the heart-shaped box

iden + charles

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    iden
    kaufman

    he eyes me like a Pisces
    when I am weak
    I've been locked inside your
    heart-shaped box for weeks
    Aveva messo quello che si poteva tranquillamente definire “il turbo”, iden kaufman, mentre abbandonava la festa di halloween e la sala dei tassorosso stringendo violentemente il braccio del francese – negli occhi solo una vivida luce desiderosa di saldare una volta per tutte i conti. Alle spalle si lasciava la musica, sempre più distante, di una band di cui non avrebbe voluto intenzionalmente curarsi, specie in quel momento – in cui aveva da preoccuparsi di ben altro.
    Ovvero un nanerottolo dal terribile accento francese che per la prima volta in vita sua aveva davvero, /davvero/ superato il – più che facilmente – valicabile limite di iden.
    E no, per un po' non avrebbe voluto ascoltare spiegazioni, e tanto meno permesso alla lingua biforcuta di abbindolarlo come già aveva fatto, troppe, troppe volte. Quella volta l'avrebbero sistemata a modo suo, e iden alle parole aveva sempre preferito i fatti.
    Ma doveva valere anche per charles, no?
    Per tutto quel tempo, del resto, non aveva fatto altro che agire alle sue spalle e /ogni volta/ per recargli una qualche sorta di danno. Cominciando dalla punizione che avrebbe dovuto scontare al suo posto, insieme a quell'altra stronza bionda – fino al fingersi una donna con lui, arrivando persino a compiere la più scellerata delle colpe. Il corvo non riusciva a smettere di chiedersi che cazzo fosse passato per la testa del dumont nel pensare potesse essere una... idea?, non buona, non carina – una cazzo di idea sensata, scopare con lui sotto forme femminili.
    E non solo. Non riusciva a smettere di cercare di capire quale mentalità da aspirante suicida lo avesse portato a credere potesse essere /quello/ il modo migliore per farglielo sapere: un accendino, un gesto intimo, che apparentemente sembrava celare una sorta di dolcezza, quando magari una bastardata avrebbe attentato il suo orgoglio.
    Quello non sopportava.
    Alle umiliazioni pubbliche era già abituato, si potrebbe anche dire “plasmato”, in modo da sopportarle e trovare maggiore soddisfazione nella vendetta – ma quello che charles aveva fatto, andava oltre tutto ciò a cui iden era stato abituato fino a quel momento. Non lo aveva umiliato, in pubblico quanto meno. Non lo aveva deriso apertamente. Non lo aveva neanche “ricattato” o usato l'avvenimento a proprio favore – no. Il francese aveva agito con il solo scopo di farlo venire a conoscenza del fatto che avevano fatto sesso insieme, che lui volesse ammetterlo o meno.
    Aveva in qualche modo dato forma a tutte le sue più inquietanti paure, era diventato egli stesso un incubo per iden, che forse – sotto sotto – quel timore lo serbava conservato nel petto già da qualche settimana. O forse da subito, chi avrebbe potuto dirlo: forse immediatamente l'inconscio aveva riconosciuto quello sguardo, ma aveva preferito vigliaccamente tacere al proprio cervello impressioni, odori, sensazioni – a favore di un più carnale bisogno.
    Per questo motivo, iden, sentiva di odiarlo più che mai – per avergli concesso l'illusione di essere diverso, o... che diavolo, non sapeva manco lui /cosa/, a cosa avesse creduto sino ad ora.
    Ignorato charles – e chiunque altro – per il lungo tragitto del corridoio, si fermò solo quando la musica gli parve così ovattata da fargli pensare di essere a centinaia e centinaia di metri da qualunque altro essere vivente (un sogno.), a parte il francese. Solo allora lo mollò, voltandosi a squadrarlo in silenzio: charles faceva pietà in quello stato, appena lucido e piegato per il dolore – anche se, razionalmente, iden era certo di essersi trattenuto in pubblico per potersi sfogare dopo. Lo nauseava quasi ora l'idea di mettergli le mani addosso, anche solo per continuare quello che si era promesso di riprendere appena fossero stati soli: e non sapeva se a frenarlo era il fatto che charles, in quelle condizioni, non avrebbe /davvero/ potuto difendersi in alcun modo, o se l'idea di averlo già toccato, e in tutt'altro modo, sotto inganno, ora creasse una sorta di rifiuto verso il suo corpo, l'idea della sua pelle, del suo respiro vicino.
    Si tirò indietro, scosso da quei pensieri, e voltandosi riprese a camminare a passo spedito «non ho intenzione di gonfiarti sotto gli occhi di qualcuno» scandì con rinnovato rancore, guardandosi attorno: hogwarts era tutt'altro che vuota, sebbene buona parte degli studenti fosse raccolta all'evento nel dormitorio dei tassi, qualcuno si aggirava in piccoli gruppetti – magari in ritardo, ma sempre diretti alla festa – desiderosi di combinare più di qualche “scherzetto” nel giorno più tetro dell'anno «non siamo qui per fare spettacolo, come l'ultima volta» /già/ e ricordava anche piuttosto bene com'era andata a finire. Non bene, per nessuno dei due – ma al solito, quello che ci aveva rimesso le penne più dell'altro era stato lui... nulla a cui già non fosse abituato, in ogni caso.
    Girò in un corridoio secondario, prese le scale – sempre attento che il francese lo stesse seguendo – e imboccò un nuovo piano, che non poteva certo dire di conoscere così bene. Gli venne da sorridere malignamente al pensiero che immediatamente formulò «almeno non stai scappando con la coda fra le gambe, impavido» tornando a fissarlo con la coda dell'occhio – doveva riconoscere che stava andando verso la forca con coraggio; doveva essere una caratteristica del sangue francese(?), o roba simile.
    Salirono ancora, e ancora, verso nemmeno sapeva dove: sentiva solo di dover mettere quanto più spazio possibile fra lui e il mondo, fra loro e chiunque altro, perché era sinceramente stanco di venire sempre fermato da qualcuno. C'era sempre /sempre/ qualcuno disposto ad intervenire – persino charles s'era messo in mezzo sotto altre spoglie, rendendo ancora più complicato un rapporto che aveva come risultato l'inevitabile scontro fra due persone troppo diverse, troppo distanti.
    Quando fu stanco di salire, un movimento abbastanza liberatorio, si infilò nell'ennesimo corridoio e iniziò – in modo confuso – a fare su e giù nel corridoio, palesemente irrequieto e sovrappensiero. Alla fine, aprì la prima piccola porticina che attirò il suo sguardo; questa si schiuse con un suono lugubre e faticoso: all'interno la luce era fioca per le poche candele alimentate a magia, ed era quasi impossibile distinguere – all'interno della stanza – la miriade di oggetti accatastati l'una sull'altra in modo disordinato e caotico, a volte instabile. Oggetti di ogni tipo, che osservandoli iden non poté fare a meno di chiedersi cosa diavolo ci facessero lì, in una scuola. Vasi di varie forme e dimensioni, all'apparenza pesanti e polverosi, mobili graffiati dagli anni, con le ante spaccate e i cassetti tirati fuori fino ad essere fatti cadere a terra e pestati selvaggiamente; a terra, cocci di varia provenienza, come se – prima di loro – fosse arrivato un ciclone nella stanza.
    Vi si fermò al centro, ostinandosi a fissare tutto meno che charles.
    Il silenzio si fece assordante all'improvviso, e iden faceva quasi fatica a parlarci sopra – come se la lingua si fosse fatta pesante e la gola stretta e secca, rendendo ogni parola un'unica sofferenza. Voleva chiudere gli occhi qualche istante e dimenticare di esistere, lì, con lui.
    «... eri tu, quindi, quella maledetta sera» furono le uniche parole che riuscì a pronunciare, in un soffio quasi, a labbra serrate in modo apparentemente ermetico. Non poteva credere che prima o poi avrebbero avuto quella discussione. Non avrebbe /mai/ voluto trovarsi lì, a dover discutere di tutto ciò con il dumont, arrivando a sfiorare corde intime come mai gli era successo. Con nessuno. Neanche con una delle sue sorelle, o dei suoi più cari amici.
    Fra tutte le prime volte, anche questa il dumont doveva strappargli – il flebile brivido di condividere l'intimità con qualcuno.



