'What the hell are you wearing?'

Charles x Viktor

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    «Ma secondo te Charly Boo, mio fashion guru, maestro di stile indiscusso… questi pantaloni bordò stanno bene con la camicia giallo limone?» erano quelle le domande esistenziali che lo affliggevano la maggior parte del tempo. Perché no, non era una persona normale, di quelle che sapevano abbinare dei semplici vestiti o che avevano la loro tranquillità e che sapevano viversela. Lui, di tranquillo, non aveva niente.
    Stava sempre lì, in movimento, come una trottola incapace di porre fine al suo eterno volteggiare e, spesso, perdeva persino il filo del discorso. Poteva parlare del tempo, per poi passare alle piante, alla situazione politica mondiale, alla fame nel mondo in meno di dieci secondi, senza nemmeno rendersene conto. Era difficile da gestire, perché più che esaurito sembrava pazzo, e non si sentiva nemmeno di negalo quell’appellativo.

    Con sguardo critico, osserva gli indumenti sopracitati, picchiettando con evidente nervosismo il piede sul pavimento del dormitorio dei Grifondoro. Francamente, il fatto che suo cugino Charles fosse un Serpeverde, non l’aveva mai fermato dal farlo entrare nella Sala Comune dei Grifoni. Insomma, a chi fregava se un componente di un’altra Casa gli facesse visita per parlare di arcobaleni e abiti di dubbio gusto? Andiamo, a nessuno. C’era di peggio nei dormitori, e l’aveva visto con quegli stessi occhi. Anzi, diciamo che ne aveva fatto parte, senza alcuna remora.

    «Sono indeciso. Perché l’alternativa sarebbe vestirmi di pelle e fare, sai—come in Catwoman, ma non credo che per l’occasione sia adeguato. Il mio accompagnatore potrebbe spaventarsi, o eccitarsi, e a Madama Piediburro prenderebbe un infarto.» il che non sarebbe stato nemmeno un problema, ma non se la sentiva d’avere una povera signora di mezza età sulla coscienza «Che poi, ma che mi frega? Quel Corvonero si vestirà alla cazzo di cane. Dovrei vestirmi alla cazzo di cane anche io? È che ho troppo stile, Charly Boo, non posso nascondere la mia avvenenza. Metti caso che in quella caffetteria tutta fronzoli e gattini, incontri l’ammmmore della mia vita. E che faccio? Gli dico, “no, passa più tardi, ora sono vestito come un clochard”! Mon dieu, impensable!» esclama, con fare concitato, gesticolando animatamente per enfatizzare le sue stupide preoccupazioni.

    Non sapeva nemmeno se Charles avesse seguito il discorso, se lo stesse guardando vaneggiare solo per tenergli compagnia o per farsi quattro risate, ma sapeva che non lo avrebbe mai sottovalutato. Insomma, era di famiglia la capacità di stordire con le parole, con discorsi apparentemente privi di qualsiasi logica e suo cugino doveva essere abituato a tutto quel blaterare. Avevano vissuto insieme la maggior parte della loro vita, nonostante fossero in casate totalmente diverse, sia per indole, che per ambizione.
    Certo, ancora non capiva – dopo sei anni ad Hogwartz – cosa ci facesse nelle file dei Grifondoro, ma sperava che si trattasse più della sua capacità di sopravvivenza, piuttosto che del suo inesistente coraggio.

    Il Serpeverde, comunque, era l’unico ad essere a conoscenza delle sue tristi, quanto disgraziate, avventure in casa Dallaire. Era impensabile che ne fosse all’oscuro, erano morte un sacco di persone e vivendo insieme, di certo, non avrebbe mai potuto nascondere la verità, né le cicatrici, né la sofferenza, né la debolezza. Era una tela abbastanza facile da leggere dall’esterno.
    Però, come sempre, aveva difficoltà nell’essere serio. Non ci riusciva, non sapeva come confidarsi, come far emergere ciò che realmente lo turbava; forse preferiva ridere ed essere spensierato, piuttosto che ritornare alle vecchie abitudini.

