you said keep our business on the low-low

ferguson + charlie [challange: 04]

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    Broken hearts like glass shattered on the floor Tattered and right, tired from war Looking for the light before you break Does it escape?
    «quindi,» Ferguson Jackson, un sopracciglio perennemente arcuato ed il sorriso storto -sempre a discapito d’altri- sulle labbra sottili, roteò fra pollice ed indice il sigaro che il suo nuovo padre spirituale gli aveva paternamente concesso, rilassando la schiena contro le piastrelle della vasca idromassaggio.
    Cristo, se amava quella realtà. I suoi compagni di disavventura non facevano che lamentarsene – compresa la Quinn che, oltre ad avergli fracassato l'anima nei mesi precedenti, da quando avevano messo piede dentro la lussuosa villa offerta loro da Harvard Hilton, non aveva taciuto alcun acido commento sulla location; era chiaramente in astinenza sessuale, eppure non accettava il (Jackson) modo più semplice per uscire da quel tunnel di frigidità: valle a capire, le donne - ma Fergie ci si trovava una meraviglia. Per un ragazzo rimbalzato dal ghetto al carcere minorile, da una gang all’altra come un ambito paio di mutande, ed infine dal confuso mondo babbano al fottuto mondo magico, quel posto era una pacchia: anche gli altri l’avrebbero pensato, se ogni notte avessero dovuto baciarsi l’indice ed alzarlo al cielo, ringraziando Iddio di essere ancora vivi.
    Non che Fergie avesse mai ringraziato Dio, sapeva perfettamente che il merito fosse solamente proprio, ma c’era qualcosa di drammatico ed affascinante nell’immaginare la travagliata vita del giovane, e buono, criminale per errore medio; quando pensava a se stesso, preferiva immaginarsi teatrale e operistico piuttosto che reale e crudo: non c’era poesia in un ragazzino cresciuto a piombo e cemento.
    Era compito del Jackson, crearsela.
    Idealizzava il mondo. Idealizzava se stesso. Idealizzava il futuro ed il passato, incantando chiunque con le più banali storie quotidiane: sapeva attrarre l’attenzione delle masse nel modo più onesto ed artefatto possibile; poteva raccontare di come Shelley fosse salita sull’ennesimo SUV dai vetri oscurati, ovvietà per chiunque avesse mai conosciuto la donna in questione, tendendo la narrazione così che apparisse come un gesto quasi nobile, romantico nella maniera triste e nostalgica delle star anni ’20. Creava empatia, Fergie. Affascinava, spacciando la storia di una prostituta con il timbro di un best seller nazionale. Effettivamente, per molti era così: non conoscevano quel mondo, quella realtà che Fergie masticava da quand’era bambino – quel presente che in molti consideravano superato o superfluo, dove non una leggenda metropolitana – ed al quale era avvezzo come un contadino al canto del gallo.
    Amava l’idea che chiunque avesse un posto nel mondo; che ogni azione, deliberata o meno, portasse con sé il peso di altre centinaia di scelte. Viveva per l’idea che guardando qualcuno negli occhi, vi potesse leggere intere storie mozzafiato su quale mondo avessero vissuto; avrebbe reso interessante anche una pisciata nei vicoli dietro casa, il Serpeverde. Non sapeva disegnare né suonare uno strumento, ma aveva l’animo dell’artista: così dipingeva la vita. I suoi colori erano il sangue e la saliva dell’ennesimo imprudente ragazzo in overdose, la tela le strade di una Londra dimenticata da tutti.
    Ma che meraviglia di ragazzo, direbbe chiunque cui fosse stata data la possibilità di scorgere quel pezzo della complessa psiche di Ferguson; che giovane incompreso.
    Peccato che quella fosse solo un piccola parte del Jackson: era tutto il resto, a renderlo un pezzo di merda.