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    charles dumont
    I despise you sometimes, I love to hate the fight,
    and you in my life is like sippin' on straight chlorine.

    Forse era solo un coglione masochista. Magari la storia di sua madre, torturata fino alla pazzia dinanzi ai suoi occhi quando non era che un moccioso, e poi la convivenza con Viktor, altra vittima della violenza degli uomini, avevano finito per incasinargli il cervello. Forse era meglio pensarlo così, traumatizzato ed incapace d'intendere e di volere, piuttosto che talmente sciocco da voler consapevolmente seguire il kaufman verso morte certa. Poteva anche sembrare assurdo credere che un ragazzino incazzato potesse davvero arrivare ad uccidere qualcuno, ma charles aveva deciso di non dare niente per scontato: glielo avevano suggerito gli occhi di iden, illuminati da una furia quasi inumana, il modo in cui si era scagliato su di lui, quasi che ogni fibra del suo essere fosse stata improvvisamente elettrizzata dall'idea di fargli male, di toglierlo di mezzo una volta per tutte. Ragioni ne aveva, il corvonero, per odiarlo, persino charles non poteva negarlo. Non aveva fatto che incasinargli la vita, dal primo istante in cui ne aveva preso parte e per giunta contro l'altrui volontà, attribuendogli prima colpe che non aveva commesso solo per scrollarsi di dosso il peso delle proprie responsabilità, poi infastidendolo giorno dopo giorno per il proprio puro divertimento, mettendo a dura prova la sua già di per sé fragile pazienza. Ed alla fine, il colpo più basso, l'aveva ingannato nel peggiore dei modi possibili. O almeno, questo doveva pensare iden trascinandolo rabbiosamente per i corridoi del castello, noncurante dei gruppi di studenti costretti a scansarsi per lasciarli passare. Il serpeverde non era nella testa del minore, ma poteva immaginare a cosa pensasse, poteva immaginare quanto si sentisse violato dall'idea di aver giaciuto con un uomo piuttosto che con una donna e, cosa forse peggiore, di aver giaciuto proprio con lui. Doveva odiarlo ormai, odiare il suo sorriso beffardo, i suoi modi sdegnosamente appariscenti, ogni più piccola fibra del suo essere. A pensarla così, ciò che avevano condiviso quell'estate sembrava più uno stupro che il rapporto fra due adulti consenzienti. Il modo in cui poi charles aveva continuato a stuzzicarlo al ricominciare della scuola, il gesto con cui aveva reso consapevole anche il corvonero di quanto era accaduto fra loro, doveva aver peggiorato ancora di più la sua posizione. Adesso doveva sembrargli davvero una persona tremenda.
    E forse lo era, charles non poteva fare a meno di pensarlo seguendolo in silenzio verso chissà dove, persa all'improvviso ogni certezza, ogni calcolo che credeva di aver accuratamente previsto. Era orgoglioso, egocentrico e un po' stronzo, ma non era sciocco: sapeva di aver fatto una miriade di cazzate. In cuor suo cercava ancora di trovarsi delle scuse, di convincersi d'aver agito nel migliore dei modi per assicurare che iden sapesse la verità e che questo avrebbe potuto portarli da qualche parte, il problema era che, allo stato attuale, aveva l'impressione di poter ormai arrivare solo in un posto: all'inferno, o al limite a fanculo.
    Rimase ancora in silenzio di fronte alle sue minacce, sia perché non aveva davvero più niente da dire e sia perché, piegato ancora in due dal dolore, aveva difficoltà persino a respirare, figurarsi a parlare. Mollata la presa del corvonero, per un attimo ebbe dei forti dubbi sul fatto di poter continuare a stargli dietro senza un appoggio, ma si sentiva un po' come nel bel mezzo di un esame orale senza aver mai aperto libro: lo spirito di sopravvivenza, in qualche modo, lo stava spingendo a muovere ancora un passo dopo l'altro, pur senza sapere se le gambe avrebbero retto fino alla fine, se mai una fine fosse arrivata. Pareva quasi che iden intendesse portarlo fino in cima al castello solo per il piacere di vederlo arrancare sofferente e charles, da brava drama queen che era, si sentiva un po' come alla camminata di cristo verso il calvario. «almeno non stai scappando con la coda fra le gambe, impavido» già, bel suggerimento, perché non stava semplicemente cercando di fuggire il più lontano possibile? Primo, perché non sarebbe mai riuscito a farlo nelle condizioni in cui si trovava. Secondo, perché aveva voluto lui quell'incontro, sebbene avesse sperato in condizioni meno avverse. Terzo, perché se lo avesse fatto