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mabel x aaron

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    Non aveva mai capito la corsa per i preparativi al Natale. Cominciavano sempre con più d'un mese d'anticipo e non solo tra i negozi ed i mercati, perché in quel caso sarebbe potuto anche essere comprensibile per via d'una scelta di marketing, ma persino per le strade e niente poco di meno che fin dentro Hogwarts. Non erano neppure a metà novembre, e già si potevano scorgere le prime luci dorate in giro per il castello, le ghirlande appese qui e là ed il finto nevischio sui corrimano delle numerose scalinate. A Mabel, a cui le festività erano sempre state piuttosto indifferenti, quell'anno tutti quei preparativi davano terribilmente sui nervi. Cos'aveva la gente da festeggiare, quando il suo umore era più scuro che nel giorno dei morti? Per cosa avrebbe dovuto gioire quando tutto ciò che desiderava era dormire fino all'inverno successivo ed anche oltre? E dire che avrebbe potuto sfruttare quei giorni per mettersi sotto con lo studio e cercare di recuperare i suoi pessimi voti, ma come potevano pretendere che si concentrasse con tutte quelle patetiche distrazioni natalizie sparse praticamente ovunque ed il desiderio di radere al suolo l'intero edificio? Cristo, non aveva mai covato tanto odio in vita sua. In genere era la persona più pacifica dell'universo, uno che cercava sempre di non infastidire nessuno e che aveva una pazienza da far invidia, ma a quel punto della sua vita gli eventi l'avevano spinto ad un punto di totale esasperazione. Non solo era tornato ad essere il solito incapace di sempre, si era anche ritrovato in balia ad una specie di crisi d'astinenza per la prolungata ed eccessiva esposizione alla pozione per i suoi disturbi d'attenzione e non aveva ancora ricevuto neppure un cenno da Aaron dopo la loro ultima discussione alla Torre di Astronomia. Ciliegina sulla torta: se aveva sperato di poter far ritorno a casa per le vacanze, aveva l'impressione che la montagna di compiti che sarebbe stato costretto a svolgere non gli avrebbero permesso neppure di metter piede fuori dal castello. Persino il Quidditch era sospeso per il maltempo. Insomma, pareva proprio che il mondo stesse congiurando contro di lui.
    Disteso a pancia in giù sul proprio letto, sfogliava distrattamente il libro di Storia della Magia senza leggere davvero neanche una parola. La sua mente continuava a tornare alla lite con il Serpeverde, ed ogni volta non poteva fare a meno di arrossire al ricordo di quanto si era azzardato a dire. Ma come gli era saltato in mente di aggredirlo a quel modo? E, ancora peggio, come aveva potuto accettare l'appuntamento di quel Grifondoro e sbatterlo in faccia ad Aaron come fosse stata una cosa da niente? Doveva proprio essersi bevuto il cervello, non c'era altra spiegazione, e comprendeva perfettamente la rabbia dell'Icesprite ed il suo desiderio di non incontrarlo mai più. Eppure non voleva, non ce la faceva proprio a restarsene con le mani in mano a guardare Aaron scivolare via come se non fosse mai stato importante. Non poteva permetterlo, non se lo sarebbe mai perdonato, ma... Ma non aveva idea di cosa fare. Si sentiva sconfitto, schiacciato dal peso della sua stessa stupidità, dalla sensazione di aver commesso ormai una colpa irrimediabile. Forse voleva solo sentirsi dire che era finita, forse preferiva sentirlo pronunciare dalle labbra del Serpeverde per poter poi provare a mettersi l'anima in pace. O forse sperava con tutto il cuore di avere ancora una possibilità.
    Non ne aveva idea, ma di una cosa era certo: non sarebbe mai riuscito a studiare in quello stato.
    Si allungò verso il comodino per afferrare un quaderno e strappò via una pagina dal centro per scarabocchiarvi sopra un semplice messaggio da far recapitare ad Aaron:

    Domattina sarò ai Tre Manici di Scopa ad aspettarti. Se non verrai, prometto che non ti disturberò più.

    Mabel

    Ps. Vieni.



    E la mattina seguente eccolo, seduto ad uno dei tavoli dei Tre Manici con una cioccolata ormai fredda davanti, intento a mescolare e rimescolare il contenuto della tazza senza entusiasmo. Era ovvio che non sarebbe venuto, perché mai sarebbe dovuto venire? Non avevano più niente da dirsi, aveva già provveduto abbondantemente a dimostrargli quanto fosse stupido ed immaturo e Aaron doveva già essere giunto a quella conclusione da un pezzo. Ma Mabel non aveva la minima intenzione di muoversi da lì prima di mezzogiorno.
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    Rimuginare gli era sempre venuto bene. Benissimo.
    Dopo la lite con Mabel il suo malumore non aveva fatto altro che peggiorare; più si avvicinava il periodo Natalizio, più sentiva crescere dentro di sé quella rinnovata, ma non di certo desiderata, voglia di spaccare la faccia a qualcuno. Le brutte abitudini lasciate alle spalle erano tornate a perseguitarlo come fantasmi, infestando la sua mente e facendolo somigliare più al Grinch che ad un allegro ragazzo di vent’anni.
    I commenti del Tassorosso non facevano altro che perseguitarlo e non solo da sveglio, chino sui libri di Trasfigurazione, con la mente persa al ricordo dei cocci di vetro sparsi per il pavimento, ma anche nei sogni. Ogni sera sembrava diventare sempre più vivido e dettagliato, tanto da poter contare persino le lentiggini sul naso di quell’idiota; il sorrisetto spavaldo, le fossette sulle guance e quegli occhi beffardi, carichi di stupidità.
    In più, quello che riusciva a renderlo un fascio di nervi, oltre a quel coglione (sì, ormai per lui non era più Mabel, ma coglione a tempo indeterminato) era stata la spiacevole notizia che, a causa del mal tempo, il campo da Quidditch sarebbe rimasto chiuso fino a data da destinarsi. E lui, esattamente, come avrebbe fatto a scaricare la rabbia accumulata?

    Una soluzione si era presentata come una manna dal cielo, avente la faccia di Léon. Sì, perché non aveva dimenticato di certo l’affronto che il Tassorosso si era premurato di sbattergli davanti al naso come se valesse meno di zero; e poi, quello stupido sborone di un Grifondoro aveva osato fissarlo con sdegno, come se sapesse, come se avesse intuito quanto lo detestasse. Oh, se avesse saputo.
    Non era gelosia, la sua, non del tutto. Era spirito di vendetta.
    Odiava, davvero tanto, essere oggetto di scherno. Da ragazzino era stato costretto a rimanere in silenzio, a subire a causa della propria timidezza, della sua fragilità, ma ormai non era più quel bambino terrorizzato, era un fottutissimo adulto alto un metro e novanta, capace di dare un pugno abbastanza esplicativo, senza aggiungere parole superflue.
    Che fosse incline all’ira era risultato palese persino a Mabel, nonostante con lui si fosse trattenuto, sempre a causa di quello strano effetto che riusciva a ammansirlo.

    Ma con Léon, senza il Withpotatoes intorno, non c’era assolutamente modo che si limitasse o che decidesse di mantenere la calma, quindi—sto cazzo, gli avrebbe rotto qualcosa con gli omaggi della casa.

    --


    In effetti, così era stato. Era bastata l’ennesima parola di troppo ed una testata per rompere un incisivo al Grifondoro. Uno. Non si era nemmeno impegnato.
    Ma era finito in punizione, di nuovo.
    La Sala delle Torture, nonostante tutto, era valsa ogni punto di sutura, ogni dente rotto e ogni livido di quell’idiota dal sorriso perfetto (beh, ormai non troppo).
    Era stato un messaggio per Mabel? No, era stata soddisfazione personale.
    Gli aveva sputato addosso così tanta merda che aveva deciso di ritorcere la sua frustrazione sul suo presunto accompagnatore.
    La delusione (ma poi nemmeno tanto, a dire il vero. Voleva spaccare la faccia di Léon da molto prima. Gli si era solo presentata l’occasione) era arrivata scoprendo che lui e Mabel non uscissero affatto insieme.
    O era sollievo?

    --


    Il Natale sembrava così vicino, eppure così tremendamente lontano.
    Aveva deciso, per buona pace della sua famiglia, di rimanere a scuola per recuperare, almeno in parte, i compiti arretrati. Era stato così impegnato ad arrovellarsi il cervello da non fare altro che rileggere sempre le stesse identiche frasi più di una volta, senza riuscire minimamente a concentrarsi.
    La verità era che non riusciva, nella maniera più assoluta, a non pensare al Tassorosso. La cosa era estremamente frustante, ai limiti dell’accettabile.
    Si era imposto di non cercarlo per nessuna ragione. Mabel era riuscito a ferirlo con una precisione chirurgica, quasi sapesse quale nervo incidere, riportandogli alla mente sensazioni che avrebbe davvero voluto non provare mai più. Ma il danno era stato fatto e l’idea di farsi ancora del male, da bravo masochista qual era, non era assolutamente concepibile.

    Ma giacché era anche un idiota, mai quanto il Withpotatoes ma quasi, si sentiva ancora infatuato e preso da quel ragazzo. Come. Perché? Perché diavolo si voleva così male?
    Aveva pensato, scioccamente, che nel giro di qualche settimana avrebbe potuto voltare pagina, lasciandosi tutto quel casino alle spalle. Come no. Infatti non era sul letto, con il libro premuto sul viso a soffocare un grido di frustrazione tra le pagine ingiallite. Assolutamente no.

    A distrarlo da quel continuo maledirsi tra le lenzuola smeraldine, stretta nel becco di un gufo, era stata una lettera.
    Si era sollevato, sorpreso, chiedendosi chi mai gli avesse scritto, finché aprendola non aveva riconosciuto immediatamente la grafia di Mabel.
    Il tic all’occhio e il conseguente Incendio della carta la dicevano lunga su quanto fosse propenso a quell’incontro. E non che—non gli facesse piacere il pensiero che Mabel non si fosse dato per vinto, ma—Cristo Santissimo, era combattuto tra l’odio e l’affetto, tra il volergli ancora spaccare la faccia e baciarlo fino a togliergli il fiato.

