargli del male, era qualcosa che non accettava. Per l’Oakes i fatti valevano molto di più delle parole e non poter agire, non poter dimostrare concretamente che non ce l’avesse con lui, era frustrante.
    Portò un braccio dall’altro lato del letto per darsi l’opportunità di chinarsi in avanti senza piegare troppo il busto, le labbra che cercavano il contatto con la mano che copriva gli occhi del moro. Non poteva costringerlo a guardarlo, a impedirgli di fuggire dal suo sguardo, però poteva sempre fargli sapere di essere lì per lui.
    Si staccò di poco, l’intento di baciare la fronte del francese stroncato da un dolore lancinante e improvviso che lo aveva spaccato in due, trapassandolo da parte a parte.
    Cazzo “Oh no.”
    La forza dell’arto superiore venne quasi meno, il tremito che lo aveva scosso minacciava di farlo sbilanciare e cadere sul corpo disteso sotto di lui. Poggiò la fronte su quella del francese, il respiro spezzato da quella fitta che gli faceva prospettare il peggio, le palpebre serrate per la paura di quello che avrebbe potuto vedere se solo avesse scorto una goccia di sangue a macchiargli i vestiti uscire da quella ferita che faceva fatica a guarire.
    Non poteva essersi riaperta.
    Non doveva essersi riaperta.
    Non in quel momento.
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    Viktor Asmodeus Dallaire
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    Hunter poteva non essere un supereroe, né un lenzuolo, benché meno un gladiatore, ma era una speranza.
    La sua, in quel momento di fragilità. E si era pentito d’aver dato sfogo a quel malessere nell’esatto momento in cui la prima lacrima era riuscita a solcargli la guancia. A casa Dallaire non erano contemplate quel genere di nefandezze; la compostezza era tutto, l’ostentamento regnava sovrano tra quelle mura purulente e narratrici di eventi macabri. Sua madre, in particolare, lo redarguiva spesso; piangeva tante volte, per le più stupide motivazioni, ma mai per quelle giuste. E da lì, poi, era stato tutto un evolversi fino a preferire la solitudine alla compagnia, i libri e la musica a tutto il resto, a lasciarsi andare alle lacrime solo nel buio della propria stanza. Dubitava che persino Charles avesse mai visto una scena tanto misera. Com’era diventato così? Come l’avevano ridotto a chiedere perdono per una colpa che non era la sua?
    Eppure, si sentiva responsabile per le ferite a macchiare la pelle di Hunter, per ogni singola cicatrice, per ogni ematoma; no, non si sentiva in colpa per la scelta di rimanere a fianco del Dumont, perché era impensabile. Solo… solo non avrebbe voluto vedere gli effetti sull’unica persona di cui gli importasse qualcosa. Che non aveva avuto il minimo rimpianto nell’essere fermo ed irremovibile persino in una situazione tanto critica.
    Era già venuto a patti con l’idea che l’Oakes fosse un tipo pragmatico, forse fin troppo scientifico, e per questo non si aspettava una consolazione al suo sfogo. In realtà, non si aspettava un bel niente.
    Non poteva illudersi che valesse qualcosa, che quella piccola scintilla potesse fare da collante per quei cocci di vetro che formavano la sua persona; era umiliante, in ogni caso, piangere di fronte al Corvonero. Bruciava nello stomaco come acido e si sentiva un idiota, un bambino nelle mani di poteri più grandi, un intruso in una vita che chiaramente non lo desiderava.

    Era contento, però, che l’altro non conoscesse il suo passato.
    Non tutto, perlomeno. I giornali avevano parlato per mesi della strage in casa Dallaire, ma non erano mai scesi nei particolari. Non erano mai riusciti a tirarlo tra i tentacoli dei giornalisti, avidi di notizie, incuranti della sofferenza di un ragazzino; ma era furbo e non amava raccontarsi, così aveva evitato di venire additato come una povera vittima, piuttosto che un sopravvissuto. La pietà… la odiava. Non c’era cosa più inopportuna che trattare qualcuno con accondiscendenza per via del suo trascorso.
    Quando Hunter gli aveva posto quella domanda non aveva pensato a niente se non alla pura curiosità; non c’era preoccupazione nella sua voce, né ritrosia. Ed andava bene così, come andava bene in quel momento che non avesse remore nel decidere cosa fare e come agire, non in base alla sua fragilità, ma al suo solito modo d’essere.
    L’Oakes non l’aveva rotto. Era stata la cattiveria a farlo, altri uomini prima di lui e tutti quelli che erano venuti dopo. Doveva ammettere, però, che la colpa fosse anche sua.
    Tra tutti gli amanti che aveva avuto non ricordava un singolo nome; non c’era interesse, non c’era piacere, era solo un atto fine a sé stesso che donava lussuria il tempo di un sospiro. Alcuni dicevano d’essere innamorati di lui e aveva spezzato tanti cuori da non poterli contare sulle dita: ora capiva. Ora sentiva lo stesso tremore e si pentiva d’essere stato cieco, di non aver avuto la capacità di respingerli con delicatezza.

    «Non colpevolizzarti. Non sei tu a dover chiedere scusa.»

    Ah, beh. Questo non era vero.
    Aveva appoggiato Charles nonostante sapesse fin dall’inizio l’esito di quella maledetta occupazione ed era stato bravo a fingere che quello sguardo, quella nota delusa in quegli occhi azzurri non l’avesse ferito come invece aveva fatto. Era stato stupido e ingenuo, legato alla speranza contagiosa che avrebbero potuto fare la differenza, che per una volta stare in prima linea piuttosto che nelle retrovie sarebbe servito per cambiare quel dannato sistema. Poi, la realtà si era rivelata amara come il fiele, spingendolo ad un nuovo malessere, ad una nuova scoperta: non c’era via di uscita.
    Il Regime era spietato, così tanto da infischiarsene della loro esistenza, delle loro preoccupazioni, persino delle ferite. L’Oakes non aveva colpe, era entrato in quella Sala per fermarli, eppure… ne aveva pagato le conseguenze. Ed era ingiusto.
    C’era da dire che tutto quello fosse ingiusto, in realtà.

    «Se mia sorella fosse stata lì con voi, non so come avrei reagito. Continuo a credere sia stata un’idea stupida, ma… non eri lì per te.»

    Finalmente sembrava che Hunter fosse arrivato al punto scottante della questione.
    Che si fosse reso conto del significato dietro alle parole sputate fuori in Sala Torture. Se Halley avesse mai messo piede in quella stanza, se anche per un secondo la sorella dell’Oakes avesse deciso di appoggiare quella causa, le cose avrebbero preso una piega diversa. L’orgoglio tipicamente Grifondoro era iconico della loro Casata, il vanto di essere i giusti tra i giusti, di avere nelle proprie file persone disposte a sacrificarsi per degli ideali più grandi o, più semplicemente, per qualcuno di importante. Ecco, era quello che l’aveva spinto ad affiancare il Dumont in quell’impresa folle; non l’ideale, di cui non si era mai sentito parte, né degli altri studenti. C’era stato solo Charles lì, a fargli credere che valesse la pena. E forse, come diceva l’altro, era stata un’idea stupida, eppure… cosa c’era di sbagliato nel voler fare del bene?
    Lui, incapace di pensare al di là della propria persona, aveva posto davanti a sé il bene generale.
    Era motivo di crescita, dopotutto; adesso sapeva perché il Cappello Parlante era stato tanto convinto nella scelta d’inserirlo tra le schiere dei Grifoni.

    «Ero lì anche per me» ammette, umettandosi le labbra, incapace ancora di guardarlo in viso, con le lacrime a scendere sulle dita altrui poggiate alla guancia «perché avrei voluto che per una volta ci fosse qualcosa di buono in questo mondo di merda e che non capitasse agli altri ciò che ho dovuto patire io» si morde l’interno guancia, respirando profondamente dal naso, con la bocca impastata per via del pianto «Era un’idea folle, mossa da buoni propositi… ma non voglio parlarne. Non ora, né mai.» il messaggio sott’inteso era chiaramente rivolto alla questione “Charles”. Avrebbe parlato volentieri con Hunter delle implicazioni di quel movimento, di come si fosse sentito, di quelle che erano le aspettative, perché sapeva di poterlo fare. Che l’altro, nonostante non fosse d’accordo, l’avrebbe degnato di considerazione.
    Ma la ferita lasciata aperta dal Dumont era ancora troppo fresca e sanguinante per poter essere affrontata; era cocente, come la rabbia che gli ribolliva dentro, come la tremenda delusione di essere stato la seconda scelta, ancora una volta.

    Sospira, dunque, cercando di calmarsi, di far cessare i tremiti e i singhiozzi a scuotergli il petto.
    No, Hunter non era in grado di consolare, ma non voleva nemmeno che lo facesse.

    Il peso del braccio dall’altro capo del letto, per un attimo, gli fa credere che Hunter si stesse sporgendo per baciarlo; il fiato caldo a solleticargli la mano, il cuore a battere nel petto frenetico per via di una situazione non sconosciuta, ma nuova. Perché gli facesse quell’effetto era ignoto; no, bugia. Sapeva perfettamente il perché Hunter fosse in grado di renderlo un fascio di nervi, anche quando avrebbe dovuto solo riposare, chiudere gli occhi e non pensare più a niente. E quel bacio lo voleva sul serio. Quel contatto di labbra che avrebbe spezzato il suo pianto, che sarebbe valso come quella consolazione che l’altro si stava sforzando di dargli, ma che a parole risultava scarno. Ed avrebbe significato tutto in quell’istante.

    «Oh no.»

    Il gemito dolorante e il successivo accasciarsi sulla sua fronte gli fanno spalancare gli occhi, ritrovandosi nuovamente a dover affrontare una realtà che non era di certo lo specchio delle sue fantasie.
    Sciocco. Hunter non l’avrebbe mai visto come lo vedeva lui.

    Sebbene fossero così vicini, quasi a poter sfiorare la guancia con le labbra, lentamente scosta la mano dalla fronte e, conseguentemente, anche il viso del coetaneo. Fa sfarfallare le ciglia, cercando di eliminare i residui di sale e lacrime, solo per spostare lo sguardo liquido prima sul volto dell’Oakes, poi sul punto in cui sembrava provare dolore.

