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bored as hell elwyn huxley |
«Devo dirti una cosa.» sollevò lo sguardo lentamente, Elwyn Huxley, distogliendolo dal bicchiere di whisky incendiario poggiato davanti a sé e incrociando le iridi chiare della sorella. Lisbeth era seduta dall’altra parte del piccolo tavolo in legno che occupavano ormai da circa un’ora, visibilmente tesa, a disagio come non lo era mai stata prima di quel giorno. E se n’era accorto subito, l'ex-corvonero, dall'istante in cui aveva varcato la soglia dei Tre Manici di Scopa. Lo aveva intuito dal linguaggio del corpo, da quel sorriso forzato che non era riuscito a coinvolgere i suoi occhi spenti, distratti, neppure una volta. Aveva cercato di capirne il motivo da sé e aspettato che la ragazza fosse pronta a parlarne, mentre ascoltava i suoi racconti e veniva aggiornato sui cambiamenti avvenuti dal loro ultimo incontro; tuttavia, quella notizia andava ben oltre le catastrofiche proiezioni che la sua mente era riuscita a partorire – e questo includeva una gravidanza inaspettata, delle pressioni ricevute da parte del Regime, l’aver contratto una misteriosa malattia magica o l’aver deciso di fraternizzare con una delle tante persone che il mercenario aveva incluso nella sua lista nera, fin troppe per lasciare sua sorella libera di frequentare chiunque volesse. Aveva preferito non farle domande perché non aveva il diritto di intromettersi in una routine da cui lui stesso aveva deciso di prendere le distanze, di conoscere ogni dettaglio della sua vita quando, da più di un anno, non faceva che gettare fumo attorno alla propria. I rapporti tra gli Huxley si erano ridotti a quello, incontri sporadici e frasi di circostanza, nonostante Lisbeth cercasse di tenere insieme ciò che era rimasto della loro famiglia. «Non arrabbiarti.» una delle più comuni espressioni utilizzate per tentare di placare gli animi impetuosi e che, puntualmente, dimostravano di sortire l'effetto contrario. Com'era prevedibile, infatti, i lineamenti del viso si irrigidirono. Osservò la ragazza aprire la borsa, tirare fuori un piccolo fascicolo e poggiarlo sul tavolo, spingendolo in direzione del fratello. «Ho trovato questi, nell'ufficio di papà.» bastò quella semplice parola per accendere lo sguardo del mercenario. Leopold Huxley aveva smesso di essere suo padre da tempo, da quando aveva deciso di vivere la sua vita attraverso quella di Elwyn, da quando, alla sua felicità, aveva anteposto il sogno di veder crescere una stella del Quidditch, costringendolo ad allenamenti massacranti, fomentando il suo spirito competitivo – a discapito di una cultura sportiva cui l'ex-corvonero era totalmente estraneo – e impedendogli di seguire una strada differente rispetto a quella che aveva tracciato per lui. Aveva smesso di esserlo dalla morte della moglie, accecato da un dolore che lo aveva portato a stringere la sua morsa attorno ai figli fino a farli allontanare da lui, che lo aveva reso tanto opprimente quando distante, cieco di fronte ai loro bisogni. Aveva smesso di esserlo quando aveva spedito Wayde in uno dei laboratori degli estremisti ribelli, ossessionato dall'idea di poterlo curare, di trovare un modo per salvarlo dalla sua condizione di magonò e proteggerlo da un mondo che – era sicuro – non lo avrebbe mai accettato. Aveva smesso di esserlo, forse, perché non lo era mai stato davvero. Non per Elwyn almeno. «Non mi interessa, lo sai, di qualunque cosa si tratti.» rispose, secco, con un tono di voce che non ammetteva repliche. Non parlavano mai di lui, non in sua presenza. Si trattava di un argomento che avevano escluso dalle loro conversazioni e che, allo stesso tempo, pesava come un macigno su ognuna di esse. Non veniva nominato direttamente, ma compariva sempre, tra le righe, come