    --


    Fino alla fine era rimasto a pensare se andare o meno.
    Una parte di lui non voleva assolutamente ricascare in quella rete, conscio di non aver ancora voglia di raccogliere i pezzetti del suo cuore dal pavimento; l’altra parte, quella totalmente sopraffatta dai sentimenti, era più docile e gli sussurrava all’orecchio di perdonare il Tassorosso e dargli un’altra opportunità. In realtà, era convinto che il minore si meritasse il beneficio del dubbio, giacché non aveva mai, prima di quel momento, fatto nulla di cattivo nei suoi confronti.
    Aveva impiegato un sacco di tempo, temporeggiando palesemente, per scegliere cosa indossare. Alla fine, aveva optato per il solito pantalone nero e una polo del medesimo colore: sì, era a lutto.
    A lutto per il suo fegato all’idea di varcare la soglia dei Tre Manici di Scopa.

    Quando apre la porta del locale la lancetta sull’orologio appeso dietro il bancone indica un ritardo di venti minuti.

    Non l’aveva fatto di certo per fare la diva, o per farsi attendere; semplicemente, la decisione aveva richiesto un attimo di ponderazione in più. Alla fine, comunque, aveva ceduto.

    Con lo sguardo, quindi, cerca la chioma riccioluta del Withpotatoes, individuandolo subito seduto ad un tavolo appartato, con una tazza tra le mani e lo sguardo affranto. Che fosse rimasto deluso dal pensiero che avesse declinato il suo invito? Ben gli stava.
    Con passo fintamente tranquillo, si avvicina e, senza dire una parola, si toglie il pesante cappotto nero, appendendolo sull’attaccapanni poco distante. Poi, alza la sedia di fronte al ragazzo, la sposta e si ci siede.
    Infine, lo fissa per qualche istante, in silenzio.

    «Sei un coglione» esordisce, dopo averci pensato bene «e ti confesso che non volevo venire» ammette, poggiando le braccia sul tavolo, piegandosi appena in avanti e incrociando le dita infreddolite, non distogliendo, nemmeno per un istante, le iridi azzurre da quelle dell’altro «ma eccomi qui.»

    Lo studia, come se avesse davanti un animale raro, sperando vivamente di potergli incenerire quel poco cervello che aveva dimostrato di avere. E non perché non fosse intelligente, al contrario; si domandava dove avesse lasciato la parte buona, quel giorno nella Torre. Magari era stata la pozione a spegnergli i neuroni.
    Il fatto che sembrasse nuovamente il suo Mabel, comunque, era confortante.
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    L'unica cosa positiva di tutta quella questione era che, quanto meno, gli aveva dato l'occasione di riflettere. Da quando aveva cominciato a frequentare Aaron neppure per un istante si era fermato a pensare a cosa stesse effettivamente facendo, al modo in cui le cose si stavano evolvendo, a cosa davvero avrebbe voluto che quella relazione diventasse. Ecco, senza dubbio avrebbe preferito non dovervi rimuginare con l'ansia di poter aver perso ogni possibilità, ma almeno aveva potuto darsi una svegliata sugli errori commessi.
    Innanzitutto, si era reso conto di essersi comportato come uno dei personaggi di Orgoglio e Pregiudizio. Era passato dal timore reverenziale per un Serpeverde partendo dal solo presupposto che fosse un membro della suddetta casata, all'estrema ammirazione per l'inaspettata disponibilità e benevolenza del maggiore. Il mondo non funzionava certo così, le persone non si dividevano in buoni e cattivi, Grifondoro e Serpeverde, santi e stronzi. E poi, per l'amor del cielo, perché quell'assurda fissazione di non poter essere alla sua altezza? Mabel aveva parecchie imperfezioni, ne era ben conscio, ma non poteva continuare a paragonarsi agli altri come se questi fossero delle divinità.
    Ecco, aveva riflettuto su tutto quello, ed era giunto alla conclusione che avrebbe dovuto sforzarsi il più possibile per farla finita con tutte quelle cazzate da ragazzino di primo anno. Ormai era un fottuto adulto.
    La sua consolazione, seppur magra, era stata venire a sapere dello scontro fra Aaron e Leòn. Non che avesse interpretato il gesto dell'Icesprite come dettato dalla gelosia, non gli pareva il tipo, ma almeno aveva dimostrato che, nel bene o nel male, neppure l'altro era ancora riuscito a mettere definitivamente una pietra sulla loro storia. Non aveva saputo un granché della lite, neppure che il Serpeverde fosse finito in Sala Torture, ma si era convinto di esser stata la miccia di quell'esplosione di rabbia e la cosa, seppur egoisticamente, gli dava un po' di soddisfazione—era ovvio che non avesse più incontrato il Grifondoro dopo quanto accaduto alla Torre, ma questo Aaron non poteva certo saperlo. Sì, poteva immaginarlo, ma chissà quali idee doveva essersi ormai fatto il Serpeverde di lui, non era da escludere che potesse ancora crederlo capace di certe stronzate.

    Erano passati solo venti minuti da quando aveva preso posto ai Tre Manici, eppure già sentiva le proprie certezze -se mai ne avesse davvero avute- venir meno. 'Non verrà' continuava a ripetersi, intento a mescolare la cioccolata lascivo. Gli zuccheri avevano sempre avuto il potere di tirarlo su, era un abitudine che aveva preso da sua sorella, e per qualche infantile ragione aveva creduto che potesse funzionare anche in quell'occasione.
    Certo, come se una cioccolata potesse rimediare agli errori di un cuore spezzato! E poi non ricordava di averne ancora bevuto neppure un sorso, meh. Aveva appena iniziato a mangiucchiarsi le unghia della mano sinistra quando la figura slanciata e terribilmente scura di Aaron gli si parò davanti, facendogli immediatamente allontanare le dita dalla bocca. Alzò gli occhi al cielo, contrariato dal suo stesso comportamento: perché continuava ad atteggiarsi come fosse suo figlio?? Si passò una mano fra i capelli, posando finalmente lo sguardo sul maggiore e sentendo improvvisamente un vuoto in prossimità dello stomaco. Era possibile perdere un organo così, da un momento all'altro? Quanto tempo ci avrebbe messo prima di morirne? «Sei un coglione» ecco «e ti confesso che non volevo venire» però sei venuto, e non hai intenzione di andartene, no? Rimarrai col culo su quella sedia, non ci proverai neanche a scappare via, /non muoverai un solo dannatissimo muscolo/... Doveva darsi una calmata. «ma eccomi qui.» appunto, era lì. Contro ogni aspettativa, si era presentato e non sembrava neanche troppo intenzionato a picchiarlo, il che era già qualcosa. Era lì, e probabilmente era la sua unica ed ultima occasione per dimostrargli di aver fatto bene, di potersi ancora fidare di lui. Ansia. «Sono un coglione.» alzò le mani e chinò il capo in segno di resa, incapace di contraddire le parole dell'altro. «Ma sono contento che tu sia venuto.» azzardò, biascicando un po' le parole perché, sì, aveva bisogno di un certo mood per aprirsi, un po' come era successo nel Dormitorio Serpeverde. Lì, in un luogo pubblico, con Aaron incazzato e che non vedeva da giorni... Ecco, non era proprio la sua situazione ideale, c'era da dirlo. «Io non... Ho idea di cosa dovrei dire.» ammise, mordendosi una guancia fino a sentire il sangue fra i denti. «Probabilmente qualcosa per giustificarmi o per... Farti cambiare idea su di me, non lo so.» era seriamente in difficoltà, non aveva preparato niente. Aveva immaginato quel discorso centinaia di volte eppure non era mai giunto ad una conclusione su quale fosse la versione migliore, forse ad un certo punto aveva pure iniziato a sperare che l'altro non venisse per evitare di doversi trovare in quella situazione. «So solo che mi dispiace, da morire. Non so perché mi io mi sia comportato in quel modo, non... E' ovvio che tu abbia deciso di odiarmi, mi odierei anch'io.» lo faccio già «Bho, non credo di avere scuse.» si strinse nelle spalle, consapevole di non star dicendo assolutamente niente per migliorare la propria posizione. Come magiavvocato avrebbe fatto proprio schifo. «Ma non voglio che finisca così, io... Dimmi cosa fare e lo farò, davvero.» doveva sembrare estremamente patetico, così prostrato come un povero fanciullo indifeso, ma era l'unica cosa che gli era venuta in mente di fare per riavere il suo Aaron indietro.
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    L’ammissione del Withpotatoes lo porta ad annuire, completamente d’accordo. Ecco, avevano trovato il primo punto d’incontro: ammettere la coglionaggine indiscussa di Mabel era un ottimo inizio.
    Non avrebbe nemmeno provato a dirgli il contrario, a fare finta che non lo fosse stato.
    Ma era lì, a prescindere dal comportamento adottato dall’altro, pronto a sentire quanto avesse da farfugliare. Aveva notato il nervosismo di Mabel, non solo dalle unghie mangiucchiate che aveva nascosto come se avesse paura di essere rimproverato, ma anche da quelle iridi velate dall’incertezza. Nonostante il risentimento nei suoi confronti, non poteva negare almeno a sé stesso che fosse felice di notare che fosse tornato quello di prima. Non c’erano più fastidiosi ammiccamenti, sorrisetti cretini o parole volte a farlo incazzare, ma solo la spontaneità ingarbugliata che gli piaceva da impazzire.

    Non emette un fiato mentre ascolta le parole del Withpotatoes, ogni tanto alzando le sopracciglia per tentare di seguire il discorso senza perdersi, sia per colpa dell’agitazione del minore, sia perché non riusciva proprio a capacitarsi di come fosse ancora, irrimediabilmente, totalmente attratto da quelle labbra intente a ciarlare. Se non avesse avuto un minimo di amor proprio, o un autocontrollo sviluppato da anni di pratica, avrebbe azzerato le distanze per baciarlo, una volta per tutte, ponendo fine a quel blaterare senza senso, dovuto principalmente all’incapacità dell’altro di mettere insieme due parole di senso compiuto in sua presenza. Era terribilmente carino, seduto, ingarbugliato per il nervosismo. Avrebbe sorriso, se non avesse temuto di dare l’impressione sbagliata; non voleva che l’altro interpretasse male quel gesto.

