Half written stories

Elwyn x Svetlana

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    elwyn huxley
    Non era sicuro di riuscire a respirare. Boccheggiava, Elwyn Huxley, compresso all’interno di un indumento che, da quel giorno, avrebbe annoverato tra i dieci peggiori strumenti di tortura mai concepiti dall’uomo. Aveva persino accarezzato l’idea di arrendersi e morire lì, di accettare l’inaspettata piega degli eventi e approfittarne per risolvere in un attimo tutti i suoi problemi. Certo, non avrebbe avuto una fine dignitosa, non in quel luogo e non con gli abiti che aveva addosso, ma sarebbe apparsa quasi desiderabile se paragonata all’umiliante alternativa che lo attendeva fuori da quella stanza. Riusciva già a visualizzarne le conseguenze, a vedere ciò che restava della sua reputazione andare in fumo, a immaginare i titoli dei giornali scandalistici, le speculazioni, le rubriche, le interviste che avrebbero riempito quelle pagine per settimane. Strinse i pugni e attraversò l'ambiente a passo lento, evitando di soffermarsi davanti ad uno degli specchi presenti e di posare lo sguardo sul suo nuovo aspetto, l’ennesimo di una vita fatta di cambiamenti superficiali e trasformazioni apparenti. Sarebbe stato diverso, quel giorno, non avrebbe indossato una maschera, non avrebbe avuto alcun tipo di scudo, di difesa, di protezione, non avrebbe potuto nascondersi dietro a una nuova storia, a una nuova serie di bugie; sarebbe stato se stesso nei panni – scomodi e ingombranti – di qualcun altro, letteralmente. E sarebbe sembrato un idiota.
    Sistemò la parrucca che aveva in testa e, per alcuni istanti, non poté fare a meno di riconsiderare l’idea del suicidio. Si sforzò, a quel punto, di ricordare il motivo per cui era lì, per cui stava rinunciando all’ultimo briciolo di amor proprio: lo faceva per non morire nella prossima quest l’onore, o qualunque cosa intendesse Elwyn con quel termine. Lo faceva perché aveva perso una scommessa, poche settimane prima, e doveva pagare le conseguenze del suo essere stupidamente competitivo, avventato e impulsivo, della sua totale incapacità di riflettere e valutare la situazione prima di accettare una sfida. Lo faceva perché, come se non bastasse, Margaret Piper – nota come Svetlana o la sadica donna dietro quella penitenza – aveva ostato mettere in dubbio la sua parola, il suo impegno nel tenere fede all’accordo preso. E aveva fatto bene perché il primo – e il secondo e il terzo – pensiero dell’ex-corvonero era stato quello di sparire dalla circolazione, come d’altronde avrebbe fatto chiunque, al suo posto, davanti ad una simile richiesta.
    Continuò a camminare, mentre il volume della musica sovrastava progressivamente ogni altro rumore, e fece il suo ingresso in scena, accolto da applausi moderati e da alcuni di quegli eleganti fischi che gli uomini beneducati riservavano alle donne di passaggio – il Lilum era stato in grado di alzare l’asticella dei locali a luci rosse, ma pullulava pur sempre di allupati. La vista del pubblico lo paralizzò, rendendo i successivi movimenti estremamente difficoltosi e facendogli rimpiangere di non aver fatto ricorso al whisky incendiario per allentare la tensione. Non era il numero dei presenti il problema: aveva giocato all’interno di stadi gremiti e il più delle volte era stato capace di ignorare le centinaia di sguardi puntati addosso, di non pensare al loro giudizio; ci era riuscito perché, semplicemente, sapeva di essere nel suo habitat naturale. Non gli sarebbe mai venuto in mente di scendere sul terreno di gioco vestito da puffola pigmea e diventare una cheerleader, così come non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi sul palco del Lilum con un abito d’epoca. Fino a quel giorno, certo.
    La musica iniziò a sfumare sovrapponendosi a note delicate, a suoni che facevano pensare più a una rilassante traccia sulla natura che ad un’esibizione adatta a quel locale. Si fece strada tra le sedie presenti, Elwyn, prestando attenzione a non colpirle, ribaltarle o portarle con sé a causa dell’ingombrante sottogonna che era stato costretto a indossare, una sorta di impalcatura talmente ampia da trasformare l’abito nel perfetto nascondiglio per due, forse anche tre, ribelli in fuga. Rimase in una posizione arretrata, convinto che la presenza delle altre ballerine e la maggiore distanza dal pubblico avrebbero contribuito a nascondere i suoi lineamenti decisamente poco femminili – qualcuno avrebbe anche potuto gradire, non ne dubitava, ma nutriva ancora la flebile speranza di poter concludere quell'esibizione senza essere riconosciuto. Lo spettacolo che si presentò agli occhi dei clienti fu piuttosto insolito: il palco, infatti, era occupato da un gruppo di candide fanciulle dagli eleganti vestiti settecenteschi, con corpetti aderenti, un’ampia scollatura, maniche che terminavano ai gomiti e si aprivano in un’abbondante cascata di pizzo; e poi strisce, fiocchi, nastri e altri ornamenti ad impreziosire gli abiti dalle più disparate trame floreali. Cinque ragazze, più Elwyn.