se ne sarebbe pentito per sempre. Se le alternative erano provare a spiegarsi e morire o scappare e non parlarsi mai più, charles conosceva già la scelta che avrebbe compiuto. E dire che, nella maggior parte dei casi, era uno che metteva la propria vita dinanzi a tutto. Non era un dannato grifondoro, coraggioso fino all'idiozia, né tanto meno un tassorosso, leale e facilmente incline all'essere ucciso. Era un serpeverde, avrebbe sempre anteposto sé stesso a qualunque altra cosa, persino agli amici e forse persino all'amore. Ma iden, oh, iden aveva tirato fuori una parte di sé a lui ancora sconosciuta. Gli ricordava il profumo della vernice fresca di quella volta in cui lui e sua madre si erano messi a tinteggiare assieme la loro abitazione francese, il sapore delle elaborate cene a cui aveva diritto ad ogni compleanno, il click della sua semi-automatica ogni volta che scattava una fotografia. Gli ricordava come aveva perso il piacere di tutte quelle cose restando immobile, pensando a solo a sé stesso, non trovando il fottuto coraggio d'intervenire, anche a costo d'impazzire assieme a sua madre, di morire persino. Gli ricordava di tutti gli errori che aveva commesso e di tutti i rimorsi che si portava dentro come ferite aperte in un mare di sale, gli faceva venir voglia di rimediare se non a tutti almeno ad uno: non avrebbe più perso le persone a cui teneva. Non sapeva esattamente come, quando o perché, ma iden era entrato a far parte di quella ristretta cerchia di persone per cui avrebbe dato via qualcosa e, a pensarci bene, era forse l'unico per cui si sarebbe lasciato trascinare in una stanza deserta nel cuore della notte per prendersi altri cento pugni in faccia. Dio, era una cosa che odiava, perché non sopportava di sentirsi così e non sopportava di essere tanto in balia di qualcuno, ma... Non riusciva ad evitarlo, non riusciva a fermarsi, non riusciva a smettere di seguirlo verso il patibolo perché desiderava così dannatamente che lui smettesse di guardarlo in quel modo, con lo sguardo giudicatore di chi non prova altro che disgusto, lo stesso che charles provava per sé stesso senza averlo mai ammesso. Si credeva perfetto, non faceva che ripeterlo ed atteggiarsi di conseguenza, ma se avesse avuto scelta avrebbe cambiato ogni cosa della sua vita, a partire da quella notte a le havre. Non aveva mai fatto niente per rimediare, credeva di poter aggiustare tutto correndo in quella stanza al san mungo ogni volta che se ne presentava l'occasione, quasi che le visite al corpo inerme di sua madre potessero espiare le colpe che sentiva di aver commesso, ma poi non si era mai fermato a cercare di comprendere meglio le ferite di viktor, o ad ascoltare di più le lamentele di perses, o ad andare oltre lo sdegno perenne del kaufman. Non aveva mai provato ad usare il proprio dolore per comprendere quello degli altri, non era mai riuscito a trasformare il proprio rammarico in qualcosa di più costruttivo della maschera di superficialità che si ostinava a portare davanti al viso, la scelta meno dispendiosa per il codardo che non poteva negare di essere. Parlava sopra ai propri pensieri, impediva loro di diventare talmente forti da poterlo schiacciare, evitava il silenzio come la peste. Eppure ora, alle spalle del corvonero, ancora non riusciva ad aprir bocca. Avrebbe voluto quanto meno guardarlo, dirgli qualcosa, una cosa qualsiasi, nella sua testa si era già formulata una frase degna del charles dumont che era: 'non vorrei prendere ancora la scossa', e così firmare da solo la propria condanna, ma almeno morire soddisfatto. Non disse niente, comunque, ebbe almeno il buon senso di starsene zitto, lo sguardo fisso al pavimento perché posare lo sguardo su di lui avrebbe fatto troppo male al suo orgoglio, già lacerato da quanto accaduto alla festa eppure tenuto ancora insieme dalla flebile speranza che potesse esserne valsa la pena. Probabilmente no, probabilmente quell'ennesimo scontro non avrebbe fatto altro che incrinare ancora di più i loro rapporti, ma dietro quella finta spavalderia charles era un ingenuo: credeva di poter sistemare tutto semplicemente con la sua parlantina, ecco perché aveva bisogno di ritrovarla al più presto.
