Deep down

Elwyn x Isaac [challenge #01]

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    «Devo dirti una cosa.» sollevò lo sguardo lentamente, Elwyn Huxley, distogliendolo dal bicchiere di whisky incendiario poggiato davanti a sé e incrociando le iridi chiare della sorella. Lisbeth era seduta dall’altra parte del piccolo tavolo in legno che occupavano ormai da circa un’ora, visibilmente tesa, a disagio come non lo era mai stata prima di quel giorno. E se n’era accorto subito, l'ex-corvonero, dall'istante in cui aveva varcato la soglia dei Tre Manici di Scopa. Lo aveva intuito dal linguaggio del corpo, da quel sorriso forzato che non era riuscito a coinvolgere i suoi occhi spenti, distratti, neppure una volta. Aveva cercato di capirne il motivo da sé e aspettato che la ragazza fosse pronta a parlarne, mentre ascoltava i suoi racconti e veniva aggiornato sui cambiamenti avvenuti dal loro ultimo incontro; tuttavia, quella notizia andava ben oltre le catastrofiche proiezioni che la sua mente era riuscita a partorire – e questo includeva una gravidanza inaspettata, delle pressioni ricevute da parte del Regime, l’aver contratto una misteriosa malattia magica o l’aver deciso di fraternizzare con una delle tante persone che il mercenario aveva incluso nella sua lista nera, fin troppe per lasciare sua sorella libera di frequentare chiunque volesse. Aveva preferito non farle domande perché non aveva il diritto di intromettersi in una routine da cui lui stesso aveva deciso di prendere le distanze, di conoscere ogni dettaglio della sua vita quando, da più di un anno, non faceva che gettare fumo attorno alla propria. I rapporti tra gli Huxley si erano ridotti a quello, incontri sporadici e frasi di circostanza, nonostante Lisbeth cercasse di tenere insieme ciò che era rimasto della loro famiglia. «Non arrabbiarti.» una delle più comuni espressioni utilizzate per tentare di placare gli animi impetuosi e che, puntualmente, dimostravano di sortire l'effetto contrario. Com'era prevedibile, infatti, i lineamenti del viso si irrigidirono. Osservò la ragazza aprire la borsa, tirare fuori un piccolo fascicolo e poggiarlo sul tavolo, spingendolo in direzione del fratello. «Ho trovato questi, nell'ufficio di papà.» bastò quella semplice parola per accendere lo sguardo del mercenario. Leopold Huxley aveva smesso di essere suo padre da tempo, da quando aveva deciso di vivere la sua vita attraverso quella di Elwyn, da quando, alla sua felicità, aveva anteposto il sogno di veder crescere una stella del Quidditch, costringendolo ad allenamenti massacranti, fomentando il suo spirito competitivo – a discapito di una cultura sportiva cui l'ex-corvonero era totalmente estraneo – e impedendogli di seguire una strada differente rispetto a quella che aveva tracciato per lui. Aveva smesso di esserlo dalla morte della moglie, accecato da un dolore che lo aveva portato a stringere la sua morsa attorno ai figli fino a farli allontanare da lui, che lo aveva reso tanto opprimente quando distante, cieco di fronte ai loro bisogni. Aveva smesso di esserlo quando aveva spedito Wayde in uno dei laboratori degli estremisti ribelli, ossessionato dall'idea di poterlo curare, di trovare un modo per salvarlo dalla sua condizione di magonò e proteggerlo da un mondo che – era sicuro – non lo avrebbe mai accettato. Aveva smesso di esserlo, forse, perché non lo era mai stato davvero. Non per Elwyn almeno. «Non mi interessa, lo sai, di qualunque cosa si tratti.» rispose, secco, con un tono di voce che non ammetteva repliche. Non parlavano mai di lui, non in sua presenza. Si trattava di un argomento che avevano escluso dalle loro conversazioni e che, allo stesso tempo, pesava come un macigno su ognuna di esse. Non veniva nominato direttamente, ma compariva sempre, tra le righe, come causa della loro condizione, come il motivo per cui avevano smesso di sentirsi una famiglia. Non si erano accorti in tempo di quella crepa che si era formata negli anni, allargandosi sempre di più, diramandosi fino a raggiungere un punto talmente critico da non poter più tornare indietro. Non sarebbe stato possibile ripararla, né far finta di niente. C'era, esisteva, come i segni di ciò che era stato. E lo sapeva bene Elwyn, nonostante si