    «Non ti odio» dice, sospirando dal naso, rassegnato. Ci aveva provato, davvero. Era arrivato al punto di fissare la propria immagine riflessa per trovare il coraggio e la volontà necessari per odiare a morte il Tassorosso, ma non ci riusciva. Più si figurava davanti il viso del minore, tentando in tutti i modi di mettere da parte l’affetto per lui, più quello non faceva che schiaffeggiarlo con violenza e sbeffeggiarlo senza pietà.
    Odiare Mabel era impossibile, persino con la consapevolezza che avesse calpestato i suoi sentimenti con assoluta spensieratezza.

    Non era in lui, era questo che continuava a ripetersi, disteso nel letto del dormitorio, con un evidente dilemma interiore a logorarlo dall'interno.

    Tamburella le dita sul tavolo, combattuto.
    Nemmeno lui voleva che finisse lì, era palese, altrimenti non avrebbe nemmeno fatto lo sforzo di presentarsi a quell’appuntamento ma, d’altra parte, la fiducia nei confronti di Mabel sembrava scarseggiare, tanto da portarlo ad un vero e proprio dilemma.
    Nemmeno un compito di Aritmanzia era tanto complicato come scegliere le parole per quell'occasione.
    Di sicuro, non aveva più intenzione di far vedere all’altro le sue lacrime, né le labbra tremolanti; si era vergognato come un ladro quel giorno, in preda al più totale sgomento. Era stato colto alla sprovvista, ma non sarebbe più successo. Almeno sperava.

    «Nemmeno io, anche se non voglio, nella maniera più assoluta, ritrovarmi nuovamente in una situazione tanto spiacevole come quella alla Torre» si umetta le labbra, cercando di mantenere la pacatezza, senza volerlo spaventare o mortificare, solo per mettere le cose in chiaro «Non fraintendermi, non sono qui per farti la predica» aggiunge, portandosi una mano sul collo, mantenendo il contatto con gli occhi azzurri del minore «posso solo dirti che, se dovessi mancarmi ancora di rispetto in quel modo, io non sarò più qui a sentire scuse. Ho abbastanza amor proprio da non volermi male» e quella doveva essere una sicurezza «non stiamo insieme, nessuno dei due ha espresso chiaramente di volere una relazione. Ma ho già avuto a che fare con una situazione simile in passato e non intendo ripeterla» scuote il capo, categorico «So che sei un bravo ragazzo, Mabel, e che le tue intenzioni non erano dettate dalla cattiveria. Eri sotto la dipendenza dovuta alla pozione, è solo per questo motivo che sono seduto al tavolo. Ti dico subito che non ho intenzione di preparare nuovamente quell’intruglio, forse qualcosa di meno potente, perché voglio aiutarti. Ma devi giurarmi, sul serio, di seguire alla lettera le mie indicazioni.»

    Riflette per un secondo ancora, mordicchiandosi il labbro inferiore. Aveva chiarito tutti i punti, gli sembrava.
    Incurante degli altri commensali, intenti a bere la loro Burrobirra in santa pace, si sporge sul tavolo, allungando la mano per afferrare la maglia altrui. Lo tira in avanti per poi sussurrare «Ho provato a non sentire la tua mancanza» ammette, con un peso in meno sul petto. Poi, posa un bacio sulla guancia del Tassorosso, poco vicino alle labbra, vicinissimo, ma senza mai sfiorarle davvero «eppure, mi sei mancato comunque. Non farmene pentire.»

    Detto questo, per un istante lo fissa negli occhi, ritornando composto sulla sedia. Afferra la tazza di Mabel come se nulla fosse e, incurante che la cioccolata fosse fredda, ne prende un sorso.
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    Il fatto che non lo odiasse era già un grosso passo avanti. Insomma, non era una cosa da dare per scontata dopo le cose che gli aveva detto quel giorno alla Torre, il disprezzo che gli aveva rivolto nelle parole e nello sguardo. Quel «ho sbagliato, non meriti niente. Non sei niente e mai lo sarai» era andato ad aggiungersi alle già persistenti voci che inquietavano i suoi sonni, e sospettava che l'avrebbe perseguitato per sempre. Non era una persona semplice, Mabel, e bastava un niente per ferirlo irrimediabilmente. Se l'era cercata, indubbiamente, ma aveva agito in un momento di scarsa lucidità e con intenti per lo più pacifici, mentre quelle parole erano state sputate fuori espressamente per fargli male, e c'erano riuscite. Aaron doveva aver ormai compreso quale fosse il punto preciso da colpire per buttarlo giù, a prescindere che ne fosse più o meno consapevole. Alla luce di questo, stargli vicino era diventato più rischioso di prima; non era più solo una questione di debolezza, di totale abbandono in sua presenza: aveva letteralmente consegnato le armi nelle mani del suo più pericoloso aguzzino. Lo sapeva, eppure oramai c'era ben poco che potesse fare, era tardi per tornare indietro.
    Col capo ancora lievemente chino ma attentamente in ascolto, annuì alle affermazioni del maggiore, non potendo che ripromettersi di non perdere mai più il controllo come aveva fatto. Era vero, non stavano insieme né avevano mai chiaramente parlato di volerlo fare, ma probabilmente avrebbe dovuto ritenere ormai ovvio che ci fosse un legame fra loro che non doveva e non poteva essere calpestato così come lui aveva fatto accettando l'appuntamento del Grifondoro, a prescindere che l'avesse fatto partendo da un presupposto sbagliato. Invero, aveva creduto che Aaron non fosse più interessato a lui e si era sentito libero di rifugiarsi altrove, anzi, aveva creduto di star facendo la cosa giusta per sollevare l'altro dal peso di dover parlare della loro situazione in termini spiacevoli. Forse l'avrebbe fatto anche senza la pozione di mezzo, ma di certo non in maniera tanto spensierata: in primis, probabilmente non avrebbe mai ottenuto alcun appuntamento col suo abituale appuntamento ma, se anche vi fosse riuscito, non sarebbe certo andato a sbatterlo in faccia ad Aaron in quel modo. Chissà poi a quale situazione passata doveva riferirsi, Mabel non ne aveva idea, eppure provò l'acuto desiderio di sapere, di conoscere ogni più piccolo dettaglio del Serpeverde che gli sedeva davanti. Magari avrebbe avuto l'occasione di chiederglielo col tempo, e magari un giorno sarebbe stato accontentato. «Certo, promesso. Sono stato» un coglione, per l'appunto, a non seguire le precise istruzioni che l'Icesprite gli aveva fornito. Non aveva neppure idea del perché non l'avesse fatto, era stato /veramente/ così stupido, ancora non riusciva a capacitarsene. Fece per continuare, intenzionato a provare quanto meno a spiegargli le ragioni dietro a quel suo comportamento -per quanto neppure lui ne fosse un granché sicuro-, ma la presa del maggiore finì per ammutolirlo. Per un istante pensò che l'avrebbe colpito, in fondo se lo sarebbe anche meritato, ma le sue parole ebbero un effetto persino più violento. Pur senza staccare gli occhi da quelli altrui, si rese chiaramente conto di star arrossendo. Ma perché doveva dirgli quelle cose così?? Lui era un tipo dannatamente debole. Senza fiatare nemmeno, lasciò che l'altro gli si avvicinasse fino a posargli un bacio, leggero, sull'angolo della bocca, aspettando a riprendere a respirare fino a che le distanze non si fossero nuovamente equilibrate. Aaron lo rendeva sempre così, fragile, debole, riusciva a sorprenderlo sempre. Forse era anche per quello che gli piaceva così tanto, o magari era il contrario, non lo sapeva.
    Riaverlo lì, lontano, intento a bere dalla propria tazza come se non gli avesse appena scombussolato il mondo, era quasi doloroso. Ora che l'aveva riavuto vicino, anche se solo per qualche istante, il desiderio di sfiorarlo ancora era tornato a farsi insistente persino più di prima. Prima ancora di poter pensare all'audacia richiesta da quel gesto, allungò una mano per poterla posare su quella altrui, afferrandone le dita con una certa urgenza.
    «Io di solito non faccio così, non sono uno stronzo» corrucciò la fronte per cercare di ritrovare il filo di ciò che voleva dire. Dio, era così complicato parlare. «e una cosa del genere non succederà mai più, questo posso assicurartelo.» ecco, almeno di quello era convinto. «Ma mi conosco, e so che i miei problemi finiranno per incasinarci ancora, perché magari ad un certo punto interpreterò un tuo gesto in maniera errata, o inizierò a pensare che tu ti stia stancando di me, o chissà quale altra cazzata.» che senso aveva sponsorizzarsi come la migliore delle scelte possibili? Tanto valeva mettere le carte in tavola e sperare che l'altro non decidesse di fuggire a gambe levate. «E non posso prometterti che non succederà, proprio perché mi conosco. Quindi è giusto che tu lo sappia già da adesso, così se sceglierai di scappare finché sei in tempo io lo capirò.» probabilmente avrebbe perso la guancia a furia di prenderla a morsi ogni volta in cui era particolarmente nervoso -spesso-. «Però spero che non lo farai, ovviamente.» e strinse le dita intrecciate a quelle dell'altro un po' più forte, in attesa di una sua risposta.
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    Ferire Mabel era l’ultimo dei suoi desideri e non si riteneva fiero d’aver sputato fuori cattiverie aventi un certo peso, forse persino peggio di quelle rivoltegli dal ragazzo. Il problema era che, nei momenti di rabbia, o più che altro di totale smarrimento, l’unico modo per preservarsi era attaccare. Non c’entravano nulla i pugni, era qualcosa che risaliva a molto prima di conoscere il Tassorosso, addirittura al primo anno di scuola. Era diventato bravo a ferire con l’utilizzo di semplici, quanto taglienti, parole. Era un dono che avrebbe fatto a meno di possedere; quando lo braccavano, lo mettevano all’angolo, riusciva a diventare velenoso come il cianuro.
    Sapeva di aver toccato dei tasti fin troppo dolenti, di non essere stato in grado di frenare la lingua, sopraffatto dalle emozioni, dai ricordi e dalla delusione cocente e sebbene l’altro fosse stato tanto incauto da prenderlo per un idiota, non riusciva a togliersi dalla testa il pentimento per aver contribuito ad enfatizzare le insicurezze del minore.