    Finalmente arrivarono ad una stanza. Chissà se iden aveva premeditato di portarlo lì, passando i giorni a meditare su quella vendetta che desiderava infliggerli, ma a charles non sembrava plausibile. Era lui l'infido calcolatore, non kaufman. Erano giunti in un luogo che charles non aveva mai visto. In effetti, fino a quel momento, avrebbe dubitato persino che esistesse un posto del genere nel castello ma, d'altro canto, hogwarts era un posto enorme, ed era plausibile che esistessero intere sale come quella, adibite a magazzino. La stanza pareva proprio cadere a pennello per ciò che erano venuti a fare, sia che la questione si fosse risolta con una stretta di mano -cosa di cui dubitava- e sia che fossero finiti a darsele ancora una volta di santa ragione. Di sicuro non era un angolo frequentato, specie di notte, e di certo gli avrebbe concesso la privacy di cui avevano bisogno. A pensarci bene, lì sarebbe stato tremendamente facile nascondere un omicidio, ma almeno iden si era premurato di far sapere ai presenti alla festa che avrebbe dato delle indicazioni su dove trovare il dumont una volta finito, il che non era particolarmente confortante ma era già qualcosa.
    «bite» si lasciò sfuggire, poggiandosi alla prima parete libera per riprendere fiato, il braccio ancora contro lo stomaco dolorante. Socchiuse gli occhi e attese, non sapeva bene cosa, forse il prossimo colpo, forse il fiume di parole che il corvonero desiderava senz'altro scaricargli addosso. Invece niente. Sollevò una palpebra per dare un'occhiata al minore, in piedi dinanzi a lui, ed ebbe l'impressione di vederlo quasi in difficoltà. Avrebbe sorriso, se solo non fosse stato terribilmente inopportuno ed azzardato. «... eri tu, quindi, quella maledetta sera» gli sentì pronunciare alla fine e, sebbene desiderasse aprir bocca immediatamente per controbattere, esitò un attimo prima di rispondere. Non poteva permettersi di dire stronzate, c'era in gioco ben più che la soddisfazione di averla vinta, si trattava di scommettere tutto su quello che sarebbe stato il loro rapporto in futuro, se mai ci sarebbe stato un rapporto. Tossì un paio di volte, sputando ancora altro sangue, tanto da doversi passarsi il dorso della mano sulle labbra prima di poter parlare. Ew. «non lo sapevo, non ne avevo idea» scandì lentamente, voltandosi ora a guardarlo negli occhi, quasi a volergli trasmettere la sicurezza con cui aveva pronunciato quelle parole, per dimostrare di non star dicendo nessuna cazzata, non in quel caso. «me ne sono accorto» nel bel mezzo dell'ultimo orgasmo? Rude. «quando era troppo tardi.» rimase in silenzio ancora un istante, alzando poi una mano per fermarlo dal fare qualunque cosa avesse intenzione di fare per contrattaccare. «no, fammi parlare. sarò anche orgoglioso, egoista e un po' stronzo, ma non l'avrei mai fatto se lo avessi saputo sin dall'inizio, mai. che cazzo, non ho bisogno di... approfittarmi sessualmente delle persone» era quasi offeso dal fatto che l'altro avesse anche solo potuto pensarlo. Non è che intendesse dire che non gli era piaciuto o che si fosse pentito di aver fatto sesso con lui, al contrario, ma davvero non si sarebbe mai spinto a tanto sapendo di avere davanti un iden ignaro di ogni cosa. Non era un cazzo di stupratore. «mi fai finire? poi puoi anche continuare a menarmi se la cosa ti fa stare meglio.» stava cominciando ad alterarsi anche lui, cristo. «ho voluto fartelo sapere perché non mi sembrava giusto che non sapessi la verità. forse ho fatto male e, sì, di sicuro non l'ho fatto nel modo migliore... ma, mon dieu, non ti stavo prendendo per il culo, volevo solo che lo sapessi, tutto qua.» quanto era difficile farsi capire dalle persone. «e, l'ultima cosa e poi sto zitto,» anche perché stava cominciando a sentire davvero /tanto/ dolore all'altezza dello sterno. «ti dirò anche perché ti ho dato quel fottutissimo accendino. non perché sono un santo, non perché trovavo oltremodo riprovevole tenerti all'oscuro della faccenda - cosa che avrei anche potuto fare -, ma perché io non ho fatto altro che pensare a te da quella cazzo di volta in infermeria — fammi finire» no, non si sarebbe fatto interrompere, nemmeno se l'altro avesse cercato di tappargli la bocca. «e mentre io pensavo a te, tu sai che facevi? continuavi a trattarmi di merda e no, non perché io sia uno stronzo, ma perché avevi semplicemente deciso così. non hai fatto altro che sputarmi addosso il tuo odio dal primo momento, da ancora prima di sapere della storia con heather. a quella lezione mi hai sparato a tradimento ancora prima di sapere chi fossi, solo perché avevi deciso di odiarmi a prescindere, perché non ti è mai andato a genio il fatto che MAGARI invece potessi piacerti.» fine dello spettacolo, sipario chiuso.