    «Hunter…?» con fatica, incurante dei bendaggi appena cambiati, fa leva con la mano per mettersi seduto; non gli importava un cazzo del dolore, né di poter essere rimproverato dal ragazzo «Maledizione--» con la punta delle dita, sfiora appena la zona dove una piccola macchia di sangue stava iniziando a fare capolino. Stringe i denti, scacciando via con il palmo della mano le lacrime sulle guance, sporgendosi per prendere lo zainetto poggiato sul comodino. Forse non era pratico come Hunter, ma le ferite se l’era sempre curate da solo quando gli era stato impossibile utilizzare la magia; era capace, attento e sebbene stesse andando a fuoco per via del dittamo sul corpo, non avrebbe lasciato che l’altro si beccasse un’infezione solo per essersi preso cura di lui.

    «Fammi vedere» si schiarisce la voce e, nonostante le mani a tremolare impercettibilmente, scosta con delicatezza la stoffa del pigiama, mostrando così una brutta ferita «Avresti dovuto rimanere a letto…» come se già non ti avessi causato problemi mormora, trafficando per cercare delle garze e del disinfettante, notando con sollievo che i punti fossero ancora intatti. Fortunatamente, era solo stato il movimento brusco ad aprirne una piccola parte.
    Piano, lo aiuta a distendersi, facendo spazio nel letto; ah, ironia. Sembravano due imbecilli.

    «Guarda un po’» snocciola, mentre quelle maledette lacrime non la smettevano di scendere, traditrici. Eppure, le dita gentilmente si prendono cura della parte lesa. Prima pulendo la zona, dopo con il dittamo ed in seguito la garza. Era il meglio che poteva fare, in attesa di cure più approfondite e sperava che fossero sufficienti «alla fine siamo finiti a letto» prova a sdrammatizzare, scuotendo il capo, tirando su con il naso ed abbassando poi la maglia. Passa una mano tra i capelli di Hunter, assicurandosi che stesse meglio, poggiando con attenzione la schiena alla testata del letto.

    «Sei uno stupido» sussurra, conscio di essere… oramai ad un punto di non ritorno «proprio uno stupido.» e forse è per questo se mi piaci così tanto.

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    Se Viktor non l’avesse spostato in tempo, se non si fosse reso conto che qualcosa non andava, gli sarebbe crollato addosso. Era riuscito, solo per pura forza di volontà, a mantenersi in equilibrio precario, sospeso sul corpo del francese, un fascio di muscoli tremanti.
    Tutto per un bacio.
    Per lo stupido desiderio di voler fare la cosa giusta, perché non poteva fare altro, perché era frustrante vederlo così e non poter far nulla per farlo sentire meglio.
    La ferita faceva male, di un dolore indescrivibile, eppure le sue priorità erano state ben altre. Si abbandonò sul materasso, il volto affondato nel cuscino, contratto in un’espressione di pura agonia. Il tempo sembrava sempre dilatarsi quando le fitte tornavano a fargli visita, espandendo ogni secondo fino a farlo durare quasi quanto un infinito.
    Tremava, sudava e si chiedeva quando sarebbe arrivata quella successiva.
    Tremava, sudava e si domandava se al Ministero avrebbe trovato misericordia.
    Tremava, sudava ed era consapevole che quegli spasmi erano solo il preludio di una punizione peggiore, perché la sofferenza che stava provando era nulla se confrontata a quel supplizio cui sarebbe stato sottoposto a breve, a quelle ferite che lo avrebbero dilaniato dall’interno, quasi impossibili da curare. Non lo avrebbe spezzato quel taglio lungo, profondo, che gli squarciava il ventre da parte a parte, perché sapeva che il corpo umano era una macchina perfetta e la medicina una scienza esatta. Sapeva che ci sarebbe stata una cura, che il suo fisico avrebbe trovato il modo di rimarginare quella ferita, che aveva solo bisogno di tempo e delle giuste attenzioni. Era la seconda parte della punizione che gli faceva presagire il peggio, le ore di apprendistato con Pavor e Torturatori a fargli correre un brivido freddo lungo la schiena.
    Una volta varcata la soglia del III Livello, una volta superata quella flebile linea che marcava l’umano dal disumano, sapeva che non sarebbe più potuto tornare indietro, che non sarebbe più stato l’Hunter di una volta. Se avessero intaccato la sua testa, se gli avessero tolto la facoltà di pensare, se avessero minato la sua logica, avrebbe perso la cosa più importante. Avrebbe perso se stesso. Avrebbe perso tutto.
    Ci avrebbe provato, ci avrebbe provato davvero a proteggere quel barlume di umanità che lo aveva sempre spinto a fare la cosa giusta, a preoccuparsi per gli altri, mettendoli sempre al primo posto, a fare del bene.
    Mai, quanto in quei giorni, aveva sperato di non aver sbagliato a credere che l’uomo, con le sue azioni e le sue parole, fosse artefice del proprio destino; vero e unico protagonista della propria vita. Non credeva nella Divinazioene, arte e non scienza, per l’appunto; non credeva in un destino già scritto da qualcun altro in cui si subivano passivamente le conseguenze degli eventi più disparati, e non avrebbe iniziato a farlo in quel momento, chiedendo a fattucchieri di leggere il fondo della sua tazzina di tè, non quando aveva il disperato bisogno di sapere che sarebbe uscito quasi indenne da quell’uragano che stava per abbattersi nella sua vita, che sarebbe, quanto meno, riuscito ad alzarsi. Azione che, in quel momento, fu davvero difficile compiere.
    Voleva allungare la mano, bloccare il Grifondoro prima che facesse qualcosa di stupido.
    “Non…” non sforzarti. Non ti muovere. Non sederti. Non c’è bisogno che tu ti prenda cura di me, perché mi basta davvero qualche minuto per rimettermi in sesto.
    Perché Hunter era abituato a non chiedere aiuto, a cercare di bastare a se stesso in quella realtà che lo aveva privato di ogni appiglio. Lo avevano cresciuto con lo scopo di essere indipendente, con delle priorità che non sarebbero mai dovute vacillare e che non lo vedevano neanche nella top ten. Proteggi i Messaggeri per proteggere la Missione, ma nessuno si era mai scomodato per tener loro, giovani Custodi, al sicuro, neanche le altre famiglie che condividevano il loro stesso compito, il loro stesso rango. Nessuno li aveva voluti: non lui, non Halley, né tantomeno Rudolph.
    Per quanto avesse imparato fin da subito a non mettere in discussione le decisioni dei Capi, non poteva fare a meno di pensare a cosa sarebbe stato diverso nella sua vita se avesse avuto dei genitori veri e non il ricordo del loro abbraccio ogni volta che con la sorella abusava di Erballegra, quando le memorie che il suo corpo conservava sembrava quasi riemergessero dagli angoli più oscuri della mente solo per fargli compagnia.
    Si mise nuovamente a sedere a fatica, osservando impotente i movimenti di Viktor, incapace anche solo di dargli la più piccola delle indicazioni.
    Non voleva che Viktor lo vedesse in quelle condizioni, non quando aveva appena finito di dire che gli dispiaceva per quello che anche lui era stato costretto a subire. Tuttavia, non lo bloccò quando andò a sollevare la parte di sopra del pigiama, a togliere la fasciatura che gli impediva di sgretolarsi. Aveva imparato a sue spese che chiedere se si vedessero i suoi organi interni, anche con fare scherzoso, non era una mossa saggia e, anche se il coetaneo non aveva la stessa tempra della sorella, non era il caso di dire di essere, letteralmente, bello dentro. Quindi il W o w. Ho un intestino super sexy! era davvero fuori discussione per smorzare la tensione.
    Fu più mansueto del previsto nel seguire le indicazioni del Dallaire, ma solo perché era davvero sfinito e tutta quella poca energia che gli restava voleva impiegarla in altro, tipo guardare i suoi movimenti attenti, l’espressione concentrata sul suo volto, il solco che si formava quando corrugava la fronte. Osservava tutto Hunter, dalle linee morbide delle labbra, alle dita affusolate coperte dalle bende, alla curva del collo, allo sguardo leggermente velato.
    Si passò una mano sul volto, smorzando una risata che avrebbe potuto fare, in quel momento, più danni del previsto. Sospirò quando sentì i polpastrelli del coetaneo tra i suoi capelli, si mosse appena, cercando di approfondire quel contatto, beandosi di quel tepore in grado di tranquillizzarlo. “Avevano ragione a dire che la prima volta fosse la più dolorosa, a prescindere da quanto sei preparato.” Sorrise appena, ripercorrendo parte della conversazione che avevano avuto in passato. “Senza contare che, date le tue lacrime, devo aver fatto veramente schifo. Spero tu mi dia, almeno, la possibilità di riscattarmi.”
    Eh?
    Cosa.
    Diamine.
    Aveva.
    Appena.
    Detto.
    ?
    Non mosse la mano davanti ai propri occhi. Chissà se qualcuno era mai morto d’imbarazzo o se quel primato spettasse a lui. Era, improvvisamente, diventato ipersensibile, ultra attento a percepire ogni variazione, anche del più piccolo dei movimenti, ma aveva troppa paura di guardare tra le fessure delle sue dita la reazione del Grifondoro.
    Perché Viktor non gli era indifferente. Se Gideon era stato idealizzato al punto da aver paura anche solo di sfiorarlo, con il francese era diverso. Bramava un contatto con lui, anche il più insignificante, anche solo lo sfiorarsi delle divise nei corridoi. Sentiva ancora la morbidezza delle sue labbra sulle proprie e non voleva dimenticare il suo sapore. Cosa lo frenava? Il suo non sentirsi abbastanza. Perché, dai, era chiaro a tutti che il Dallaire fosse di un’altra categoria, di un altro livello, se non universo. Era lampante che lui, Hunter, non avrebbe potuto neanche sperare di essere preso in considerazione dal coetaneo: troppo inesperto, troppo ingenuo, troppo… Hunter, appunto. Non lo avrebbe soddisfatto, non sarebbe mai riuscito ad essere all’altezza di uno come lui. Si accontentava di essergli amico, di quelle interazioni rubate, di quegli attimi in cui erano soli. E andava bene così, purché fosse presente nella sua vita. Per questo non gli avrebbe mai chiesto nulla in cambio, per questo avrebbe agito in modo disinteressato: perché prima che potesse farlo il Dallaire, l’Oakes si era già friendzonato da solo.
    Si mosse appena, consapevole del fatto che non sarebbe potuto svanire, che non poteva provare a nascondersi a lungo, e che riportare la discussione sui motivi per cui erano lì avrebbe nuovamente appesantito un’atmosfera che avevano davvero fatto fatica a distendere. Ci sarebbe stato il tempo per discuterne, ci sarebbe stato il tempo per comprendersi. Tuttavia, ora non voleva far altro che godere di quella compagnia, di quel Viktor che sembrava essersi ripreso per un attimo, anche solo il tempo di una battuta.
    Sollevò lo sguardo, incapace di incontrare quello del francese. Si morse il labbro, indeciso o meno di parlare, di riempire quel silenzio con la sua stupida richiesta.
    “Non ti vedo.” Disse alla fine, inclinando leggermente la testa verso l’alto. “Non riesco a vedere i tuoi occhi.” Continuò, rischiando di avvampare una seconda volta per quelle parole. Non riusciva a vedere neanche quelle labbra che rischiavano seriamente di fargli perdere la testa, indirizzando la sua mente a pensieri che sarebbe stato davvero il caso di evitare in quel momento. Perché Viktor era bello, di una bellezza che andava oltre la fisicità, oltre le piaghe sul suo corpo, e lui non poteva fare a meno di posare le sue iridi cobalto su quella figura dotata di una grazia senza tempo.
    “Però, anche se dovessi decidere di stenderti accanto a me, non… non smettere di...” accarezzarmi. Di starmi vicino.
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    I am a scientist.
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    Edited by Messier_43 - 9/1/2019, 11:58
     