causa della loro condizione, come il motivo per cui avevano smesso di sentirsi una famiglia. Non si erano accorti in tempo di quella crepa che si era formata negli anni, allargandosi sempre di più, diramandosi fino a raggiungere un punto talmente critico da non poter più tornare indietro. Non sarebbe stato possibile ripararla, né far finta di niente. C'era, esisteva, come i segni di ciò che era stato. E lo sapeva bene Elwyn, nonostante si ostinasse a fingere che nulla fosse mai avvenuto; conviveva ogni giorno con quello che aveva fatto, lo riviveva ogni notte, lo vedeva nei suoi incubi, lo sentiva nei silenzi con i suoi fratelli, nei ricordi di una vita che gli sembrava ormai incredibilmente distante. Allontanò quel fascicolo, ma venne bloccato dalla sorella. «Dovrebbe, invece. È importante.» tenne la mano su quella dell’ex-corvonero per qualche istante, sostenendo il suo sguardo furente e implorandolo di dare un'occhiata a quei documenti. «Riguarda la tua… famiglia.» fece una breve pausa, non per aumentare l’attesa né per conferire un certo tono di drammaticità all'intera frase. Le era costato molto pronunciare quella parola ad alta voce perché, nel farlo, l’aveva resa reale, le aveva dato un peso – opprimente, eccessivo, più di quanto Lisbeth fosse pronta a sostenere. Aveva ammesso l'esistenza di un legame, di sangue, che andava ben oltre il loro cognome, oltre l'unica cosa che, nell'ultimo anno, sembrava aver tenuto insieme gli Huxley. Aveva dato corpo alla paura di perderlo definitivamente, di vederlo allontanarsi per inseguire la prospettiva di avere un'altra vita, un'altra famiglia. Elwyn, invece, era rimasto immobile, come se il tempo, e i presenti, e i suoni circostanti, e i battiti del suo cuore, e il regolare ritmo del suo respiro, come se tutto si fosse fermato. Continuò a guardare la sorella, in cerca di un segno, di risposte che non era suo compito dargli. Da bambino, non aveva fatto altro che raccontare a se stesso delle storie, immaginare leggendarie imprese in cui i suoi genitori avevano tragicamente perso la vita – sono stati costretti a lasciarmi, si era detto, non hanno avuto scelta. Li avevi dipinti come eroi, sollevandoli da ogni responsabilità per il suo abbandono e facendo così anche con se stesso per non accettare l'idea di non essere stato adatto, in qualche modo, di non essere stato abbastanza o di essere stato fin troppo. Con il passare degli anni aveva smesso di idealizzarli, e dall'attribuire loro la colpa di tutto ciò che non andava, nella sua vita, aveva abbandonato quei pensieri e li aveva chiusi in un angolo remoto della sua mente.
Non ebbe il coraggio di leggere quei documenti, né di farli sparire con un leggero colpo di bacchetta. Non era pronto a ciò che avrebbe trovato al loro interno, ad un cambiamento di tale portata – lui che fingeva di assecondare trasformazioni costanti solo per evitare di scoprire cosa ci fosse realmente sotto tutti quegli strati di bugie. E non aprì quella cartella, né quella sera, né i giorni successivi. La abbandonò nel suo appartamento fingendo di poter andare avanti con la sua routine, mentre quel tarlo lo tormentava al punto da togliergli il sonno, mentre il dubbio, la curiosità e la paura scavavano sempre più in profondità, senza lasciargli tregua. Alla fine, aveva ceduto. Aveva letto il contenuto di quei certificati, dei test, degli esami e delle ricerche che suo padre aveva fatto. Ossessionato dai suoi figli a tal punto da nascondergli qualcosa di così grande, da tenerli stretti a sé perché, semplicemente, non avrebbero potuto avere altro. Lo odiò profondamente per averglielo tenuto segreto, per avergli sottratto altro tempo, per averlo privato, ancora una volta, della possibilità di scegliere. Per averlo privato, di nuovo, di qualcosa di ben più importante.
