isle of flightless birds

mabel & aaron

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    Quando aveva lasciato l'Avis, con la lettera di Eugéne in tasca ed il cuore pesante come un macigno, si era affrettato a far ritorno al proprio dormitorio per poter rileggere le parole di Maverick e cercare una spiegazione, una qualsiasi, che potesse dissipare ogni sua preoccupazione. Aveva paura di far riemergere una verità che avrebbe fatto meglio a tenere occulta, aveva paura di non riuscire più a guardare Aaron come aveva sempre fatto alla luce di una consapevolezza tutta nuova: che fossero fratelli, consanguinei, legati da un vincolo familiare che non poteva in alcun modo essere macchiato dalla passione, dal desiderio che fino ad allora avevano provato l'uno per l'altro. Lo terrorizzava l'idea che il Serpeverde, venuto a conoscenza del quadro completo, avrebbe deciso di troncare ogni rapporto avessero mai avuto, ma ancor di più temeva di non essere in grado di reprimere ciò che provava per lui nonostante tutto. Comprendeva Eugéne, maggiore tormentato dalla colpa per un sentimento immorale, quasi più di quanto non riuscisse a comprendere Maverick, soffocato da una tremenda sensazione di vuoto incolmabile a cui non riusciva a dare spiegazione altra che la propria natura danneggiata.
    Aveva letto e riletto le due missive fino a sentir bruciare gli occhi, fino a svuotarsi della paura, del dubbio, dell'impotenza dinanzi all’idea non aver modo di appurare i fatti, ma neppure di cancellarli. Ogni domanda su cosa fosse giusto fare, sull'informare o meno l'Icesprite, sul bruciare le lettere e dimenticarle o sul prenderle sul serio ed accettarne le conseguenze, ogni quesito cancellato via come una macchia particolarmente resistente ma non indelebile. Chiudendo le palpebre riusciva ancora a leggere le parole impresse sulla carta, quasi gli si fossero stampate sugli occhi, ma non provava più niente. Vuoto. Era il suo modo di fuggire alla sofferenza quello di annullarsi, di spegnere il cervello ed agire senza controllo, senza alcuna razionalità. Se gli avessero chiesto cosa avesse fatto in quelle ore passate dietro alle tende del proprio baldacchino, in silenzio ed assolutamente noncurante dei suoi compagni di stanza, non avrebbe saputo dirlo.
    Scorreva gli occhi dal palmo della mano all'incavo del gomito e non ricordava nulla, non riusciva a rievocare neppure un'immagine dell'istante in cui le sue cicatrici erano tornate a riaprirsi, scarlatte, come se il tempo non le avesse mai rimarginate. Sapeva d'avere il vizio di ripassarle più e più volte con le dita nei momenti di distrazione, ma non aveva idea di come una lama potesse aver nuovamente riaperto la sua pelle diafana in maniera tanto meticolosa, attenta a non lasciare tracce troppo evidenti ma abbastanza profonde da raggiungere lo scopo: bruciare.
    Aveva ricominciato a sentire il dolore solo una volta abbassate le maniche della felpa, quando il tessuto a contatto con le ferite l'aveva bruscamente riportato alla realtà, facendolo vergognare immensamente per quanto aveva fatto.
    Certe abitudini erano dure a morire, lo sapeva bene, ma non ricorreva a certe soluzioni da tanto, troppo tempo, ed era arrivato a convincersi che non ne avrebbe più avuto bisogno. Si era sbagliato, come molte altre cose nella sua vita.
    Tornato cosciente, eppure ancora sovrastato dal quell'immenso nulla alla bocca dello stomaco, rimase insonne fino alla mattina seguente, disteso sulle propria lenzuola sfatte con i fogli stropiccianti sparsi su tutto il materasso senza criterio. Attese che nella stanza calasse l'assoluto silenzio, che i suoi coinquilini scendessero in Sala Grande per la colazione e per le rispettive lezioni, poi si premurò di inviare un messaggio ad Aaron, la calligrafia tremolante per via del dolore ancora pulsante su entrambe le braccia. Non gli diede alcuna indicazione, non specificò niente: gli chiese solo di raggiungerlo lì, pur conscio di quanto potesse risultare complicato in pieno giorno. Non gli importava.
    Infine, senza più forze per via della notte in bianco e del caos che non accennava a lasciare la sua testa, chiuse le palpebre e attese, deciso ad alzarsi in piedi solo per aprire la porta al maggiore.




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    Quando aveva visto Mabel fuggire letteralmente dall’Avis, con uno sguardo preoccupato e febbricitante, aveva capito che qualcosa, proprio, non andasse. In primo luogo, non era mai capitato che nell’arco di quelle settimane il minore scappasse senza nemmeno una spiegazione, lasciandolo solo come un idiota a chiedersi dove e cosa avesse sbagliato. Poi, dopo qualche istante di smarrimento, si era reso conto della mancanza della missiva che, a quanto sembrava, il Withpotatoes aveva deciso di portare con sé. Ed era una cosa insolita a pensarci bene, perché Mabel era sempre stato rispettoso della sua privacy, dei suoi spazi e mai avrebbe preso qualcosa di suo senza prima domandarglielo.
    Il comportamento del Tassorosso era stato sin da subito sospetto nei confronti della lettera e, se analizzava meglio la situazione, non poteva negare d’aver sentito nello stomaco qualcosa simile al turbamento. Non gli erano sfuggite le occhiate di Mabel alle lettere impresse su carta, l’evidente disagio o il guizzo di chi stava tentando disperatamente di non prendere consapevolezza. Era assurdo che quell’Eugéne avesse scatenato una reazione tanto improvvisa. D’altronde, ricordava abbastanza bene cosa ci fosse scritto, perché era semplice non dimenticarsi di ciò che, per tutta la sua vita, erano state le sue passioni o i suoi piccoli tic.
    Persino quel Baudelaire-Hansen aveva degli atteggiamenti ossessivi, specialmente con l’etichettare le pozioni da lui create; oppure, spesso, si rifugiava nella lettura, lontano da quella famiglia che tanto odiava.

    Il sentimento che legava Eugéne a Maverick era qualcosa che gli faceva male. Non aveva idea del perché si fosse sentito tanto dispiaciuto o empatico nei confronti di quel ragazzo, ma era un qualcosa che non riusciva a controllare, come se avesse vissuto quella cosa in prima persona. Come se si fosse rinchiuso in casa da solo, per anni, avvalendosi dell’odio come scusa per non affrontare il fratello.
    La malattia del mondo magico, poi, era diventata un’ossessione per Eugéne e gli chiedeva, senza alcuna remora, di trovare una soluzione. Ma come poteva pensare che tutto quello fosse vero?

    Il comportamento di Mabel, però, gli suggeriva che qualcosa proprio non tornasse.
    Aveva passato l’intero pomeriggio ad arrovellarsi il cervello, provando a cercarlo per i corridoi del Castello, nelle Aule, persino nei bagni e l’unica soluzione che gli era venuta in mente era che si fosse rifugiato nel dormitorio, probabilmente sperando di non essere disturbato.
    Ovviamente, per quanto ci fosse rimasto male, non aveva intenzione di pressarlo; era giusto che sbrigasse le sue faccende, qualsiasi esse fossero.

    Aveva dormito malissimo, chiaramente. Il pensiero del Withpotatoes gli era balenato in mente per tutta la notte, impedendogli di riposare in maniera serena. Non sapeva nemmeno se, quel giorno, sarebbe riuscito ad alzarsi dal letto per seguire le lezioni, ma sapeva che se non si fosse alzato non solo sarebbe rimasto indietro, ma avrebbe perso l’occasione di cercare Mabel e non poteva di certo permetterselo.

    Solo quando si sistema la camicia della divisa dentro i pantaloni, allacciando la cintura, vede un gufo picchiettare alla finestra. Si avvicina, aprendola ed afferrando la lettera nel becco del pennuto che, poco dopo, vola via. Riconosce immediatamente la grafia, seppur tremula, del minore e, senza aspettare oltre, la apre per leggerne il contenuto. In realtà, si aspettava qualcosa di diverso, forse una spiegazione o un “ci vediamo dopo”, ma la sorpresa non poteva che risiedere nelle frasi scritte su quella pergamena, in un chiaro invito a raggiungerlo nel dormitorio dei Tassorosso.

    Con passo veloce, quasi non vedesse l’ora di capire che diamine stesse succedendo, percorre il corridoio delle cucine, fino ad andare oltre, raggiungendo un mucchio di grandi botti che sapeva fungere da ingresso.
    Dà dei colpetti sulla seconda botte a partire dal basso, al ritmo di “Tosca Tassorosso” (insegnatogli chiaramente dal Withpotatoes) aprendo così il passaggio. Si assicura che non ci sia anima viva, considerando l’orario in cui tutti (almeno sperava) fossero diretti alla Sala Grande per la colazione, salendo le scale per raggiungere la stanza del minore. Una volta su, non si premura nemmeno di bussare, troppo preoccupato persino per ricordare le buone maniere. Con una certa urgenza, apre la porta in legno, entrando all’interno della stanza e guardandosi subito intorno per cercare la figura del più giovane.

    «Mabel!» esclama, raggiungendo il letto a baldacchino, notando la spossatezza del Withpotatoes, percependola come se fosse la sua. Delicatamente, si siede sul bordo del letto, afferrandogli il braccio per scostarlo dal viso, preoccupato «Mi spieghi che diamine succede? Sei scappato via come una saetta! Sono stato in pensiero tutto il pomeriggio» gli accarezza dolcemente il dorso della mano, in apprensione «… non hai dormito?» domanda, infine, notando le occhiaie a contornare quei bellissimi occhi azzurri, pesti e appena più liquidi «Non hai pianto, vero? Ho fatto qualcosa di male?» diamine, non avrebbe mai voluto essere la causa di un tale malessere! Eppure poteva essere un gran coglione quando si ci metteva!


    La Gif al centro è chiaramente un Eugéne selvatico. PERCHÈ SI.