    Bofonchia qualche parola in francese, voltandosi finalmente verso il proprio interlocutore «Tu es chanceux, Charles, mon amour. Hai adocchiato un Puffo Brontolone, un nanetto da giardino che fa il duro, ma sarà soffice come un marshmallow coperto di cioccolato fondente. Awww, che carino. Sarà alto un metro e una Vigorsol, ma ehi—sai cosa mi sembra? Una di quelle paperelle che se le premi fanno tipo “popi popi” stridulo, ma che comunque tieni vicino perché sono carucce, no? Che stavo dicendo? Ah, sì.» afferra la camicia nera con dei disegni bianchi alquanto discutibili, mugugnando pensieroso «Charly Boo, prendimi le scarpe per favore, mi fido dei tuoi gusti, Guru del mio cuore.»

    No, non era affatto semplice stargli dietro.
    Eppure, sapeva di poter essere divertente, a suo modo. A casa Dallaire non aveva mai dimostrato tanta intraprendenza o propensione allo scherzo, ma ormai non c’era nessun parente a fargli accapponare la pelle, né feste di cui non aveva affatto un bel ricordo. Ma soprattutto fratelli che attentassero alla sua vita, accoltellandolo senza alcuna pietà. Probabilmente, non era normale, forse qualcosa era andato storto nel suo cervello. Il buon umore era effimero, ma lo aiutava a scacciare quella pesante sensazione di paura; anche il contatto fisico era un buon modo per far sparire i mostri per qualche ora.

    Dopo qualche istante, si siede sul suo letto e distende le gambe, sbuffando.
    «Dovrei comprare qualche altro vestito, che dici?» come se ne avesse pochi, no?