    Come testimoniavano gli svariati tatuaggi sulle braccia, sul collo e sul costato, non aveva alcuna lealtà: si spostava da un gruppo criminale all’altro come un’ombra, cercando sempre l’anello debole su cui far pressione per salire di gerarchia. Scostante e lunatico, imprevedibile nella maniera più irritante possibile: poteva passare dallo spingere qualcuno contro il muro per infilargli la lingua in bocca, a sparargli al piede nello stesso, frammentato, battito di cuore, solamente perché aveva cambiato idea. Intelligente nella maniera più meschina possibile, quella fredda frutto di dati piuttosto che persone; incapace di relazionarsi a qualunque essere umano, o di intrattenere una conversazione di durata superiore ai diplomatici dieci secondi di cortesia. Furbo, anche se raramente manipolatore – credeva nel libero arbitrio. Aveva sempre sognato troppo in grande in un mondo troppo piccolo.
    Solo. Da sempre.
    Chi avrebbe mai preso sotto la propria ala il figlio dei Jackson? Una famiglia umile, povera, da sempre costretta a pagare per ricevere protezione alla piccola officina di famiglia. Fergie era troppo piccolo per buttarsi a capofitto nella criminalità (mal) organizzata del loro quartiere, ed i Jackson piacevano abbastanza perché nessuno si azzardasse ad insegnare a Ferguson come farsi una reputazione. A sei anni, la sua vita era cambiata.
    I Laboratori, l’avevano cambiato – gli avevano dato un’arma.
    Se stesso.
    Ed aveva fottutamente imparato ad usarla.
    «tu saresti…» agitò il sigaro sotto al naso di Behan Campbell, osservandolo di sottecchi con un misto fra scherno ed ammirazione. «quello famoso, uh» infilò l’avana fra i denti, il sorriso ad aprirsi attorno al cilindro di tabacco. Con la generazione di acidi, Fergie poteva fumare quel che voleva e nella quantità preferita – come testimoniavano le decine di pacchetti vuoti stipati sempre nelle tasche dei jeans – senza mai soffrirne: immune alla tossicità. Certo, non poteva sballarsi con droghe o alcool, ma cosa poteva farsene? Era già eccitato di natura.
    In tutti i sensi. Non aveva mai creduto che controllare i propri ormoni dovesse rientrare nelle sue priorità, non quando il mondo gli aveva sempre offerto un ampio cabaret dal quale banchettare: chi era lui per privare il mondo di un po’ di Fergie? Piegò il capo sulla spalla, strofinò un cerino sulla scatola di fiammiferi, ed allungò la mano libera verso il mento di Alvin Superstar. «sai cosa manca nella mia lista di cose da fare?» aspirò una pesante boccata di fumo, il naso arricciato al forte sapore dolciastro lasciato sulla lingua. L’ennesima questione idealizzata da Ferguson Jackson: i sigari avevano un sapore del cazzo – anzi, neanche, altrimenti gli sarebbe piaciuto di più.
    Che amarezza. Spostò gli occhi scuri sul sigaro, gonfi di offesa e pentimento, prima di rovesciarli nuovamente sul ragazzo. Era intenso in tutto quel che faceva, Fergie – in quel che diceva, in quel che pensava – e quella stessa intensità era riflessa nelle iridi brune, a brillar sempre di malizia e mal celato divertimento. «una persona famosa» sorrise languido, arcuò allusivo anche il sopracciglio sinistro. «jackson» Non abbandonò il sorriso, ma abbassò nuovamente il braccio sotto il pelo dell’acqua, lasciando che del suo gesto rimanesse solo la bollente impronta. Victoria Quinn doveva essere stata una fan di “MBeh sul ponte di comando”, perché prese – elegantemente – posto incastrandosi fra Fergie e Behan. Non ci provò neanche a nascondere l’occhiata al costume della donna, tanto Vic lo conosceva abbastanza da sapere l’avrebbe fatto: sempre troppo bella per essere vera. «ignoralo, è povero» la Quinn liquidò Fergie con un cenno della mano, volgendo le iridi cristalline sul Campbell come se quella spiegazione bastasse a giustificarlo.
    Probabilmente, per loro, era così. Sorrise ancora, Ferguson. «sì, lo sono» ed orgoglioso d’esserlo – che cazzo. Il fatto che sognasse di avere il cash non significava che si vergognasse della propria situazione economica, ma solo che non fosse un completo coglione. «ed a voi ricchi piaccio per questo.» Si strinse pigro nelle spalle, emblema della falsa modestia, volgendo ad entrambi una pigra strizzata d’occhio prima di tornare al suo sigaro: perché okay, quel fumo faceva davvero schifo.