    Mabel era fragile come un bicchiere di cristallo, spesso dimenticava che dietro quei riccioli ribelli si celava un mix di insicurezze e paure da far invidia a chiunque altro. Era palese che fosse dovuto a quell’incapacità di concentrarsi, di focalizzarsi, ma era anche certo che ci fosse altro, lì in quella testolina dalle mille paranoie. Non voleva romperlo, voleva preservarlo.
    Prima di prendersi quella cotta per il Withpotatoes, era stato contento di potergli essere utile come amico; voleva essere la sua spalla, dimostrare che cambiare era possibile, che se uno come lui incline all’ira potesse diventare un ragazzo migliore, tutti potevano farcela. Mabel partiva avvantaggiato, considerando che fosse già una delle persone più buone che conoscesse. Aveva solo bisogno di tempo per comprendere il suo valore, smetterla di paragonarsi agli altri e prendere in mano la sua vita; dovevano crescere entrambi, magari l’avrebbero fatto insieme.

    Ed era comunque familiare avere quello sguardo puntato addosso, quelle gote pallide accendersi di un tenue rossore, quel respiro a mescolarsi con il suo, trepidante e in attesa di un qualcosa in più. Era piacevole scoprire che nulla fosse cambiato tra di loro, che avessero ancora quella chimica che li aveva uniti prima come amici, poi come possibili amanti. Era ancora presto per parlare di una relazione, ma non troppo per iniziare a frequentarsi, questa volta consapevoli che ci fossero in ballo altri sentimenti.
    Voleva rischiare? Beh, era qualcosa di molto forte e rinunciarvi per una lite, per una stupida pozione era da imbecilli.

    Sospira di sollievo al tocco della mano altrui sulla propria, non perdendo tempo ad intrecciare le dita, questa volta avvertendo il cuore iniziare a battere più veloce per il sollievo.
    Ne aveva bisogno, era come tornare a respirare dopo settimane di apnea.

    «Lo so» lo rassicura, accarezzandogli con il pollice il dorso, come quella volta in dormitorio «mi va bene» mette da parte la tazza, portando la mano di Mabel sulle proprie labbra, poggiandole senza però fare altro. Era così maledettamente piacevole poterlo fare, avere la possibilità di sentirlo vicino «le liti ci saranno sempre, anche le incomprensioni. Questo è normale» conferma, conscio che fosse impossibile pensare che, in una relazione, non ci fossero delle scaramucce. Stava alla loro volontà tentare di contenerle e venirsi incontro «se interpreterai un mio gesto in maniera errata, sarò lì a convincerti del contrario, ti sarò vicino se avrai bisogno di me. Non farò più un errore tanto stupido» accenna un sorriso dietro le mani intrecciate, conscio che avrebbero dovuto lavorare molto, prima di giungere ad un equilibrio «Mabel, mi dispiace per quello che ti ho detto» perché non era giusto che solo il Withpotatoes si prendesse la colpa. Certo, prima di varcare la soglia dei Tre Manici di Scopa si era imposto di non cedere, ma come poteva essere tanto insensibile da non ammettere di aver tirato troppo la corda, sbattendo in faccia all’altro le insicurezze che lo tormentavano da sempre? «ero spaventato. Sono così abituato ad usare le parole per difendermi, da non aver tenuto in considerazione che ci fossi tu davanti a me e non un pericolo» ammette, con un certo rammarico nello sguardo. Mabel era convinto che volesse scappare da lui, ma la verità era che aveva paura del contrario. La sua rabbia poteva trasformarsi in dolore e non voleva che l’altro ne soffrisse.

    Si schiarisce la gola, quindi, incerto «non ho intenzione di scappare, come potrei?» era impensabile, arrivati a quel punto. Per Mabel aveva messo da parte l’orgoglio, presentandosi al locale come un perfetto imbecille «non riesco nemmeno a guardarti in faccia» sbuffa, esasperato «mi viene solo voglia di—non lo so» strapparti i vestiti di dosso, sentire sotto i polpastrelli la pelle liscia del costato, sulla labbra il sapore del collo, tra i denti la consistenza morbida della giugulare, pensa con un certo vigore «tu e la tua stupida faccia carina.» borbotta, alzando gli occhi al cielo, seccato verso sé stesso e quel vuoto allo stomaco. Dannate farfalle, dovevano morire tutte!

    L’aveva già detto di essere fottuto, sì? Perché si sentiva proprio così, in balia di quel Tassorosso.
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    Aveva avuto un ragazzo una volta. Doveva essere stato a cavallo tra i suoi quindici e i sedici anni, e non era durata più di qualche settimana, ma lo ricordava ancora con assoluta precisione. Ecco, Mabel aveva sempre avuto una certa difficoltà ad immaginarsi al fianco delle persone in termini amorosi, quasi che non riuscisse neppure a provare attrazione nei confronti di nessuno. Per un bel po' aveva creduto di essere asessuale, ma presto si era reso conto di non essere certo carente di impulsi fisici, dunque la questione era un po' più complessa. Col suo primo -ed unico- ragazzo aveva capito di non riuscire a provare niente se non per qualcuno con cui aveva già stretto un forte legame, quasi che le sue difese riuscissero letteralmente a cedere solo quando aveva avuto l'occasione di sperimentare un po' l'altra persona, abbastanza da poterla ritenere affidabile. Non si era mai innamorato davvero di Connor, non ne aveva avuto il tempo: aveva incasinato tutto prima ancora che la loro storia potesse decollare. Si era fatto prendere dalla gelosia, che poi più che gelosia era la sua solita fottuta insicurezza, ed era finita. Certo, a quel tempo era anche molto più piccolo ed inesperto, ma poteva essere comprensibile la sua paura nel restare ancora una volta ferito per sue stesse mani? E poi con Aaron era diverso, era molto più intenso, molto più tutto. Se l'imbarazzo e la decenza non l'avessero fermato, probabilmente gli sarebbe saltato addosso lì ai Tre Manici. Rude, ma onesto. E poi era anche colpa del Serpeverde, che con quelle parole non faceva che stuzzicarlo e ricordargli la ragione per cui non riusciva più a pensare ad altri che ai loro momenti insieme, passando la notte a immaginare come sarebbero potute andare le cose fra loro in futuro. E poi quelle dannatissime labbra poggiate sulla sua mano. Era proprio perso.
    In ogni caso doveva ammetterlo, la reazione di Aaron alla Torre gli aveva messo addosso un certo timore. Non era più sicuro di come sarebbero potuti sopravvivere insieme se l'altro non fosse stato in grado di comprendere le sue insicurezze, e non per cattiveria, ma per dato di fatto. Il fatto che ora l'Icesprite si stesse praticamente scusando per ciò che aveva dato, riuscì almeno a dargli un po' di conforto in quel senso, speranza su un futuro sempre più possibile e meno utopistico. «ero spaventato.» era sciocco stupirsi ancora di quelle manifestazioni d'umanità da parte del maggiore? Probabilmente sì, eppure non riusciva proprio a evitarlo. Gli pareva impossibile immaginare uno come lui spaventato o anche solo intimorito da qualcosa, aveva l'impressione che le sue spalle larghe avrebbero potuto affrontare qualsiasi cosa. Era indubbiamente assurdo pensarla così, ne era conscio.
    «mi viene solo voglia di—non lo so» same Aaron, same. Mabel poteva comprendere alla perfezione quella sensazione, il non riuscire a comprendere di cosa avesse bisogno ma il desiderio soffocante di avercelo al più presto, la voglia di strozzarlo fino a fargli male o forse solo di baciarlo senza allontanarsi mai più.
    «Io e la mia stupida faccia carina?» sgranò gli occhi, lasciandosi scappare una risata, la mano libera a grattarsi il sopracciglio. Probabilmente avrebbe dovuto ringraziare sua madre per avergli dato quella faccia, un vero peccato non avere idea di chi fosse. «Sei tu che continui a... Fare /cose/ per farmi impazzire.» e indicò la mano che il Serpeverde continuava a stringere, un chiaro esempio di ciò che intendeva. «Ho l'impressione che questa storia dell'andarci piano non stia funzionando.» sussurrò alla fine, trovandosi nella stessa situazione di quando aveva lasciato il Dormitorio Serpeverde. Ge-sù.
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    Che il loro rapporto fosse diverso dagli altri avuti in precedenza era palese, quasi scontato.
    Non sapeva nemmeno spiegare il motivo di tutta quell’attrazione, ma la sentiva dentro di sé come un qualcosa di già provato, un déjà-vu.

    Se avesse saputo di Eugéne, avrebbe compreso meglio il significato dietro a quel sentimento; il Baudelaire-Hansen conviveva con la colpa, con l’idea che allontanandosi da Maverick avrebbe potuto sopprimere quell’assurdo, disgustoso pensiero di amarlo, senza poter fare molto per impedirlo. Eugéne era incapace di affrontare il peso del rifiuto, non avrebbe mai sopportato di vedere le iridi di suo fratello velate dal ribrezzo e per quel motivo aveva preferito isolarsi, acuendo ancora di più quel disturbo, quella forma di malattia che si era insidiata nella sua mente rendendolo instabile.
    Quel ragazzo aveva rinunciato a tutto pur di lasciare a Maverick l’opportunità di vivere serenamente accanto al suo innamorato, Orion; ma la frustrazione per un amore non corrisposto, di cui si vergognava maledettamente, era riuscito a convincerlo che nel futuro non ci fosse posto per lui e che, per dimenticare, avrebbe dovuto cambiare vita. Cambiare tempo, nella speranza di trovare una cura per quel male che aveva infestato il mondo magico, ma soprattutto per quietare la sua anima dilaniata dal dolore.