    slytherin
    french as fuck
    18 Y.O.

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    made in china — I'm here at the beginning of the end
     
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    iden
    kaufman

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    I've been locked inside your
    heart-shaped box for weeks
    La verità era che iden, per quanto ci provasse, non sapeva cosa dire. Fosse stato per lui, tipo da fatti più che parole, avrebbe continuato a tacere e dato modo al suo corpo di sfogare tutta la rabbia che serbava da fin troppo nel proprio petto – tutta addosso al malcapitato che aveva avuto la terribile idea di fargli quello... Eppure no, /non ancora/, aveva fermato la mano e rovistato alla ricerca di abbastanza volontà da frenarsi e chiedergli – aveva dato voce alle sue paure, dimostrando per la prima volta dopo tanto tempo un barlume di lucida razionalità che, alla fine, era servito solo a scoprire la sua debolezza.
    Non sapeva dove avesse trovato il coraggio di porre quella domanda – essenzialmente perché lui stesso non era pronto ad una risposta. Che cosa avrebbe dovuto dirgli: sapevano entrambi quale fosse la realtà, era inutile fingere che così non fosse, che no, quella sera non fosse lui. Perché implicitamente charles aveva già confessato, aveva già firmato la propria condanna “a morte” – una morte, per lo meno, nei riguardi di iden. Il corvo avrebbe di cuore voluto spaccargli la faccia, ma ancora di più lasciare che il ricordo di quel ragazzo divenisse solo un'ombra lontana, uno spettro destinato a sparire nel giro di pochi giorni... settimane se fosse stato necessario.
    Ma lo sapeva lui, e probabilmente anche l'altro – che da quella scatola a forma di cuore nel petto di iden non vi sarebbe più uscito. Non nel modo in cui vi era entrato – silenzioso, inatteso, strisciando come la serpe che era – per lo meno. Perché iden manco si era accorto di aver provato nostalgia nei suoi confronti, di averlo pensato, di averlo odiato perché in qualche strano modo /geloso/ di lui... così come di averlo apprezzato, evitato, cercato con lo sguardo – tutta una serie di piccoli atti di cui il suo cuore neanche si era accorto.
    Perché, poi?
    Cosa c'era davvero fra loro?, una pallottola mancata, una scazzottata finita in sala torture, un pomeriggio a leccarsi il sangue dalle ferite come animali braccati, provocazioni, sigarette smezzate e qualche sguardo di troppo, magari durante delle lezioni a cui non riusciva a restare attento.
    Come poteva, con queste premesse, arrivare a pensare a lui giorno e notte come un tarlo che si ostina a scavare nello stesso punto senza apparente ragionevolezza? Non lo sapeva, iden, non aveva una sola risposta delle troppe domande che gli affollavano la testa in quel momento, facendogli artigliare lo schienale di una sedia divorata dalle tarme – le nocche sbiancarono a quel «non lo sapevo, non ne avevo idea» e con un ringhio si agitò, più simile ad un animale che un uomo, spingendo la sedia a terra fra loro e sommando, alla voce apparentemente sicura e tranquilla di charles, la propria, che irrimediabilmente andò a coprire quella del dumont – tanto era rabbiosa «smetti, smetti di prendermi per il culo, dumont» non ci credeva, non ci poteva credere «me ne sono accorto quando era troppo tardi.»
    La sedia si spaccò con un tonfo secco a terra, ai piedi di charles, e schegge di legno si sparsero sul pavimento sporco andandosi a confondere coi cocci già sparpagliati – un lieve senso di appagamento invase il kaufman, ma durò qualche istante prima che la furia lo assalisse nuovamente, tornando a far pulsare le tempie in modo selvaggio «sei un bugiardo» la voce rotta da un nodo alla gola che rendeva difficile continuare a parlare – portandolo a desiderare solo di smettere. basta. Basta bugie, prese per il culo, sotterfugi: era stanco, sfibrato da quel gioco sadico che il ragazzo stava evidentemente portando avanti da tempo solo per ridurre al minimo la sua difesa e farlo definitivamente crollare. Gli era impossibile credere che charles si fosse sbagliato, o peggio, non vi avesse proprio riconosciuto – in quel viso adulto – i tratti di poco più giovani e gentili del suo viso adolescenziale.
    Impossibile. E doloroso – cosa significava davvero quell'ammissione?, come avrebbe dovuto reagire, parlare, ammettere? troppe, troppe parole, e più era confuso, più iden si accendeva; come pieno di combustibile, prendeva fuoco in un attimo, incendiando tutto ciò che stava nelle sue vicinanze.
    Fece un minaccioso passo verso il dumont, il quale non parve più accondiscendere al tutto come poco prima, e anzi – osò persino alzare una mano verso di lui, atto che se possibile ebbe l'effetto di far aumentare esponenzialmente la sua insopportazione verso l'altro: si fermò, come un toro pronto alla carica, «no, fammi parlare. Sarò anche orgoglioso, egoista e un po' stronzo, ma non l'avrei mai fatto se lo avessi saputo sin dall'inizio, mai. che cazzo, non ho bisogno di... approfittarmi sessualmente delle persone» e per un attimo sul viso contratto di iden apparve un sorriso, un /ghigno/ tutt'altro che gentile o rassicurante – che gliene poteva fottere di quello che charles diceva (o credeva) di essere... le cose erano andate in un disastroso modo per sola colpa sua, avrebbe dovuto pagarla – che lo avesse voluto o meno. Gliene aveva fatte troppe per “chiudere un occhio” – era arrivato al punto in cui li avrebbe voluti chiudere entrambi a charles, a forza di pugni. «mi fai finire? Poi puoi anche continuare a menarmi se la cosa ti fa stare meglio» sì, cristo, lo avrebbe fatto sentire meglio eccome in quel momento «ho voluto fartelo sapere perché non mi sembrava giusto che non sapessi la verità. Forse ho fatto male e, sì, di sicuro non l'ho fatto nel modo migliore... ma, mon dieu, non ti stavo prendendo per il culo, volevo solo che lo sapessi, tutta qua» d i o, si poteva essere più estenuanti di così?, iden non lo credeva.
    Per lui il dumont doveva aver raggiunto una sorta di record personale – approfittò dell'attimo di silenzio per accorciare le distanze, ma nuovamente charles volle frenarlo, rimandare di qualche attimo il momento in cui iden gli avrebbe fatto rimangiare ogni bugia «ti dirò anche perché ti ho dato quel fottutissimo accendino. Non perché sono un santo, non perché trovavo oltremodo riprovevole tenerti all'oscuro della faccenda – cosa che avrei anche potuto fare – , ma perché io non ho fatto altro che pensare a te da quella cazzo di volta in infermeria – fammi finire» si interruppe, sentendo nuovamente il cervello andare in confusione mentre il corpo si portava di fronte al suo e una mano andava a posarsi sul suo mento, stringendo forte le dita sulla mandibola nel disperato tentativo – vigliacco – di zittire quella bocca malefica.
    Non voleva più sentire nulla.
    «e mentre io pensavo a te, tu sai che facevi? Continuavi a trattarmi di merda e no, non perché io sia uno stronzo, ma perché avevi semplicemente deciso così.»
    Non più parole da quella lingua da serpente, brava a tessere inganni e rigirare ogni scusa.
    «non hai fatto altro che sputarmi addosso il tuo odio dal primo momento, da ancora prima di sapere della storia con heather. A quella lezione mi hai sparato a tradimento ancora prima di sapere chi fossi, solo perché avevi deciso di odiarmi a prescindere,»
    Bugiardo, falso, /montato/ con le sue teorie complottistiche che ora come ora si sentiva di confermare solo per il gusto di ferirlo maggiormente, credere di averlo odiato davvero dal primo momento e continuare a farlo tutt'ora. Lo odiava. Lo odiava con tutto se stesso, era vero – doveva solo convincersi che quello che stringeva il petto in quel momento era odio. Profondo, radicato odio.
    «perché non ti è mai andato a genio il fatto che MAGARI invece potessi piacerti.»

