Sedeva con le gambe divaricate e le mani abbandonate pigre in grembo, la schiena affondata nel sedile della limousine e lo sguardo opaco rivolto al – triste – spettacolo fuori dal finestrino. Umettò le labbra, sistemò metodico la manica della camicia nera, e sbuffò quella che avrebbe potuto fallacemente apparire come una risata, ma che ne possedeva solamente l’ovattato suono. La bocca rimase curvata in un sorriso piacevole quanto freddo, gli occhi di un improbabile blu reso ancor più fosco dagli avvilenti colori che i Parker costringevano tutti i loro ospiti ad indossare. Sembrava finto, Yale Hilton, con quella posa plastica più adatta alla copertina di un magazine che all’interno della Lincoln dove, come consueto, consumava il tempo che avrebbe dovuto impiegare altrove. Tipo al pranzo di Natale tenuto tradizionalmente dalla sua cosiddetta famiglia. Tipo. Gli bastava osservare il profilo della villa da lontano, per sentirsi fisicamente malato all’idea di doverci mettere piede, di essere costretto a respirare la loro stessa, decomposta, aria, per ore che gli sarebbero parse esistenze intere. Puzzavano di sangue e vecchio, i Parker – non esattamente l’amortentia del giovane Hilton IV – ed avevano sotto le dita la consistenza vischiosa e quasi affascinante di miele e polvere. Una bellezza antica, ma non senza tempo: l’era d’oro dei Parker s’era sciolta una decade prima, mostrando che sotto la placca dorata non vi fosse altro che ossa e sporcizia. Il fatto che i suoi nonni, zii, cugini, si rifiutassero di crederlo, non lo rendeva meno reale – lo rendeva solo più patetico. Erano di un’altra epoca, i Parker. Incastrati in un utopico mondo dove possedere prestigio significava ancora avere denaro, e dove il potere portava automaticamente con sé ricchezza e privilegi: arroganti, presuntuosi, manipolatori. Erano un covo di serpi, ed avere l’antidoto al loro veleno non significava necessariamente essere salvi – o che iniziassero a piacere i morsi. Mettere piede dentro il loro regno, significava accettare di balzare quattrocento anni di evoluzione e piombare nuovamente nel Seicento, se non che agli usi ed i costumi della società barocca, si aggiungeva la nota di macabro sadismo che ai maghi di un certo calibro piaceva sempre sfoggiare con vanità e orgoglio. Sostanzialmente, era una corte di machiavellici figli di puttana. Un sogno. Non voglio andare. Aveva pensato spesso, aveva pensato sempre, di dirlo – semplicemente dirlo. Non voleva andare. Non voleva respirare l’odore tossico di un mondo di cui non avrebbe mai fatto parte. Non voleva le portate troppo abbondanti o le intense occhiate pregne di giudizio di zii e cugini. E dire che fosse abituato ad essere giudicato dal pubblico, trattato più come un pezzo di filetto dal macellaio piuttosto che come essere umano – e fingere, d’altronde, riassumeva gran parte della sua esistenza. Non era certo del perché fosse diverso, ma lo era. Lo fottutamente ora. Ed anche in quel momento, l’espressione illeggibile ed il respiro quieto nei polmoni, avrebbe voluto dire al suo autista di fare dietro front. Dai, Andres, portami a conoscere le tue figlie e tua moglie; rimango in un angolo, non disturbo nessuno. Ma non l’avrebbe fatto. Non lo faceva mai. C’era evidentemente qualche ingranaggio mal oliato in Yale Hilton che lo costringeva a prendere forzate decisioni del cazzo : non poteva essere solo masochismo. La facciata di Yale era troppo studiata perché a chiunque fosse possibile leggere quanto disperato fosse il bisogno di andarsene da lì; Shiloh e Harvard, l’uno seduto di fronte a sé e l’altra al proprio fianco, conoscendolo quanto Yale voleva lo