    Era ironico che adesso fosse lì, a fissare quello che non aveva idea fosse stato il soggetto del suo amore. Le dinamiche erano molto diverse, chiaramente; se nel futuro erano cresciuti come fratelli, sangue del loro sangue, e che il suo tormento derivasse proprio da quella consapevolezza—nel presente, non aveva vincoli che lo riconducessero a un legame famigliare. Il suo non era un amore fraterno, dettato dal vivere fianco a fianco, nella stessa casa, con i loro genitori accanto, no. Era un sentimento molto diverso, sempre simile all’amore, ma per una persona totalmente sconosciuta. Mabel non era Maverick e lui non era Eugéne.
    Belladonna e Sinclair non erano i suoi genitori, ma in quel mondo lo erano, invece, gli Icesprite, morti per mano dei Mangiamorte.

    Non sapeva nulla di tutto quello, probabilmente non avrebbe cambiato nulla.
    Chiaramente, avrebbe esitato un attimo al pensiero che, in un futuro lontano, in un'altra dimensione distante da loro, fossero stati fratelli; ma lì? Non erano niente, non erano consanguinei, erano stati estranei fino alla partita di Quidditch che li aveva portati, inevitabilmente, ad avvicinarsi.
    Erano come anime gemelle, destinate a ricadere sempre nello stesso tranello.

    Se si soffermava sul viso di Mabel, conscio di sapere esattamente che l’altro ne avesse la piena consapevolezza, poteva giurare di sentire il cuore battere frenetico, ingarbugliandogli le viscere in modo doloroso.
    Non sapeva perché, ma si era ritrovato a pensare all’odore dell’Amortentia; con la mano del Tassorosso stretta nella sua, ascoltandolo parlare, era stato inevitabile collegare le due cose. Poteva percepire, con estrema chiarezza, l’odore del gelsomino e delle rose appena sbocciate, lo stesso che gli aveva dato il tormento dal primo momento in cui l’aveva sentito. Come uno schiaffo, era arrivata la consapevolezza di avere davanti a sé l’oggetto del suo desiderio, a cui poteva finalmente dare un volto.
    La malinconia che aveva provato la prima volta era lì, ma non aveva idea del perché Mabel gli scatenasse un simile sentimento; avrebbe dovuto essere felice. Lo era, ma con quella punta di colpa che non aveva modo di spiegare.
    Avrebbe dovuto dire a Mabel una cosa tanto importante? Forse era il momento di essere sinceri, prima di pentirsene e lasciare correre nel dimenticatoio.

    Per un attimo sgrana gli occhi, perdendo qualche battito.

    «Credo di sapere perché non sta funzionando» afferma, dopo poco, baciandogli delicatamente il dorso della mano, sovrappensiero «hai mai la sensazione di aver già provato qualcosa del genere? Come un déjà-vu?» domanda, alla fine, mordendosi l’interno guancia, cercando le parole adatte «devo confessarti che l’odore sprigionato dalla mia Amortentia è sempre stato una sofferenza, per me. Sento l’odore dei libri, della pittura, ma anche di gelsomini e rose appena sbocciate» ammette, guardandolo negli occhi, seriamente «e mi ha sempre causato dolore. Un dolore indescrivibile» una stretta al petto così forte da fargli mancare il respiro «la mia Amortentia sapeva di te prima ancora di conoscerti» stringe quella mano, quasi avesse paura di perderlo «l’ho capito solo ora, credo sia questo il motivo per cui sento il desiderio di volerti nella mia vita.»
    Per questo, pensava, era rimasto folgorato da Mabel. Per questo era attratto come una calamita, tanto da avere paura del proprio istinto.
    Desiderava baciarlo come nessuno l’aveva mai fatto.
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    Dapprima aveva guardato l'Icesprite con espressione incuriosita, cercando di capire dove questi volesse andare a parare, poi un dubbio aveva preso a insinuarsi nella sua mente. Invero, il fatto che l'altro ricollegasse il profumo della sua Amortentia a lui era... Non aveva parole per descrivere cos'era. Più di quanto potesse sperare, senza dubbio, ed anche più di quanto potesse sopportare, a giudicare dal modo in cui il cuore aveva preso a battergli dentro al petto. Non era solo una cosa carina da sentirsi dire, somigliava più ad una promessa per l'eternità, qualcosa impossibile da spezzare con una banale lite o per via di qualche sciocco capriccio: l'Amortentia non si sbagliava mai e parlava sempre di anime gemelle, mai di amori passeggeri. Ciò tuttavia non significava che non avrebbe più potuto perdersi, al contrario: significava che, se l'avessero fatto, non sarebbero mai più riusciti a sentirsi completi. Messa su quel piano, l'idea di starsi davvero innamorando di Aaron faceva ancora più paura, eppure non per questo credeva di doversi fermare, al contrario. Con questa nuova consapevolezza, più che mai, desiderava averlo al suo fianco e smetterla di prendere tempo. Non c'era niente che dovessero capire più di quello che già sapevano: che stavano bene insieme, che potevano stare bene /solo/ insieme, che in qualche modo sarebbero riusciti ad andare avanti solo l'uno con l'altro, mai divisi. Ora Mabel ne era più che certo, sì, ma a che prezzo? Di sicuro, a quello di non poter più ignorare quella flebile vocina che continuava a suggerirgli di dare un'occhiata più approfondita a quella dannata lettera, a sottolineargli la dannata somiglianza tra il suo Aaron e l'Eugéne di cui Maverick parlava per pagine e pagine. Ma, se anche avesse scelto di dare adito alle parole scritte, sarebbe stato positivo per lui, per loro? Maverick non stava con Eugéne, era suo fratello. Dunque non poteva funzionare, non poteva neppure pensare di dar adito a tali assurde idee, perché non solo avrebbe cambiato ogni cosa per sé, ma avrebbe anche compromesso per sempre il rapporto che aveva faticosamente costruito con Aaron, e questo non poteva certo permetterlo.
    Decise dunque di non pensare più a quell'ovvio collegamento, di ingoiare il boccone amaro e fingere che non fosse mai esistito, gioendo piuttosto di quanto il Serpeverde aveva appena avuto il coraggio di confessargli. Non c'era più niente ad ostacolarli, niente d'insuperabile che potesse impedir loro di stare insieme, e non sarebbe certo stato Mabel a cercare il pelo nell'uovo. Avrebbe taciuto, non ne avrebbe mai fatto parola, perché lui era Mabel e non Maverick, perché Maverick era morto chissà quando e chissà dove, mentre lui era vivo, vivo, e non avrebbe sprecato così la sua opportunità di essere felice. Che tutto il resto andasse fottutamente al diavolo. «E io che credevo fosse per il mio bel faccino, stavo già pensando di andare alla ricerca dei miei genitori biologici per poterli ringraziare.» cercò dunque di sdrammatizzare, azzardandosi persino a toccare l'argomento 'genitori' come in genere preferiva non fare. Tutto era meglio che continuare a pensare a quella storia del deja-vù. «Però è... sì, insomma, l'Amortentia è una cosa seria.» si affrettò ad aggiungere, perché non voleva che l'altro credesse di essere stato sottovalutato. Era esattamente il contrario. «Significa che è destino.» annuì, rivolgendogli uno dei suoi mezzi sorrisi gentili. «Non credo di aver mai annusato la mia, ma... beh, qualcosa mi dice che saprebbe di te.» ammise alla fine, abbassando lo sguardo con leggero imbarazzo. Che poi, chissà se sarebbe stato positivo sapere di essere reciprocamente predestinati o meno, se avrebbe aggravato i suoi sospetti o se invece sarebbe riuscito ad esserne semplicemente felice.
    Posò lo sguardo sulle loro mani ancora intrecciate, e si rese conto di quanto fastidio gli procurasse il tavolo che li divideva. Dio, voleva solo farla finita con tutti quei complessi e toccarlo /davvero/, anche contro la sua volontà. Mabel non era uno all'antica, né tanto meno uno in grado di aspettare: contrariamente alle apparenze, non era che un fottuto ragazzino incapace di tenere le mani a posto, ed in quel momento più che mai sentiva il bisogno di rifugiarsi tra le braccia dell'altro per scacciare via ogni cattivo pensiero. Non disse niente, non abbastanza audace da chiedergli di uscire, ma gli strattonò leggermente la mano nel tentativo di trasmettergli quel suo desiderio di averlo più vicino.
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    Tacere era meglio che sapere, alle volte, e se Mabel avesse deciso di farlo su quella lettera, tanto meglio.
    Non c’era niente che l’avrebbe fatto desistere, arrivati a quel punto. Non gli importava assolutamente nulla del resto, c’era solo Mabel. Il suo viso, le sue mani, il suo corpo, il suo respiro; nient’altro aveva importanza fintantoché avesse avuto accanto l’oggetto della sua ricerca.
    Per anni si era domandato cosa significassero l’odore dei gelsomini e delle rose e mai avrebbe pensato di poterli ricollegare al Withpotatoes. Eppure, eccolo lì, con le dita intrecciate e le labbra poggiate sul dorso di quella mano che ormai avrebbe potuto dipingere a memoria. Ogni piega, ogni vena, ogni increspatura, persino le unghie mangiucchiate.
    Oh, avrebbe voluto dirgli così tante cose, in realtà, ma era come se non riuscisse a sputare fuori nessuna parola, se non “stai con me”, infantile, forse pretenzioso, ma sicuramente sincero.
    Per la prima volta in tutta la sua vita si sentiva completo ed era felice d’aver accettato quell’invito. In caso contrario, avrebbe convissuto con la sensazione d'essere sempre a metà, con una mancanza.

    E sì, quella confessione era decisamente forte da sopportare. C’era senza alcun dubbio un collegamento tra di loro e sebbene fosse curioso di sapere quale fosse l’odore dell’Amortentia altrui, non aveva importanza. «Il tuo bel faccino c’entra sempre» commenta, rilassandosi, ma non potendo fare a meno di chiedersi di cosa il ragazzo stesse parlando. Da come aveva introdotto il discorso, sembrava essere stato adottato, ma non gli sembrava delicato chiedere, non in quel momento almeno. Ci sarebbe stato il tempo per tutto, e non era quello.

    «Sì, è una cosa seria. Ma non sentirti sottopressione per questo, non voglio che questo ti condizioni» era la sua impressione o Mabel sembrava più nervoso? La storia del déjà-vu era passata in secondo piano, data la preoccupazione di aver detto troppo, magari turbandolo.