Seduto nel suo appartamento, i gomiti sulle gambe, una mano a disegnare profondi cerchi sulle tempie e gli occhi chiusi, Elwyn aveva perso la cognizione del tempo. Ripensava a ciò che avrebbe dovuto dire, a come avrebbe dovuto comportarsi, a quello che avrebbe dovuto, e voluto, aspettarsi da quell'incontro. Non ne era sicuro. Nonostante tutto, nonostante ciò che aveva fatto, non era in cerca di un’altra possibilità; avrebbe potuto, sarebbe stato facile ricominciare da zero se dall’altra parte non ci fosse stato qualcuno che, allo stesso modo, aveva portato avanti la sua vita per anni, inconsapevole, qualcuno che avrebbe potuto decidere di non voler avere nulla a che fare con lui, che avrebbe potuto rifiutarlo. E forse, era di questo che aveva più paura. Indossò il pesante giubbotto e lasciò che la sua figura si dissolvesse, accompagnata dall’inconfondibile suono della smaterializzazione.
«Pensi che troveremo qualcuno qui?» avrebbe voluto chiedere quante possibilità avessero, in generale, di scovare uno dei viaggiatori di cui aveva sentito parlare negli ultimi mesi, ma si limitò a sollevare un sopracciglio per far sapere, ad Isaac Lovercraft, quanto fosse scettico riguardo quella vicenda. Non credeva a quella storia, all’idea di persone intrappolate in altre epoche, di copie di loro stessi bloccati in una realtà diversa da quella in cui avevano sempre vissuto. Era assurdo persino per il loro mondo. Era a conoscenza delle misteriose sparizioni che avevano interessato la comunità magica e non poteva dire di credere fino in fondo alla versione ufficiale dei fatti, ma la verità era che non gli importava nulla. Non aveva motivo di aiutare degli sconosciuti, specie se questi rischiavano di essere visti come dei Traditori e lui come complice di qualunque crimine si fossero macchiati. Aveva già i suoi problemi, Elwyn, complicare ulteriormente la sua vita non rientrava nei piani per l’immediato futuro. Avrebbe concesso all’ex-corvonero il beneficio del dubbio e sarebbe stato pronto a smaterializzarsi al primo segnale di pericolo. Affidabile e altruista, come sempre. «E come dovremmo fare, di preciso?» anche in quel caso, non diede voce ai suoi pensieri. Era stato Isaac a proporre di incontrarsi all’Aetas, quel tardo pomeriggio, ed Elwyn non aveva sollevato obiezioni nonostante non fosse esattamente ciò cui aveva pensato, il mercenario, quando aveva gli chiesto di vedersi in un posto tranquillo. Conosceva l'ex-compagno di casata, aveva partecipato a più di una delle sue feste clandestine, e si era aspettato di ritrovarsi in qualche locale – il suo, magari – in cui il chiacchiericcio costante avrebbe reso difficile la conversazione; non di certo di percorrere sentieri nascosti e rischiare di imbattersi in coppiette infrascate.
Camminavano per le strade sterrate di quel parco, quasi del tutto deserto a causa dell’orario e delle leggende sulla presenza di licantropi, limitandosi a guardarsi attorno alla ricerca di segnali – di che tipo? –, di stranezze – più di quante non ce ne fossero normalmente? –, di qualcosa che avrebbe potuto dare un minimo di credibilità a quella teoria. Avrebbero dovuto aspettare di veder saltare fuori qualcuno dai cespugli? Avrebbero dovuto fingere di parlare tra loro, includendo nel discorso frasi come “Vi aiuteremo, fatevi vedere” o “Andy ci ha detto tutto, con noi siete al sicuro”? Avrebbero dovuto fare come quei vecchi pazzi, che se ne stavano sul ciglio della strada a urlare contro i passanti e metterli in guardia sulla fine del mondo? «Stai cercando qualcuno in particolare?»