ostinasse a fingere che nulla fosse mai avvenuto; conviveva ogni giorno con quello che aveva fatto, lo riviveva ogni notte, lo vedeva nei suoi incubi, lo sentiva nei silenzi con i suoi fratelli, nei ricordi di una vita che gli sembrava ormai incredibilmente distante. Allontanò quel fascicolo, ma venne bloccato dalla sorella. «Dovrebbe, invece. È importante.» tenne la mano su quella dell’ex-corvonero per qualche istante, sostenendo il suo sguardo furente e implorandolo di dare un'occhiata a quei documenti. «Riguarda la tua… famiglia fece una breve pausa, non per aumentare l’attesa né per conferire un certo tono di drammaticità all'intera frase. Le era costato molto pronunciare quella parola ad alta voce perché, nel farlo, l’aveva resa reale, le aveva dato un peso – opprimente, eccessivo, più di quanto Lisbeth fosse pronta a sostenere. Aveva ammesso l'esistenza di un legame, di sangue, che andava ben oltre il loro cognome, oltre l'unica cosa che, nell'ultimo anno, sembrava aver tenuto insieme gli Huxley. Aveva dato corpo alla paura di perderlo definitivamente, di vederlo allontanarsi per inseguire la prospettiva di avere un'altra vita, un'altra famiglia. Elwyn, invece, era rimasto immobile, come se il tempo, e i presenti, e i suoni circostanti, e i battiti del suo cuore, e il regolare ritmo del suo respiro, come se tutto si fosse fermato. Continuò a guardare la sorella, in cerca di un segno, di risposte che non era suo compito dargli. Da bambino, non aveva fatto altro che raccontare a se stesso delle storie, immaginare leggendarie imprese in cui i suoi genitori avevano tragicamente perso la vita – sono stati costretti a lasciarmi, si era detto, non hanno avuto scelta. Li avevi dipinti come eroi, sollevandoli da ogni responsabilità per il suo abbandono e facendo così anche con se stesso per non accettare l'idea di non essere stato adatto, in qualche modo, di non essere stato abbastanza o di essere stato fin troppo. Con il passare degli anni aveva smesso di idealizzarli, e dall'attribuire loro la colpa di tutto ciò che non andava, nella sua vita, aveva abbandonato quei pensieri e li aveva chiusi in un angolo remoto della sua mente.
    Non ebbe il coraggio di leggere quei documenti, né di farli sparire con un leggero colpo di bacchetta. Non era pronto a ciò che avrebbe trovato al loro interno, ad un cambiamento di tale portata – lui che fingeva di assecondare trasformazioni costanti solo per evitare di scoprire cosa ci fosse realmente sotto tutti quegli strati di bugie. E non aprì quella cartella, né quella sera, né i giorni successivi. La abbandonò nel suo appartamento fingendo di poter andare avanti con la sua routine, mentre quel tarlo lo tormentava al punto da togliergli il sonno, mentre il dubbio, la curiosità e la paura scavavano sempre più in profondità, senza lasciargli tregua. Alla fine, aveva ceduto. Aveva letto il contenuto di quei certificati, dei test, degli esami e delle ricerche che suo padre aveva fatto. Ossessionato dai suoi figli a tal punto da nascondergli qualcosa di così grande, da tenerli stretti a sé perché, semplicemente, non avrebbero potuto avere altro. Lo odiò profondamente per averglielo tenuto segreto, per avergli sottratto altro tempo, per averlo privato, ancora una volta, della possibilità di scegliere. Per averlo privato, di nuovo, di qualcosa di ben più importante.
    Seduto nel suo appartamento, i gomiti sulle gambe, una mano a disegnare profondi cerchi sulle tempie e gli occhi chiusi, Elwyn aveva perso la cognizione del tempo. Ripensava a ciò che avrebbe dovuto dire, a come avrebbe dovuto comportarsi, a quello che avrebbe dovuto, e voluto, aspettarsi da quell'incontro. Non ne era sicuro. Nonostante tutto, nonostante ciò che aveva fatto, non era in cerca di un’altra possibilità; avrebbe potuto, sarebbe stato facile ricominciare da zero se dall’altra parte non ci fosse stato qualcuno che, allo stesso modo, aveva portato avanti la sua vita per anni, inconsapevole, qualcuno che avrebbe potuto decidere di non voler avere nulla a che fare con lui, che avrebbe potuto rifiutarlo. E forse, era di questo che aveva più paura. Indossò il pesante giubbotto e lasciò che la sua figura si dissolvesse, accompagnata dall’inconfondibile suono della smaterializzazione.