    Forse doveva aver percepito il desiderio del Withpotatoes di annullare le distanze, che quel tavolo fosse solo un impedimento. A differenza del Tassorosso, lui era molto più paziente; in genere riusciva a contenersi, preferendo il romanticismo a qualcosa di più immediato. Ma—con Mabel sembrava come se tutto non avesse assolutamente importanza e che, ancora, avesse la sensazione di non poter più reggere. Anche solo quei pochi centimetri a separarli erano diventati una sofferenza. Voleva abbracciarlo, fargli sentire quanto lo rendesse debole, come il suo povero cuore battesse frenetico al solo pensiero di tenerlo vicino. E quindi, interpretare lo strattone del braccio come un tentativo di alzarsi era errato?

    Basta così, si dice.

    Con un sospiro ben udibile, quasi fosse arrivato allo stremo delle forze, si alza, lasciando la presa sulla mano altrui per recuperare il pesante cappotto. Lo indossa con una certa urgenza, sistemando il colletto e voltandosi per guardare il Withpotatoes «andiamo, Mabel?» dove? Non lo sapeva di certo, ma sperava di trovare una soluzione.
    Attende paziente che il minore si sistemi e, una volta lasciatogli il tempo necessario, intreccia nuovamente le dita, trascinandolo fuori. Non aveva idea di dove andare, invero. Gli sembrava che dovunque ci fossero troppe persone, troppi sguardi indiscreti, quando tutto quello che voleva era poter stare soli per farla finita e, finalmente, potersi lasciare andare.

    Un vicoletto non era di certo il posto più adatto, ma era sicuramente quello più ombroso, meno esposto ai curiosi. Non gli fregava assolutamente nulla di tenere la mano di Mabel in pubblico o dimostrare affetto senza pudore, ma quello era diverso. Ancora, dopo tutto quel tempo, non si erano scambiati nemmeno un singolo, fottutissimo bacio. La colpa era sua, che aveva deciso di aspettare e lo sapeva, ma ne era valsa la pena. Il fremito a fargli tremare le mani era più che esplicativo delle sue emozioni.

    Per questo, una volta soli, si ritrova nervoso, con le iridi azzurre cariche di incertezza, ma anche attesa.
    Era tanto bravo con le parole, ma a conti fatti, approcciarsi a Mabel fisicamente era più difficile di come aveva previsto.
    Persino averlo così vicino era fonte di calore.
    Decide quindi di fare il primo passo, prima accarezzandogli la guancia, subito dopo le labbra con il pollice.

    «Scusami, non è il posto migliore» mormora, quasi avesse paura di rovinare il momento «ma non sai quanto cazzo ti desidero» gli avrebbe strappato i vestiti di dosso, se solo non avesse pensato alle conseguenze. Gli avrebbe morso ogni singola parte del corpo, lasciandogli segni che fossero ben visibili, chiari tentativi di marchiarlo; avrebbe preso quelle cosce, che solo una volta aveva visto nude, e le avrebbe sollevate da terra, comprimendolo tra i mattoni del vicolo, incurante del resto. Si sarebbe beato dei suoi sospiri, del sudore, del viso di Mabel sconvolto.
    Ma non era quello il momento.

    Quindi, senza attendere oltre, si abbassa per poterlo, finalmente, baciare. Gli sfiora le labbra, avvertendo il fiato caldo del minore sulle proprie, cingendogli la vita e stringendoselo addosso, quasi avesse il bisogno fisico di sentirlo su di sé, vero, reale. Il cuore a scoppiargli, rimbombare frenetico come se, da un momento all'altro, potesse uscirgli dal petto.
    Poi, azzera la distanza, baciandolo finalmente per la prima volta.

    Quelle cazzo di farfalle ancora a svolazzare nel suo stomaco, come un fottutissimo promemoria.
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    Mabel era sempre fuggito dalle responsabilità, non perché non fosse sufficientemente serio da poterle sopportare, piuttosto perché non credeva di avere spalle abbastanza larghe da poterne reggere l'entità. Per farla breve, non credeva d'essere alle altezze delle aspettative, tanto da preferire un ruolo da spettatore persino nello spettacolo della sua vita. Se avesse potuto scegliere, se ne sarebbe stato tutta la vita ai margini piuttosto che spingersi sotto alle luci della ribalta, perché le attenzioni lo innervosivano, perché sentirsi importante lo metteva terribilmente a disagio. Ecco, anche in quel caso, non era la paura di non riuscire a rispettare l'impegno di un legame con Aaron, quanto più la sensazione di non esservi degno, il timore di rovinare tutto con un solo gesto. Era fragile Mabel, e credeva che tutto il mondo lo fosse. Aveva l'impressione di camminare costantemente su strade di cristallo, pronte a rompersi ad un suo passo falso. Non era semplice essere lui ma, da quando conosceva Aaron, aveva cominciato a sentire di avere una possibilità. Forse sarebbe riuscito a sopravvivere al suo fianco, forse non avrebbe più avuto niente da temere. Il fatto che l'Icesprite gli stesse tendendo una mano per uscire dal baratro in cui da solo s'era infilato gli dava forza, gli lasciava soltanto un unico timore: quello di poter senza volerlo trascinare il maggiore con sé nel proprio abisso d'insicurezze. Questo non se lo sarebbe mai perdonato. Aaron, a dispetto delle apparenze, non era affatto tenebroso, schivo od eccessivamente introverso. Aaron era una luce, non un faro visibile a tutti, ma una piccola candela nascosta in una scatola fatta di spine, sufficiente ad illuminare solo chi osava pungersi le dita. E Mabel, su cui il dolore aveva paradossalmente esercitato sempre un certo fascino, non poteva che essere terribilmente attratto da lui, dalla sua luce e dalle sue tenebre insieme. «No, non mi mette ansia» affermò dunque tranquillo «mi fa sentire ancora più convinto di volerci provare.» annuì, accarezzandogli leggermente le dita. Era un sentimento illogico, quello di voler lasciare quel posto assieme ad Aaron, trovarne uno in cui stare da soli e dimenticare, almeno un po', dell'esistenza del resto del mondo ma, d'altra parte, non volersi azzardare ad interrompere il contatto con la sua mano. Alla fine fu il maggiore a scegliere per lui, lasciandolo per un attimo interdetto per quell'improvvisa separazione, rincuorandolo poi con quel semplice «andiamo, Mabel?». Chissà poi se avesse idea di dove andare, se avesse già in mente un posto o se volesse solo far ritorno al castello, ma ormai il Withpotatoes l'avrebbe seguito ovunque.
    Lasciato il Tre Manici si strinse con un brivido nel cappotto scuro, non azzardandosi a stringersi al Serpeverde ma cercando con lo sguardo di nuovo un contatto. Gli prese la mano il maggiore, ancora una volta, e Mabel ebbe l'impressione di non essere mai stato felice di camminare contro il vento ed il dannato freddo autunnale quanto in quell'istante con le dita intrecciate a quelle dell'altro. Per un po', forse romanticamente, aveva pensato che quel minimo tocco avrebbe potuto farselo bastare per sempre, se necessario; ma chi voleva prendere in giro? Sentiva una tale urgenza di avere di più da non riuscir quasi a respirare. Più che con stupore, accolse con sollievo la decisione di Aaron d'infilarsi nel primo vicolo disponibile, perché non credeva di poter sopravvivere ancora senza poterlo toccare /davvero/. Si lasciò sospingere nella zona più lontana da occhi indiscreti senza opporre la minima resistenza, incapace malgrado l'imbarazzo di staccare gli occhi da quelli altrui. «Fanculo il posto.» non era da Mabel ma, cazzo, non poteva più tergiversare. Si aggrappò con entrambe le mani al cappotto del Serpeverde, chissà poi se per sorreggersi o per attrarlo ancora più vicino a sé. Aveva immaginato quel bacio centinaia, migliaia di volte, ed aveva sempre creduto che sarebbe stato lento, graduale, ragionato. Non era mai stato un tipo impetuoso, non si aspettava certo di diventarlo all'improvviso, ma — dio, come poteva restare immobile dinanzi alle labbra del maggiore a un passo dalle proprie? Accolse il bacio con una forza di cui non si era mai creduto capace, quasi che ne andasse della sua stessa vita, quasi che lo desiderasse da ancora prima di poterne essere consapevole, da ancora prima di conoscerlo persino. «Tu, e i tuoi dannati modi all'antica.» mormorò senza staccarsi da lui, quasi a volersi giustificare per tanto impeto. Beh, sì, era colpa di Aaron: lo aveva fatto aspettare /così/ tanto.
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    Edited by ‚abso-maybe - 23/11/2018, 12:04
     
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    Baciare Mabel era come risalire dal fondo del mare, annaspando per ritrovare l'ossigeno.
    Sentire le sue labbra rispondere con la stessa urgenza era stato abbastanza per convincerlo ad osare di più, incurante del fatto che si trovassero ad Hogsmeade e non protetti dalle mura confortanti del Castello. Nemmeno il freddo pungente sembrava scalfirlo, stretto in quell’abbraccio lavico e se per un attimo aveva pensato che il Withpotatoes gli avrebbe lasciato le redini, si era dovuto ricredere immediatamente. L’irruenza di quel contatto era stata inaspettata, ma gradita, tanto da pensare che – a quel punto – fosse solo lui ad essere fin troppo paziente e che il minore, invece, desiderasse solo andare avanti senza tornare più indietro.

    E allora, cosa c’era dal frenarli? Un muro di cemento? La strada illuminata a malapena dai raggi del sole? Lì erano soli, nessuno avrebbe mai potuto trovarli, se non di proposito, ma dubitava che qualcuno avesse mai avuto l’intenzione di disturbarli in un momento tanto cruciale.

    Si ritrova comunque a dover trattenere una risata roca, ma senza rispondere apertamente a quella provocazione, tanto più estremamente divertito. Mabel avrebbe dovuto ritenersi fortunato nell’aver trovato il povero idiota della situazione che preferisse godere delle cose con calma, arrivando poi al meglio con ancora più aspettativa. Se non avessero aspettato, quel bacio avrebbe avuto comunque quel sapore carico di bisogno? Avrebbe davvero sortito lo stesso effetto? Nell’arco di poche settimane erano entrate in ballo così tante situazioni, così tante confessioni, che quel contatto sapeva più di esasperazione che di effettivo desiderio.