    Edited by Miss Badwrong - 2/12/2018, 02:02
     
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    Non sarebbe voluto fuggire via in quel modo, senza dare neppure una spiegazione al maggiore, ma le parole gli erano morte in gola nell'istante in cui aveva sentito il nome di Eugéne. A dir la verità, ciascuno dei nomi impressi sulla lettera che aveva ricevuto per il suo diciottesimo compleanno aveva continuato a vorticare tra i suoi pensieri per tutto quel tempo e con una certa insistenza, tanto da poterli ricordare uno per uno senza troppe difficoltà: Belladonna, Sinclair, Orion, Brooklyn, Cassidy, Scarlett, Maverick, Eugéne. Ognuno di essi portava con sé un emozione diversa. Rammarico per i primi due, calore per il terzo, nostalgia per gli altri, familiarità per Maverick e per Eugéne dolore, acuto ed insistente come una lama sulla carne viva, la stessa che più volte aveva finito per accarezzargli il braccio come in un infelice deja-vú di sensazioni.
    Cos’altro avrebbe potuto scegliere dunque, se non Orion, come nome da aggiungere al proprio al raggiungimento della maggiore età? Era una cosa che aveva sempre voluto fare, quello di affiancare al nome designato per lui dalla sua famiglia adottiva un appellativo scelto personalmente, sebbene non avesse mai avuto idee su quale scegliere. Quelle cinque lettere, ripetute più e più volte nella lettera di Maverick, gli avevano infuso una sicurezza che nient’altro era mai riuscito a dargli, così non aveva avuto dubbi.
    Nonostante ciò, non aveva mai dato alla lettera l’importanza che avrebbe forse dovuto sin dal principio. L’aveva presa come un segno del destino, uno stupido escamotage di chissà quale gruppo di fanatici per avvicinare nuovi fedeli al proprio credo, ma ne aveva apprezzato la creatività, aveva lasciato che quelle parole assumessero uno specifico significato dentro di sé.
    Se ne pentiva amaramente adesso, tormentato dall'idea non solo che ognuno di quei nomi potesse effettivamente essere esistito, ma che si fosse trovato per tutto il tempo dinanzi ad uno dei protagonisti di quell'assurda storia senza averlo mai riconosciuto, scambiando il legame di sangue che li accomunava per amore, provando per lui cose che un fratello mai avrebbe dovuto provare.
    Poteva giustificarsi, poiché forse se avesse saputo sin dall'inizio non avrebbe provato quell'indicibile desiderio, ma non poteva mentire a sé stesso: non solo non riusciva a pentirsene, aveva l’impressione che anche il suo futuro sé, Maverick, avesse provato il suo stesso sentimento pur crescendo nella stessa casa del maggiore, pur essendo a conoscenza sin dall'inizio della loro parentela. Peggio: Maverick aveva quanto meno rifiutato di metabolizzarlo, lui non riusciva più a toglierselo dalla testa. Non importava in che epoca si trovassero o in che famiglie fossero cresciuti: in qualche modo, lo spettro di quell'amore malato continuava a seguirli ed a perseguitarli senza tregua. Oramai Mabel ne era convinto.
    C'era una parte di sé che ancora sperava di aver torto, che parlarne con Aaron sarebbe riuscito a scacciare via quegli assurdi pensieri, ma il suo lato più razionale comprendeva che non sarebbe stato tanto semplice. Non solo la storia di Maverick, ora congiunta a quella di Eugéne, aveva perfettamente senso, ma c'era una piccola coscienza dentro di sé che sapeva, che continuava ad urlargli di credere ad ogni parola impressa sulla pergamena. Era impossibile ignorarla a quel punto.

    Aprì improvvisamente le palpebre sentendo aprirsi la porta, provando a tirarsi su per non sembrare eccessivamente disfatto agli occhi del maggiore, ma aveva dimenticato di avere ancora delle ferite fresche su entrambe le braccia: ricadde sul materasso con una smorfia dolorante, sforzandosi tuttavia di mascherarla con uno sbadiglio. «Cristo Aaron.» si lamentò, coprendosi il viso con la mano, fingendo di essere infastidito dalla luce. Il tocco dell'altro sulla pelle martoriata gli fece scattare il braccio all'istante, mettendosi immediatamente a sedere seppur con maggior riguardo di prima.
    «Sì, hai ragione, ma tregua.» provò a fermare l'infinito flusso di parole che il maggiore pareva intenzionato a scaricargli addosso. Con le dita dell'altra mano sollevò leggermente il tessuto dalla pelle che l'Icesprite aveva prima afferrato senza troppo riguardo, tornando finalmente a respirare. Attese qualche istante di riprendersi dal dolore prima di allungarsi verso le pergamene sparse sul letto, quelle di Eugéne e quelle di Maverick, ed ordinarle in due pile compatte da poggiarsi sulle gambe. «No, ma che pianto. Devo solo essermi addormentato un po'.» mormorò abbozzando un sorriso, reprimendo l'impulso di ricambiare il tocco dell'Icesprite ed insieme quello di ritrarre la mano: non voleva ferirlo, era l'ultima delle sue intenzioni. «Sto bene, davvero. E tu non hai fatto niente.» lo rassicurò, annuendo appena per dar maggiore forza alle sue parole, ben conscio di risultare tutt'altro che sereno. Era sempre così dopo i vuoti di memoria: restava per un po' stralunato, quasi non si fosse ancora davvero svegliato dall'incoscienza.
    «Questa è tua» gli porse la lettera di Eugéne, fingendo il tono più neutrale possibile. «avrei dovuto chiedertelo prima di prenderla, scusami.» aggiunse poi, afferrando anche la lettera di Maverick ed osservandola un po' prima di porgergli anche quella. «E vorrei che leggessi questa.» disse semplicemente, quasi che non si trattasse di niente di importante. Si accorse, nel consegnargli la missiva, di un sottile lembo di pelle scoperta sul polso. Lasciò d'impulso le dita dell'Icesprite per abbassare la manica della felpa, incastrando poi entrambe le mani tra le ginocchia e sporgendosi verso di lui, in attesa.




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    Non capiva. Sul serio, più si sforzava di dare una spiegazione razionale al comportamento di Mabel, più avvertiva l’incertezza prendere strada nel petto. Non sentiva la tranquillità che di solito li accompagnava, né la sensazione di essere nel posto giusto, condizionato forse da quello sguardo fin troppo preoccupato per poter essere associato ad una sciocchezza. Sembrava come se fosse accaduto qualcosa di grave, di irreparabile, tanto da dubitare delle parole del Withpotatoes. Diceva che non era colpa sua, ma lo guardava a stento. Non si era ritratto dai suoi tocchi, ma aveva assunto una posa rigida, come se volesse scappare. Gli sembrava persino che provasse dolore o forse era solo una sua impressione, ma sicuramente non c’era nulla di normale quella mattina. Niente che potesse farlo rilassare dal peso sullo stomaco che, prepotente, sembrava aver preso il sopravvento su tutto il resto.

    «Mabel… cosa c’è?» domanda, con un tono impensierito, quasi che l’altro gli stesse nascondendo qualcosa. Con distrazione, afferra la lettera di Eugéne, dando un’occhiata di sbieco alle lettere e poi a Mabel, confusamente. No, non avrebbe dovuto prenderla senza permesso, ma non era di certo arrabbiato, tanto più pieno di dubbi; cos’aveva spinto il Tassorosso a rubargli quella lettera, sparpagliandone i fogli sul letto insieme ad altri che, chiaramente, non erano appartenuti al Baudelaire-Hansen?

    «Che cos’è?» afferra quei fogli ingialliti dal tempo, ancora non totalmente convinto. Mabel continuava a non dargli spiegazioni e se da una parte ne era irritato, trovandolo esasperante, dall’altra provava una sorta di ansia che si stava insinuando tra le pieghe del suo cuore con dolore. Non aveva mai visto il Withpotatoes con un’espressione tanto seria, scuro in volto come se avesse appena visto morire il suo gatto.

    Sospira, dunque, umettandosi le labbra e iniziando a leggere la missiva.
    Man mano che procede con la lettura, il cuore inizia a battergli frenetico nel petto; la sensazione che tutto quello fosse reale sembrava volergli spaccare il cranio in due, troppo sconvolto anche solo per proferire parola. Le palpebre dapprima affilate, si sgranano, mostrando il terrore, quasi la realizzazione di una tale verità potesse dilaniarlo dall’interno.
    Era assurdo. Impossibile.

    Leggeva di Maverick come se lo avesse davanti a sé e forse… forse era proprio così. Quella lettera era stata indirizzata a Mabel e raccontava una storia diversa da quella del suo emittente, ma pur sempre collegata. Maverick era il fratello di Eugéne, di cui quest’ultimo era innamorato, provando un sentimento malato, tanto da spingerlo all’isolamento. Il minore parlava di Orion, della sua vita, della perdita dovuta alla malattia; del rimorso, della nostalgia e della voglia di morire. Ogni lettera, ogni frase sembrava bruciare come acido, infettando tutto, rendendo qualsiasi cosa terribilmente sbagliata.
    Non voleva credere a nessuna di quelle parole, eppure… come? Tutto tornava. Tutto era perfettamente collegato, specialmente i nomi a riaffiorare nella memoria come stilettate: Belladonna, Sinclair, Orion, Scarlett… tutti avevano un passato, ognuno di loro avrebbe potuto essere lì, qualcuno di conosciuto ma sconosciuto allo stesso tempo.

    Con sgomento, solleva il capo per fissare Mabel. La bile a risalirgli lungo l’esofago come veleno.
    Non riusciva nemmeno a guardarlo in viso, consapevole adesso di quello che erano stati e che, a quanto sembrava, continuavano ad essere. Ora comprendeva perché il Withpotatoes fosse stato adottato. Lo stesso valeva per lui, quasi sicuramente. Perché come spiegavano entrambi i fratelli, la morte portava ad una rinascita, ma non naturale, quanto più magica; loro non erano nati da una donna, ma dal nulla, possedendo ancora il sangue ad unirli.

    «No» scuote il capo, posando i fogli sul letto, schiarendosi la gola e continuando a negare «No, no. No. Non può essere.» era impossibile metabolizzare delle informazioni del genere, capaci di mettere in discussione qualsiasi scelta, qualsiasi legame. Cosa importava, adesso, se l’amore che provasse per Mabel era reale? Se il sé stesso del futuro volesse Maverick nonostante la parentela a legarli? Che fosse un Medimago? Che fosse morto da solo? Gli stava per venire una cristi isterica.
    Se fosse stato lucido, probabilmente avrebbe notato i tagli sul polso dell’altro, ma non lo era. Voleva solo sparire.