    Ma tutto nella vita di Fergie lo faceva, eppure che felice d’essere vivo era.

    In quei quattro mesi passati allo sbaraglio nella realtà alternativa, Ferguson Jackson era tornato a casa – a Londra. Non perché sentisse la mancanza dei genitori, malgrado in parte fosse così, quanto per avere una certezza cui aggrapparsi: sapere che qualcosa non fosse cambiato, capite cosa intendo? Che ci fossero dei punti fissi. Voleva vedere come se la passasse quel Fergie, se fosse diventato capo di qualche gang o si fosse dedicato, boh, a suonare lo zufolo a x-factor. Voleva vedere l’officina, dove aveva passato gran parte della sua infanzia a puzzare di benzina e sporcarsi le dita d’olio. E sapete cos’aveva scoperto?
    Che Ferguson Jackson non esisteva più. Da anni. Era sparito dalla circolazione otto anni prima, e nessuno ne aveva più saputo nulla. Come se non fosse stato abbastanza, aveva scoperto di non essere l’unico Jackson in circolazione: ce n’erano altri due.
    Una, Delilah, l’aveva cancellata dalla lista dopo una breve visita al cimitero, dove su una lapide aveva trovato inciso il suo nome. Dubitava avrebbe mai fatto parola di quella ragazza alla Delilah Jenkins che /conosceva/, dato che la pirocineta aveva già abbastanza problemi senza che Fergie le narrasse di un mondo in cui gli aveva fatto da baby sitter. Eh vabbè, amen.
    Il secondo, era un certo Eugene Jackson. Si sentiva tradito nell’animo dal fatto che possedesse il suo – il suo!- cognome. E si sentì ancor più offeso quando, dopo giorni di ricerca, lo trovò nel maledetto quartiere ghetto degli “special” a spingere un bimbetto biondo sul triciclo. L’aveva osservato a lungo, le mani in tasca ed il cappuccio calcato sulla testa, tentato ad ogni respiro di avvicinarsi e domandargli perché non lo stesse cercando - ma aveva resistito, girando sui tacchi e tornandosene all’Avis.
    Perché, in realtà, non gliene fregava un cazzo. Ad essere onesti, probabilmente anche Fergie non avrebbe cercato Fergie – ma non ditelo in giro, aveva una reputazione. Da quando Victoria Quinn l’aveva trovato, il Jackson non si era più azzardato a passeggiare discreto in quella zona, evitando qualsivoglia commento potesse denotare un interesse troppo personale; principalmente, si era limitato a seguirla ovunque ella volesse andare, il dito sempre a prudere sul grilletto pronto a far fuoco a potenziale nemici, senza mai dar voce a opinioni personali.
    Ma quel giorno, malgrado il Grande Capo avesse loro dato istruzioni specifiche di non uscire soli, Fergie non aveva più il guinzaglio Quinn a tenerlo al proprio posto: ed eccolo lì, ancora a bazzicare in quell’ammasso disordinato di case, il ragazzo-adulto che millantava di sbattersene il cazzo ed il ragazzo-bambino che non poteva fare a meno di domandarsi perché lui non ci fosse. Sapeva, idealmente, che ogni giorno passato a casa propria (nel suo canon, si intendeva) fosse possibile non vedesse l’alba del giorno dopo, ma…quella era la sua vita, e sarebbe stata una morte che avrebbe accettato lui. Sapere di essere disperso, e dopo anni presumibilmente crepato, senza il suo consenso!, lo… destabilizzava. Era… indubbiamente strano.
    Nient’affatto piacevole. Ti apriva un po’ gli occhi su quanto poco contassi nel disegno universale, mh. Su quanto la gente fosse così abituata a perdere – le chiavi, il telefono – da non cambiare neanche espressione quando a perdersi era un essere umano.
    Cose che capitavano. E capitavano anche nella sua quotidianità, ma sapere di essere quello perso era diverso da veder smarrire gli altri.
    Era una merda.