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    Piacevole.
    Ecco come poteva descrivere la sensazione della mano tra i capelli di Hunter. Morbidi contro le dita bruciacchiate, nonostante fossero appena più sudati per via del dolore provocato dalla ferita. Ma non importava, fintantoché l’altro gliene dava l’occasione, avrebbe approfittato di quella piccola concessione dandogli il conforto che meritava. Più che passare, che dissolversi nelle parole, la sofferenza provata dalla consapevolezza di essere il responsabile di quell’orrendo taglio sul ventre del ragazzo era insopportabile. Doleva, come ogni tratto di pelle; faceva male, come il pensiero di essere impotente in quel letto, incapace di fare qualcosa di concreto per curare l’Oakes. Non era di certo un Medimago, né un Guaritore, né aveva dimestichezza con le magie curative, ma era bravo con le piante; sapeva creare unguenti capaci di dare sollievo o cicatrizzare più velocemente le parti lese e non potersi alzare, non poter andare nella Serra per crearne uno da dare al coetaneo era… frustrante. Tutto lo era. Dalla mancanza di sonno, dall’essere conciato peggio di quanto avrebbe mai creduto, ma più di tutto dall’incapacità di esprimere quanto provato senza avere la paura di un rifiuto. E dire che aveva sperimentato sulla propria pelle l’idea della morte, così tante volte da non poterle più conteggiare; quindi, perché frenarsi? Perché sprecare tempo?
    Perché, a conti fatti, era la prima volta che si ritrovava in una simile posizione.

    Gli occhi chiusi lo aiutavano a non dover pensare alle implicazioni che quei gesti potevano avere, perché… diamine, non voleva illudersi. Non voleva altro male e, sicuramente, non ne voleva fare ad Hunter, già di per sé sconvolto. Il pensiero della punizione al Ministero turbava immensamente anche lui, conscio che avrebbe dovuto affrontare l’ennesima sfida contro sé stesso; avrebbe retto? Sarebbe stato, invece, un degno erede della stirpe Dallaire? Sarebbe diventato un’anima sola e malvagia come lo era stato (o lo era, non aveva mai creduto che il fratello fosse morto) Mephistophele?
    Il suo nome parlava chiaro ed anche se non lo usava spesso, rimbombava nella sua memoria come un avvertimento: Asmodeus. Il diavolo portatore di discordia, ira e vendetta, secondo solo a Satana e Imperatore degli Inferi. I suoi genitori, oltre ad una grande dose di ironia, avevano da sempre posseduto un gusto eccentrico nella scelta dei nomi, spesso sfortunatamente azzeccata. Aveva avuto paura di quell’appellativo, quasi che chiamandolo avrebbe risvegliato ciò che da sempre era gelosamente nascosto nel suo cuore: la cattiveria. Perché non era buono , ma non poteva nemmeno essere classificato al pari dei suoi famigliari; era… una via di mezzo. Un demone travestito da angelo, interessato soltanto al proprio tornaconto, incurante delle pene degli altri.
    E, in fin dei conti, gli era sempre andato bene. Come non gli dispiaceva, per una volta, non dover essere quello a patire, a provare dolore; torturare era una pratica che non aveva mai avuto nessuna attrattiva, per lui, come non l’aveva nemmeno l’idea di poter far del male a degli innocenti. Ne era la prova Hunter, indifeso fino a prova contraria, per cui avrebbe trovato difficile porsi al primo posto mettendolo così in pericolo. Ma gli altri? Non gli importava. Non poteva farsene una colpa, non quando in ballo c’era la sua sanità mentale, già intaccata dagli eventi recenti.

    Il crack lo sentiva ancora e non si trattava del solito malessere passeggero; era profondo, come la voglia di morire, ma allo stesso tempo di restare disperatamente in vita. Gli sembrava d’essere tornato ai tempi in cui impiccarsi si era rivelato controproducente, dove i tagli non erano mai troppo profondi da lasciarlo andare e dove le braccia forti di Mortimer avevano impedito che si buttasse dall’immenso finestrone della sua abitazione. Era come un déjà-vu, un loop dal quale pensava di essere venuto fuori, ma che poi si ripresentava peggio di prima, con ancora più ostacoli, senza quelle braccia che l’avevano sorretto per anni a salvarlo.
    Adesso, quel sostegno, poteva chiederlo ad Hunter? Non lo sapeva. Non aveva idea se l’altro sarebbe mai stato disposto ad essere il suo tutto, quando lui era niente.

    La risposta a quel tentativo di sdrammatizzare, in ogni caso, riesce a distrarlo da quei pensieri tossici, dal desiderio di sotterrarsi per non rivedere più la luce del sole. Una piccola fiammella, in ogni caso, era lì accanto a lui a ricordargli che non fosse ancora completamente solo.
    «Senza contare che, date le tue lacrime, devo aver fatto veramente schifo. Spero tu mi dia, almeno, la possibilità di riscattarmi.»

    Ah, l’ingenuità.
    Hunter era di un candore quasi… irreale. E nemmeno quella volta avrebbe riso, perché non c’era niente da ridere, perché all’Oakes avrebbe dato non una, non due, ma mille altre possibilità. Perché nonostante la battuta, l’idea di stemperare l’atmosfera, era ancora in grado di pensare lucidamente e chiedersi cosa volesse. Le sue lacrime erano un chiaro sintomo di malessere ed in una situazione normale avrebbe fatto il possibile per trattenerle; inoltre, dubitava che Hunter facesse così pena come pensava di fare.

    «Ah, mon chér» lentamente, continua ad accarezzargli il capo, osservando il soffitto ed accennando un mezzo sorriso «temo di non essere stato all’altezza nemmeno io. Facciamo che io do un’occasione a te e tu la dai a me, mh?» sperava che quello, se unito ai tocchi leggeri, potesse in qualche modo farlo tornare a proprio agio. Capiva perfettamente l’imbarazzo, il non avere altro da ribattere per via di quella che Hunter pensava fosse una figuraccia; lo trovava solo estremamente spontaneo, così tanto da farlo persino sorridere quando non aveva alcun motivo per farlo.
    Avrebbe voluto dirgli di togliere quella mano dagli occhi, di non fare lo stupido e smetterla di credere di potersi nascondere da lui. Non l’avrebbe mai giudicato, nemmeno per la più stupida delle affermazioni; non era il tipo da prese in giro, a meno che non rientrassero in uno specifico contesto.
    Con l’Oakes era attento.
    Ne studiava i gesti, le espressioni, persino il guizzo negli occhi chiari. Nella Sala Torture aveva visto quello sguardo infiammarsi di delusione, ma pensava che fosse meglio ricordare, invece, quello al parco che l’aveva fatto capitombolare senza poter, effettivamente, fare in modo di scappare. C’era stato il languore, in quelle iridi, la sorpresa e l’interesse e per un attimo si era illuso che a causarlo fosse stato lui. Poi, così come Hunter tentava disperatamente una via di uscita, una friendzone inesistente, si era detto che fosse troppo; troppo intelligente, troppo serio, troppo tutto per poter pensare a qualcosa che li implicasse insieme.

    Ma… Hunter era lì con lui, no? Valeva qualcosa? Il Corvonero andava contro la sua mano per ricevere le carezze, disteso accanto senza avvertire il disagio.
    «Non ti vedo. Non riesco a vedere i tuoi occhi» a queste affermazioni, si ritrova ad abbassare lo sguardo per fissare il viso dell’Oakes, stupito quasi da una simile dolcezza. Ma di cosa si stupiva, poi? Hunter aveva accarezzato la sua guancia come se gli importasse, come se quello scempio che era diventato il suo corpo avesse un impatto minimo sulla considerazione che aveva di lui. Forse… per il Corvonero non era solo un corpo, ma una persona, qualcuno da vedere senza che ci fossero stupide moine in mezzo a distruggere tutto.
    Per questo, addolcisce lo sguardo, prima contratto per via delle preoccupazioni, e gli rivolge un sorriso. Non mezzo, non forzato, uno vero «Cosa vorresti trovarci nei miei occhi?» domanda, facendo scivolare la mano sulla guancia del ragazzo e, delicatamente, l’accarezza. Dubitava che ci fosse ancora vita, in quelle pietruzze azzurre. Dubitava persino d’avere ancora un’anima, divisa in più pezzi come se fossero dei maledetti Horcrux. Eppure, l’Oakes li aveva ricercati e non se la sentiva di negargli l’opportunità di fare ciò che più credeva giusto. Voleva specchiarsi in quelle pozze liquide? Che lo facesse. Gli era rimasto solo quello e condividerlo con Hunter andava bene.