    Si alza dal letto, dando le spalle al—cosa? Fratello? Amante? Cos’era ora Mabel? Si mette le mani sui fianchi, respirando pesantemente ed abbassando il capo, quasi volesse trovare una soluzione nel legno malconcio del pavimento. Voleva urlare che non avesse alcun senso, che quella stupida lettera fosse una trovata per metterli l’uno contro l’altro, ma… in cuor suo, sapeva che non c’era niente di falso, che fosse vero. Erano condannati a provare amore l’uno per l’altro, nonostante fosse abominevole. Eppure… non riusciva comunque a smettere di amare Mabel. Forse era così che si era sentito Eugéne, schiacciato, incapace di darsi pace, tanto da preferire la morte e l’oblio piuttosto che patire la sofferenza.

    «Non ci posso credere» mormora, portandosi una mano sul viso, deglutendo «che tu sia mio fratello.» dirlo ad alta voce aveva l’effetto di uno schiaffo, perché metteva tutto sotto una luce completamente diversa.

    Chi era? Quando aveva deciso che essere un Mangiamorte fosse la scelta giusta, mentre il Baudelaire-Hanser era Neutrale? Non era nemmeno un Corvonero come Eugéne, ma ne covava gli stessi interessi. Perché era finito nei Serpeverde?
    C’erano troppi interrogativi e nessuna risposta.

     
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    Chissà cosa si era aspettato dal Serpeverde. Forse una risata roca, un 'dai, non puoi crederci sul serio, è evidentemente una stronzata' e poi un bacio, come se nulla fosse accaduto. Sarebbe stato un epilogo perfetto per quell'assurda situazione, l'unica felice risoluzione. Forse avrebbero bruciato le lettere ed avrebbero insieme riso sul loro contenuto, ricordandole in seguito come uno stupidissimo scherzo a cui avevano quasi creduto. Che sciocchi.
    Ma Aaron continuava a leggere, silenzioso, in viso un'espressione tutt'altro che ironica e le dita sempre più serrate sui fogli scritti dalla calligrafia tremolante di Maverick, ora straordinariamente simile alla sua nel biglietto che aveva scritto al maggiore quella mattina. Attendendo senza proferir parola che l'Icesprite finisse di analizzare il contenuto della lettera, giunse ad un nuovo livello di consapevolezza: Maverick non era altro che una versione di sé completamente svuotata, giunta ad uno stadio successivo di autodistruzione. Mabel aveva ancora un briciolo di speranza, dato forse dal fatto di esser cresciuto una famiglia più equilibrata, di non aver ancora perso nessun innamorato, di non aver provato amore per un fratello. Maverick non aveva più niente: solo dolore, solo paura di non potersene mai più liberare. Non aveva dovuto scegliere tra vivere e morire, aveva scelto tra morire e morire con un'opportunità, forse convinto di poter ricominciare da capo in modo migliore. Aveva fallito. Se anche fosse rinato cento volte, in cento circostanze diverse e circondato da facce ogni volta nuove, sarebbe sempre giunto a quel capolinea, alla terribile sensazione di poter risolvere tutto solo smettendo di esistere. Mabel affogava il dolore in altro dolore, Maverick nell'inesorabilità della morte.
    Era convinto che neppure se Aaron fosse stato Orion le cose sarebbero andate diversamente, perché il Withpotatoes - così come il Baudelaire-Hansen - non sarebbe mai stato capace di sentirsi completo. Non c'era modo di cambiarlo.
    «Penso che tu sappia qual'è la verità.» si limitò a mormorare, il capo chino e lo sguardo fisso sulle proprie mani tremanti. Era ormai chiaro che anche l'Icesprite fosse giunto alla sua stessa conclusione, ovvio che entrambi sentissero di trovarsi dinanzi ad una verità assoluta ed innegabile.
    Chiunque avrebbe potuto dire che ci fossero solo due soluzioni, a quel punto: ignorare qualunque presunta parentela potesse legarli e continuare a stare insieme, nascondendo il peccato nel silenzio, o lasciare che il tempo guarisse la delusione ed infine provare a vivere come fratelli. Ma per Mabel entrambe le opzioni erano futili, prive di significato. Qualunque cosa avesse scelto niente ormai l'avrebbe liberato dalla consapevolezza di essere guasto, di non poter essere felice né con Aaron, né senza Aaron. Non era un problema d'immoralità o di rinuncia, era di più, molto di più. Era la stessa voglia di Maverick di spegnere la luce.
    «Non so cosa dovremmo fare» ammise per rompere il silenzio, divenuto ormai assordante. Si liberò delle lenzuola e si alzò in piedi, raggiungendo il maggiore pur senza il coraggio di sfiorarlo. «ma, ecco, era giusto che tu lo sapessi.» la voce ridotta a un sussurro, un nodo in gola talmente forte da fargli bruciare gli occhi. Si passò una mano sul viso, cercando di scacciare l'orribile sensazione di dover piangere. Dio, era andato così bene fino a quel punto...
    «Dimmi qualcosa, non lo so, una qualunque» si lasciò sfuggire alla fine, schiarendosi la gola per dare un taglio a quel tono terribilmente sconsolato. «Dimmi che sai come risolvere questa cosa.» strinse i denti, tornando a guardarsi le mani come incapace di riconoscerle.




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    Si sentiva svuotato da ogni emozione.
    Aveva solo quel maledetto groppo in gola e la voglia, sempre più pressante, di piangere ogni lacrima e lasciare che lavasse via quella sensazione di sgomento insidiata nello stomaco. Da una parte avrebbe voluto fare finta di niente, bruciare quelle lettere e tornare alla normalità, ma dall’altra sapeva di non poterlo fare, perché ormai erano impresse nella sua mente con il fuoco.
    Il dolore di Maverick e Eugéne era stato fin troppo reale. Forse, se si concentrava, poteva percepire il suo futuro Io nelle vene, corroderlo tanto quanto la disperazione che l’aveva portato a suicidarsi, a cercare una pace in una vita che, evidentemente, voleva solo prendersi gioco di lui.
    Passato, presente, futuro… non c’era nessun tempo che potesse sciogliere quel legame che lo univa a Mabel. In qualsiasi epoca, avrebbero finito per ritornare l’uno nelle braccia dell’altro o, com’era stato per i due fratelli, soffrire tutta la vita ritrovandosi separati fino alla fine.

    Lui non voleva in nessun modo separarsi da Mabel.
    Per quanto l’idea che condividessero il sangue fosse assurda e deplorevole, non poteva negare a sé stesso di capire Eugéne alla perfezione. D’altronde, non erano altro che due facce della stessa medaglia, tormentati e attaccati a qualcosa di irraggiungibile. Ma il Withpotatoes non era così lontano, non era suo fratello in quella vita, non erano cresciuti insieme. Quindi, potevano essere definiti sul serio dei deviati? Dei peccatori? Poteva toccarlo, desiderarlo, nonostante tutto?
    Tutte quelle domande si erano accumulate in un battito di ciglia, abituato ad arrovellarsi la mente per quesiti più futili.

    La presenza del Tassorosso alle sue spalle lo fa tendere come una corda di violino, per un attimo, quasi avesse il terrore di dire o fare qualcosa di sbagliato. Poteva percepire il tremore nella voce altrui, il bisogno di una risposta che non poteva dargli, perché non aveva idea di cosa fosse giusto o sbagliato, chi fosse e quali scelte avrebbe dovuto prendere in futuro.
    C’erano cose che dipendevano interamente da lui, da loro, dagli altri provenienti da un futuro lontano. Era lì non solo per sfuggire ad un sentimento, ma per trovare una soluzione, per evitare che il mondo magico cadesse in rovina. Il 2043 sembrava più cupo e pieno di morte di quanto non fosse il suo presente e la cosa lo terrorizzava.
    Aveva bisogno di ragionare, di darsi delle risposte su questioni molto serie, rivalutando il suo ruolo all’interno della cerchia dei Mangiamorte, il suo desiderio di diventare un Pavor per dare spazio alla carriera da Medimago, professione molto cara ad Eugéne. C’era anche l’idea che forse avrebbe dovuto prestare più attenzione a Mabel, visto quanto le parole di Maverick fossero cariche di intenti suicidi e non era da escludersi che il Withpotatoes non ne fosse influenzato.
    C’erano davvero troppe cose il ballo, tanto da gettarlo in uno stato di totale confusione.

    Le parole altrui lo scuotono dalla trance in cui era caduto, a fissare il vuoto per quelle che gli erano sembrate ore. Lentamente, lascia cadere le braccia lungo i fianchi, voltandosi per fronteggiare quello che, ormai era palese, fosse suo fratello. Lo fissa, con gli occhi lucidi, ritrovandone i lineamenti che da sempre l’avevano attratto; Eugéne provava un amore smisurato per quegli occhi azzurri, gli stessi che gli avevano fatto perdere la testa.
    Era sempre Mabel, qualsiasi nome gli si attribuisse, restava sempre il suo Mabel.

    «Vorrei sapere come risolvere tutto questo, ma… non lo so» mormora, umettandosi le labbra, alzando la mano per accarezzare il viso pallido del Withpotatoes, con estrema dolcezza. Le iridi azzurre liquide e le sopracciglia appena aggrottate, come se provasse un immenso dolore. Perché dovevano ritrovarsi in una situazione tanto spiacevole? Perché non potevano fare finta di nulla ed essere una coppia normale, nonostante sapesse che dopo quegli scritti nulla sarebbe stato più lo stesso?
    «Non voglio fare lo stesso errore di Eugéne e Maverick» scuote il capo, attirandolo in un abbraccio, stringendoselo al petto come se valesse tutta la sua intera vita. Il profumo di Mabel era quanto di più confortante potesse sentire in quel momento «vivere a metà. Io—non posso. Non voglio ripetere la storia. Loro sono morti soli, sono—morti con un peso nel cuore. Noi siamo morti con quel peso, Mabel» Dio, gli veniva da piangere. Affonda il viso tra i ciuffi chiari, respirando tremulo «questa è solo la conferma che il tempo non può cancellare il fatto che io ti appartenga. Sono tuo in qualsiasi forma e non posso fare a meno di amarti. Che io mi chiami Eugéne, Aaron-- non ha importanza.»

    Sarebbero potuti rinascere altre mille volte ancora, ritrovandosi sempre allo stesso punto.
    Sempre, perdutamente innamorati.
     