    Le parole, comunque, gli sembravano superflue e, arrivati a quel punto, non voleva stare lì a pensare a come portare avanti quella relazione. Le cose sarebbero avvenute naturalmente, non dovevano calcare la mano, ma nemmeno restare inermi a fissarsi a vicenda. C’era la necessità fisica, il bisogno carnale di essere un po’ egoisti e prendersi il dovuto, questa volta senza chiedere, non era necessario.
    Le chiacchiere al Lago sembravano così distanti messe a confronto con quello scambiarsi di sguardi che, al tempo, non avrebbe mai pensato di elargire al minore.
    Aveva sempre apprezzato Mabel, era stato l’unico a fargli sentire qualcosa, era un piccolo faro di speranza nella sua vita disastrata. Ma mai, mai, avrebbe pensato di ritrovarsi in un vicolo con lui, disperatamente alla ricerca di quella bocca, come se ne dipendesse la sua stessa vita.
    Mabel faceva male. Era così maledettamente bello da fargli desiderare un posto sicuro dove poterlo nascondere, affinché nessun altro potesse in nessun modo bearsi di una tale visione.

    Solo dopo poco, quando il caldo dei cappotti e delle sciarpe inizia a dargli fastidio, accaldandolo a causa della foga, approfondisce quel gioco, rendendolo più umido. Persino la lingua del Tassorosso era calda. Era un bollore, da qualsiasi parte lo toccasse, o lo stringesse, era come una fiamma che, ne era sicuro, prima o poi l’avrebbe ustionato. Probabilmente, lo stava facendo anche in quel momento, ma era troppo impegnato ad assaporarlo fino all’ultimo boccone per riuscire a mettere a fuoco come, poco alla volta, stesse gradualmente perdendo la concezione della realtà, fino a veder tutto sfocato tranne l’oggetto del suo desiderio.

    Sospira, nel bacio, incapace di tenere le mani sui fianchi coperti dal pesante tessuto, non dando l’opportunità all’altro di scelta. Ad uno ad uno, sgancia i bottoni del cappotto, lasciando che l’altro gli cingesse le spalle, spingendoselo addosso, deluso di non poter sentire la pelle altrui a contatto con la propria. Avrebbe voluto avvertire la morbidezza di quel petto, gli addominali appena più visibili, le lentiggini sparse su quelle spalle che come un ladro aveva visto di sfuggita in dormitorio. Avrebbe voluto leccare ogni parte di Mabel fino a fargli perdere la testa, ma l’unica cosa che in quel momento poteva concedersi era pressarlo contro il muro ed insinuare, senza cerimonie, una mano gelida sotto la maglia, esplorandolo come un’opera d’arte.

    «Desideravo toccarti da quella volta nel dormitorio» ammette con voce roca, in un sussurro. Sia per evitare d’essere scoperti, sia perché la situazione richiedeva una certa intimità che lui voleva a tutti i costi mantenere «da quando ti ho visto mezzo nudo. Non so come abbia fatto a frenarmi dal prenderti e sbatterti su quel maledettissimo letto» con lascività, sia nei gesti che nelle parole, traccia dei cerchi sulle costole con il pollice, avvertendo sottopelle il cuore altrui tamburellare frenetico, come il proprio. Dio, si poteva essere più persi di così? Come i drogati in cerca della loro dose. Non c’erano pozioni che potessero reggere quel tugurio di emozioni a vorticargli nello stomaco. Né potevano eguagliare la piacevole consapevolezza di poter avvicinare le labbra al collo di Mabel per posare dei baci, dei morsi, per lasciargli evidentemente dei segni. E forse masochista lo era anche lui, infondo, o magari gli piaceva farsi male ed aspettare, come l’idiota che era.

    Gli dispiaceva che non fossero in un posto più comodo, dove poter stare più sereni; ma alla fine, non era proprio quello il bello? Il rischio? La consapevolezza di poter essere visti?
    Ed in ogni caso, gli importava davvero? La risposta era chiaramente un no secco, ma non poteva di certo negare che l’idea del brivido non lo stuzzicasse.

    Dannazione a Mabel, era sempre colpa sua.
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    Forse era vero: doveva ritenersi fortunato per la calma che l'altro aveva imposto ad entrambi, perché se magari quel bacio fosse avvenuto prima Mabel non sarebbe riuscito a spegnere il cervello come ora invece stava facendo, bloccato da mille timori e paranoie sul non essere neppure in grado di dare un bacio decente. Eppure, non poteva fare a meno di pensare, magari se non fosse arrivato al limite dell'ossessione sarebbe anche riuscito a non doversi controllare, a non dover riprendere fiato per paura di caderci letteralmente con tutte le scarpe. Se solo non fosse stato tanto doloroso staccarsi da quel bacio, anche solo per qualche istante, gli avrebbe senz'altro imposto di voltarsi come quella volta al Dormitorio Serpeverde, perché non era certo di poter reggere all'infinito quegli occhi a guardarlo, quelle mani a sfiorarlo e quelle labbra, cristo, quelle labbra prima sulle proprie, poi sul suo collo a strappargli un leggero gemito roco immediatamente zittito.
    Malgrado la situazione lavica, sentire le mani gelide di Aaron a contatto con la propria pelle lo fecero sobbalzare, convincendolo tuttavia presto a non sottrarsi al loro tocco. Sorrise tra le labbra dell'altro, conscio di dover essere appena parso un ragazzino incapace di non reagire e godersi in silenzio quella dannata intimità.
    «Desideravo toccarti da quella volta nel dormitorio» touché. Non era passato giorno, da allora, in cui Mabel non si era pentito di averlo guardato con maggiore cura - anzi, di averlo guardato e basta - o di averlo sfiorato, approfittando del sonno di cui l'altro sembrava vittima prima che il suo muovere le lenzuola non l'avesse svegliato. «Perché sei un masochista» mormorò in tutta risposta, chiedendosi in effetti perché diavolo quel giorno non l'avesse fatto. Probabilmente era solo troppo preso dalla situazione, ed in un altro momento una confessione del genere l'avrebbe letteralmente terrorizzato dal momento che, ecco, non era proprio convinto di poter sopravvivere ad una prima esperienza come nulla fosse. Ma in quel momento non gli importava di niente, non riusciva a pensare a nient'altro che ad Aaron, a quanto cazzo l'aveva desiderato, a come per qualche motivo niente gli sembrasse abbastanza. «e un sadico.» aggiunse dunque, imitandolo nel insinuare le mani sotto al suo cappotto per farsi ancora più vicino, esitando appena qualche istante prima di mettersi a giocherellare col bordo dei suoi jeans. Pessima, pessima idea sotto tutti i punti di vista: non era il luogo adatto per farsi venire certe iniziative, ed era troppo debole per non lasciarsene a sua volta eccessivamente influenzare. Nascose un sorriso nell'incavo del collo del maggiore, facendo risalire le mani verso la sua schiena, solo per attrarlo a sé maggiormente. Non ebbe bisogno di indagare troppo per scoprire, al tatto, qualcosa d'inaspettato sulla pelle dell'altro. Potevano dirsi segni, forse cicatrici, ma talmente spesse e talmente numerose da non riuscire neppure a immaginare come potessero apparire guardandole. «E queste da dove vengono?» chiese in un sussurro, prendendo ad accarezzare con i polpastrelli i contorni di ogni segno, non disgustato ma piuttosto preoccupato. Non aveva fatto molte visite alla Sala Torture, non abbastanza per poter anche solo concepire che Aaron potesse essersi procurato quelle ferite lì. Sperava vivamente di non aver toccato invece un tasto dolente.
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    Okay, doveva darsi una regolata.
    Il gemito appena soffiato di Mabel era risultato quasi più violento che di un pugno in pieno viso. Gli sembrava letteralmente di stare per crollare sotto al peso del desiderio; Mabel doveva ringraziare davvero, ma davvero tanto, l’autocontrollo che era riuscito ad acquisire durante gli anni, perché altrimenti nemmeno l’idea di essere in una via appartata, ma pur sempre in pieno giorno ad Hogsmeade, l’avrebbe fermato dal fargli provare, letteralmente, l’ebbrezza dei mattoni sulla schiena nuda.
    Era difficile tenere le mani a posto, benché meno la lingua, ma sapeva che se avesse esagerato, bruciando le tappe velocemente, non avrebbe avuto modo di godersi il Tassorosso con dovizia, poteva dire quasi—ossessiva? Già di base era abbastanza consapevole delle sue difficoltà nel prendere le cose alla leggera o, meglio, con tranquillità. Doveva necessariamente pensare con ordine, pena un tic all’occhio; sul serio, anche l’idea di poter approfittare della evidente disponibilità di Mabel lo poneva in un punto in cui era costretto a scegliere.
    La parte razionale, quella più ancorata alla ragione e al buon senso, gli gridavano di rallentare, perché tutto sarebbe venuto con calma; l’altra parte, quella bastarda, era più propensa a sfilare via i pantaloni del minore e dargli un assaggio di quello che avrebbero potuto fare sotto le lenzuola.

    No. No.

    Prende un profondo, profondissimo respiro per calmare i nervi, tesi come corde di violino. Perché anche quello doveva essere così difficile? E dire che aveva iniziato proprio lui, trascinandosi l’altro in quell’anfratto buio solo per poterlo baciare e sentire sulle labbra il sapore dolce della cioccolata, o della menta del dentifricio. Non aveva realizzato che non sarebbe stato così semplice. Perché le sensazioni provate erano fin troppo debilitanti e non aveva idea di come poter frenare l’istinto, non dopo essersi trattenuto per così tanto tempo.
    Ma no, non era proprio il caso di spaventare il minore, sebbene quest’ultimo avesse pensato bene di copiare i suoi gesti, sbottonandogli il cappotto ed insinuando le mani ghiacciate sotto la stoffa della maglia, ma piuttosto che accarezzargli il costato, come stava facendo lui, tediarlo giocando con il bordo dei jeans, dandogli del masochista, forse sadico, per aver aspettato tanto.