    E così, si poteva tranquillamente dichiarare la morte cerebrale di iden.
    Tutto avrebbe potuto dire, il dumont, per chiudere in bellezza la propria futile dichiarazione – qualunque frase sdolcinata, o preghiera perché gli risparmiasse il visetto da angelo che si ritrovava... qualunque cosa avrebbe potuto salvarlo. Ma nelle sue ultime parole, aveva letteralmente sconvolto un gioco che forse, con le giuste mosse, avrebbe anche potuto vincere. Il suo errore?, aver completamente scordato di stare al tavolo con chi, delle regole, non sapeva che farsene: ad iden non importava la vittoria, così come la sconfitta, non gli importava di giocare correttamente o, ancora, degli altri. E quel discorso tanto commovente ebbe solo l'effetto disastroso, sul finale, di accendere una miccia in una stanzetta piena di esplosivo.
    boom.
    Lo afferrò per il colletto e tentò di spingerlo al centro della stanza, lì dove fino a pochi istanti prima iden stava a contemplare il casino dei suoi pensieri: ora solo un silenzioso vuoto regnava all'interno nella sua mente – non un pensiero, un sussurro. Il silenzio del deserto. Come, come cazzo aveva pensato di poterlo dire?, di poterlo anche solo /pensare/. Con chi credeva di star parlando? «patetico» e nuovamente lo raggiunse, un passo alla volta, nelle orecchie solo il rimbombo del proprio cuore che pulsava calmo ma assordante «ti ho sparato apposta?, ti ho odiato sin dal primo istante? e allora cosa ci fai ancora qui?» pronunciò con una crudele malizia, fissandolo con occhi fiammeggianti «perché sforzarsi /tanto/ quando hai già tratto le conclusioni? ti odio, come persona sei tutto ciò che ho sempre sdegnato e non l'ho mai nascosto – eppure sei ancora qui, a darmi delle spiegazioni che non ti ho chiesto» perché, perché aveva dovuto parlare? Perché riempire la sua testa di melense frasi col potere di frenarlo dallo stringere le mani attorno al suo collo?, il silenzio avrebbe giovato ad entrambi, se si considerava che ora la confusione in iden aveva lasciato spazio ad una più quieta indifferenza – non comprendeva davvero «a cosa puntavi?», o quali fossero le intenzioni di charles dumont dietro tutte quelle confessioni... come se lui ora potesse farci qualcosa.
    Lo afferrò, ma stavolta dal retro del collo – portandosi così vicino a lui da sentire nelle narici il profumo della pelle del ragazzo, un aroma che non avrebbe mai più confuso, che sapeva di quella sera tanto lontana... ora vivida come non mai nel tenere la mano ferma sul retro del suo collo sottile, o il respiro a incresparsi sulla pelle liscia. Un sussurro, appena «perché sì, mi è piaciuto» e al solo ricordo dei corpi adulti il sangue smise di circolare verso il cervello, per andarsi a concentrare sotto il ventre – creando brividi lungo tutto il corpo, «mi è piaciuto da morire fotterti, da donna» graffiato il tono, carico di lordura quanto di risentimento. Mollò la presa ma non accennò ancora ad allontanare il corpo, tornando solo a fronteggiare il suo sguardo col proprio – la violenza, d'un colpo, s'era completamente spenta in lui, e il desiderio di ferirlo era andato via via scemando a favore di una calma glaciale.
    Sorrise, un mezzo sorriso divertito, mentre roteava gli occhi un istante, con fare disinteressato «e ti dirò, mentre godevo del tuo corpo ho anche immaginato di averti visto, dietro quei vestiti femminili, sotto quella pelle non tua...» ironico, no?, più ci pensava, più gli veniva malignamente da riderne – ridere di se stesso, della propria cecità, e dell'illusione che charles nutriva nei suoi confronti. ironico davvero.
    Indietreggiò, senza toccarlo oltre o soffermarsi troppo sul suo corpo: l'animo quieto ragionava con più crudele lucidità, e improvvisamente gli sembrava così /stupido/ dover alzare le mani per una sciocchezza – per una scopata da un quarto d'ora.
    Alzò le mani, prima di infilarle in tasca e con fare tranquillo esordire nuovamente, dopo secondi di silenzio «sei perdonato, dumont – voglio crederti quando dici di non averlo capito se non troppo tardi. E alla fine non è successo nulla di troppo grave, scoparti in vesti femminili non era nei miei “piani” ma è stato più che soddisfacente, per quel che era» e si voltò appena, a fissarlo senza abbandonare lo sguardo ancora acceso da pulsioni piuttosto violente «una botta e via – oh, e naturalmente, che resti fra noi» e senza troppi giri di parole volle spezzarlo così, dirigendosi alla porta con totale disinteresse.
    Annullando ogni violenta pulsione, ogni rabbioso desiderio, nei confronti del francese – come se non fosse successo nulla.