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    Come ogni qual volta si trovava dinanzi ad una difficoltà, in questa vita e nell'altra, finiva per aggrapparsi disperatamente a qualcuno nella speranza che questi potesse in qualche modo salvarlo. Non era un approfittatore, semplicemente non si fidava abbastanza di sé stesso e non credeva di avere abbastanza forza per tirarsi fuori da solo dalle situazioni spiacevoli, mentre tendeva ad idealizzare gli altri in maniera persino troppo ingenua. In un'esistenza in cui trarre sostegno dal proprio fratello maggiore non faceva che causare ulteriore sofferenza, Maverick aveva incontrato Orion. Grazie a lui aveva finito la scuola e grazie a lui non aveva perso del tutto la ragione nonostante il graduale eppure inevitabile allontanamento dalla famiglia Baudelaire-Hansen. Ma in quella vita Orion non era mai nato, non era ancora nato e, in assenza degli attriti che avevano finito per dividere Maverick ed Eugéne, Mabel non riusciva a far altro che affidarsi ad Aaron, sebbene non sempre ne condividesse le opinioni, sebbene il solo guardarlo gli causasse ormai sofferenza. Era ancora certo che lui avrebbe trovato la soluzione, che avrebbe rimesso ogni cosa al suo posto. Per questo la sua ammissione d'incertezza finì per spezzarlo, improvvisamente terrorizzato all'idea di trovarsi dinanzi ad un baratro talmente profondo da non poter essere superato neppure dal Serpeverde, lui che aveva sempre la risposta ad ogni cosa e che era tanto incrollabile ai suoi occhi. Si morse una guancia, talmente forte da sentire il sapore ferroso del sangue sul palato, eppure un dolore piacevole nella speranza di controllare qualunque altra reazione emotiva eccessivamente manifesta. Desiderava solo andare via, correre lontano senza meta alcuna, allontanarsi da quel posto, da Aaron, da sé stesso.
    Fu solo l'abbraccio dell'Icesprite a fermarlo e, una volta ritrovatosi contro il suo petto, ebbe l'impressione di non essere più capace di trattenersi. Si lasciò sfuggire un sospiro, nascondendo il viso nel tessuto della sua divisa e strizzando gli occhi per impedire alle lacrime di scivolargli sulle guance.
    Forse, se non si fosse mosso, sarebbero potuti restare così per sempre. Forse non avrebbero avuto bisogno di nient'altro, di confrontarsi o di accettare lo stato delle cose. Rimase immobile dunque, le braccia lungo i fianchi ed il capo ancora chino nell'abbraccio del Serpeverde.
    «questa è solo la conferma che il tempo non può cancellare il fatto che io ti appartenga. Sono tuo in qualsiasi forma e non posso fare a meno di amarti. Che io mi chiami Eugéne, Aaron-- non ha importanza.» questo, più di qualunque altra cosa gli avesse detto, lo colpì come una spada in pieno petto. Malgrado tutto, malgrado quanto fosse sbagliata quell'unione, malgrado la sua consapevolezza che il vero problema risiedesse unicamente in sé stesso, per un attimo si sentì nuovamente sereno. Non aveva bisogno d'interrogarsi per sapere se fosse disposto o meno ad accettare di stare con Aaron a prescindere da tutto, né tanto meno avrebbe potuto contraddire in alcun modo le sue affermazioni. Tutto il resto, la paura, il vuoto, il dolore, potevano essere messi in secondo piano dinanzi a quell'unica certezza rimastagli: lo amava anche lui, e certo non avrebbe smesso di farlo tanto facilmente. Se fosse stato capace di gettarsi quel sentimento alle spalle come carta straccia, allora forse l'avrebbe fatto, più per vivere meglio con sé stesso che per volontà; ma non lo era, non era tanto forte da poter semplicemente dimenticare.
    Sbatté un paio di volte le palpebre, prendendo un profondo respiro prima di convincersi a sollevare il capo, allontanandosi d'un soffio dal corpo di Aaron. Lo osservò, chiedendosi cosa sarebbe stato giusto dire. E non che non avesse migliaia di parole da rivolgergli, solo che era dannatamente difficile scegliere quelle da tirar fuori per prime, dar loro un ordine coerente.
    Avrebbe voluto chiedergli se davvero per lui potesse andar bene andare avanti come se non fossero mai stati fratelli, legati da un vincolo di sangue indissolubile. Se ne avrebbe mai fatto parola con qualcuno, se fosse interessato a conoscere i suoi veri genitori, se sapere di essere Eugéne avesse in qualche modo cambiato il suo essere Aaron come lui sentiva che Maverick aveva finito per cambiare sé, e se si fosse pentito di essere rinato e di aver commesso ancora una volta gli stessi errori.
    Forse sarebbe stato il caso di mostrare un minimo di reticenza, quel necessario per apparire un minimo dispiaciuto piuttosto che in attesa solo di un segnale che potesse fargli credere consentito portare avanti una relazione con un proprio familiare. Che idea si sarebbe fatto di lui se l'avesse baciato? Eugéne probabilmente non si sarebbe sottratto, ma Aaron? Poteva essere certo che non avrebbe cercato di sottrarsi, guardandolo poi con un certo disgusto sebbene le sue parole gli avessero suggerito il contrario? Magari aveva compreso male, magari l'appartenenza di cui parlava Aaron era un puro fatto di sangue. Ma che altro poteva fare? Era ormai certo che, qualunque cosa avesse detto, non avrebbe cambiato niente. Allontanarlo era l'ultimo dei suoi desideri, avvicinarlo gli faceva terribilmente paura. Aveva convissuto col terrore tutta la vita però, era ormai in grado d'infischiarsene abbastanza da agire, almeno di tanto in tanto.
    Non proferì parola dunque, allungandosi appena per posare le labbra su quelle dell'altro, aggrappandosi con tutte le sue forze a quel contatto e poggiando le mani sul suo petto, stringendo il tessuto fra le dita come a voler impedire all'altro di allontanarsi qualora ci avesse provato.
    Non pensava più a niente: non ai tagli sulle braccia, non alla sensazione di vuoto, non alle due lettere né all'eventualità di poter ancora piangere. Non gli importava di nient'altro.




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    Se il sentimento che li legava non fosse stato tanto forte, non avrebbe perso tempo nel tirarsene indietro, sconvolto dalla possibilità di baciare, toccare ed amare suo fratello. Probabilmente avrebbe agito esattamente come aveva fatto, a suo tempo, Eugéne. Confinato nel suo appartamento come un animale in gabbia, sotterrato da una miriade di libri solo per non pensare di essere un deviato, di aver trasformato un sentimento innocente come l’affetto per un fratello, in qualcosa di molto più serio. Eppure, non era stata forse l’Amortentia a confermare che non vi fosse possibilità di scampo? Il Baudelaire-Hansen sentiva lo stesso, identico odore. Per Eugéne, Maverick, era diventato un’ossessione che, seppure irraggiungibile, l’aveva condotto alla pazzia; quel ragazzo aveva dovuto abbandonare tutto e tutti, solo per permettere al fratello di vivere una vita serena, con Orion al suo fianco.

    Ma lui non era Eugéne, perlomeno non più. E Mabel non era mai stato un suo famigliare, non avevano legami di sangue visibili. Lui era un Icesprite, non un Baudelaire-Hansen. Forse avrebbe potuto trarre da quella lettere qualcosa di positivo, magari prendendone il meglio e rivalutando alcune scelte, per prendere in considerazione la causa per cui il suo Io futuro lo aveva pregato tanto di trovare una soluzione. Per vivere meglio, avrebbe rinunciato all’idea di diventare un Mangiamorte, probabilmente dedicandosi alla Medimagia, piuttosto che all’intenzione di diventare un Pavor.
    Ma Mabel? No, non poteva lasciar correre, fare finta che non volesse toccarlo, baciarlo, sentirlo sottopelle come se facesse parte di lui. Forse Eugéne era stato frenato dal fatto che avesse convissuto con Maverick tutta la vita, legati dalla stessa casa, dagli stessi genitori, ma lui no.
    Era riduttivo limitare tutto ad una mera rinascita; se così fosse stato, avrebbero ricordato tutto del loro futuro, portando a termine la missione senza battere ciglio. Ma così non era, ormai erano entrambi persone diverse, ancorate a idee diverse, con sentimenti uguali, ma diametralmente opposti.

    Percepiva chiaramente i pensieri del Withpotatoes spaccarlo in due; forse era lui che non aveva la capacità di trovare la loro relazione riprovevole, forse non aveva abbastanza forza per allontanare il Tassorosso trattandolo diversamente o forse Eugéne gli stava suggerendo di prendersi finalmente quanto lui non aveva potuto. Era terribilmente difficile, ma… era un egoista. Lo sapeva e ne era a conoscenza persino Mabel.
    Le dita del minore gli stringevano la camicia con forza, tentando di mantenersi ancorato a qualcosa; voleva essere il suo punto fermo, ma non possedeva le risposte che il minore tanto ricercava. Avrebbe solo recitato la parte più congeniale, quella adatta all’occasione, provando a far sentire il minore più sereno possibile.

    Quando Mabel lo bacia, probabilmente a corto di parole, o con così tanti quesiti da non riuscire nemmeno ad esprimerli, non si ritrae. Anzi, lo avvolge con un braccio portandoselo vicino, mentre l’altra mano la posa tra i capelli, stringendoli appena più forte, come a fargli capire che fosse lì, che non avesse intenzione di andare da nessuna parte. Certo, avrebbe dovuto rispettare la volontà dell’altro, qualora avesse deciso di farla finita, ma… come?

    Dopo qualche secondo, si scosta, tenendo però la fronte a contatto con quella di Mabel. Gli occhi chiusi ed un sospiro a morirgli sulle labbra che umetta per ritrovare il sapore altrui.

    «Lo capirò se non vorrai continuare» mormora, con un il pollice ad accarezzare il labbro inferiore del Withpotatoes, perché se quello doveva essere il loro ultimo bacio, voleva conservarlo, voleva sentirlo fino a morirci «e non voglio farti nessuna pressione. È difficile da metabolizzare per entrambi… ma qualsiasi decisione prenderemo, io non ti lascerò solo» era estremamente difficile dire una cosa del genere, perché sapere di non poterlo toccare l’avrebbe fatto impazzire, ma lui non era Eugéne, non avrebbe lasciato da solo Mabel, a qualsiasi prezzo. Lo afferra dalle spalle, alla fine, ricercando il suo sguardo come per cercare una conferma «Mabel, guardami. Tu non sei Maverick, devi ricordarlo. Non hai niente a che fare con quell’uomo. Qualsiasi cosa ci sia scritta in quelle lettere… riguarda persone che non esistono più. Possiamo cambiare in meglio, prendendo spunto dagli errori, ma non farci condizionare» e di questo dovevano convincersene entrambi. Non c’era niente che avrebbe potuto prepararli a quella rivelazione, ma insieme avrebbero fatto il possibile per venirne a patti «Tu non sei mio fratello. Non lo sarai mai. Forse abbiamo condiviso il sangue, un tempo, ma come ho già detto noi siamo Aaron e Mabel, non Eugéne e Maverick. Non c’è Orion, non c’è Scarlett. Siamo solo noi e piuttosto preferirei che mi lasciassi perché tu lo vuoi, non per qualcosa di imposto da degli estranei. Se questo deve essere un peso per te, se volessi ritornare ad un punto sicuro, io rimarrò comunque al tuo fianco, okay?»