    «Però, anche se dovessi decidere di stenderti accanto a me, non… non smettere di…» inclina leggermente il capo di lato, ma rimanendo per un attimo silenzioso. Pensieroso, come lo era sempre stato, capace ancora (con pura sorpresa) di essere enigmatico. Non voleva far attendere Hunter, allo stesso tempo voleva solo capire. Capire cosa passasse in quella testolina bruna, cercare di non cadere in quella trappola fatta di sentimenti, ma che sperava fossero reali; gli stava chiedendo di continuare ad accarezzargli i capelli? Voleva sentirlo vicino? C’era altro che aveva mosso il coetaneo ad andare in suo soccorso?
    Erano tanti gli interrogativi che, in quell’istante, cercavano di farsi spazio per trovare una soluzione. Ma non c’era un manuale per quelle cose e spesso, andare a naso, era l’unica opzione valida, anche a costo di sbagliarsi.

    Lentamente, dunque, e con fatica, si stende accanto al Corvonero. La spalla contro il materasso, voltato verso di lui, in modo da poterlo osservare senza più intralci. Anche visto sotto quella prospettiva, dolorante e stanco, Hunter gli sembrava maledettamente bello. Non una bellezza angelica, né da divo del cinema; più che altro… pura. Era bello nel modo più semplice che si potesse pensare e forse era stupido da parte propria concentrarsi sui particolari di quel viso, proprio in quel momento, ma che poteva farci? Era la seconda volta che se lo ritrovava davanti e quella volta poteva osservarlo meglio. Senza interruzioni, senza malizia. C’erano solo loro due, Viktor e Hunter, su quel letto a scambiarsi uno sguardo complice, nel silenzio dell’Infermeria.

    Grazie per essere qui con me”, avrebbe voluto dire o meglio “Ti ho pensato da quella volta al parco, intensamente, come un chiodo fisso. E ti odio per questo. Cosa mi hai fatto?” ma lo sapeva fin troppo bene e non c’era niente da domandare, nulla da dire se non «Mon coeur éclate quand je suis avec toi» appena sussurrato, incomprensibile forse, ma più simile ad una dichiarazione di quanto volesse. Dirgli apertamente “mi piaci” era—spaventoso? Rischiare, in quel momento, avrebbe significato porsi nuovamente in una situazione di svantaggio. Inoltre, non aveva nemmeno idea di come fosse finita quella cotta di cui gli aveva parlato al parco, un enorme punto interrogativo a gravare sulla sicurezza dell’essere l’oggetto del desiderio. Non se la sentiva di rischiare, non quando aveva il corpo sofferente e la mente spezzata a metà, il dolore affievolito solo grazie alle mani dell’altro.
    Le proprie, invece, ritrovano i ciuffi scuri, tornando ad accarezzarlo gentilmente.

    «Vorrei poterti dire di più, essere chiaro come meriti che io sia» mormora, avvicinandosi al viso del ragazzo per dargli un bacio sulle labbra, un contatto agognato, ma delicato; non sapeva come avrebbe risposto Hunter, né se lo volesse in un senso che andava al di là di una semplice amicizia. Poggia la fronte su quella altrui, dopo qualche istante, sospirando dal naso «ma perdonami. Non ho parole, ora. Sono una creatura debole, mon chér e volevo baciarti da troppo tempo» persino sull’uscio di quella maledetta Stanza, dove entrambi erano ribollenti di rabbia «e vorrei sentiti parlare per tutta la notte.» perché la tua voce mi fa stare bene.

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    Annuì appena, contento di quel compromesso, nonostante fosse ancora troppo presto per scherzare, per sdrammatizzare su quelle lacrime che avevano incontrato le sue dita e che non era riuscito ad asciugare, benché meno ad impedire scorressero copiose, la trama ancora visibile sul volto del Grifondoro. Forse non sarebbe mai davvero giunto il tempo in cui avrebbe potuto parlare con leggerezza di quella volta che aveva scorto un frammento del vero Viktor, di ciò che si nascondeva dietro quell’apparenza costruita ad arte. Eppure gli era bastato uno sguardo, l’indurirsi della linea della mascella, la minima variazione di un’espressione per rendersi conto che c’era dell’altro. Che ne sarebbe sempre valsa la pena.
    Non era ancora pronto a rispondere a quell’interrogativo non espresso, a quella paura che frenava il Grifondoro. Se avesse saputo cosa fare, se avesse saputo cosa dire, forse, sarebbe stato diverso. Se fosse stato più empatico, se avesse colto anche il più piccolo dei segnali, se fosse stato intero, allora avrebbe potuto sbilanciarsi, cercare un compromesso o, almeno, fargli capire che ai sui occhi non sarebbe mai stato niente. Ai suoi occhi aveva un valore, era speciale. Doveva ancora capire quanto. Per questo voleva conoscerlo, scoprire il più possibile di quella figura così sfuggente. Non lo avrebbe costretto ad esporsi, questo mai, ma avrebbe, quantomeno, fatto in modo che si fidasse di lui.
    Avrebbe imparato ad essere forte anche per lui, ad essere quella mano tesa che l’altro avrebbe afferrato nei momenti in cui l’oscurità prendeva il sopravvento; perché Hunter viveva di azioni, di fatti concreti, non di buoni propositi o frasi ipotetiche, non di parole pronunciate con leggerezza.
    Allungò la mano, sfiorandogli la punta del naso, reclamando la sua attenzione.
    Lo osservò scivolare al suo fianco, sorpreso da quella mansuetudine e dalla bellezza di quel sorriso folgorante, contento di quel cambio d’umore. Portò una mano su quella del più grande, ancora intenta ad accarezzargli il viso, intrecciò le loro dita, lasciandola lì, sulla sua guancia, continuando a bearsi di quel contatto.
    “Te.” Ammise con candore. “Vorrei trovare te e i scoprire i tuoi mondi. Viktor, Asmodeus, Dallaire.” Il ragazzo che esibiva al mondo, quello ferito e ancorato nel passato, il volto che ancora non aveva mostrato a nessuno. Voleva scorgere le sue paure e le sue ambizioni, i suoi sogni e le sue sconfitte. Perché gli occhi non mentivano mai, non fingevano sorrisi, non celavano disappunto. Erano quanto di più vero ci potesse essere in una persona. Ed essere distesi così, a qualche centimetro di distanza, era quanto di più spinto Hunter avesse potuto mai fare con qualcuno. Erano messi a nudo, incapaci di sfuggire alla lettura dell’altro. Si sentiva spogliato di ogni cosa sotto lo sguardo attento del Grifondoro, incapace di mentire o di sottrarsi a quel gioco fatto di frasi non dette: “mi dispiace averti giudicato quando mi ero ripromesso di non farlo, di non fermarmi alle apparenze. Mi dispiace ti abbiano fatto del male; mi dispiace ti abbiano trattato come il peggiore dei criminali.” ma, soprattutto, “Combatti. Vinci. Vivi.”
    Sperava lo capisse, sperava riuscisse a leggere quel sottotesto, quell’urlo che non avrebbe mai lanciato, quella supplica non pronunciata.
    Si lasciò avvolgere da quell’accento straniero che aveva imparato a riconoscere come familiare, dalla dolcezza di quelle parole mormorate appena. Non poteva comprenderne il significato, non aveva dimestichezza con quella lingua che stava imparando ad apprezzare. Era curioso, era quella la sua natura, eppure qualcosa nell’aria, nel tono utilizzato, nella vicinanza dei loro corpi, lo fece desistere. C’erano tempi che non andavano forzati e magie che non andavano spezzate. Socchiuse gli occhi a quel tocco leggero, sorridendo appena. Perché, in fondo, gli bastava la certezza di quei piccoli gesti per andare oltre quella barriera linguistica, perché c’era un linguaggio universale che lo aiutava a capire, che lo guidava in quelle acque sconosciute. Non chiese la traduzione di quel sospiro, perché quella gentilezza parlava per lui. Forse avrebbe frainteso, forse non era quello il vero significato che il francese voleva attribuire alle sue parole, forse, un giorno, entrambi avrebbero trovato il coraggio di osare un po’ di più, di aprirsi con l’altro senza l’ombra di quel rifiuto, di quella spada di Damocle che gravava sulle loro teste.
    In quel momento, però, era come se non esistesse nulla, se non quelle gemme acquamarina. Non c’erano torture e torturati, non c’era l’Infermeria, non c’era nient’altro, nessuno oltre quei due corpi, la cui distanza era misurata in sospiri. Era come se l’intero universo fosse racchiuso in quello sguardo, lontano da tutto e da tutti.
    Era immerso in quelle pozze azzurre e, per una volta, non aveva paura di affogare. Non era intimorito da quella trasparenza, da quell’incanto. Era, semplicemente, perso. Perso al punto di non rendersi conto immediatamente dei movimenti del Grifondoro, delle sue parole accennate. Lo percepì sempre più vicino, fin quando non sparì dalla sua vista, travolto da quel gesto delicato eppure così disarmante nella sua semplicità. Il fatto che fosse già successo, che non era la prima volta che i due si baciavano, non significava che non fosse comunque d’impatto o inaspettato, sebbene glielo avesse promesso. Perché avrebbe dovuto perdonarlo? Perché si stava scusando? Perché era già lontano da lui? Aveva paura potesse non ricambiare? Che si sentisse a disagio? Perché quel bacio era tutto quello che il Corvonero avrebbe potuto chiedergli. Perché lui, Hunter, lo avrebbe baciato. Lo avrebbe fatto ancora e ancora. No, non perché fosse la cosa giusta da fare, non perché in quel momento fossero fragili e spezzati, non perché avessero entrambi bisogno di un conforto, non perché fossero a corto di parole.
    Lo stava baciando perché gli piaceva.
    Si era sporto in avanti quasi senza accorgersene, spinto, per una volta, più dall’istinto che dalla ragione. Perché se da un lato la coscienza gli urlava di non farlo, di aver pazienza, di aspettare che fossero entrambi in condizioni migliori per evitare inutili sforzi date le ferite; dall’altro Hunter sentiva l’urgenza di quel gesto. Aveva portato una mano tra le ciocche corvine per percepirlo più vicino, perché se non l’avesse fatto, se non lo avesse sentito tra le sue dita, avrebbe avuto paura potesse essere un’allucinazione, che potesse svanire. Gli piaceva baciarlo. Non che avesse chissà quale esperienza per poter giudicare, ma gli piaceva come si sentiva quando le sue labbra erano a contatto con quelle carnose e morbide del più grande, quasi fossero state progettate per assolvere esclusivamente quel compito. Gli piaceva la sensazione del respiro caldo del francese sulla sua pelle. Gli piaceva come sospirava, ogni volta, l’istante prima di cedere. Gli piaceva il brivido lungo la schiena, gli piaceva come si sentiva quando era con Viktor. Gli piaceva perché era V… calm down space boy! We’ve already talked about this.
    Arrestò bruscamente il flusso di quei pensieri pericolosi che lo avrebbero spinto in un territorio impervio, dove lui non era ancora pronto per lasciarsi andare. Il Dallaire non era il solo a non poter essere chiaro, a non potersi esprimere con franchezza; c’erano troppe cose che il Corvonero non poteva dirgli, troppe verità che ancora non aveva appreso, una miriade di sensazioni che doveva analizzare col microscopio per essere certo di quello che provava, per poter tentare anche solo di dare un nome a tutto quello che stava vivendo. Non voleva prenderlo in giro, non voleva illudere nessuno, ma era tutto talmente nuovo che aveva paura di compiere un passo falso. Di soffrire e far soffrire.
    Non era stato facile iniziare ad accettarsi, abbracciare quella novità e prendere consapevolezza di quell’aspetto che aveva rinchiuso per troppo tempo nell’angolo più recondito della coscienza. Procedeva a piccoli passi per non cadere, per non diventare vittima di se stesso.
    Non aveva chiesto il consenso dell’altro per approfondire quel tocco, non quando c’era così tanto che non poteva dire, non se quelle dannate labbra erano finalmente alla sua portata.
    Gli sfuggì un gemito sommesso quando si separarono per riprendere fiato, il cervello impazzito per l’assenza di ossigeno, il cuore che non accennava a rallentare di un battito. Tenne lo sguardo basso, incapace di incontrare quelle pozze azzurre, prima di avvicinarsi al collo del francese.
    “Non chiedermi il permesso.”
    Fu delicato nel lasciare una scia di baci lì dove le bende coprivano quelli che erano stati i segni di una crisi passata, passando poi alla linea dura della mascella, salendo nuovamente a quella bocca che lo faceva sentire liquido, in balia di una forza che non riusciva a controllare e che si prendeva gioco di lui nei momenti di solitudine.
    “Non darmi spiegazioni.”
    Fece scivolare la mano dai capelli a quello che, a tutti gli effetti, stava diventando il suo tallone d’Achille, il punto di raccolta di ogni sua debolezza. Vi passò un dito sopra, accarezzando lentamente la bocca del Dallaire, osservando quanto fosse gonfia e lucida a causa di quel bacio, nonostante le percosse, nonostante i tagli, nonostante tutto.
    “Perché sono debole anch’io.” Mi rendi debole, più di quanto non sia disposto ad ammettere.
    Si avvicinò un’ultima volta a quelle labbra, questa volta in modo più leggero, più delicato, quasi più impacciato, saggiandole debolmente. Doveva darsi un contegno, fare appello a quel briciolo di autocontrollo che gli era rimasto e che gli impediva di continuare, di avvicinarsi ancora, di impazzire, sebbene baciarlo per tutta la notte non sarebbe stato poi così male.
    Poggiò nuovamente la testa sul cuscino, restio a lasciarlo andare, incapace di spegnere quel sorriso che gli illuminava il volto, di contenere l’euforia che gli arrossava le guance. Era felice. Felice come non lo era da giorni. Ed era stupido. Parecchio stupido.
    Merlino, si sentiva un adolescente. Non che non lo fosse, solo… si era sempre ritenuto superiore rispetto alle ragazzine urlanti e ai ragazzini che pensavano solo con una parte del loro corpo, e non quella giusta. Lui e Halley erano cresciuti meglio di così. Peccato che, prima o poi, l’ormone gira per tutti. Nessuno escluso.
    Si umettò le labbra, trattenendole un po’ più del necessario, e si voltò finalmente verso il francese: non poteva sfuggirgli, non quando era stato lui stesso a chiedere di specchiarsi in quelle iridi chiare. Non sapeva cosa avrebbe potuto trovarci, non aveva idea di cosa avesse visto una volta raggiunto quello sguardo. Portò una mano sotto la testa, alzandola di poco, giusto il necessario per osservarlo più comodamente, più da vicino, mentre l’altra si andò a perdere tra i morbidi fili d’inchiostro del coetaneo, incapace di star buona, ferma al suo posto.
    “Dimmi, Viktor, cosa vuoi che ti racconti?”
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    «Te. Vorrei trovare te e scoprire i tuoi mondi. Viktor, Amodeus, Dallaire.»