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    charles dumont
    I despise you sometimes, I love to hate the fight,
    and you in my life is like sippin' on straight chlorine.

    charles dumont era tante cose, meno che uno sprovveduto. Sapeva che le sue parole avrebbero mosso qualcosa nel kaufmont, che non sarebbero rimaste semplice aria al vento. Con consapevolezza le aveva pronunciate, pur contravvenendo alla più importante delle regole che si era auto imposto: mai abbassare la guardia. Aveva mostrato la parte di sé più vulnerabile, quella ancora capace di provare sentimenti, quella che credeva d'aver sepolto assieme ai resti frastagliati della sua famiglia, lasciandola alla mercé del kaufman perché ne facesse ciò che desiderava.
    Non gli importava più di perdere, perché quello era un gioco che aveva comunque già perso in partenza. Avrebbe dovuto capirlo dal primo istante, dal modo in cui s'era premurato di incrociare il corvonero dopo quell'ormai nota lezione di strategia senza che ve ne fosse un reale bisogno, solo per il gusto di poterlo avvicinare, di condividere con lui ciò che restava della sua sigaretta. E poi la rabbia, quella che normalmente avrebbe provato verso chiunque avesse osato sfidarlo, metterlo in ridicolo davanti alla scuola e rovinare la sua brillante condotta spedendolo dritto in sala torture, dissipata invece dal timore che potessero far più male all'altro che a sé stesso, la sua scala di valori improvvisamente sovvertita da qualcosa che non aveva saputo prevedere: perdersi per qualcuno che, probabilmente, non l'avrebbe mai ricambiato.
    Una cosa del genere charles non aveva idea di come gestirla, se con la premura di una medicazione in infermeria ricambiata con l'ennesimo sorriso sprezzante, o se con le battute pungenti che almeno preservavano il suo orgoglio già sul punto d'incrinarsi; entrambe le alternative, in ogni caso, finivano per condurlo sempre allo stesso fottuto risultato: niente.
    Niente aveva ricevuto da iden, niente per cui valesse la pena sperare, niente che potesse spiegare l'alimentarsi di un sentimento che, seppur mai curato ed inaridito dall'asprezza e dallo sdegno, si ostinava a restare in piedi come un sempreverde particolarmente resistente. Avrebbe voluto odiarlo, liberarsene, ma continuava a finirgli addosso alla stregua di una barca alla deriva che s'incaglia tra gli scogli senza possibilità di scampo. Avrebbe di gran lunga preferito non giacere con lui, o non accorgersi mai della reale identità del suo amante, così forse sarebbe stato più semplice fingere di non provare niente, continuare a vivere come il charles dumont che era sempre stato, ovvero uno a cui non importava di nient'altro che di sé stesso.
    Ma con quell'accendino restituito nel più vile dei modi, con la comparsa del kaufman nel bel mezzo della festa di halloween dopo settimane di silenzio ed infine con la rabbia che aveva visto accendersi nei suoi occhi languidi, il serpeverde ebbe per la prima volta l'impressione di aver finalmente qualcosa tra le mani. Niente di vistoso o di particolarmente eccessivo, appena un indizio, impossibile da cogliere per una mente poco attenta ai dettagli, ma sufficiente a fargli credere di poter ancora avere una possibilità, di non essere così indifferente al kaufman come questi si ostinava a invece a sottolineare ogni qual volta ne trovasse l'occasione.
    Il fatto era che charles riusciva a intravederla, celata dietro al discorso ancora una volta astioso del corvonero, la negazione di un sentimento che poco assomigliava all'odio che professava di provare nei suoi confronti, l'incapacità di trovare una ragione che trattenesse ancora entrambi lì, sospesi in una lite che avrebbe anche potuto concludersi con l'ennesimo schiaffo e non una parola di più.
    Invece l'aveva lasciato parlare iden, non si era ancora spinto al punto che forse s'era prefissato di raggiungere prima di portarlo lì, trattenuto da chissà quali pensieri. Avrebbe così tanto voluto leggere la sua testa, sapere quali corde avesse sfiorato nell'affermare «non ti è mai andato a genio il fatto che MAGARI invece potessi piacerti».