    Sospira, baciandolo sulla guancia, questa volta in modo più leggero, come a volerlo tranquillizzare.
    La realtà dei fatti era che, adesso, non potevano più fare finta di niente. Avrebbero dovuto convivere con quelle nuove rivelazioni, accettandole e decidendo cosa voler fare della loro vita, senza però lasciarsi influenzare.

    Sarebbe stata una bella sfida rimanere insieme nonostante tutto.
     
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    A Mabel erano rimaste poche certezze. La prima: voleva ancora stare con Aaron, forse persino più di prima. La seconda: il suo star male non era frutto di un capriccio o di una tendenza vittimista, ma qualcosa di ben più radicato che aveva superato il tempo ed un'intera esistenza praticamente illeso. La terza: non voleva restare da solo.
    Non aveva bisogno di riflettere, né di ponderare più a fondo la decisione da prendere circa il destino della sua relazione con il Serpeverde. Se il maggiore avesse accettato di continuare quella relazione, di trovare assieme un modo per star bene malgrado tutto, lui non avrebbe opposto la minima resistenza. Indubbio, non sarebbe stato tanto lascivo se al posto di Aaron ci fosse stato Isaac o Idem, ma loro non erano cresciuti assieme, fino a poco tempo prima a stento si erano mai rivolti la parola, e non provava per lui lo stesso affetto che avrebbe provato per uno qualunque dei suoi familiari. Come aveva sottolineato l'Icesprite stesso, loro non erano più Eugéne e Maverick. Quella relazione, per quanto ancora segnata da un legame di sangue, non aveva niente di sbagliato, niente che facesse presupporre la stessa tragica fine dei suoi predecessori.
    Il problema, per quel che lo riguardava, esulava del tutto il loro rapporto. Era un suo problema personale che non era nato certo con l'arrivo di quelle lettere, ma che piuttosto si era portato addosso sin da bambino e che ora sentiva solo più amplificato, forse in sintonia con le parole del suo alter sconfitto da quello stesso dolore. Era come se d'improvviso tutto fosse diventato più chiaro, come se ciò che fino ad allora aveva disperatamente cercato di seppellire stesse riemergendo con violenza, ricordandogli di essere ormai nient'altro che un caso perso. Per quanto si sforzasse, per quanto si aggrappasse con tutto sé stesso alla forza delle parole di Aaron, non riusciva a vedersi felice. Magari era solo ancora suggestionato da quanto aveva commesso la notte precedente, forse quella terribile sensazione sarebbe sparita nel giro di poche ore, ma in quell'istante aveva l'impressione niente sarebbe stato in grado di consolarlo. Neppure le labbra di Aaron.
    «Non voglio che tu ti senta costretto a stare con me.» mormorò dopo averlo lasciato finire, la voce roca e le mani ancora un po' tremanti. «So che mi ripeterai per l'ennesima volta che non sei il tipo da fare le cose per obbligo, ma questa è una circostanza diversa e quindi, davvero, non voglio che ti preoccupi per me. Io sto bene.» non era vero, ma non voleva che l'altro restasse al suo fianco per compassione o per paura che commettesse chissà quale sciocchezza. L'ultima cosa che voleva era scontrarsi giornalmente con la pietà nei suoi occhi, quello non avrebbe potuto sopportarlo.
    «Però, se davvero pensi... insomma, che si possa fare...» si spostò una ciocca dalla fronte, la lingua fra le labbra per formulare una frase che non risultasse terribilmente imbarazzante. «Vabbè, hai capito, io voglio stare con te anche più di prima.» perché non si trattava più di una persona qualunque incontrata per caso. Senza saperlo, Mabel aveva cercato lui per tutto il tempo e l'aveva riconosciuto nonostante il tempo e nonostante le circostanze. «Non è una specie di fetish strano, credo, non penso?» aveva così tanto bisogno di giustificarsi, non voleva che l'altro lo giudicasse in maniera errata ma, allo stesso tempo, non voleva neppure fingere un perbenismo che non gli era mai appartenuto. «E' che sono sempre innamorato di te, fratelli o non fratelli. Che posso farci?» ammise infine, tormentandosi la guancia coi denti per il nervosismo. «Mi dispiace, probabilmente ti sto solo incasinando di più le cose.» sospirò, conscio di star chiedendo probabilmente troppo. Invero, era stato il maggiore ad esporsi per primo in quel senso, ma non era stato del tutto esplicito sul volere ancora una relazione di quel tipo nonostante le recenti scoperte e Mabel non poteva permettersi fraintendimenti tanto delicati. «Magari potremmo cercare di capirci qualcosa in più prima o, non lo so... A me va bene qualsiasi cosa tu voglia fare. Anche se dovessi preferire...» no, per niente, fuori discussione. Era inutile fingersi tanto maturo da poter accettare d'incontrarsi senza stare insieme davvero. Non avrebbe potuto sostenerlo. «O magari dovresti prenderlo come un segno del destino e scappare finché sei in tempo.» scherzò, ma non troppo.




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    Ormai era diventata un’abitudine quella di sentirsi dire “non devi farlo per obbligo”, come se stare con Mabel significasse in qualche modo venire vincolato. Insomma, quante volte avrebbe dovuto ripetergli che no, non era affatto obbligato a fare un bel niente? Però, per quella volta, si limita a scuotere il capo, conscio che l’altro non avesse bisogno di sentirsi dire, per l’ennesima volta, “ti faccio volare dalla Torre di Astronomia”, ma più una rassicurazione.
    Era chiaro come il sole che il Withpotatoes non stesse bene con quella nuova consapevolezza, che si stesse arrovellando il cervello pur di trovare una soluzione che fosse in grado di spiegare tutto; ma entrambi sapevano che, a parte l’ironia di quella scoperta, non vi fosse nulla che potessero fare per sfuggire al loro destino.

    Eugéne e Maverick non erano mai stati amanti, né avevano condiviso un vero e proprio rapporto. Da quello che aveva letto, il maggiore dei due si rifiutava persino di stargli accanto, proprio per evitare di cadere in tentazione e commettere un gesto avventato capace di distruggere tutto. Eugéne scriveva che non avrebbe mai potuto sopportare di leggere nelle iridi azzurre del fratello il disgusto, la rabbia ed infine il disprezzo, perché avrebbe segnato definitivamente il suo totale declino. Ah, se avesse saputo che il minore covava lo stesso sentimento, seppure represso nei meandri della sua coscienza. Perché aveva inteso che Maverick avesse capito abbastanza bene la situazione e, com’era stato giusto, aveva preferito rifugiarsi nelle braccia di Orion, un ragazzo che l’aveva aiutato a superare tutte le difficoltà. Nemmeno Scarlett, comunque, era riuscita ad alleviare le pene del maggiore dei Baudelaire-Hansen, ormai troppo corrotto e anestetizzato per rendersi conto di qualsiasi cosa non riguardasse Maverick o la malattia.

    Era stata una vita infelice quella del suo alter ego e il pensiero di essere stato così solo non faceva altro che spingerlo verso Mabel come una calamita, conscio di non voler sprecare la seconda occasione che il destino sembrava avergli dato. Dovevano solo mettersi in testa che non ci fossero legami di sangue, che fino a prima di conoscersi non avessero avuto nemmeno idea della loro reciproca esistenza; estranei fino a prova contraria. D’altronde, non era il sangue a determinare un rapporto di parentela, ma il fatto di vivere sotto lo stesso tetto, di crescere insieme, di avere un affetto totalmente differente rispetto a quello tra due amanti. Loro non erano nulla di tutto quello, fortunatamente.

    «No, io voglio stare con te. Non sono costretto» anzi, probabilmente se avesse saputo dei tagli a ledere la pelle di Mabel, avrebbe provato in tutti i modi a dargli sollievo, ma non lo sapeva, non ancora «e le circostanze sono diverse. Però ti chiedo di non mentirmi, è evidente che non stai bene» delicato, gli accarezza il viso, appena più pallido, con le occhiaie profonde ad evidenziarne l’aria malaticcia «voglio che tu sia sincero con me. Sono qui per aiutarti. Ormai, direi che siamo andati oltre le stronzate adolescenziali» dopo quella rivelazione dubitava che potesse esserci altro capace di stupirlo, letteralmente.

    Alla domanda sul “fetish” strabuzza gli occhi, sorpreso, passandosi poi la mano sul viso. Una domanda pertinente, ma scarsamente furba. Non era di certo un fetish, il loro, altrimenti non avrebbero mai reagito in un modo tanto sconvolto, al contrario si sarebbero saltati addosso senza nemmeno stare lì a pensarci. Solo che in genere si trattava di finzione, la gente pretendeva di avere legami di parentela.

    «Non lo penso, per carità. Siamo stati solo sfortunati» subito si corregge «non—non intendevo dire che siamo stati sfortunati ad incontrarci. Solo, ad essere vissuti come fratelli prima—dopo—argh. Rinati, ecco, non mantenendo le coscienze passate—future. E che cazzo» sbuffa, alzando gli occhi al cielo. Passato, presente, futuro, trapassato prossimo—era mai possibile essere così incasinati?

    «Comunque» svia il discorso, diventato fin troppo complesso. In quel momento non aveva voglia di stare dietro alle date, benché meno pensare alla logica dietro quei viaggi nel tempo «nonostante la mia incapacità con le date… posso assicurarti che anche io sono innamorato di te, questa deve essere una certezza» asserisce, afferrandogli una mano con decisione, quasi volesse trasmettergli quella (falsa) sicurezza che gli stava mostrando «Eugéne non poteva. Io posso, fino a prova contraria non sei un mio parente. Nessuno sa di quelle lettere, presumo. Nessuno potrebbe mai immaginare nulla, dato che sanno perfettamente chi sono i tuoi fratelli, i Withpotatoes, così come conoscono mio nonno e gli Icesprite.» beh, questo era innegabile. Poi, per un attimo, si blocca, mormorando un “Oh…” «Ma quindi—siamo Mezzosangue?» domanda, lasciandosi scappare un suono simile ad un lamento «Ho parlato troppo, l’altro giorno» e questo, bambini, si chiama karma.