    «Pensi che troveremo qualcuno qui avrebbe voluto chiedere quante possibilità avessero, in generale, di scovare uno dei viaggiatori di cui aveva sentito parlare negli ultimi mesi, ma si limitò a sollevare un sopracciglio per far sapere, ad Isaac Lovercraft, quanto fosse scettico riguardo quella vicenda. Non credeva a quella storia, all’idea di persone intrappolate in altre epoche, di copie di loro stessi bloccati in una realtà diversa da quella in cui avevano sempre vissuto. Era assurdo persino per il loro mondo. Era a conoscenza delle misteriose sparizioni che avevano interessato la comunità magica e non poteva dire di credere fino in fondo alla versione ufficiale dei fatti, ma la verità era che non gli importava nulla. Non aveva motivo di aiutare degli sconosciuti, specie se questi rischiavano di essere visti come dei Traditori e lui come complice di qualunque crimine si fossero macchiati. Aveva già i suoi problemi, Elwyn, complicare ulteriormente la sua vita non rientrava nei piani per l’immediato futuro. Avrebbe concesso all’ex-corvonero il beneficio del dubbio e sarebbe stato pronto a smaterializzarsi al primo segnale di pericolo. Affidabile e altruista, come sempre. «E come dovremmo fare, di preciso?» anche in quel caso, non diede voce ai suoi pensieri. Era stato Isaac a proporre di incontrarsi all’Aetas, quel tardo pomeriggio, ed Elwyn non aveva sollevato obiezioni nonostante non fosse esattamente ciò cui aveva pensato, il mercenario, quando aveva gli chiesto di vedersi in un posto tranquillo. Conosceva l'ex-compagno di casata, aveva partecipato a più di una delle sue feste clandestine, e si era aspettato di ritrovarsi in qualche locale – il suo, magari – in cui il chiacchiericcio costante avrebbe reso difficile la conversazione; non di certo di percorrere sentieri nascosti e rischiare di imbattersi in coppiette infrascate.
    Camminavano per le strade sterrate di quel parco, quasi del tutto deserto a causa dell’orario e delle leggende sulla presenza di licantropi, limitandosi a guardarsi attorno alla ricerca di segnali – di che tipo? –, di stranezze – più di quante non ce ne fossero normalmente? –, di qualcosa che avrebbe potuto dare un minimo di credibilità a quella teoria. Avrebbero dovuto aspettare di veder saltare fuori qualcuno dai cespugli? Avrebbero dovuto fingere di parlare tra loro, includendo nel discorso frasi come “Vi aiuteremo, fatevi vedere” o “Andy ci ha detto tutto, con noi siete al sicuro”? Avrebbero dovuto fare come quei vecchi pazzi, che se ne stavano sul ciglio della strada a urlare contro i passanti e metterli in guardia sulla fine del mondo? «Stai cercando qualcuno in particolare?»
     
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    Si morse le labbra, incapace di schiodare le iridi nocciola dallo smartphone per ricambiare lo sguardo del suo nuovo, nonché improvviso e del tutto inaspettato, compagno di avventure – ovviamente consapevole sia di quanto riuscisse ad apparire maleducato nei confronti dell’Huxley nel non prestargli la dovuta attenzione, sia di quanto fosse vano quel suo continuo fissare le stesse schermate, scorrere gli stessi feed giorno dopo giorno, mese dopo mese: era arrivato al punto di riuscire persino ad evitare i pali della luce e gli alberi senza guardare la strada, pur di restare con gli occhi fissi sul led del cellulare. Anche se, più che inutile, sia lui che chiunque l’avesse incontrato da maggio a quella parte avrebbe definito quel suo comportamento, quella dannata veemenza, pietoso e patetico - giustamente, dopotutto. Sapeva non avesse alcun senso, che non lo avrebbe portato da nessuna parte, quel suo insistente fare zapping tra Instagram, social di ogni genere e applicazioni di messaggistica varie, ma non riusciva in alcun modo a farne a meno: osservare le foto di Sharyn e tutti i suoi spostamenti poteva fargli credere di averla vista in carne ed ossa, di essere stato con lei, soltanto qualche ora prima; guardare le loro chat, lo faceva illudere continuamente che prima o poi ella gli avrebbe scritto come se nulla fosse, chiedendogli cosa stesse facendo o raccontandogli di quanto fossero sempre più stupidi i tirocinanti che le mandavano al Ministero. Staccarsi momentaneamente dal mondo e concentrarsi soltanto su di lei, su di loro, per qualche minuto, poteva farlo illudere che non avesse mandato nuovamente tutto quanto a puttane – che presto o tardi, tutto quanto sarebbe tornato ad essere perfetto come lo era stato prima che rivelasse tutta la verità alla bionda.