    C’era qualcosa di estremamente poetico nel modo in cui Hunter aveva pronunciato il suo nome. Una delicatezza che non avrebbe associato alla sua persona, ma che il Corvonero era riuscito a far emergere inaspettatamente. Si domandava, dunque, quanto effettivamente fosse stato ingenuo nel credere di poter scappare da quella voglia che aveva di lui. Da quelle labbra, da quegli occhi, capaci di farlo sentire nudo e protetto e che erano in grado d’alleviare con gentilezza ogni pena, rendendolo più concentrato sull’idea di un bacio, piuttosto che dalla voglia di morire. L’Oakes aveva un potere su di lui che non avrebbe mai creduto fosse possibile; lo ammansiva, lo rendeva talmente debole e sconnesso dalla realtà che ogni sofferenza risultava superflua, che ogni bruciatura perdeva di senso fino a non essere più importante, non quanto essere disteso accanto all’oggetto del suo desiderio. No, non desiderio. Quella era una parola che descriveva in parte ciò che provava per Hunter, ma che non esprimeva tutto il resto. Per anni si era domandato cosa fosse l’amore, perché crescendo non ne aveva mai ricevuta una stilla; né una carezza, né un incoraggiamento sincero, né un abbraccio dato con l’intento di farlo sentire importante. Ed allora aveva rinunciato a credere che fosse possibile trovare conforto o sostegno nelle braccia di altri, forse solo un misero contentino volto a farlo sentire accettabile.

    Con Hunter, invece, era stata una scoperta.
    Dalla prima volta in cui quelle mani si erano posate sui suoi fianchi, dal loro primo bacio dato quasi per caso, aveva sentito qualcosa. E quel qualcosa bruciava ancora nel petto come un tizzone ardente ed il suo cuore, gelido e arido, aveva iniziato a battere frenetico; non di paura, non di disperazione, di totale abbandono. E lui, abituato a vedere tutto sotto un’ottica estranea al mondo comune, alle frivolezze becere dei sentimenti, ne era rimasto travolto. Quelle braccia le aveva desiderate, quegli occhi ancora di più; persino la voce dell’Oakes, così calma e posata, era in grado di farlo sciogliere come il peggiore degli invaghiti. Era stato, semplicemente, un colpo di fulmine. L’unico da che ne avesse memoria, ma sicuramente inaspettato, come lo era quella situazione.
    Hunter non gli faceva paura e non era come gli altri; non lo guardava per il suo corpo, ma per ciò che voleva leggere dentro i suoi occhi, velati forse dalle lacrime ancora presenti a bagnargli le guance. Cercava qualcosa, il Corvonero, ma non sapeva dire se l’avesse trovata. Ed era vero, in ogni caso, che gli occhi, quei maledetti, fossero capaci di raccontare più di quanto avrebbe mai voluto confessare; perché forse l’altro aveva scorto il dolore, l’abbandono e la rabbia. Forse aveva visto, seppur con fatica, che dentro al suo cuore ci fosse altro, custodito gelosamente come il peggiore dei segreti. Nemmeno Charles, con cui aveva vissuto sotto lo stesso tetto, era riuscito a fargli dire più del necessario; aveva chiesto per curiosità, forse, non per reale interesse. Non voleva pietà in ogni caso o essere ricordato come il minore dei Dallaire, quello dimenticato, quello ucciso o, peggio, abusato.
    Si era costruito un’immagine grazie a Mortimer (e lui sapeva tutto, dalla prima all’ultima parola), un fantoccio in grado di camminare, sorridere, parlare e flirtare come se fosse normale, come se non ci fosse nient’altro che il sesso a smuoverlo. Ogni gemito, ogni carezza, ogni sospiro erano falsi, come falso era il suo essere vivo. Eppure viveva ancora ed era stato così abituato a vedersi come un oggetto che non aveva mai pensato a come fosse venir visti al pari di un essere umano; era strano, dunque, che Hunter lo fissasse come se nel suo sguardo vi fosse l’infinito. Lo stava guardando in un modo così intenso e intimo da fargli contrarre lo stomaco, a dispetto delle ferite e delle ustioni che gli logoravano la pelle. Non c’era spazio nemmeno per quelle, non con quelle iridi azzurre a penetrargli l’anima così a fondo da farlo sentire scoperto, indifeso.
    Avrebbe voluto distogliere lo sguardo, sopraffatto, spaventato che il coetaneo potesse in qualche modo trovare l’introvabile e capire più di quanto fosse disposto a confessare. Non in quel momento, non con le piaghe ancora fresche e sanguinati, né con il taglio a lacerare la carne di Hunter.

    Era sollevato, in ogni caso, che il Corvonero non avesse chiesto la traduzione alle parole sussurrate in francese. Perché dirgli “il mio cuore esplode quando sono vicino a te” era imbarazzante e sebbene lui non fosse incline ad arrossire facilmente, dubitava di poter reggere quella romanticheria spontanea. Non aveva esperienza con quello, non sapeva nemmeno dove mettere le mani per non risultare volgare, come lo era sempre stato, come era abituato a comportarsi. Flirtare e ammiccare erano comportamenti facili e studiati, calcolati, ma quello? La spontaneità gli era sconosciuta, così come l’idea di essere in balia della propria debolezza.

    Ed avrebbe voluto dirgli che conoscere il Viktor dietro le moine non avrebbe portato la gioia che credeva, che si sarebbe pentito di aver chiesto una cosa così terribile come venire a patti con l’idea che fosse più propenso a farsi del male che a non farlo. Che avrebbe dovuto combattere con la voglia che l’avrebbe perseguitato di prendere, ancora una volta, una lama e conficcarla nel braccio. Si sarebbe dovuto accollare l’idea delle notti insonni a fissare il vuoto, i momenti di panico, i silenzi costruiti dal passato.
    Ma non aveva avuto il tempo.