    Ascolta comunque le parole del ragazzo e, sebbene avesse il viso coperto dalla mano (segno di esasperazione per la rivelazione precedente) gli rivolge un piccolo sorriso «Non scapperei nemmeno se ti spuntasse un’altra testa» dice, attirandolo a sé per abbracciarlo, abbassandosi per colmare la differenza d’altezza, solo per affondare il viso nella spalla del minore e mormorare «… avrei voluto essere un’altra persona capace di farti stare bene. Qualcuno di normale, come Orion. Mi dispiace.»
     
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    Non aveva mentito sullo stare bene per mancanza di fiducia o di consapevolezza, solo che credeva si trattasse di una questione strettamente personale. L'avrebbe condivisa con Aaron se solo avesse creduto che dargli una tale preoccupazione potesse comunque portarli a qualcosa, ma la verità era che nemmeno il maggiore avrebbe potuto aiutarlo. Era una cosa che doveva risolvere da solo, che riguardava solo sé stesso ed in cui non avrebbe lasciato entrare nessuno, che si sarebbe personalmente premurato di celare. Non era un bravo bugiardo, questo andava ammesso, ma era determinato ad innalzare una parete ancora più alta per allontanarsi dal resto del mondo, almeno per il tempo sufficiente a rimettersi in sesto o a farla finita con tutto quel casino.
    «Davvero. E' ovvio che non sia una cosa semplice, ma me la caverò.» lo rassicurò dunque, annuendo appena e rivolgendogli uno dei suoi mezzi sorrisi. Raggiunse le dita dell'altro per intrecciarle con le proprie, un gesto che oramai aveva assunto una certa importanza fra loro: per quanto fosse ancora scosso e per quanto tempo forse gli sarebbe servito per sentirsi almeno un po' meglio, quel contatto riuscì a stemprare il suo nervosismo. L'idea di aver quanto meno evitato di perderlo era già di per sé un sollievo.
    «Non lo penso, per carità. Siamo stati solo sfortunati» subito si corregge «non—non intendevo dire che siamo stati sfortunati ad incontrarci. Solo, ad essere vissuti come fratelli prima—dopo—argh. Rinati, ecco, non mantenendo le coscienze passate—future. E che cazzo» strinse le labbra per trattenere una risata, divertito dalla difficoltà del maggiore nell'orientarsi in tutta quella matassa di presente e futuro insieme. In effetti, aveva tante domande in proposito: da qualche parte in quello stesso momento esistevano davvero Belladonna e Sinclair? Presto sarebbe nato un altro Maverick? Era forse destinato a ripetere la stessa vita del suo alter in un loop eterno? C'era forse un modo per confermare il legame di sangue che condivideva con Aaron? Né lui né il Serpeverde erano in grado di saperlo, ma forse per alcuni di quei quesiti avrebbero potuto trovare delle risposte. Il problema era più di natura personale: volevano davvero avere tutte quelle conferme? Aaron aveva ragione nell'affermare che, fino a che loro due sarebbero stati gli unici a conoscenza di quella storia, allora la cosa sarebbe potuta rimanere trascurabile. Una volta coinvolte altre persone, una volta ricevute maggiori delucidazioni su ciò che erano stati, forse sarebbe diventato più difficile ignorare la questione fratelli, e di certo Mabel non aveva intenzione di rovinare tutto per pura curiosità.
    «Mi sa che ti toccherà fartene una ragione» un ghigno divertito si dipinse sulle sue labbra. Era stato proprio l'Icesprite ad affermare con tanta convinzione la sua ideologia Mangiamorte, e certo non doveva essere semplice neanche per lui dover mettere in discussione ogni credenza avesse mai avuto, eppure... Eppure non riusciva a non sorridere. Era un brutto modo per far cambiare mentalità ad una persona, ma di certo si stava rivelando efficace: forse adesso avrebbe smesso di dichiararsi tanto fedele al Regime e ad appoggiare alcune delle sue idee meno coerenti al concetto di giustizia. Forse sarebbe diventato più tollerante, ed avrebbero avuto meno punti di discussione in futuro. «caro il mio Mezzosangue.» aggiunse con tono mellifluo, avvicinandosi poi a posargli un bacio sulla guancia come a volersi far perdonare.
    «Non scapperei nemmeno se ti spuntasse un’altra testa» sfiorò ancora per qualche istante il viso di Aaron con la punta del naso, chiedendosi a che punto baciarsi con l'intensità di sempre sarebbe diventato nuovamente normale. Sì, ne sentiva un disperato bisogno.
    Si lasciò comunque avvolgere in quell'abbraccio, posando una mano sulla nuca del Serpeverde ed affondando le dita fra i suoi capelli chiari, beandosi della sensazione dei loro corpi vicini, uno a sorreggere l'altro. «L'hai detto tu, non siamo più quelle persone» sussurrò in risposta alle parole del maggiore, schiudendo le palpebre per metabolizzare quanto aveva detto senza lasciarsene sopraffare. «e comunque Maverick non è mai stato del tutto felice, neanche con Orion.» l'aveva amato, era stato suo compagno e suo amante, sua ancora di salvezza nei momenti peggiori... Ma no, neanche Orion era riuscito a sistemarlo davvero. «Non quanto lo sono io con te, almeno.» lasciò la presa sul collo del maggiore per infilare la mano sotto la sua maglietta, lì dove le cicatrici di Aaron sfilavano una per una perfettamente tangibili. Le sfiorò coi polpastrelli, chiedendosi se adesso avrebbero smesso di fargli tanto male.




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    Mettere in discussione tutte le sue convinzioni, specialmente in un modo tanto brusco, non era di certo facile, ma non impossibile. Su una cosa, però, aveva sempre avuto ragione: i Ribelli non erano altro che portatori di guai, un’altra faccia della stessa medaglia. Eugéne aveva spiegato molto bene il suo rapporto con entrambe le fazioni, traendo le sue conclusioni e distaccandosene senza il minimo rimorso, aiutando però tutti indistintamente in caso di necessità medica. Nessuno era stato in grado di badare al benessere generale, accecati dal potere, dalla convinzione di essere da una parte i governati assoluti, dall’altra i salvatori del mondo magico. Che poi, quello stesso non era altro che un cumulo di malati ammassati per le strade a causa di un errore, compiuto più che altro per puro ego, senza considerare affatto le conseguenze.
    Le parole del Baudelaire-Hansen gli avevano aperto nuove possibilità, rivalutando per un attimo la sua posizione. Perché se da una parte il Regime gli sembrava sempre meno pretenzioso, dall’altra non riusciva più a sentirsene partecipe, quasi come se avesse capito, finalmente, la strada verso cui indirizzarsi. Certo, non aveva mai tenuto in considerazione l’impiego da Medimago, ma a vederla nell’insieme avrebbe avuto senso, data la sua passione per le Pozioni. Magari, arrivati a quel punto, avrebbe anche potuto smetterla con i veleni e dedicarsi alle magie curative a tempo pieno. Non avendo però un campione da studiare, dubitava comunque di poter fare molto per limitare il danno del virus… come fare? I Ribelli non avrebbero mai cambiato la loro posizione in merito, probabilmente agendo nello stesso identico modo, causando la pestilenza per una seconda volta. E allora… la storia si sarebbe ripetuta? Avrebbero nuovamente sofferto o, quella volta, lui e Mabel sarebbero rimasti insieme per affrontarne le conseguenze?
    E se erano lì, in un’altra vita, tutte le persone rimaste nel 2043 facenti parte della vita di Eugéne erano ancora vive? C’erano dunque delle realtà parallele? La sua realtà sarebbe collassata come quella del suo Alter o sarebbe rimasta intatta?

    Gli faceva male la testa.

    «Andiamo… non prendermi in giro» bofonchia, con il viso sempre nascosto nell’incavo della spalla del Withpotatoes, beandosi dei tocchi leggeri prima sulla nuca, poi sotto la maglietta. Era ancora una novità quella di lasciarsi toccare tanto intimamente, perché non amava quella parte di sé. Per dirla tutta, faticava ancora all’idea che Mabel potesse vederle, ma arrivati a quel punto pensava che non avrebbe potuto fare altrimenti «Mi dispiace per queste cicatrici… dovrai farci l’abitudine, purtroppo» non sapeva quanto tempo sarebbe passato per metabolizzare la storia dei fratelli Baudelaire-Hansen, ma per lui poteva anche chiudersi lì; non gli importava del loro legame futuro, loro erano lì nel presente e niente gli avrebbe fatto cambiare idea su quell’incompatibilità dei due rapporti. Erano amanti e non parenti, in quella vita, non avevano niente di cui vergognarsi. Probabilmente, era meglio non possedere alcun ricordo, essere cresciuti in famiglie diverse, così da limitare l’impatto che altrimenti avrebbe avuto il tutto.
    Francamente, si sentiva a posto con la coscienza e sebbene all’inizio ne fosse rimasto sconvolto (forse lo era ancora, in realtà, ma non voleva dare altri pensieri al ragazzo) non aveva potuto fare altro che accettare la sua natura.
    Eugéne si meritava di essere felice e lo stesso poteva dire di Maverick. Erano stati così infelici per tutta la vita… non avevano motivo di ripetere nuovamente quella sofferenza.

    «Pensi che Orion lo sapesse?» domanda, cingendogli i fianchi con le braccia e sollevandolo da terra solo per spostarsi vicino al letto. Era abbastanza forte, nonostante Mabel pesasse—non troppo, ma di certo più di un ragazzo sedentario. Era anche molto più basso di lui, ma non per questo meno massiccio. Quelli erano tutti i muscoli allenati per via del Quidditch «… wow, te la mangi la spesa!» esclama, vendicandosi per poco prima, reprimendo un sorrisetto, ma mettendosi a sedere, trascinando il Withpotatoes su di sé, in modo d’averlo sulle gambe. Piuttosto che stare impalati al centro della stanza, preferiva abbracciarlo in maniera più comoda. E poi… era stanco di doversi abbassare così tanto! Gli sarebbe venuta la gobba, continuando di quel passo.