    Il sostanziale problema risiedeva nel fatto che quel suo qualche minuto che si era imposto di dare alla memoria della loro relazione, era diventato troppo presto un tempo dilatato all’estremo, e che l’estraniazione rispetto a tutto ciò che lo circondava aveva iniziato a fargli trascurare ogni genere di cosa che, a conti fatti, meritava la sua primaria attenzione – come, per fare un esempio banale, il lavoro. O la Resistenza, la Ricerca.
    Se ne rendeva conto? Assolutamente sì.
    Gli interessava? Ancora una volta, no. Avrebbe voluto gli importasse almeno un po’ di più, sapendo bene di non poter mettere in secondo piano aspetti simili della propria esistenza, fondamentali; avrebbe voluto, il Lovecraft, farsi carico delle proprie responsabilità ed accettare che a quel punto non poteva più fare nulla affinché la ragazza lo perdonasse – che “un periodo di pausa” che diventa di sei mesi, è ad un dialogo di distanza dal diventare una rottura definitiva.
    Gli mancava troppo, per abbassare la leva del raziocinio ed andare avanti. O per, almeno, tornare agli esordi e dedicare allo stalking delle attività di Sharyn quegli effettivi pochi minuti che si era concesso inizialmente.
    Avrebbe dovuto fare qualche corso di aggiornamento per il lavoro, o per la fotografia, così da tenersi impegnato – almeno idealmente, ma non poteva promettersi nulla: era sicuro che quei buoni propositi, alla prima chiacchiera con Stiles, sarebbero presto diventati un ottimo pretesto per una sbronza triste sul divano dell’appartamento che ormai condividevano mentre piangevano guardando Master Chef.
    Alzò lo sguardo, le sopracciglia arcuate e le spalle strette, quando iniziò a sentire gli occhi cerulei di Elwyn diventare fin troppo pressanti sulla sua nuca.
    Non che non lo avesse sentito in precedenza, sia chiaro: la sua mente aveva distintamente percepito ed assimilato ogni singolo vocabolo fuoriuscito dalle labbra del suo guru di vita ai tempi di Hogwarts. Lo stava semplicemente, e non del tutto volontariamente, ignorando; superfluo dire quanto le parole delle persone (che non fossero la sua famiglia stretta od i suoi amici più vicini) fossero diventate un mero e fastidioso brusio che andava a disturbare i suoi pensieri sharyncentrici, e dunque relegabili a qualche meandro nascosto del proprio cervello fino a data da destinarsi. «non ne ho idea, ma non si può mai dire» replicò pacato, lasciando trapelare dalla voce atona una nota di malcontento. Era da luglio che sapevano di quella strana missione di cui era stato portavoce Stiles - Andy -, eppure fino ad allora nessuno di sua conoscenza aveva avuto successo nelle ricerche; sì che Londra era una città abbastanza grande e caotica, ma insomma: almeno qualcuno, a quel punto, avrebbe dovuto portare a casa una vittoria. Fortuna che Isaac non era un tipo che si lasciava deprimere troppo e che, in un modo o nell’altro, continuava a sperare – esattamente come con la Winston, solo che quello l’avrebbe portato molto probabilmente ad una terribile autodistruzione; eh vabbè. Cosa che, tuttavia, non si poteva dire di Elwyn. «tu non sembri molto fiducioso» constatò, notando il sopracciglio spastico del moro. Magari non gliene fregava un cazzo, in realtà.
    O forse era un assassino mandato da Sharyn per farlo fuori; sperava di no, onestamente. Aveva sempre ammirato e voluto bene al più grande, non voleva lo uccidesse. Avrebbe dovuto chiedergli da subito perché aveva voluto incontrarlo, dopo tutti quegli anni, per scongiurare da subito l’ipotesi “sicario su commissione” - ormai, era troppo tardi.