    La paura di aver fatto l’ennesimo errore baciando Hunter in quel contesto era sfumata via come tutte le parole non dette. Una nuvola di fumo, un attimo dimenticato.
    Ed era sorpreso, innegabilmente scioccato dalla risposta repentina dell’altro, incapace forse di resistere oltre, così come non aveva potuto fare lui stesso. Se le sue labbra erano state delicate, quasi sfuggevoli, quelle dell’Oakes erano… affamate. Ne sentiva il bisogno, il desiderio. C’era l’urgenza di toccarlo, con le mani strette ai ciuffi corvini come se pensasse che potesse scappare da un momento all’altro. E dove sarebbe potuto andare? Nemmeno se avesse avuto la forza di alzarsi da quel letto avrebbe mosso un muscolo. Avrebbe preferito che qualcuno lo pugnalasse di nuovo, piuttosto che rinunciare al sapore di quella bocca, alla passione che sembrava aver contagiato Hunter, lasciando indietro la ragione.
    E gli piaceva. Maledizione, l’aveva sognato per così tanti giorni da rasentare il ridicolo e gli veniva da ridere, e da piangere per l’intensità di quel contatto, perché era perfetto ed estremamente sbagliato. Perché avevano dovuto ritrovarsi in Infermeria, nello stesso letto, a pezzi, per realizzare che fosse quello di cui avevano bisogno entrambi. E Hunter non lo stava baciando di certo per pietà, né perché fossero rotti o perché fosse la cosa migliore; no, lo sentiva. Lo percepiva il bisogno che l’altro sembrava avere di lui, che non si trattasse di corpo, di mera fisicità. Era solo… diverso. Diverso da tutti i baci che aveva dato, diverso persino nell’intreccio della lingua, nella pressione delle labbra, negli occhi chiusi e nelle mani a ricercarsi.
    E Dio, quanto gli faceva male tutto; il corpo doleva così tanto da fargli scendere persino delle lacrime, ma aveva importanza? No e probabilmente non ne avrebbe mai avuta.

    «Non chiedermi il permesso» non avrebbe potuto chiedere nulla nemmeno volendo, impegnato ad avvertire quella bocca baciargli dapprima il collo fasciato dalle bende, facendolo tremare letteralmente e sospirare di un languore forse fuori luogo, ma impossibile da trattenere; per poi concentrarsi sulla mascella, ritornando brevemente a baciarlo «Non darmi spiegazioni» il dito ad accarezzargli le labbra lo porta a deglutire ed a fissarlo come un cerbiatto fisserebbe i fari di una macchina in corsa. Erano liquidi come si sentiva lui, maledettamente alla mercé di quel ragazzo – uomo? – che era arrivato al punto di fargli dimenticare, per un singolo istante, la rottura che sentiva dentro, risanando un pezzo di cuore che pensava di aver perso.
    Hunter poteva considerarsi incapace, inesperto, tutto quello che voleva; la verità era che aveva avuto tantissimi amanti, ma nessuno era mai riuscito a fargli tremare le mani come invece il coetaneo era riuscito a fare.

    «Mi piace quando mi baci» un sussurro a fior di labbra, prima di umettarle. Era una cosa stupida da dire? Sì, probabilmente sì. «Posso chiederti di non smettere? Mai?» ma era anche la verità, semplice e cruda; non aveva le forze mentali per poter dire qualcosa di articolato o che fosse seducente, perché non credeva nemmeno che ne fosse più in grado. Il suo corpo era deturpato, la sua autostima aveva raggiunto il fondo velocemente come il suo bisogno di sparire.

    Prima che possa aggiungere altro, però, si ritrova l’ultima volta coinvolto in un bacio, questa volta leggero, segno che Hunter avesse riacquistato il controllo delle proprie azioni e che avesse realizzato quanto fatto. Ed era triste vederlo allontanarsi, sebbene le distanze fossero sempre minime, ma sapeva che fosse giusto; il sorriso ad illuminagli il viso, però, era quanto di più rassicurante potesse desiderare. Stava bene, non si era pentito.
    Risponde a quella felicità accarezzandogli il braccio, incapace di donargli più di quello. Aveva già sprecato la cartuccia quando l’Oakes gli aveva chiesto di guardarlo, di fargli vedere i suoi occhi ed era stato bravo ad andare al di là della propria sofferenza per dare un po’ di sollievo al Corvonero.
    Nel suo sguardo, Hunter, avrebbe trovato la devozione che aveva espresso palesemente ricambiando i suoi baci. Nessun rimpianto, nessuna remora, solo la voglia di ricominciare ancora, ed ancora, fino a consumarsi le labbra.

    Si sistema meglio, lasciandosi accarezzare il capo, ma mugolando per un attimo dal dolore; le bende erano fresche e per un attimo che gli era sembrato un’eternità, si era dimenticato di quanto fossero fastidiose a strofinare sulle ferite aperte. Aveva completamente rimosso le torture, la Queen, Charles, la punizione al Ministero. Ogni cosa era passata in secondo piano.

    Sospira, dunque, stringendo gli occhi e poggiandosi meglio per poter posare la mano sul petto del ragazzo, per sentire il cuore battere nel petto; voleva sentirlo vivo sotto il suo palmo.
    «Ah, che domanda complicata» avrebbe voluto chiedergli tantissime cose, ma nemmeno una gli sembrava appropriata. Doveva mantenersi su un terreno morbido, senza dover per forza creare tensione. Stavano così bene lontani dal mondo, perché immergervisi nuovamente? «Parlami delle stelle» socchiude le palpebre, rilassandosi sotto i tocchi delicati dell’altro, attendendo la risposta.
    17 y.o. | Gryffindor
    Broken | Tortured
    I became insane,
    with long intervals
    of horrible sanity.
    I should never be left alone with my mind for too long.
     
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    Il sorriso dipinto sul suo volto si allargò ancora, arrivando persino ad accartocciargli il viso. Faceva fatica a pensare, a mettere i pensieri in fila, uno dietro l’altro. Aveva quasi difficoltà a credere lo avesse baciato davvero e, soprattutto, che l’altro non lo avesse allontanato, nonostante avesse tutte le ragioni per farlo. Era stato avventato, irruento, non aveva tenuto in considerazione che quel contatto potesse essere troppo per quel corpo già così provato. L’istinto aveva preso il sopravvento e ne era stato quasi sopraffatto. Se non fosse stato per quello sguardo così gonfio e lucido, per quella sofferenza palpabile, si sarebbe avvicinato ancora e ancora, fino a quando non gli sarebbe rimasto che un ultimo sospiro. Non voleva che quegli occhi lacrimassero ancora, non voleva che quelle labbra si stirassero per una fitta di troppo, per un soffio doloroso, non se ne era lui la causa; non quando avrebbe davvero fatto il possibile per dargli un po’ di tregua da quella sofferenza.
    Sembrava davvero Hunter fosse tornato in sé, insieme alla delicatezza con cui spostò un ciuffo dal viso del francese, al senno che lo teneva fermo al suo posto. Avrebbe dovuto chiedergli scusa per quell’attacco quasi improvviso, per non essersi riuscito a controllare, per aver rischiato di fargli del male. Avrebbe dovuto dire che gli dispiaceva, che non lo avrebbe fatto più, ma… come poteva pentirsi veramente di quel bacio? Come poteva anche solo fare un passo indietro davanti a quelle iridi così brillanti, a quelle parole che fecero quasi saltare un battito a quello che sarebbe dovuto essere, almeno per il momento, il suo unico organo pulsante. Merlino, se era fuori luogo. Eppure, niente gli era sembrato più giusto in quel momento, era come se tutti i pianeti si fossero allineati in quell’istante per dargli il permesso di osare, di prendersi quello che voleva. E no, non se ne era accorto subito, non quando la preoccupazione per la salute del Grifondoro oscurava tutto il resto. La stessa preoccupazione che era andata in frantumi quando il coetaneo lo aveva baciato, lasciando spazio a tutt’altro, a qualcosa di sconosciuto.
    Non poteva chiedere scusa senza rischiare di tradire quella scintilla che aveva acceso lo sguardo di Viktor di una luce bella e intensa, che contrastava con lo scempio perpetrato in quel Castello, con l’angoscia che impregnava le mura di quell’Infermeria. Non poteva farlo perché avrebbe significato ignorare quel brivido che lo aveva quasi fatto sentire libero, nonostante quella situazione di semi-prigionia. Non voleva che il più grande pensasse che non ne fosse valsa la pena, che si stesse rimangiando le parole, quando quello che più che desiderava in quel momento era tornare a saggiare le sue labbra.
    “Fa piano.” Sussurrò, spostandosi per dare più spazio al Grifondoro, aiutandolo a sistemarsi al meglio, gli occhi che correvano sul corpo dell’altro per controllare le bende, lo sguardo nuovamente velato dall’apprensione, dalla paura che una delle bolle potesse essere esplosa. “Va tutto bene.” Continuò sfiorandolo con delicatezza, prima di prendere la bacchetta ed evocare una coperta da sistemare su entrambi, se per l’altro, un ulteriore peso, non fosse stato un problema.
    Fu troppo distratto dal tocco leggero sul suo braccio, dalla mano poggiata sul suo petto, per poter commentare quella scelta di parole, sottolineando quanto non esistessero domande complicate, piuttosto risposte più facili o più difficili da dare. Nonostante ciò, non voleva impelagarsi in discorsi più grandi di lui, non voleva smuovere quelle acque placide in cui stavano navigando, mostrandosi per il solito Hunter bacchettone, sempre pronto ad avere l’ultima parola su un qualsiasi argomento.
    Una volta sentita la richiesta di Viktor, se avesse potuto, avrebbe sorriso ancora di più. Era, letteralmente, nel suo. L’Astronomia era la sua comfort zone e non c’era niente di più bello e perfetto dell’universo. Non c’era niente di più bello e perfetto di quel caos crescente che dominava nelle loro vite.
    Iniziò a parlare dei corpi celesti, ma non nel solito modo convenzionale, non ripetendo a memoria quello che c’era scritto sui manuali che il ragazzo era costretto a studiare a scuola. Provò a raccontargli una storia, il racconto più lungo che qualcuno avesse mai potuto scrivere, dal punto di vista delle stelle e delle costellazioni, narrando le gesta di coloro che ne avevano dato il nome. C’era Cassiopea, la leggendaria regina d’Etiopia che, secondo la mitologia Greca, insieme a Cefeo generò Andromeda. Gli raccontò di come fu punita per la sua vanità, per aver dichiarato di essere, con la figlia, le donne più belle del mondo. Fu mandato un mostro sulla terra e l’unico modo per placarlo era quello di sacrificare Andromeda. Gli narrò le gesta dell’eroe Perseo, che salvò la fanciulla utilizzando la testa della terribile Medusa. Gli svelò, inoltre, che le costellazioni di Cefeo e Cassiopea sono le uniche dedicate a una coppia di sposi. Parlò poi della principessa Andromeda e della Galassia vicino alla sua costellazione. Gli spiegò la storia della costellazione di Pegasus e di come la mitologia lo collegava ai personaggi di poco prima. Gli fece notare come tutte le stelle e i loro nomi fossero collegati tra loro e di quanto fosse interessante scoprirne le relazioni. Arrivò addirittura alla cintura di Orione, a raccontare la storia del Cacciatore, spiegando le origini del suo nome, non ricordando se lo avesse già fatto durante il loro primo incontro o meno. Lo sguardo era perso contro il finestrone davanti a lui, un cielo ancora troppo irragiungibile per poter essere ammirato; la testa nel planetario che aveva costruito nella sua mente, quel luogo sicuro dove amava rifugiarsi quando la realtà iniziava a schiacciarlo sotto il peso dell’ordinario.
    “Sai, a volte, quando guardo le stelle, penso a mia madre.” Le parole fluivano da sole dalla sua bocca, incapace di fermarle. “Non… Non l’ho mai conosciuta ma ho come la sensazione che, solo puntando gli occhi verso il cielo, lei sia vicina.” che lei mi protegga. Sentiva il suo abbraccio, sentiva il suo tocco delicato sulla testa. Sapeva che era da qualche parte, ne era convinto. Il problema era il non sapere: non sapere da dove iniziare le ricerche; non sapere se fosse una strega, una special, una babbana o una magonò; non sapere se fossero suoi gli occhi attraverso cui vedeva il mondo. Gli mancava. Gli mancava pur non avendo memoria del suo volto, né della sua voce. Gli mancava pur non avendo mai avuto modo di parlare con lei, di scambiare anche solo un saluto. Era una cosa stupida, eppure significava tutto per lui. Per Halley.
    “Credo di aver ereditato questa passione da lei.” Ammise piano, troppo stanco per sorprendersi di come quella rivelazione gli fosse uscita in modo così spontaneo, di come fosse facile parlare con Viktor di argomenti così delicati e che lo riguardassero così da vicino. Non era solito esporsi, non era solito parlare di sé, ma sentiva che dell’altro poteva fidarsi. O, quantomeno, correre il rischio di farlo. “Invece, son convinto che l’intelligenza sia di mio padre. Lo immagino con la mente acuta e brillante, con l’espressione di chi è curioso del mondo e del suo funzionamento, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da scoprire. Mi dispiace solo non aver… non averli...” mai incontrati e aver dimenticato un’intera vita passata con loro. La voce era ormai poco più di un sussurro spezzato. Asciugò una lacrima con la mano libera, l’altra ancora persa tra le ciocche ebano, prima di voltarsi verso il volto del francese, controllando se fosse ancora sveglio o se si fosse addormentato, cullato dalla sua voce.
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    La verità era che Hunter fosse riuscito a sorprenderlo, ma non si trattava di certo della prima volta.
    Nel parco era stato imprevedibile e forse era stato quello, più di tutto, a fargli comprendere quanto quel ragazzo fosse… maledettamente attraente. No, non soltanto in senso puramente fisico, sebbene fosse decisamente il tipo d’uomo che poteva tranquillamente considerare appetibile. Riguardava, invece, quei modi totalmente inusuali, quel suo essere impacciato eppure tremendamente seducente; come quei baci che gli aveva dato poco prima, quella sicurezza e passione talmente palpabili da non lasciare dubbio alcuno sulla voracità con cui l'avrebbe, in condizioni normali, divorato. Lo voleva, forse addirittura più di quanto avrebbe mai potuto immaginare e non avrebbe mai pensato che fosse possibile, non che uno come l’Oakes si interessasse a qualcuno di così sfuggente come lo era lui. Non aveva dato modo all’altro di avvicinarsi troppo, anzi, forse nella Sala Torture il suo tono doveva essergli apparso come un invito a sparire dalla sua vista; nemmeno durante la ricerca si era comportato da persona matura, punzecchiandolo per provocarne qualche reazione.
    Il problema principale era stata proprio quella, fottendolo.
    I tocchi, i baci, i respiri di Hunter erano diversi da tutti quelli che l’avevano accompagnato fino a quel momento, ma forse era soltanto una sua percezione, dovuta probabilmente al fatto che fosse caduto con immane sorpresa in quella tela di sentimenti ed emozioni capaci di scombussolargli lo stomaco. Non credeva che ci fosse amore per lui, che si sarebbe mai potuto invaghire di qualcuno tanto da averlo sempre nei pensieri; non era mai esistito e non aveva avuto dubbi sul fatto che sarebbe rimasto solo, per sempre.
    Ma, a dispetto del suo pessimismo, era evidente che non fosse andata secondo i piani ma che, anzi, Hunter fosse stato tanto bravo da rianimare quel cuore che era stato fermo da troppo tempo.