conoscessero, potevano immaginarlo – ma non per deduzione diretta. Che l’Hilton perdesse una propria espressività, non era un fenomeno così raro: per quanto ne sapevano, il distacco di Yale poteva essere dovuto alla vicinanza fredda e marcia dei Parker, quanto alle specie in pericolo d’estinzione a causa della produzione di olio di palma – o alla lumaca che aveva accidentalmente calpestato una settimana prima, o al fatto che il suo take away di fiducia fosse chiuso per dieci giorni, o che Babbo Natale un tempo fosse verde e non rosso. Sembrava così semplice, Newhaven, visto dall’esterno: trasparente, ingenuo, banale. Superficiale. Ed in parte lo era, ed in parte l’avrebbe preferito. La sua vita sarebbe stata più semplice se fosse stato davvero stupido quanto sembrava. Fece scattare la portiera, uscendo dall’automobile con l’usuale, piccata, eleganza, uno dei suoi tratti distintivi più notevoli – ad aiutarlo nell’impresa, vestiti che odiava ma che non facevano che renderlo più idilliaco, più sogno che uomo nel tessuto che pareva dipinto sulla sua pelle come un raffinato tatuaggio. Avrebbe potuto biasimare tale qualità agli antenati nobili vantati dai Parker, se solo avesse creduto alla leggenda secondo cui possedevano sangue blu: la teoria di Yale era che, ai tempi dove la ricchezza era rappresentata da pelle pallida e viso panciuto, i Parker fossero scudieri. Così. Se lo sentiva nel cuore. «sai qual è la parte migliore di un pranzo dai parker?» domandò distratto a Shiloh, tenendo galantemente la portiera aperta sia per lei che per Harvard. Inutile sprecare parole su quanto sollevato - e terrorizzato - fosse della presenza della mora quel giorno, vi basti sapere che il primo sentimento nasceva dall’impossibilità di tollerare il parentame, ed il secondo dal lato di Yale che riuscivano sempre a tirar fuori: quello più meschino e subdolo, più calcolatore. Non era come loro; avrebbe potuto esserlo, che l’indole del manipolatore di certo non gli mancava, ma credeva nel libero arbitrio: modellava la finzione rendendola realtà, l’onestà in menzogne e viceversa, ma non si sarebbe mai permesso di usare qualcuno per raggiungere un proprio secondo fine. Era stato tentato, centinaia di volte, di adattarsi ai giochi di potere della sua famiglia, ma non aveva ancora ceduto: si mostrava diplomatico, perfettamente disponibile ed educato, lasciando che si scannassero fra loro mentre sorseggiava vino dalla sua coppa in attesa della fine della partita – ma rimanendo fuori dalla scacchiera. Non era la sua battaglia. «no?» Yale allungò un braccio verso di lei per scortarla verso la porta – e sì, lo richiedeva l’etichetta dei Parker: l’Hilton lo trovava esilarante – sistemando nel mentre la pochette verde fluorescente nel taschino della giacca nera. L’avrebbero odiato per quel tocco di colore, ma non sarebbe stato abbastanza da scatenare una guerra civile: a Yale piaceva tastare i confini di quel che poteva fare, e poi prendervi dimora fissa, spingendosi più da una parte che dall’altra a seconda dei giorni e dell’umore. Harvard li superò sistemandosi la giacca, spolverando le spalle come se quel gesto bastasse ad alleggerirle dalla polvere che i Parker, a furia di nascondere sotto i tappeti, ormai emanavano come un costoso profumo. «non lo sai perché non c’è» rispose secco, senza voltarsi a guardarli, con il tono asciutto e delicato che riservava alle transazioni d’affari. Yale sorrise, un eco di quelle parole a galleggiare nella sincera curva della bocca, ruotando i divertiti occhi blu verso la Abbott. «benvenuta in famiglia» bisbigliò sibillino, posandole un bacio gentile sul dorso della mano.