    Ancora, poteva semplicemente avere un tic nervoso all’occhio.
    Ond’evitare di incappare in una confessione scomoda, decise di non indagare ulteriormente, rimanendo a fissarlo, sperando dicesse qualcosa di utile.
    Non lo fece. «non… lo so? cerchiamo nei bidoni della spazzatura?» che, in effetti, era la cosa più sensata da fare. Assottigliò gli occhi, scrutandosi attorno per l’Aetas – il quale, appunto, non aiutava le ricerche in alcun modo. Non potevano mica andare a chiedere alla gente se venivano da un mondo parallelo senza rischiare un ricovero coatto al CIM più vicino… «potremmo chiedere ai passanti se vengono da un altro universo» o… forse sì. Beh, tentar non nuoce.
    La verità era che non aveva assolutamente idea di come fare, di come muoversi: Andy aveva capito non fosse Stiles, ma perché si trattava del suo fottutissimo migliore amico. Lo conosceva da dieci anni, abitavano appiccicati l’uno all’altro – gli bastava la minima inflessione per capire se era lui o meno. Ma gli altri? Un terno al lotto. Distolse lo sguardo dall’Huxley per riportarlo sulla strada; scosse appena il capo, prima di rispondere. «dell’universo alternativo? qualcuno di riconoscibile» sincero e conciso, Isaac abbozzò un mezzo sorriso. «magari me o te, così siamo sicuri provenga dall’altra parte» a meno che non avessero gemelli sparsi per il mondo, ovvio: non si sarebbe stupito. «un po’ inquietante, eh, ma vabbè» non di certo la cosa più inquietante che avesse visto nei suoi ventuno anni di vita, poco ma sicuro. «tu hai… qualche pista o… a caso? ah, mh… senti un attimo» si grattò la nuca, il sorriso a farsi appena più nervoso ed isterico mentre rivolgeva nuovamente la sua attenzione al maggiore. «non devi mica uccidermi… vero?» così, per sapere: meglio togliersi ogni dubbio.
    Via il dente via il dolore cosa.
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    Se Juno Kim-Possible (elettrocineta giusto nel mondo sbagliato) avesse ricevuto un galeone per ogni volta che aveva fatto scelte di vita di cui non si pentiva, avrebbe avuto esattamente un galeone, guadagnato grazie all'ultimo acquisto. Moneta che gli sarebbe stata assai utile, visto che aveva appena speso i propri ultimi averi contro il volere della propria compagna di viaggio. E vabbè.
    «Ti dico che ne valeva la pena», ripetette alla ragazza sistemandosi gli occhiali da sole sul naso con un gesto rapido della mano. Il suo coreano era a tratti imperfetto e si portava dietro la cadenza di Los Angeles, dopo tanti anni passati in America, ma con Eunbi preferiva parlare quello che non l'inglese; sia mai che qualcuno di quell'universo captasse le loro conversazioni e scoprisse i segreti del giappo-corea-americano. «Ho i capelli delicati; se non mi faccio uno shampoo appropriato diventerò pelato a quarantanni, e sai cosa sembrerei? Un uovo» rabbrividì alla sola idea. Juno era un sex symbol, i suoi capelli colorati uno stile di vita: non poteva sopportare l'idea di perderli solo perchè era finito in una realtà alternativa ed era quindi diventato improvvisamente un poraccio. «Con un aspetto carino, sarà anche più facile trovare un lavoro e guadagnare altri soldi, non temere» trovare un lavoro ergo: fare l'elemosina, sposare un* vecchi* ricchissim*, o vincere la lotteria. Juno non era pronto per lavorare davvero: aveva accuratamente evitato di farlo per necessità per venticinque anni, e contava di continuare così per altrettanti e oltre... al massimo faceva azioni filantrope donando il proprio tempo con ricerche online per altri sfruttando il proprio dono (e il proprio talento), non faceva niente per il mero e vile denaro. Aveva l'animo da ricco, lui, non soltanto il conto corrente (solo in canon, sadly - di juno!au non aveva ancora trovato traccia da nessuna parte quindi non aveva potuto chiedersi (??) aiuto economico): se la iniziava a vivere male, questa povertà forzata. Bettole dove dormire, pasti scarni, la sua skin care routine dimezzata di brutto, solo due cambi di vestiti - di cui uno poverissimo fregato da uno stendiabiti su un balcone; alla cura dei propri capelli non era riuscito ancora a rinunciarvici, ma sapeva che se non avessero presto trovato qualche loro compagno di missione, o qualcuno che si intendeva del loro mondo e magari aveva partecipato alla Grande Ribellione del 2018, avrebbe dovuto dire bye bye anche a quella. Non era pronto. Quasi quindici anni prima sua madre si era sposata con uno degli uomini più ricchi del mondo, Missio Min Possible (al terzo posto per riccanza secondo il times, superato solo da Bill Gates e un certo Leroy Jenkins) e quando con lei si era trasferito in California, a Bel Air (seppur avesse continuato gli studi a Mabeob-ui Jangso e tenuto i contatti con la famiglia coreana della mamma per qualche ragione culturale che non gli interessava) la sua vita era totalmente cambiata, e ora non sarebbe stato in grado di fare marcia indietro. Era fucking Joon Ho "Juno" Kim-Possible: di solito si comprava l'ultimo modello di iphone uscito in anteprima e si faceva il bagno nel latte di cocorita per tenere la propria pelle liscia come il culetto di un bambino, non girava per Londra con abiti slavati e messi più di una volta.