    Le ferite non erano scomparse, né la sua mente risanata. Era solo… sereno. Confortato da quelle carezze, cullato dalla voce del Corvonero a raccontagli dettagli dell’universo che non aveva mai sentito prima, sognando ad occhi aperti quelle storie dal fascino intramontabile. Era rimasto in silenzio per tutto il tempo, senza pensieri a renderlo un fascio di nervi, senza lacrime a rigargli il volto, solo con la mano sempre poggiata su quel petto per sentirne i battiti, confortato da un suono tanto prezioso. Ed era terribile pensare di doversene separare, d’avere la sensazione che quel rumore potesse cessare a causa sua o per colpa di altri. Aveva paura che i Mangiamorte lo avrebbero cambiato, come temeva di cambiare lui stesso. C’era il terrore di quella punizione al Ministero, perché torturare o uccidere spezzavano per sempre l’anima di una persona, dalla più mansueta alla più feroce. Cosa sarebbe successo? Hunter avrebbe conservato quell’innocenza che vedeva brillare in quegli occhi intelligenti, o sarebbe diventato spietato come lo erano tutti i loro aguzzini? Quella scuola era marcia, come lo erano gli abitanti. Pochi, pochissimi, conservavano nel petto la bontà necessaria per sopravvivere. Lui non l’aveva mai avuta e forse era proprio questo a turbarlo, a fargli domandare tacitamente cosa ne sarebbe stato del Viktor che si era impegnato a tenere a galla.

    Eppure, non voleva pensarci. Voleva credere che quella notte sarebbe durata per sempre, cullato da quello che a tutti gli effetti era diventato il suo primo amore. Da quelle falangi affusolate ad accarezzargli gentilmente i capelli e da quella voce roca ad incantarlo tanto da desiderare che non smettesse mai di parlare; lo avrebbe ascoltato per sempre, senza mai perdere interesse, senza mai dubitare delle sue parole. Aveva un fascino ipnotico su di lui, un calore a diramarsi dallo stomaco fino alle guance.
    Si sarebbe perso in quella bocca, non solo per baciarlo come avrebbe voluto fare, ma in contesti più intellettuali; erano così affini, ma anche maledettamente opposti. Entrambi curiosi, entusiasti di poter condividere conoscenze e idee, ma allo stesso tempo testardi e orgogliosi, capaci di far fiammeggiare le iridi di collera. Ah, non avrebbe mai potuto dimenticare quegli occhi in Sala Torture che seppure erano stati colmi di rabbia… erano riusciti a fargli perdere dei battiti.
    In quell’istante aveva solo desiderato di prenderlo per il collo e sbatterlo al muro, se per baciarlo o picchiarlo non era rilevante.

    «Sai, a volte, quando guardo le stelle, penso a mia madre. Non… Non l’ho mai conosciuta ma ho come la sensazione che, solo puntando gli occhi verso il cielo, lei sia vicina.»

    Per un istante, si ritrova a trattenere il fiato, scosso da una simile confidenza, per poi sollevarlo appena a fissare il viso altrui, illuminato fievolmente dalla luce della luna a filtrare dalle tende.
    Era paradossale che Hunter stesse riponendo fiducia in lui, raccontagli dei suoi sentimenti, aprendosi in modo spontaneo tanto da fargli male al cuore.
    Come sempre, silenzioso, lo ascolta parlare. C’era nostalgia nella sua voce, come se avesse perso qualcosa di molto importante che non sarebbe ritornato mai più e che per questo tentava, in tutti i modi, di conservare come un ricordo, sebbene fosse inesistente. L’Oakes non conosceva i suoi genitori, eppure… sembrava come se li avesse vissuti entrambi.

    «Mi dispiace solo non aver… non averli…» stringe appena la stoffa del pigiama altrui, incurante di poter tirare le ustioni e per questo farsi male. Quando Hunter si volta a guardarlo, la mano passa ad accarezzargli gentilmente il viso, ma non accenna nessun sorriso, il volto velato da serietà «Li conosci nel tuo cuore e se fossero qui sarebbero fieri di avere un figlio come te» passa il pollice lì dove era scesa una lacrima, avvertendone l’umido sul polpastrello «e del fratello che sei per Halley» perché era innegabile che l’Oakes lo fosse. Invidiava Halley dal profondo del cuore per quella fortuna, per aver avuto al proprio fianco una persona tanto buona e gentile. Ed era anche bello che Hunter pensasse ai suoi genitori in un modo tanto struggente, che li conservasse nella memoria pur non avendone alcuna. Eppure, sembrava come se fossero collegati da un filo sottile, che lui sapesse bene quali fossero stati i ruoli interpretati nella sua vita.