    Si sistema meglio, dunque, e torna con il viso ad affondare tra il collo e la spalla altrui, respirando il profumo del Tassorosso, imprimendolo nella mente, nei polmoni, dovunque. Aveva bisogno di sapere che fossero lì, reali, ancora vivi. Desiderava confrontare le idee, trovare una soluzione che potesse portarli avanti senza sensi di colpa futili e terribilmente pesanti, come macigni sulla schiena.
    Voleva avere la certezza che Mabel non si pentisse e non si sentisse schiacciato da quella relazione, perché sebbene fosse un egoista maledetto, voleva solo preservarlo. Forse non aveva morale, troppo abituato ad uccidere e infischiarsene per preoccuparsi di una cosa tanto innocua, ma magari il Withpotatoes non era così predisposto al rischio o ai sensi di colpa. Magari se ne sarebbe pentito. E se avesse trovato il suo Orion, lì, da qualche parte? E se lo avesse riconosciuto tra mille, provando lo stesso amore e lo stesso bisogno? Avrebbe dovuto imparare a convivere con la consapevolezza di dover prendere una scelta.

    «Credi che la malattia arriverà anche qui, se non facciamo qualcosa?» si scosta appena, solo per poterlo guardare in viso, trovandolo sempre, maledettamente, bello. Come si poteva essere così? Così tutto, così perfetti. Non se ne capacitava, ma comprendeva sempre di più quanto scritto dal Baudelaire-Hansen riguardo all’ossessione per gli occhi azzurri del fratello. Perché erano diversi dai propri, più limpidi e cristallini, dalle venature appena più chiare. Li conosceva così bene, ormai, probabilmente da tutta la vita (le sue due vite) da poterli dipingere ad occhi chiusi.

    «Abbiamo un compito, possiamo decidere se ignorarlo o portarlo a termine. Dobbiamo solo riflettere bene» era una decisione abbastanza difficile, in realtà.
    Con delicatezza, gli afferra la mano, portandosela alle labbra per baciarla, come sempre.

    «Sai, quel giorno in dormitorio… dopo la festa di Halloween» si umetta le labbra, accennando un breve sorriso «mi sono pentito di non averti osservato meglio» confessa, quasi volesse alleggerire l’atmosfera per non pensare troppo alla serietà della situazione «ho trovato le lentiggini sulle tue spalle una delle cose più sexy che abbia mai visto. Solo che ancora non avevo capito il perché mi piacessi così tanto» sbuffa una risata dal naso, quasi come a ricercare la compostezza ormai perduta «avrei dovuto capire che c’era qualcosa che mi spingeva verso di te, la prima volta al campo da Quidditch. Ho avuto sempre un debole per i tuoi occhi ed è stata la prima cosa che ho pensato. Subito dopo, invece, che sei un cretino, quel “Mate” non me lo leverò mai più dalla testa. Come fai ad essere entrambe le cose?» sospira, trattenendo l’ennesimo sorriso.

    Mabel era capace, persino senza fare niente, di scioglierlo come neve al sole.
     
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    Poteva sembrare piuttosto rude, ma al Tassorosso poco importava del futuro e del suo dovere, in quanto informato dei fatti, nei confronti dell'umanità. Aveva difficoltà ad immaginarsi a distanza di qualche mese, figurarsi di venti: non gli piaceva pensare così tanto in avanti e non aveva più spazio per stipare un'altra preoccupazione di cui farsi carico.
    Come Maverick si era sempre disinteressato del 'bene superiore', al punto da entrare in chiaro conflitto con suo fratello, così Mabel aveva poca per non dire nessuna voglia di trascinarsi dentro ad una questione ben più grande di lui. A differenza del suo alter, avrebbe almeno cercato di capire l'interesse del maggiore nel volersi rendere utile, ma probabilmente mai sarebbe riuscito ad impegnarsi a sua volta. In ogni caso, non ne avrebbe avuto le capacità: di certo non era mai stato così abile negli Incantesimi Curativi, né tanto meno nelle Pozioni, men che meno avrebbe saputo intavolare un conflitto diplomatico per evitare la diffusione del virus sul nascere. Al massimo avrebbe potuto dare il suo supporto morale all'Icesprite? Quello l'avrebbe fatto sempre, suo malgrado.
    Ecco, ad assaporarne il profumo vicino al viso, accarezzandone la pelle martoriata e stringendolo a sé ancora più forte, il nodo che gli si era stretto nel petto il pomeriggio precedente si stava via via sciogliendo. Fino a qualche attimo prima si sarebbe detto senza speranza, ma più gli stava vicino e più la speranza tornava a far capolino nel suo animo quasi sconfitto. Forse per lui le cose sarebbero potute andare diversamente che a Maverick, forse lui sarebbe riuscito a farcela con Aaron, per Aaron, perché l'ultima cosa che desiderava era abbandonarlo, dargli un dispiacere, privarsi del suo calore. Magari il Serpeverde non era che un palliativo, in grado di farlo stare bene solo per qualche istante prima che lo sconforto tornasse a prendere il sopravvento, ma Mabel preferiva pensare che invece fosse la cura definitiva a quel dolore che mai l'aveva lasciato, ma che con il maggiore aveva iniziato a farsi più sopportabile.
    «Te l'ho detto, mi piacciono.» sussurrò, le labbra ad un soffio dal suo orecchio. «In generale mi sono sempre piaciute. Sanno di vissuto.» d'altronde, anche le sue erano cicatrici vissute. Erano la testimonianza delle sue sofferenze ma anche di come, in qualche modo, ancora non l'avessero trascinato verso la morte. Aveva superato ogni momento più tragico, ogni nuovo taglio sulla pelle diafana: sperava di restare sempre in grado di rialzarsi. «E poi sei tu.» aggiunse, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
    «Pensi che Orion lo sapesse?» non sapeva di Orion niente più che ciò che Maverick aveva scritto su di lui in quella lettera, ma in qualche modo aveva l'impressione di conoscerlo da tutta la vita. Riusciva ad immaginarsi il suo modo gentile ed intelligente, le mani sottili ed affusolate, il viso sconosciuto eppure familiare. Non avrebbe dovuto conoscere la risposta ad una tale domanda, eppure aveva l'impressione di avercela proprio sulla punta della lingua, tanto da poter affermare: «Credo di sì. Lo... Mi conosceva troppo bene per non saperlo.» sospirò, quasi nostalgico. La morte di Orion aveva sancito la fine di un'era per Maverick, ed in un certo senso ne risentiva un po' anche lui. Tuttavia, se anche fosse stato ancora vivo, se anche avesse potuto rincontrarlo, Mabel avrebbe anche potuto imparare nuovamente ad amarlo ma non sarebbe mai riuscito a metterlo al primo posto. Quello, da sempre, spettava ad Aaron.
    «Ma che—AARON.» sorpreso per la forza dell'altro nel sollevarlo, sgranò gli occhi prima di lasciarsi andare ad una mezza risata e cingere il collo del Serpeverde con le braccia. Una volta sulle sue gambe, finalmente alla stessa altezza, iniziò ad esplorare il viso del maggiore con l'indice, accarezzandogli leggermente il naso, le guance, le labbra. Più si sforzava di ascoltarlo, di cogliere il senso delle sue parole, e più sprofondava nella sola consapevolezza di volerlo ancora, disperatamente. Scosse leggermente la testa per poi nasconderla sulla spalla dell'altro, biascicando fra sé e sé un paio d'incoraggiamenti al contegno. «Dio, non ne ho idea» si lamentò, rialzando il capo per guardarlo con una certa rassegnazione. Perché doveva sempre fargli quell'effetto. «non saprei neanche da dove cominciare, e sono troppo vecchio per queste cose.» scherzò, accovacciandosi di più contro il petto dell'Icesprite. «Ci penseremo, davvero, ma non adesso.» per quel che lo riguardava avrebbero anche potuto ignorare la questione per sempre, ma non voleva dare all'altro l'idea di essere tanto menefreghista. Se avesse voluto davvero pensarci, allora ci avrebbe pensato insieme a lui. Dopo.
    «Sai, quel giorno in dormitorio… dopo la festa di Halloween mi sono pentito di non averti osservato meglio» ecco, quelle erano le questioni veramente importanti. Un leggero brivido gli percorse la schiena, conscio di aver pensato la medesima cosa: si pentiva così tanto di non essersi approfittato del suo stato di sonno per osservarlo senza ritegno.
    «Era un modo per farti capire che venivo in pace, sei tu che non l'hai capito.» abbassò il capo per nascondere una risata, spingendolo leggermente indietro con una spalla. «Come altro avrei dovuto avvicinarlo uno chiaramente intenzionato a darmi un pugno in faccia? Di certo non mostrando le mie attraenti lentiggini sulla schiena.» scherzò, poggiando la fronte contro quella del maggiore, gli occhi appena schiusi. «Ammettilo, ti ho conquistato proprio con quel 'mate'.» e sorrise ancora, avvicinando le labbra a quelle altrui senza comunque toccarle davvero, quasi che si aspettasse prima di ricevere il consenso.




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    Aveva dei seri dubbi sulla veridicità delle parole del Withpotatoes riguardanti le cicatrici a solcargli la schiena, perché reputava impossibile che qualcuno trovasse attraente un corpo deturpato, completamente maciullato dalle frustate. Però sapeva di non dover più replicare a quelle affermazioni, solo perché così avrebbe fatto lo stesso errore di Mabel nel ripetergli continuamente la stessa identica frase da mesi “non devi sentirti obbligato”. Si sarebbe arreso, prima o poi, accettando i tocchi delicati, le dimostrazioni di gradimento del minore, cercando di non dare a vedere quanto fossero terribilmente sconvolgenti per qualcuno abituato alla solitudine, al dirsi costantemente che non fosse abbastanza. Era da anni che, ogni singolo giorno, si guardava allo specchio, non trovandosi attraente, dicendosi che nessuno avrebbe mai voluto toccarlo, vederlo spogliato degli abiti, di tutte le difese, perché era orripilante nel modo più disgustoso del termine e non ci sarebbe mai stato sollievo per lui, nemmeno attraverso la magia. Perché curare quelle ferite era impossibile, ormai nulla avrebbe più potuto cancellarle dalla sua pelle, come marchi indimenticabili della sua stoltezza.
    Ma Mabel gli ripeteva, sempre, come se fosse diventato un suo preciso compito, che gli piaceva così, con quelle imperfezioni, forse perché nessuno dei due poteva definirsi perfetto. Ma non stavano bene insieme, alla fine? Mabel completava le sue insicurezze meglio di chiunque altro; sapeva quali punti toccare per renderlo meno critico verso sé stesso, più congeniale nei confronti del suo aspetto. Il Tassorosso sfiorava quei segni come se cercasse di memorizzarli, di alleviarli, ma mai con un’espressione infastidita, bensì assorta.