    Inspirò secco dal naso soffiando l’aria fra i denti, nascosto dietro un muretto come la pessima caricatura di un ladro d’appartamento, quando la porta di casa (eu beech? Smooth) si aprì. «va così» si ripetè in un bisbiglio seccato, fedele al fatto che prima o poi quelle due parole avrebbero avuto senso, trascinando i piedi lontano da quel luogo di perdizione. Se quel venerdì pomeriggio aveva messo piede fuori casa, comunque, non era certo per spiare inquietantemente una coppietta ed il loro mini lardoso di turno – perfino lui aveva di meglio da fare – ma per rendersi effettivamente utile alla questione dei suoi compagni dispersi. Può sembrare scioccante, lo so, quindi allacciate le cinture di sicurezza, perché…Ferguson Jackson era un ribelle. O almeno, lo era stato quando la Resistenza aveva avuto necessità di esistere, e lo era marginalmente rimasto quando la causa era diventata riportare l’ordine sul caos. Credeva in un mondo equo. Era un delinquente? , ma non significava fosse un idiota.
    Aveva solo scelto il modo più facile per sopravvivere.
    Ed il fatto che lui a sopravvivere fosse bravo, non significava che altri lo fossero: quanti, dei partecipanti alla missione di quattro mesi prima, ancora non sapevano allacciarsi le scarpe o fare una fottuta lavatrice? Come ci si poteva aspettare resistessero in un mondo ostile e sconosciuto?
    Non era crudele, Fergie. Pragmatico? Spesso, ma non abbastanza da augurare la morte a qualcuno solamente perché troppo stupido per esistere. C’erano colpe peggiori da scontare, perché il Jackson ne auspicasse la dipartita. Scivolò silenzioso nel viale acciottolato di Diagon Alley, fondendosi alla folla con la naturalezza data dall’abitudine. Indossava una giacca nera, del tutto anonima, dalla quale fuoriuscivano i famosi pacchetti stropicciati e vuoti di sigarette (tutte di marche diverse, gli piaceva l’effetto sorpresa), jeans di un blu scuro, e gli immancabili scarponcini marroni che avevano visto più strada di Shelley la Battona. Non si preoccupò di nascondersi dietro il cappuccio: Ferguson voleva, essere visto – altrimenti come avrebbe fatto a trovare i suoi stronzetti? – e, abbandonato l’anonimato, già che c’era, voleva apparire al meglio. Beh? Era narcisista e si amava, cos’altro vi aspettavate?
    Passò le dita fra i capelli bruni, la lingua a umettare il labbro inferiore. C’era solo un modo migliore per passar ancor più in secondo piano, ma le probabilità di incontrare i due piccioncini che l’avevano trovato a girar per Diagon Alley quel giorno, erano pressochè nulle: un vero peccato, perché almeno loro era certo fossero…alleati? O quanto di più vicino possibile considerando che, se ne avessero parlato alle autorità, sarebbe stati considerati complici, e di conseguenza colpevoli quanto lui. Poteva sempre approcciare uno sconosciuto, ma…per quanto amasse il rischio, il desiderio di vivere era più forte. Fermò una ragazza dai capelli corvini e gli occhi zaffiro, la quale invece non sembrava particolarmente allietata dall’essere in vita, per chiederle una sigaretta.
    «stai cercando qualcuno?» le domandò, accendendo la Chesterfield a denti stretti. Era un ottimo osservatore, e non gli era certo sfuggito il continuo adocchiare i dintorni della ragazza; che fossa di quelli che li stavano cercando? «non lo stiamo forse facendo tutti?» si limitò a rispondere lei, squadrandolo distratta; c’era qualcosa di…strano, in quella ragazzina, ma non avrebbe saputo dire cosa. Era...un viso familiare? Eppure era certo di non averla mai vista. «dio, il messia, il fattorino della pizza che ha sbagliato numero civico…» lo liquidò con un sorriso ruvido ed ironico, prima di voltarsi.
    Guuurl. Alle sue spalle le gridò un «bella cicatrice!» a cui l’altra non rispose né diede cenno di averlo udito.
    Ecco cosa c’era di familiare, avevano la stessa cicatrice! Com’era piccolo il mondo; se solo non fosse stata così scorbutica, avrebbero potuto fondare un club. Si strinse nelle spalle e continuò a proseguire per l’affollata stradina magica, lanciando di tanto in tanto occhiate furtive ai passanti.
    La sua pazienza – una dote nel quale, usualmente, non eccelleva – venne ricompensata. «ehi,» sgomitò fra le persone cercando di non perdere di vista il ragazzo, avanzando di un paio di metri nella sua direzione. «ehi!» lo stava ignorando di proposito?