    Viktor Asmodeus Dallaire
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    With their holy water.
    Frédéric Dumont se n'era andato di casa quando Charles aveva appena otto anni. Non che fosse stata una gran perdita: l'aveva chiamato padre, invero, ma solo perché costretto. Non aveva mai provato affetto per quell'uomo i cui occhi scuri erano riflesso del disgusto che provava nei confronti di un figlio che mal si adattava ai suoi canoni di perfezione. Era stata quasi una liberazione non vederlo più seduto sulla sua solita poltrona intento a leggere il giornale, ed un sollievo non dover più reprimere il proprio estro. Sì, Charles era sempre stato particolare e, al contrario di suo padre, sua madre non aveva mai provato a reprimere le sue naturali inclinazioni. Al contrario, Daphne era sempre stata una donna dalla mente molto aperta. Gli anni che lei e Charles avevano passato da soli in quella casa francese erano ancora i più belli che il Dumont ricordava d'aver mai vissuto. Poi ogni cosa gli era stata portata via: il trauma del vedere la propria madre piegarsi sotto la maledizione Cruciatus, la sensazione d'impotenza che aveva provato standosene nascosto in quell'armadio in soggiorno, lo sgomento nei confronti di quell'uomo che era stato loro amico prima di tradirli a quel modo. Da quel giorno, niente era più stato lo stesso. Aveva lasciato la Francia, era andato a vivere coi suoi nonni inglesi, aveva dovuto accettare quel perenne velo di confusione nello sguardo di sua madre oramai incapace di riconoscerlo. La sua famiglia era andata distrutta, e la tristezza che provava nel sentirsi mutilato di qualcosa che prima era stato per lui di vitale importanza era niente in confronto alla rabbia per com'era andata. Se i genitori di Daphne non l'avessero obbligata a sposare un maledetto francese, se quell'uomo fosse stato migliore, se non li avesse abbandonati, se non fossero stati costretti ad affidarsi all'ennesimo traditore... Sarebbe stato tutto diverso, eppure ormai non c'era niente che si potesse fare. Almeno gli restava l'odio: solo sua madre era rimasta degna del suo amore, sebbene non restasse altro che un bagliore della donna che era stata; gli altri erano niente. Ed ecco perché, in un primo momento, aveva avuto difficoltà ad accettare la convivenza con suo cugino Viktor, perché era parte di una famiglia a cui non sentiva più di appartenere, perché il suo accento francese era tanto familiare quanto doloroso da ascoltare, perché gli portava alla mente cose a cui voleva disperatamente non pensare più.
    A fargli cambiare idea era stata, paradossalmente, sua nonna. Non che le avesse mai prestato particolarmente importanza, ma era stato ciò che gli aveva raccontato del ragazzo a modificare la sua visione su di lui. Probabilmente era un po' rude trattare qualcuno in funzione della sua storia, ma conoscere ciò che aveva portato Viktor a vivere in quella casa lo aveva in qualche modo fatto sentire a lui più vicino. Entrambi erano stati segnati da una brutta storia familiare ed entrambi ne erano usciti, seppur con qualche cicatrice.
    E poi, cristo, Vik lo trattava come un dio sceso in terra, e Charles alle adulazioni non sapeva proprio resistere.
    «m-eh? secondo me fa un po' a pugni.» ecco: da triste destino condiviso a guru della moda era un attimo, e Charles quel pomeriggio se ne stava comodamente sdraiato sul letto del Dallaire, osservandolo aggirarsi per la stanza col suo solito fare iperdinamico, a consigliarlo sull'outfit migliore da indossare. I manifesti Grifondoro sparsi per il dormitorio del cugino lo turbavano alquanto, ma aveva imparato a non farci più caso dopo le centinaia di volte in cui vi si era intrufolato. «no, s'il te plaît, la pelle mi mette ansia.» perché? Beh, dopo aver visto Tate in American Horror Story 1 non era mai più riuscito a guardare la pelle e i suoi derivati allo stesso modo. «mon dieu, non lo avevi detto che era un corvonero.» ed aveva anche il dubbio che avesse omesso l'informazione di proposito, vista la sua manifesta avversione per la suddetta casata. Non è che fosse un razzista, erano i fatti ad averlo convinto: non glie n'era andata mai bene una coi corvi. «écoute-moi, lascia perdere. è un inutile spreco di tempo ed energie.» e lo sapeva lui, che per quanto fosse generalmente restio a prendere sul serio le relazioni, per qualche ragione non era più riuscito a togliersi dalla testa quel dannato kaufman. E dire che, sforzandosi, riusciva ancora a vedere la cicatrice lasciata da uno dei suoi pugni sul suo viso, e per questo un po' l'odiava. E magari era quello il problema: l'odiava tanto da non poterlo cancellare, l'odiava tanto da volersi prendere una rivincita sulla sua irritante noncuranza. Per questo le provocazioni, per questo l'accendino, per questo il desiderio di fargli sapere che era con lui che aveva giaciuto quella sera al Lilium, per lui che aveva perso la testa. Che alla fine aveva vinto, pur non sentendosi affatto un vincitore. «se lo conoscessi non diresti cosi, crois-moi: dolce è la parola che meno gli si addice.» nemmeno quando avevano dovuto leccarsi le ferite a vicenda, nemmeno quando avevano fumato insieme quell'unica sigaretta prima della fine. «anzi, s'il te plaît, non parliamone più.» agitò una mano come a voler sottolineare l'ormai poca importanza che aveva per lui il corvonero, sebbene fosse esattamente il contrario. Si alzò in piedi dunque, passandosi una mano fra i capelli per ridargli il volume perso sul cuscino, e si avvicinò alla scarpiera del grifondoro. «tiens» gli allungò un paio di scarpe, scrutandolo poi da capo a piedi con più attenzione. «ma fa' sparire quella camicia.» il giallo limone non era più di moda da un pezzo, quante volte doveva ripeterglielo? «mon petite cousin, la prossima volta chiama me prima di spendere i tuoi soldi.» charles dumont fashion blogger 2k18 «fammi essere il guru di cui questo triste mondo ha bisogno.»
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    Edited by wait‚ wat? - 11/11/2018, 15:44
     
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    Oh, che colpo a cuore che gli aveva dato Charles.
    Come poteva dire certe cose sulla sua camicia?

    «Ma il giallo limone…» bofonchia, sporgendo il labbro con fare addolorato, prima di sbuffare e lanciarla, casualmente, alle sue spalle. Quel colore era in assoluto il suo preferito, ma-- «vabbè, se lo dici tu indosserò qualcos’altro» non si poteva di certo discutere sulle strabilianti doti d’abbinamento del Dumont e voleva fare assolutamente bella figura all’appuntamento, nonostante non si ricordasse affatto il nome del suo accompagnatore. Poco male, la sua intenzione non era di certo quella di instaurare chissà che legame, se non sotto le coperte.

    «Mon dieu, Charles. Non tutti i Corvonero sono dei nani malefici» esclama, buttandosi di schiena sul letto, osservando il baldacchino con le sopracciglia corrucciate, ma facendo cenno al cugino che si sarebbe cucito la bocca sull’argomento “Iden”. Poteva capire che non avesse voglia di parlare di quel tipo; a parti invertite, si sarebbe sentito a disagio nel confessare che ci fosse dell’interesse che andasse al di là del semplice rapporto fisico. Insomma, i sentimenti gli facevano schifo, le relazioni amorose ancora di più.