    Era quello che amava di Mabel, la capacità di essere tutto ciò di cui aveva bisogno.
    Forse era stato condizionato dalla lettera di Eugéne o magari aveva sempre saputo che la sua vita, alla fine, avrebbe preso una strada inattesa; l’incompletezza era stata, sin dall’adolescenza, un qualcosa che aveva sentito dentro al petto, pesante come un macigno, incontrollabile e spaventosa. Pensava che per lui non ci fosse alcuno scopo se non quello di compiacere suo nonno, magari entrando nelle file dei Pavor ed arrivando al vertice con onore, ma… alla luce di quelle scoperte, tutto aveva perso importanza, riducendosi a meri tentativi di appartenere a qualcosa. Forse era stato un bene venire a conoscenza di quelle nuove verità, non solo per l’importanza del legame che lui e Mabel avevano condiviso da fratelli, ma anche per sé, come persona, come essere umano. In primo luogo, la sensazione d’aver sbagliato tutto era stata un qualcosa che l’aveva ridotto a chiedersi se non avesse commesso un errore imperdonabile nel pensare ai Purosangue come la razza migliore, la suprema. D’altronde, si riteneva un ottimo mago pur essendo, a quanto sembrava, un Mezzosangue. E allora… l’indottrinamento del Regime arrivava a lavare le menti di ogni pensiero critico? La violenza diventava normalità in quel mondo governato dall’ordine e dalla disciplina?
    Una cosa, però, i Mangiamorte erano riusciti a dargli: la capacità di sopportare il dolore.
    La sua mente era così forgiata da quest’ultimo, che era capace di metabolizzare le situazioni in maniera decisamente più razionale, ponendosi un autocontrollo notevole. Avrebbe potuto dare di matto, ma non lo aveva fatto; era successo solo una volta, che, sconvolto dalle emozioni, si era permesso di urlare contro Mabel senza esitazione. Ma quella volta, con la coscienza che fosse un qualcosa di serio, si era trattenuto, cercando di prendere la scelta migliore per entrambi.

    Mabel non era sostituibile. In nessuna vita, in nessun tempo, in nessuna dimensione.
    E su una cosa aveva ragione, non c’era fretta di discutere di argomenti così spinosi, quando tutto quello che volevano e dovevano fare era stringersi e rilassarsi un attimo, lontani dalle preoccupazioni.
    Ci sarebbe stato tempo per agire, per valutare, per capire se intervenire o meno per il volere di Eugéne, più che di quello di Maverick.

    «Ah, venivi in pace» scettico, decidendo di accantonare tutto il resto, accetta la spallata, ma ricambiandola debolmente. Non voleva più parlare di Orion, nonostante la risposta dell’altro fosse riuscita a fargli torcere le budella. Mabel considerava importante quel ragazzo tanto quanto Maverick e non sapeva dire se quello fosse un bene, più per la consapevolezza che avrebbe potuto ritrovarlo e di conseguenza decidere di troncare il loro rapporto preferendo qualcosa di più semplice, ma anche perché non voleva che si perdesse tra il suo presente e un, ormai distante, futuro «se mi avessi mostrato le lentiggini, sarei caduto ai tuoi piedi molto prima. Quel “mate” ha solo ritardato le cose» ironizza, mordendogli la guancia con delicatezza, come a volerlo ammonire per essere stato tanto scemo da chiamarlo in quel modo in una situazione, evidentemente, spinosa. Ricordava benissimo quella gomitata sul naso, forse sarebbe stata emblematica per il loro rapporto. Perché Mabel era sì in grado di farlo stare bene, ma anche di romperlo senza il minimo sforzo. Sotto quelle mani affusolate c’era una forza che avrebbe fatto invidia al migliore dei giocatori di Rugby.

    «Vorrei tanto portarti fuori a cena» se ne esce così, dopo averlo osservato per qualche istante, ritrovandosi ad ammirarne il profilo, il naso all’insù e le labbra più carnose; le sopracciglia rilassate e il colorito leggermente più roseo, forse dovuto alla risata di poco prima, quando l’aveva sollevato. Non aveva rinunciato all’idea di concedersi un po’ di normalità, perché ancora—non avevano avuto modo di fare le cose con calma o, più semplicemente, di godersi l’uno la compagnia dell’altro senza intoppi. Era stanco di sbocconcellare un po’ di affetto, baci e carezze. Voleva solo passare una serata lontano da Hogwarts, lontano dalle responsabilità e da tutti i casini che quelle due lettere avevano portato.
    Si sarebbe accontentato persino di stare disteso su quel letto, incurante delle lezioni, ma non voleva che i compagni del Tassorosso li beccassero, magari interrompendoli.

    Le dita si insinuano sotto la felpa pesante, solleticandogli i fianchi e risalendo verso il costato, questa volta con più calma, senza la fretta di essere visti. Erano sicuramente tutti a lezione, non avevano di che preoccuparsi, non erano in un vicolo nel bel mezzo di Hogsmeade «anche a Londra, magari. Certo… odio i mezzi Babbani, ma posso fare uno sforzo, se ti va. Mentre cercavo i dispersi ho visto qualche ristorante» ed aveva pure imparato a scambiare i galeoni con i soldi cartacei, wow! Dovevano dargli una medaglia al valore, definitivamente. La pazienza che aveva dimostrato quel giorno era stata immensa, specialmente in quella dannatissima metro che l’aveva reso sudato e decisamente nervoso «a Piccadilly ci sono una miriade di Pub. Permettimi di offrirti una serata insieme, questo fine settimana» gli rivolge un sorriso rilassato, percorrendo con il pollice la linea del pettorale. L’altra mano la stringe sulla coscia di Mabel, sospirando per un attimo.

    Doveva frenarsi, sul serio. Avrebbe rischiato di perdersi in quella pelle così tanto da non avere più controllo sulle sue mani. Il problema era che far affluire il sangue al cervello, con la sensazione di completezza data dalla vicinanza dell’altro, era sicuramente più complicato del previsto. Ma avrebbe fatto uno sforzo.

    Madornale, ma pur sempre ammirabile.
     
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    Trovarsi a così stretto contatto col maggiore, il suo profumo a solleticargli le narici e le sue mani addosso, ad esplorargli la pelle con gentilezza ed insieme possessione, avrebbe presto finito per condurlo alla follia, ne era certo. Riusciva a malapena a comprendere le sue parole, a metter insieme un pensiero di senso compiuto senza perdersi nella sensazione di calore emanata dal suo corpo, nel desiderio non appagato di avere un suo maledettissimo bacio. Lui non osava strapparglielo, Aaron non sembrava volerglielo concedere. La cautela che parevano aver deciso di metter da parte nei giorni precedenti sembrava essere tornata, quasi che il maggiore temesse di poterlo spezzare osando avvicinarsi di più, e Mabel da una parte gli era grato di tanto riguardo, dall'altra avrebbe solo voluto mandare al diavolo ogni esitazione e stringerlo a sé più forte, lasciando che ogni timore venisse inghiottito dalle sue spalle accoglienti una volta per sempre.
    Ma Aaron, sicuramente dotato di maggior autocontrollo ed assennatezza, insisteva nel procedere con calma, e lui si sarebbe sforzato di mantenere un minimo di contegno per andare incontro al volere del Serpeverde.
    Invero, non aveva idea di come avrebbe fatto a sopravvivere ad un appuntamento. Nel suo immaginario si trattava di occasioni estremamente formali, che necessitavano un set di skill sociali che lui sapeva di non possedere e per la cui mancanza si sentiva terribilmente impacciato. Di cosa si parlava agli appuntamenti? Cos'era appropriato indossare? Più ci pensava, e più gli veniva il mal di testa.
    Certo, le dita di Aaron ad accarezzargli il costato sotto la felpa non erano certo d'aiuto al suo bisogno di concentrazione, specie considerando gli sforzi che stava facendo per restare mansueto. Per quel che lo riguardava, avrebbe volentieri tirato le tende del baldacchino e sarebbe rimasto lì il più a lungo possibile, evitando ogni contatto con chiunque non fosse l'Icesprite. Gli sarebbe bastata la sua presenza, ovunque si trovassero, senza dover necessariamente venire a patti col resto del mondo. Non che non l'attirasse l'idea di stringergli la mano in pubblico, di stare assieme come una qualunque altra coppia normale, solo che era un po' inquietato da una tale prospettiva, si sentiva fin troppo svuotato per poter investire energie in una cosa a suo modo di vedere tanto importante.
    Eppure non voleva deludere Aaron.
    Non voleva negargli quell'uscita, né voleva smorzare il suo entusiasmo o dimostrarsi tanto infantile da non riuscire a venire incontro ad una richiesta tanto semplice, dunque annuì leggermente, lasciandogli un piccolo bacio sulla tempia. «Va bene» acconsentì in un sussurro, sistemandogli un paio di ciocche sulla fronte con le dita. «mi va bene qualsiasi posto. Non so bene come funzionino queste cose, quindi mi fido del tuo giudizio.» ammise, poggiando poi la fronte sulla sua guancia. Si lasciò sfuggire un sospiro allo stringersi della mano dell'Icesprite sulla coscia, chiedendosi se magari non ci trovasse gusto a metterlo alla prova in quel modo. «Però devi capire una cosa» affermò ad un certo punto, allontanando un po' il viso da quello altrui per poterlo guardare dritto negli occhi. Non la migliore idea della vita in effetti, considerando l'effetto che gli faceva ogni volta incontrare le sue iridi azzurre. «sei libero di trascinarmi dove ti pare e di fare quello che vuoi, ma se continui a toccarmi» cercò disperatamente di non distogliere lo sguardo dall'altro, le guance ormai velate d'imbarazzo per un'audacia a cui non era certo abituato «e a non baciarmi» aggiunse dunque, aggrottando lievemente le sopracciglia per mostrare tutto il suo disappunto «questa cosa non finirà bene.» e sorrise, nonostante non fosse mai stato così serio prima. Se il maggiore aveva intenzione di continuare con quella lenta, estenuante agonia, almeno che fosse stato a conoscenza delle possibili conseguenze. «Io non mi chiamo Aaron Icesprite, né tanto meno Eugéne» mormoro, guardando ora un punto indefinito dinanzi a sé «e non ho tutto questo autocontrollo, mate




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