    Rude. Riuscì finalmente a raggiungerlo, e da vicinò constatò che , si trattava proprio dello stesso ragazzo a cui aveva /regalato/ un paio di caramelle speciali giusto il mese prima. Prima o poi sapeva che la sua magnanimità l’avrebbe ricompensato! «amico!» cosa? Lui e Charlie non erano amici? Secondario ai fini della trama. Gli avvolse un braccio attorno alle spalle tirandolo verso di sé. «ti ricordi di me? ovvio che ti ricordi di me, sono fantastico – tienimi compagnia» gli sorrise morbido, arcuò equivoco un sopracciglio. «solo un paio d’ore, poi non mi vedrai mai più» reclinò lievemente il capo sollevando il mento nella sua direzione. «è il tuo giorno fortunato» lo spinse maggiormente contro il proprio fianco e gli stampò un bacio sulla tempia, sorridendo storto prima di trascinarli entrambi verso il quartiere maledetto dell’Inferius.
    Si rendeva conto che avrebbe potuto passare per maniaco, ma…ma niente ma, effettivamente un po’ lo era. Un maniaco gentiluomo – esistevano ancora di quei tempi? «io sono fergie, comunque» gli diede un amichevole buffetto sulla guancia allontanandosi quanto bastava da farlo fuggire respirare. «e tu sei – no, non dirmelo» schioccò le dita nella sua direzione, socchiuse le palpebre.
    «adorabile»
    Eh, aveva un debole per le pick-up line da Geronimo Stilton. Era tutto parte del suo fascino.
    ferguson
    (jane darko)
    jackson

    20 y.o. ✖ poison generation ✖ slytherin ✖ 30.11
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    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco


    Edited by #epicWin - 28/11/2018, 03:22
     
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    Che giornata noiosa. Che mese noioso. Che vita noiosa. Charlie se ne stava seduto sul suo comodissimo letto, fissando di fronte a lui un sacchettino adagiato sul materasso e chiuso in modo davvero molto carino. Con fiocco e tutto il resto. Chi lo mandava? Nessuno lo sapeva. C'era soltanto un biglietto rosso con scritto ”mangiami” in corsivo. Calligrafia bellissima, tra l'altro. Aveva afferrato quell'oggettino per avvicinarlo alle narici, ispirando un profumo forse un po' troppo dolce per i suoi gusti, ma comunque molto buono. Non era convinto, il serpeverde. Insomma, come c'era finito un sacchettino del genere nel suo letto? Ce l'aveva portato qualcuna della sua casata? O avevano fatto entrare una studentessa? Non lo avrebbe mai scoperto, probabilmente. Decise quindi di poggiare quel biglietto sul comodino per dedicarsi allo spacchettamento -notando con sua sorpresa l'interno di esso-. Caramelle. Tante caramelle, tutte di un rosso acceso, simile al bigliettino. «Un'ammiratrice segreta, mh?». Charlie aveva alzato velocemente lo sguardo verso un concasato, mentre ammiccava rimanendo in piedi davanti la porta del dormitorio. Sì..! Sì, probabilmente. Colto impreparato, il ragazzo aveva risposto a voce bassa -alzando le spalle e scuotendo la testa senza sapere davvero cosa pensare-. Fortunatamente lo aveva lasciato da solo in camera poco dopo, deluso dalla sua reazione così scontata. Forse da Charlie si aspettava un comportamento da ragazzo sicuro e deciso, o forse una risata stile “beh sì, modestamente!”. Cosa che non avvenne. Una volta solo, si era fatto coraggio ed aveva pescato un paio di caramelle, per mettere poi quel sacchettino vicino al biglietto, ed alzarsi infine per andare a fare una doccia. Una volta entrato in bagno, aveva sentito qualcosa alla bocca dello stomaco -qualcosa che non prometteva niente di buono-. Velocemente si era dovuto mettere una mano davanti la bocca per trattenere un conato di vomito, aprendo il wc per vomitare...l'arcobaleno. #Wat? Incredulo, senza parole, si era ritrovato in ginocchio davanti al cesso con la bocca spalancata e gli occhi fissi su quel vomito colorato che aveva un retrogusto di fragola. Porca puttana! Aveva improvvisamente urlato, alzandosi e sbattendo un pugno contro il muro. Cazzo! Si era passato la manica lunga della felpa sul mento, tirando lo sciacquone. Cazzo cazzo cazzo! Aveva continuato a dire, prima di spogliarsi per entrare finalmente in doccia e darsi una bella lavata -magari calmando i bollenti spiriti-.