    «Sei speciale, Hunter» ammette sospirando «E alle volte, mon chèr… è meglio così» perché magari, trovandoseli di fronte, tutto il suo entusiasmo sarebbe crollato. Le aspettative, le convinzioni, avrebbero lasciato il posto all’amarezza. Perché farlo, quando si poteva essere cullati da una bellissima bugia? «conserva questi pensieri nel cuore e ricordali al Ministero, quando ti costringeranno ad essere disumano. Non lasciare che loro ti cambino» gli afferra il viso tra le mani, con delicatezza, ma facendo in modo che i loro sguardi si specchiassero l’uno in quello dell’altro «Non. Lasciarti. Spezzare.» scandisce, perché la vedeva la fragilità nascosta in quell’aura sicura, era palpabile tanto quanto il suo malessere. Se lui era già un pezzo rotto, non voleva che anche Hunter provasse quella spiacevole sensazione di vuoto. Gli lancia un’ultima occhiata penetrante, prima di ammorbidire la presa e lasciarlo libero «gli orrori sono capaci di farti a pezzi e rigurgitarti sul pavimento, di massacrarti fino a non lasciare niente di te stesso» mormora, distendendosi faticosamente di schiena, fissando poi il soffitto. Lui aveva convissuto con orrori chiamati Dallaire per molto tempo «ma» si umetta le labbra, pensieroso «c’è sempre una luce per chi sa cercare. E tu, Hunter, ne hai tante. Piccole fiammelle che ti fanno da guida» Halley, i Losers, i suoi genitori «devi solo imparare a vederle» accenna un mezzo sorriso, scoprendosi dal tessuto pesante per via del fastidio. Per un attimo geme dal dolore, poi sospira «Ah, sembro il barbone di Nocturne Alley che cerca di dispensare consigli esistenziali» snocciola a fatica una risata, imitazione molto blanda di una vera. Pian piano, sfuma nell’ennesimo sospiro «Dormi con me sta notte, mon amour?» mormora, facendo scorrere le dita sul braccio del ragazzo, fino a intrecciarle con le gemelle. Che lo dicesse ad alta voce o meno, aveva bisogno della presenza di Hunter, in quel momento più che mai.

    17 y.o. | Gryffindor
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    I became insane,
    with long intervals
    of horrible sanity.
    I should never be left alone with my mind for too long.
     
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    Complimenti, Hunter! Tu sì che sai sempre come rovinare il mood.
    Sembrava quasi fosse un dono, il suo, che gli permettesse di essere inappropriato e inopportuno in qualsiasi situazione. Poteva continuare a parlare delle stelle, c’erano infinite galassie e costellazioni nell’universo, e invece no.
    Stupido, Hunter. Stupido.
    Una parte di sé continuava a ripeterlo come un mantra, quasi che, raggiunta una certa soglia, potesse poi essere in grado di tornare indietro, riavvolgere il nastro e riprendere il discorso sui corpi celesti, sulla storia dietro i loro nomi.
    Era riuscito a calmare l’altro o, quantomeno, a distrarlo da tutto il resto, e andava bene così. Andava dannatamente bene così. Perché è questo che fanno gli amici, vero? Ti sono vicini nel momento del bisogno, ti supportano, ti sostengono, ti baci… no, ok. Forse non ti baciano, non sulle labbra almeno, ma non era questo il punto. Non quando il volto del francese era più disteso, più rilassato. In fondo, era tutto quello che avrebbe potuto chiedere quella notte, tutto quello che avrebbe potuto sperare dopo averlo visto deturpato, scalfito nel profondo, colpito lì dove faceva più male.
    Si stupì di perdersi ancora una volta in quello sguardo trasparente; non aveva più concezione del tempo da quando era entrato in quello spazio angusto, stretto tra due sottili separè, con l’unico scopo di farlo star meglio, di fare il possibile per lui. Non sapeva cosa aspettarsi, non sapeva cosa trovare. Sicuramente non quella vicinanza, quel leggero intrecciarsi di respiri, né il tocco delicato di quelle dita lunghe e sottili sulla sua pelle. Non credeva neanche che Viktor lo lasciasse avvicinarsi al suo corpo livido e ricoperto di bruciature per provare a medicarlo, come avrebbe potuto anche solo immaginare di poter riassaporare un’altra volta, se non ultima, le sue labbra? Non pensava il Grifondoro volesse ascoltare ancora il suono della sua voce, non dopo le frasi taglienti in Sala Torture, non dopo quegli sguardi di fuoco che si erano lanciati; eppure eccoli lì, a parlare per quelle che dovevano essere state ore. Avrebbe preferito un altro contesto, un altro scenario. Avrebbe preferito concentrarsi solo sulla sfumatura di quegli occhi così brillanti, ricoperti da un leggero velo di malinconia; solo sulla forma di quelle labbra in grado di trafiggere con una parola o ammaliare col più impalpabile dei baci, piuttosto che sugli ematomi i piccoli tagli che gli costellavano il viso. Avrebbe preferito non essere così esausto, così fragile, alla mercé di sentimenti e paure che rischiavano di straripare, di demolire ciò che ancora fosse rimasto in piedi di quell’Hunter che stava ancora imparando a conoscere. Avrebbe preferito che Viktor vedesse solo la parte migliore di lui. Non era un cavaliere senza macchia e senza paura, non era un essere perfetto, ma in quel momento non era lui a dover essere protetto o consolato, non doveva essere lui quello a cui veniva asciugata una lacrima.
    Socchiuse gli occhi, provando a trattenere quel fiume in piena che minacciava di travolgerlo. Era troppo debole, troppo provato per pensare a una scusa, ad alzarsi nuovamente in piedi. Non era abituato a quelle attenzioni, seppur minime; non era abituato ad essere letto da qualcun altro che non fosse sua sorella e… aveva il terrore di essere così semplice, così banale. Aveva paura che ci si potesse stancare facilmente di lui. Che Viktor potesse stancarsi di lui: del suo sorriso insicuro, della sua tendenza a parlare sempre troppo quando qualcosa lo entusiasmava, dei suoi movimenti impacciati. Non vedeva attrattiva in sé, si sentiva più come un libro che, una volta smesso di leggere, tornava a prender polvere sul comodino, uno di quei tomi che si faceva presto a dimenticare. E faceva male, faceva troppo male quell’angoscia che lo perseguitava ogni volta che iniziava ad avvicinarsi a qualcuno, che iniziava a instaurare un qualsivoglia legame.
    Trattenne il respiro, le parole del più grande facevano fatica a raggiungerlo, a consolarlo come avrebbero dovuto. Si sentiva morire dentro ogni volta che affrontava quel discorso, sentiva la presa che aveva sulla sua vita cedere, percepiva solo il vuoto sotto di sé ad attenderlo paziente.
    Non si sentiva affatto speciale: era il frutto di un’educazione rigida, di un addestramento per portare a termine il compito per un causa che non ricordava di aver sposato e che, nonostante tutto, lo aveva portato lì. Era il risultato di notti insonni passate a chiedersi se quel sacrificio ne valesse davvero la pena, se davvero quella di unirsi alla missione fosse l’unica soluzione possibile. Non si sentiva un salvatore, tutt’altro. Hunter aveva la sensazione di essere in stand-by, di non avere un obiettivo concreto, nonostante ogni giorno ricordasse a se stesso la lista delle sue priorità e quali fossero i suoi compiti.
    “Vorrei solo essere normale.”
    Mormorò piano. Niente Custodi, niente Messaggeri, nessuna missione. Voleva solo essere un ragazzino come tanti altri, con una madre e un padre che lo aspettavano a casa per le vacanze di Natale. Desiderava scrivere loro lettere ogni settimana con la consapevolezza che sarebbero state lette, che le sue parole avrebbero ricevuto una risposta. Avrebbe dato qualsiasi cosa per litigare con loro, per lamentarsi con loro dei compiti, per combattere per la sua indipendenza. Avrebbe voluto supplicarli di lasciarlo sveglio a leggere oltre il coprifuoco, avrebbe dato qualsiasi cosa per condividere con loro anche solo un piccolo attimo di felicità, perso in un loro abbraccio. Voleva illudersi, gli bastava davvero un istante, che un giorno avrebbe colmato quella voragine con la loro presenza; ma era da stupidi pensare che qualcuno potesse davvero credere alla sua storia, a quella che avrebbe raccontato con Halley, e che li accettassero come se fossero sempre stati parte della stessa famiglia.
    “Ho paura di non farcela.” di essere spezzato. Di essere distrutto. Di macchiarmi al punto da far diventare Halley figlia unica. “Di non riuscire più a guardarmi allo specchio, di essere ancora uno dei buoni.” Di coloro che usano la magia per fare del bene. Di coloro che hanno ancora un briciolo di umanità. Di chi sa che la propria coscienza è pulita. Di ha ancora speranza.
    Se non avesse più avuto un cuore, sarebbe rimasta anche solo una di quelle fiammelle a fargli compagnia?
    Si mise a sedere lentamente, una smorfia leggera di dolore a increspargli il viso, il riflesso di un sorriso a incurvargli le labbra.
    “Saresti comunque il barbone più igienizzato, disinfettato e con più classe dell’intero quartiere.”
    Le dita correvano sulle lenzuola e sulle coperte appena spostate dell’altro; lo sguardo fisso su quelle porzioni di bende che erano state appena scoperte. Era preoccupato, Hunter, e non per se stesso.
    “Viktor…” Era perso nei suoi pensieri, una frase del Grifondoro detta in precedenza che rimbombava nella sua mente e che, in quel momento, lo aveva particolarmente allarmato. “Il tuo passato non descrive chi sei. Gli orrori che hai vissuto non ti definiscono.” Non sapeva cosa fosse successo, ma quelle parole, quei silenzi, quella consapevolezza e sensibilità mostrata non erano da tutti. Non sapeva cosa quegli occhi avessero visto, non sapeva che tipo di dolore gli fosse stato inflitto, ma aveva la percezione che fosse stato troppo per un’intera vita. “Qualsiasi cosa accada, torna.” in te. A Hogwarts. Da me. “Non sei solo.” Nessuno, in fondo, lo era davvero. Strinse leggermente la presa sulle loro dita, le iridi azzurre rivolte a quell’intreccio, prima di stendersi nuovamente accanto al francese, incapace di abbracciarlo come avrebbe voluto. Non per quel mon amour pronunciato con dolcezza, era stato appellato con talmente tanti nomignoli in quei mesi che non ci fece neanche caso, quanto per quell’istinto che gli urlava di proteggerlo.
    “No, ho paura di muovermi e colpirti per sbaglio. Resterò qui finché non ti addormenti e, domattina, sarò di nuovo da te.”
    O, almeno, questi erano i suoi buoni propositi. Gli bastò chiudere le palpebre una volta sola per scivolare tra le braccia di Morfeo, cullato dal tocco delicato delle dita dell’altro, dal leggero sentore del suo profumo e degli unguenti a pizzicargli le narici. Per la prima volta, dal giorno delle torture, si lasciò andare in un sonno senza sogni, la sua mente che viaggiava in territori tranquilli, sereni. Non c’erano urla, non c’era dolore, non c’era sofferenza. Solo l’azzurro di quegli occhi che, pian piano, lo stavano conquistando.
    I am not a hero.
    I am a scientist.
    Tortured | Not Found | Kind
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    Hunter
    Oakes
     
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