    Legarsi a qualcuno significava, spesso, soffrire e non voleva ripetere quanto passato in precedenza, nonostante fosse un completo imbecille a chiedersi che fine avessero fatto i suoi fratelli e se fossero ancora vivi. Sì, era sciocco; sì, era masochista, forse anche un pochino ritardato nel pensare a quei due, ma cosa poteva farci? Era come una malattia, un chiodo fisso nel cervello che gli dava il tormento.
    Se Mephisto gli avesse chiesto perdono per le sue azioni…

    «Bah! Corvonero, Grifondoro—chissenefrega! Insomma, un cazzo vale l’altro, fintantoché siano puliti e propensi a fare le zozzerie indicibili!» ribatte, scacciando l’immagine di Meph dai suoi pensieri «tanto non mi ricorderò nemmeno la sua faccia, dopo oggi--» ed era la verità, semplice e senza peli sulla lingua. Erano davvero poche le persone che fossero in grado di colpirlo, ma non di certo sconosciuti random con cui avrebbe solo condiviso le lenzuola e una notte di fuoco.

    Quando sente il rumore delle scarpe a cozzare sul pavimento, con un colpo di reni si mette nuovamente seduto, fissando per un breve istante Charles, per poi allargare le labbra in un sorrisetto sardonico.
    «Dovresti aprire un blog di moda. “Toute la mode, de Charles”, secondo me potresti avere un seguito» commenta, mentre inizia a spogliarsi per mettersi i pantaloni bordò. Non gli importava che il Dumont vedesse le sue cicatrici, segni indelebili dei suoi tentativi di uccidersi, o le altre più vistose testimonianze del suo passato. Insomma, suo cugino sapeva già abbastanza, per cui se un estraneo poteva guardalo nudo, spesso accompagnando il tutto con domande inopportune, (“Ehi, ma che hai fatto?” “Wow, sembra che ti abbia colpito un Sectusempra!”) allora poteva farlo anche Charles.
    In ogni caso, alla camicia color canarino poteva anche rinunciare, ma voleva indossare qualcosa di rosso «dato che sei così bravo, mon cheri, apri l’armadio e trovami qualcosa da mettere sopra» dice, mentre toglie la maglia del pigiama, di un tenue color melanzana. La ripone con un certo disinteresse sopra il cuscino, mettendosi una mano sul fianco con sguardo critico «scusa, non riesco» sbuffa, curioso e sperava non troppo invadente «lo so che non vuoi parlarne, okay? Ti faccio solo questa domanda, per la scienza» e perché era un pettegolo interessato ai cazzi di Charles; in realtà era solo perché gli voleva davvero troppo bene per vederlo così seccato al pensiero di quel cretino dalla bocca a papera «perché ti piace?» ed era abbastanza ovvio a chi si stesse riferendo.

    Non avendo mai provato sentimenti d’amore o, comunque, interesse di un certo tipo, per lui era quasi normale chiedersi come diamine funzionasse quell’attrazione magnetica che spinge a cercare sempre la stessa persona. Era stato così abituato, sin da ragazzino, a non badare al partner che—beh, legarsi sentimentalmente era un qualcosa di terribilmente imbarazzante e controproducente.
    Era più facile scopare con un estraneo che non guardare qualcuno negli occhi e dirgli “ti amo”.

    «Cioè, mi preoccupo per te, okay?» ammette, subito, quasi con la paura che l’altro potesse decidere di tirargli un pugno «Non voglio vederti soffrire o sanguinare perché quello zuzzolino piccino picciò non sa tenere le mani nelle tasche dei pantaloni, piuttosto che uscire la bacchetta o i pugni. È carino, un amore, davvero. Ottima scelta. Ma è violentino e ti vorrei sano, almeno per i prossimi cento anni.» mette le mani avanti, stringendo le labbra in una smorfia preoccupata.

    Odiava la violenza, era qualcosa che lo lasciava sempre con l’amaro in bocca e i ricordi a riaffiorare prepotenti. Iden era tanto bello quanto stronzo e non voleva che ferisse Charles più di quanto la vita non avesse già fatto.


    Viktor Asmodeus Dallaire
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