    Diagon Alley. Sempre così affollata, così movimentata, così piena di vita. A Charlie piaceva. E allo stesso tempo gli stava parecchio sul cazzo. Tra spintoni, ascelle puzzolenti della gente e maleducazione, avrebbe preferito rimanere rinchiuso in quel buco nei sotterranei di Hogwarts, in mezzo alle altre serpi. E invece aveva deciso di uscire, per prendere una boccata d'aria fresca in quel pomeriggio di fine novembre. Non aveva già più voglia di stare con il naso sui libri di scuola, aveva le palle piene dei professori che continuavano a dirgli cosa fare -e soprattutto cosa non fare. Aveva le palle piene di tutte quelle facce conosciute, viste e riviste, a cui doveva porgere un saluto e qualche chiacchiera ogni maledetto giorno. E che alla fine di tutto, neanche lo conoscevano. Si era messo le mani nelle tasche del cappotto nero, inspirando a pieni polmone quell'aria gelida che lo aveva fatto tremare per qualche misero secondo. Adorava l'inverno, molto più del caldo afoso estivo. Si era fermato dinnanzi ad una vetrina di giocattoli, posando lo sguardo sulle varie decorazioni natalizie -una cosa che lo lasciava sempre di stucco e lo faceva tornare con la mente a quand'era un bambino-. Quell'aria di natale lo faceva diventare sempre malinconico e di cattivo umore. Si era quindi avviato nuovamente per strada a passo veloce, troppo immerso nei pensieri per sentire quella voce. Oh! Aveva gridato facendo mezzo passo indietro, espirando pesantemente dalla bocca con un'espressione agghiacciata stampata in faccia. Voleva forse fargli prendere un infarto o cosa? Neanche il tempo di rispondere. Neanche il tempo per dire una misero “cosa?”, che si era praticamente ritrovato con il braccio dello sconosciuto intorno alle proprie spalle. Mossa azzardata, amico. Con lo sguardo che schizzava in tutte le direzioni, non aveva potuto fare un bel niente mentre si lasciava guidare dal ragazzo verso l'altro quartiere, paralizzato da tutta quell'assurda situazione. Charlie, respira. Pensa. Fai qualcosa. In fretta. Peggio di un attacco d'asma; si sentiva senza fiato, con un male all'altezza del petto. Aveva fatto un passo indietro portando una mano proprio lì, dove sentiva dolore, poggiando la schiena al muro per riprendersi e sbottare infine in un COSA?!, rivolto al ragazzo con uno sguardo che non prometteva niente di buono. Chi diavolo sei? Come ti permetti di sbucare alle spalle e trascinarmi via come se niente fosse? E soprattutto.. Aveva nuovamente espirato un paio di volte dalla bocca, dopo aver parlato velocemente e con un tono piuttosto acuto, per riprendere fiato. Fergie è un fottuto nome da donna. Si era finalmente fermato a squadrare il ragazzo da cima a fondo, assottigliando lo sguardo. Lo aveva già visto da qualche parte? Nah, improbabile. Che cosa vuoi? Gli aveva chiesto, diretto come al solito, senza ricordarsi minimamente di lui. Forse gli doveva un favore? Per questo lo aveva placcato come un giocatore di rugby? Giorno fortunato un corno, dannazione, aveva pensato continuando a guardare quel ragazzo, finalmente calmo, sistemandosi velocemente i capelli ed il cappotto.

    Uscivo con questa ragazza, era incredibilmente timida: le sfilavo il reggiseno e lo sostituiva con le mani. Allora le ho detto: "senti, se proprio vuoi coprirle ho dello sperma".
    30.11.18 | slytherin | 16 y/o
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    Charlie
    Anderson


    Penitenza Lucky strike - Charlie Anderson a causa di una caramella ingerita, vomiterà arcobaleni. FATTOH.
     
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