    Fu in quel momento che il cellulare, in mano al venticinquenne, iniziò a beeppare come un forsennato.
    «Joe, smettila» borbottò il ragazzo portando l'apparecchio all'orecchio; non aveva davvero bisogno di mettere così il telefono per parlare con esso (letteralmente con esso), ma per abitudine lo faceva comunque, così che in giro nessuno lo trovasse strano a dialogare con l'oggetto. Nel suo mondo l'elettrocinesi non era così fuori dal normale, ma lì gli special erano visti come mezzi criminali. Dimenticava sempre che nell'Au erano ancora degli incivili bloccati al 2018. «Lo sai che come suoneria voglio la nuova canzone di Brodi»
    «E' urgente!» il cellulare vibrò fra le mani del ragazzo, quasi a sottolineare il fatto «Quel tipo laggiù - sono sicuro che abbia parlato di universi alternativi. Il nanetto ha detto che stanno cercando qualcuno»
    Juno voltò immediatamente la testa, ricercando chi indicato da Joe e trovando un uomo e un ragazzo. «Eunbi», richiamò, indicando i due con la testa «Ore dodici»
    «Veramente quelle non sono ore dodic-»
    «Joe, non è questo il punto» infilò il cellulare nella tasca della giacca (era molto cauto nel mettere alcunchè di elettronico in quella dei pantaloni, da quando il suo vecchio Iphone Susy si era presa una cotta per lei, vibrando nei momenti meno opportuni) e si diresse verso i due.
    «Salve salve salve» esclamò allegramente, passandosi una mano fra i (morbidissimi) (bellissimi) (affascinanti) capelli chiari e allargando le labbra in un sorriso affabile. «Speriamo di non star interrompendo nulla» aveva appena sentito la domanda riguardo un omicidio e insomma - sia mai che stesse bloccando un caso di Amore criminale che avrebbe poi potuto rivedere sulla vecchia tele della stanza che lui e Eunbi occupavano. «Ma la domanda sorge spontanea: state mica cercando stranieri kosì belli che si potrebbe quasi dire che vengono da un altro mondo?» che simpatico; si amava così. Dopo essersi tirato su gli occhiali da sole, spalancò le braccia raggiante «In quel caso: here we are!» Speranzoso, pregò che non avesse beccato solo due sciroccati ubriachi di tavernello. Juno non vedeva l'ora di essere trovato (e avere una casa decente in cui soggiornare - possibilmente che superasse gli 800 metri abitabili), e non gliene fregava niente che non avesse... beh, un modo per obliviare la gente in caso di fallo, visto che nè lui, nè la Park, avevano un potere che gli permettesse di farlo; finora per fortuna si era rivelato sempre molto funzionale dare una botta in testa alla gente dell'AU e via la paura. E poi erano kinesi, suvvia: nessuno li riconosceva due volte di fila (non a caso, prendevano gli assaggini gratis e cose così più volte fregando sempre tutti; Juno era così pieno di boccettine dei profumi; na gioia), e potevano girare per il mondo all'aria aperta senza paura che qualcuno li riconoscesse come i loro canon; per gli occidentali loro erano tutti uguali. «siamo solo noi due» indicò la ragazza, precisando l'ovvio «Sembriamo tanti perchè siamo kinesi»
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