    Ora, una persona diversa avrebbe risposto a quei gesti ribaltandolo contro al muro e compiendo atti indicibili, ma lui era tutto sommato un signore e più che rabbrividire al contatto e al pensiero di quelle dita affusolate in parti tutt’altro che dormienti non pensava di fare.
    O forse, al massimo, vendicarsi in altri modi.

    Come il morso che gli pianta sul collo, abbastanza forte da fargli male, ma non così tanto da risultare spiacevole. Sperava vivamente che, su quella parte morbida, sarebbe rimasto un segno grande quanto la sua faccia di cazzo, ecco.

    «E tu, invece, sei un incosciente» bofonchia e, quasi si sentisse in colpa per l’azione appena compiuta, lecca la zona lesa, per poi occuparsene senza esitazioni suggendola. Sì, l’intenzione era quella di riempirlo di succhiotti; che ci poteva fare? Adorava i segni sulla pelle, specie di quel tipo, ed il fatto che su quella di Mabel spiccassero ancora di più grazie al pallore--- doveva finirla. F i n i r l a.
    Grazie al cielo, la domanda dell’altro lo riscuote da quel senso d’eccitazione che si stava insinuando, senza controllo, nelle pieghe del suo povero cuore, debole per le attenzioni del ragazzo.

    Non aveva nemmeno pensato alla reazione del Tassorosso alle cicatrici che gli solcavano la schiena come una tela di Fontana. In realtà, non aveva mai tenuto in considerazione l’evenienza che l’altro avrebbe posato le sue mani su quei segni che gli deturpavano il corpo, troppo forti da vedere per un animo sensibile come il Withpotatoes.

    Per un attimo, i muscoli si irrigidiscono, la mano che prima era intenta ad accarezzargli il costato e che stava per risalire verso il petto si ferma, e persino i baci sul collo cessano. Ecco, quella domanda era stata uno schiaffo, gli aveva ricordato chiaramente il perché nel dormitorio si fosse vestito in fretta e furia, conscio di non essere un bello spettacolo. Sicuro che l’altro ne sarebbe rimasto turbato o, peggio, disgustato.
    La schiena era sicuramente la parte messa peggio e le cicatrici erano molto più spesse e dure rispetto a quelle più morbide delle cosce, o delle braccia. Che dire, erano tutte il risultato di scelte sbagliate.
    Doveva ringraziare il suo status da Purosangue per essere ancora vivo, massacrato, deturpato, ma vivo; immaginava che le frustate che gli avevano riservato, tutte le maledizioni Cruciatus o le altre, varie, terribili torture fossero solo una minima parte di quelle che avrebbero riservato, invece, ai Mezzosangue.

    La cosa che più di tutti aveva avuto un peso, in quelle dimostrazioni di ferocia, era stata proprio la maledizione Senza Perdono. Non era qualcosa di semplice da gestire, non era facile mantenere lucida la mente; più di una volta gli era sembrato di impazzire. Di desiderare la morte, piuttosto che continuare con quella sofferenza.
    Forse qualcosa l’aveva perso davvero, lì dentro; forse era stato così forgiato al silenzio, ad essere un perfetto soldato Mangiamorte, da non provare più nessuna stilla di dolore. Avrebbero potuto accoltellarlo, picchiarlo, avrebbero potuto rompergli tutte le ossa del corpo e probabilmente ne sarebbe rimasto solo appena dolorante.
    Era assurdo, ma normale.

    Il suo punto di vista riguardo al potere dei Mangiamorte era mutato molto nel tempo. Prima poteva dire di essere d’accordo, di essere convinto che il Regime fosse l'unico che potesse governarli. La Sala delle Toture l’aveva reso il ragazzo che era, quindi non poteva lamentarsene. Però… ecco, né i Ribelli, né i Mangiamorte erano qualcosa che potesse reggere. Preferiva i secondi ai primi, per tanti motivi, ma spesso si chiedeva come diamine si fosse arrivati al punto di rimanere totalmente impassibili di fronte ad un omicidio o, magari, ad un’altrui pena.
    Forse, insensibile, lo era diventato anche lui; d’altronde, non aveva forse testato, anni prima, un veleno su un Babbano senza il minimo scrupolo?

    Sospira, alla fine, distaccandosi appena, sentendo ancora quelle mani esplorarlo, probabilmente alla ricerca di altri segni; non avrebbe trovato un punto privo di cicatrici, se era questo quello che pensava.

    «Dalla Sala delle Torture» ammette, alla fine, distogliendo lo sguardo come se si vergognasse, come se avesse il timore che Mabel potesse ritrarsi schifato. Come avrebbe potuto dargli torto? Era il primo a non avere amore per sé stesso «non sono stato uno studente modello in questi anni.»

    Ecco, era stato un modo perfetto per sciogliere qualsiasi pensiero fin troppo esuberante.
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    Edited by Miss Badwrong - 23/11/2018, 20:32
     
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    Incosciente in effetti lo era, ma certo per ingenuità e non per spavalderia: non aveva mica pensato che al proprio desiderio, irrefrenabile come quello di un ragazzo più che di un adulto, potesse corrisponderne uno uguale se non per maturità almeno per intensità. Non aveva riflettuto sul fatto che, continuando a sfiorarlo come stava facendo, avrebbe potuto innescare una qualsiasi reazione da parte dell'altro: ad esser sinceri, la lascivia con cui le sue dita si erano soffermate sulla pelle di Aaron, ancor prima di risalire lungo la sua schiena, era stata dettata unicamente da un proprio istinto, dalla voglia concreta e travolgente di volersi quasi testare, di scoprire come si sarebbe sentito osando dar azione alle proprie fantasie, sebbene in piccola, piccolissima parte. Non l'aveva fatto per provocare nel Serpeverde quel brivido d'eccitazione che quasi aveva percepito sotto ai polpastrelli ma perché, senza neppure rendersene conto, il suo corpo aveva reagito in risposta a tutta quella tensione accumulata in giorni e giorni di privazione. Non si era aspettato alcuna reazione e di sicuro non aveva previsto quel morso sul collo, che gli fece sfuggire un leggero lamento prima di potersi realmente compiacere per le attenzioni - seppur violente - dell'altro.
    Ecco, a questo punto sarebbe bene sottolineare che, a tirata dei conti, il vero masochista fra loro era proprio lui. Letteralmente. Ne erano una dimostrazione i graffi che aveva sulle spalle e quelle trasparenti eppure percettibili cicatrici sulle braccia, segni incancellabili di momenti che preferiva non riportare alla mente. Eppure aveva imparato ad esprimersi col dolore, a racchiudere in esso le emozioni più difficili da liberare in altro modo, ed il bruciore dei denti di Aaron sul proprio collo era senza dubbio il migliore fra i mali che aveva sempre consapevolmente accettato di sopportare. Al contrario, si trattava di un dolore piacevole, che non gridava la sua voglia di fuggire ma piuttosto quella di perdersi nel tutto che era l'altro, di lasciare un marchio sulla propria pelle a testimonianza di quel legame. Lo faceva sentire al sicuro, quasi che il livido che senz'altro sarebbe rimasto impresso sulla sua pelle chiara non avrebbe rappresentato altro che il sigillo dell'indissolubilità di ciò che avevano faticosamente conquistato.
    Forse era un pensiero sciocco, forse Aaron non aveva affatto voluto conferire chissà quale significato a quel gesto, ma lui preferiva vederla così, come un modo per preservarsi dalla paura di poter un giorno non avere più la possibilità di stringerlo a sé a quel modo, di poterlo baciare e sfiorare come invece stava facendo.
    Si accorse immediatamente del lieve irrigidirsi dell'Icesprite alla sua domanda, consapevole di aver probabilmente tirato fuori l'argomento sbagliato nel momento sbagliato. Non era affatto impressionato da quelle cicatrici, e non voleva che l'altro potesse temere una sua reazione di disgusto: lo attrasse nuovamente a sé, non azzardandosi nemmeno a smettere di toccare la sua schiena martoriata. Alzò il viso poi per poterlo guardare, sfiorandogli una guancia con la punta del naso. «Dalla Sala—» cominciò, corrucciando la fronte nello sforzo di comprendere la risposta altrui. «oh realizzò infine, sgranando appena gli occhi per la sorpresa. Inutile dirlo: coi voti che si ritrovava non poteva che essere finito anche lui un po' di volte in Sala Torture, quasi che la violenza avrebbe potuto spronare quella sua testa bacata - non era servito affatto -, ma non portava le stesse cicatrici del Serpeverde. Forse era stato il suo essere Purosangue a preservarlo, forse per ragioni diverse venivano applicate punizioni diverse, o forse semplicemente Aaron aveva scontato molte, molte più pene di lui. Fino a quel momento Mabel non aveva biasimato i metodi imposti dalla scuola, abituato ad una normalità cruda ma pur sempre familiare, eppure non poté fare a meno di provare una certa rabbia dinanzi all'improvvisa dimostrazione di debolezza di Aaron. Non gli era dato conoscere le ragioni per cui il maggiore avesse sentito necessario distogliere lo sguardo, cosa che per altro non aveva mai fatto - era Mabel, di solito, a non riuscire a sostenere le sue occhiate -, ma immaginò che si trattasse di un insieme di brutti ricordi, vergogna, forse persino paura di un suo rifiuto.
    Allontanò una sola mano dal calore della pelle di Aaron, solo per poterla posare sulla sua guancia a voltargli lievemente il capo verso di sé. «A me risulta che tu sia molto più capace e responsabile di me» affermò con decisione, sorridendogli appena. «e qualunque cosa tu possa aver fatto, rimane evidente che il problema sia loro, non tuo.» avrebbe voluto così tanto dar fuoco all'intero castello al solo pensiero, ma si trattenne dal dirlo. Si limitò a scuotere il capo, avvicinando le labbra all'orecchio altrui per evitare - per l'appunto - il confronto col suo sguardo prima di mormorare «E comunque a me piacciono. Sono... parte di te.» ed esitò ancora un attimo, poi aggiunse «Mi fanno venire ancora più voglia di vederti.» senza questi dannatissimi vestiti di mezzo.

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