    L'aveva detto senza pensarci, forse più nella speranza di una risposta affermativa che nella reale convinzione che quanto stesse pronunciando fosse vero, ma ora cominciava persino a crederci. L'osservava ad un palmo dal proprio naso, con quel sorrisetto che nuovamente gli si era stampato in viso, e si convinceva di aver ancora una speranza, di dover solo pazientare in attesa del momento in cui l'altro avrebbe accettato i propri sentimenti.
    «a cosa puntavi?» a te avrebbe voluto rispondergli, ma la stretta sulla sua nuca finì per strozzargli le parole in gola, il respiro spezzato da una vicinanza tanto inattesa quanto disperatamente agognata. Non aveva potuto evitare quella dannata notte al lilium, ma almeno gli sarebbe piaciuto poter tornare a sfiorare quelle labbra con la consapevolezza d'avere lui davanti e non uno sconosciuto qualunque da dimenticare.
    «mi è piaciuto da morire fotterti, da donna» ma non c'era lussuria nel suo tono di voce, o desiderio, solo e sempre quel mal celato disprezzo che pareva riservare solo per lui, che in qualche modo riusciva a ferirlo sempre un po' di più. Magari era proprio quello il problema, il fatto che avesse specificato da donna come se il vero fulcro della questione fosse l'aver goduto con un uomo, l'impossibilità di metabolizzare una cosa che per charles era invece sempre stata la normalità.
    «e ti dirò, mentre godevo del tuo corpo ho anche immaginato di averti visto, dietro quei vestiti femminili, sotto quella pelle non tua...» avrebbe forse dovuto trarre piacere da quell'ammissione il serpeverde, scambiare il brivido ad attraversargli la pelle per soddisfazione e non per terrore, ma non era tanto stupido. Dove voleva andare a parare iden con quelle affermazioni si faceva via via più palese ai suoi occhi, facendogli desiderare d'avere abbastanza forze da poterlo mettere a tacere prima di ascoltare oltre, prima che riuscisse a colpirlo in quella parte che poco prima aveva lasciato senza difese per lui: il cuore. Ma non c'era niente che potesse fare, niente se non implorarlo con lo sguardo di farla finita, di tacere, di non fargli più male di quanto non avesse già fatto.
    Cadde indietro quando il kaufman mollò la presa su di lui, l'acuta fitta allo stomaco fattasi ancora più intensa in concomitanza a quella al centro del petto, l'improvvisa impossibilità di sostenere oltre quegli occhi sprezzanti fissi sui propri. Voleva ucciderlo, iden kaufman? C'era riuscito. Che lo avesse fatto con cognizione o meno poco importava, perché non solo aveva calpestato il suo corpo, il suo orgoglio, i suoi sentimenti: non gli aveva lasciato niente d'intatto, niente di riparabile. Solo vuoto.
    Ironico come avrebbe di gran lunga preferito essere colpito ancora, sentirsi insultare per l'ennesima volta piuttosto che stare ad ascoltare quella dannata noncuranza a cui charles si rifiutava di credere, ma che comunque trovava impossibile da ignorare.
    Rimase immobile per qualche istante, il volto chino e lo sguardo perso, senza sapere cosa fare. Doveva forse fermarlo dall'andar via? Attaccarlo? Rispondere con altrettanta indifferenza?
    Alla fine sorrise.
    Sì, sorrise. Una delle sue smorfie maliziose, col solo scopo di ricordare a sé di non essere un dannato relitto ma charles fottuto dumont, uno impossibile da ferire perché ormai temprato da fin troppe delusioni. Neanche iden avrebbe potuto cambiarlo.
    «continua pure a prenderti in giro, kaufman» sollevò appena il capo per osservarlo, di spalle, le labbra ancora piegate in un'espressione trionfante. «ripeti a te stesso ciò che preferisci» poggiò una mano sul pavimento per darsi la spinta necessaria a rialzarsi in piedi, barcollando appena per il dolore. «tanto conosciamo entrambi la verità, c'eravamo tutti e due in quella stanza al lilium» s'accasciò nuovamente contro la parete, scostandosi dalla fronte i capelli come suo solito. «ma fa' come credi, non m'importa. tanto è stata solo una botta e via, giusto?» e rise stavolta, una risata roca e gutturale, carica di tutta l'amarezza da cui si sentiva travolgere ineluttabilmente. «se mai dovesse venirti voglia di un secondo giro, visto che t'è piaciuto tanto, avvertimi per tempo eh? potrei avere già l'agenda piena.» voleva trattarlo alla stregua di una puttana? Una puttana avrebbe avuto.




    slytherin
    french as fuck
    18 Y.O.

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    made in china — I'm here at the beginning of the end
     
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