«vivo di piccole gioie,» ore dopo, poggiandosi sulla porta di un Amortentia aperta solo per loro, Yale Hilton sorrise sollevando entrambe le sopracciglia facendo cenno a Shiloh di entrare per prima. «e la sua faccia? capolavoro» Diplomatico, Yale; adorabile, ma si divertiva anche con poco – e tormentare La Madre, risaputo, era il suo passatempo preferito. Da osservatore attento qual era, non gli era stato difficile trovare i regali perfetti per i vari parenti: una stilografica d’epoca, qualche libro ammuffito sull’importanza della magia nera, abiti costosi che i Parker non potevano permettersi – e bla, bla, bla, nulla di spettacolare o degno di nota, né nei doni né nelle prevedibili reazioni dei suoi consaguinei. Almeno non finchè La Madre non aveva aperto il suo, di regalo. Yale, pur non amando applicarsi in alcun campo della magia, era un maestro negli incantesimi di disillusione: quante volte aveva dovuto nascondere tagli – graffi, lividi? Senza contare che, tutti i giorni, fosse costretto a celare la cicatrice causata dal Licantropo quand’era ragazzo. L’avevano obbligato, ad essere bravo in quel ramo degli incanti. Se solo l’avessero tenuto maggiormente in considerazione, avrebbero saputo che prima o poi l’avrebbe usato contro di loro. «c’è mancato poco le venisse un infarto» sorrise gentile alla ragazza alla reception lasciandole la propria giacca, proseguendo nel corridoio dove si affacciavano le stanze adibite ai massaggi. «quasi ci ho sperato.» un altro sorriso genuino e brillante, mentre i polmoni si riempivano dell’inebriante profumo d’incenso della stanza. Ah, quella tradizione era – insieme alla posta dei fan ed il vestirsi da Babbo Natale per i bambini negli ospedali – l’unica cosa che amava del Natale: ottima compagnia, magnifici massaggi, musica pompata direttamente dal deep spotify (il regno di jbalvin & co) e più vino di Robert Baratheon. Bellissimo. «come se potessi realmente regalarle un dildo» ebbene sì: Yale aveva donato a sua madre quello che a tutti i presenti era apparso come un delicato e squisito calice, ma che ai suoi occhi s’era mostrato come un non troppo elegante vibratore natalizio – con anche il naso rosso! Aveva visto il viso della donna sbiancare, pudica come una qualunque provincialotta della California, la posizione farsi rigida ed imbarazzata. Dall’occhiata che aveva sollevato verso di lui, il quale sorridendole aveva infilato innocentemente in bocca una fragola ricoperta di cioccolato bianco, sapeva avrebbe pagato quel suo scherzetto. Non gliene poteva fottere di meno. «nessun materiale resisterebbe alle acide secrezioni vaginali di quella fabbrica satanica» si strinse nelle spalle con sincera ovvietà – e se una tal affermazione rendeva lui ed Harvard malvagi dalla nascita, così fosse: significava solo che avessero più probabilità di evocare un demone. Skill sempre utile. Svuotò (il contenuto del flute, diligentemente preparato per il loro arrivo, in gola) la scatola che s’era trascinato fin lì sul lettino vuoto fra quello che avrebbe occupato lui, e quello che spettava alla Abbot: era il momento di leggere la posta dei fan per Natale. Yale era esattamente quel genere di VIP che fotografava ogni dimostrazione d’affetto dei suoi ammiratori, e caricava le foto su instagram con sentiti ringraziamenti. «mi spogli?» domandò, sporgendo il labbro inferiore all’infuori. Era davvero troppo pigro per esistere, Yale Hilton: dannazione, lo sapeva che avrebbe dovuto comprare («yale, non puoi…non puoi comprare le persone» «forse tu non puoi, penn: watch me») Davide anche sotto le feste!!&& Mannaggia le ferie. Vorrei dire che un tempo l’Hilton non fosse così, ma sarebbe una menzogna: uno dei suoi ricordi migliori dell’adolescenza riguardava una Fergie intenta ad imboccarlo, ed una Shiloh impegnata a fargli i grattini - insieme, certo. Avrebbero dovuto conoscerlo meglio da osare scommettere contro di lui: raramente si metteva in gioco, ma quando lo faceva era per vincere. «per favore.» aggiunse accorato, battendo languido le fitte ciglia scure. «e intanto, come ricompensa -» con un sospiro più da novantenne che da giovane nel fior degli anni, si chinò in avanti afferrando una lettera indirizzata a lui dal cumulo sparso (ed erano solo una parte!!) di fronte a sé, strappando la busta con i denti per farsi scivolare sul palmo la pergamena. Profumava di vestiti beje. Si schiarì la voce: « oh yale, ti guardo e penso a una stella marina mimicchio lucente come i tuoi stivali dolce e un po’ salato, il cacciavite le banane, lo stesso materiale di cui sono fatti i tuoi sogni la potenza metaforica del tuo uovo mi fa sobbalzare, womo, bello come te, compiaci i miei ventilatori animaleschi supercalifragilistichespiralidoso, fatti per te con il kwore!» che pathos.
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