    Cominciarono a muoversi a passo lento attorno alla propria sedia, sorridendo timidamente al pubblico, agitando un ventaglio dalle ricche decorazioni e portando una mano davanti alle labbra – prima – e sulla guancia – poi – per sottolineare il profondo imbarazzo che i lussuriosi sguardi degli spettatori provocavano in fanciulle tanto caste e pure. L’ex-corvonero sfruttò le pieghe di quella sottile tela per nascondere il viso, mentre le iridi azzurre scorrevano, tra la folla, alla ricerca di Svetlana; individuata la donna, lasciò che il dito medio facesse capolino oltre quello strumento per esprimere ancora una volta – se mai ce ne fosse stato bisogno – quanto fosse grato per l'opportunità che gli era stata concessa.
    Nel giro di pochi minuti, la melodia abbandonò i toni allegri e leggeri che avevano accompagnato quella breve introduzione per abbracciarne altri decisamente più profondi e sensuali. Era quello il segnale, il momento in cui avrebbe dovuto fare ciò che l’ex-serpeverde gli aveva chiesto: comportarsi da sgualdrina. E sarebbe stato pessimo la migliore. Lanciò il ventaglio alla sua destra e iniziò a sciogliere il chilometrico laccio del corpetto – il fatto che Elwyn fosse incredibilmente lento avrebbe giocato a suo favore, facendo sembrare tutto parte dello snervante tentativo di aumentare l’attesa, le aspettative e il piacere. Si liberò dell’abito, del suo peso e ingombro, e sfoggiò la sua nuova mise: un corsetto – stretto attorno alla cassa toracica e comodo quanto poteva esserlo una camicia di forza –, un reggicalze con orli e merletti in pizzo, l’intimo – vale a dire il paio di slip con meno trasparenze e con più centimetri di stoffa tra quelli proposti –, guanti di raso, scarpe col tacco – così basso da non poterlo neppure definire tale – e delle calze a rete non abbastanza coprenti da evitargli una depilazione completa – per suo fortuna, il potere di metamorfomagus gli aveva risparmiato un pomeriggio da incubo all’Amortentia. Poggiò un piede sulla sedia, fece scorrere delicatamente le dita sulla gamba e portò poi il guanto alla bocca, per sfilarlo e lanciarlo lontano. Fece in modo che lo schienale fosse rivolto verso il pubblico, si accomodò a gambe rigorosamente divaricate e, a ritmo di musica, ruotò la mano destra accompagnando la fine di ogni giro con uno schiocco di dita. Si alzò con la grazia e sensualità – di un opossum morto sul ciglio della strada (cit.) – che lo contraddistinguevano, appoggiò i palmi delle mani sulla base in metallo e iniziò a sculettare a tempo, mentre i fluenti capelli castani ricadevano ai lati del viso – o, per come la vedeva lui, mentre quelle ciocche di un non precisato materiale plastico gli coprivano il volto e gli finivano fastidiosamente in bocca. Si sedette, di nuovo, e fece passare le gambe oltre lo schienale della sedia tentando di imitare le posizioni da contorsioniste delle altre ballerine, tutte dall’elevato coefficiente di difficoltà e dal più che probabile rischio di perdere l’equilibrio e spezzarsi l’osso del collo – impresa che non aveva sfiorato neppure durante la sua carriera da giocatore di Quidditch. Al termine di quella sfilza di acrobazie potenzialmente mortali, di palpeggiamenti e sguardi ammiccanti, si spalmò sulla sedia come se fosse pronto ad accogliere un getto d’acqua proveniente dall’alto; getto che, per sua fortuna, non faceva parte dello spettacolo.
    Esausto, approfittò degli applausi per dileguarsi e sfruttò la distanza che lo separava dal camerino per sfilare via la parrucca, togliere le scarpe e iniziare a slacciare il corsetto – operazione che, ne era certo, gli avrebbe portato via diverso tempo. Avrebbe voluto dare fuoco a quegli indumenti, a tutti gli elementi del ridicolo costume che era stato costretto ad indossare, ma era sicuro che Svetlana gli avrebbe fatto pagare ogni centimetro di stoffa usato per alimentare quel falò; e non era disposto a sborsare neppure uno zellino, non quando quella scommessa gli era già costata la sua dignità. Fece una doccia veloce, recuperò i suoi vestiti e decise, a quel punto, che testare la qualità degli alcolici venduti al Lilum e sbronzarsi a spese dell’ex-serpeverde sarebbe stato il compenso minimo per quello spettacolo, oltre ad un modo per – rischiare di far precipitare la serata e – tentare di allontanare quella sensazione di fastidio e imbarazzo che, probabilmente, lo avrebbe accompagnato per il resto della vita.

    Quando metti un titolo "serio" per fingere che anche la role lo sia u_u' #ipgserinonesistono
    Cosa non si fa per 10 PE...
    :blush:

    Lucky Strike / Ottobre 2018
    Elwyn Huxley - dovrà indossare succinti abiti femminili d’epoca


    Edited by badblood` - 30/10/2018, 18:53
     
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    Rideva. Rideva come non lo faceva da tanto tempo, quasi non lo avesse mai fatto prima. Era una risata sciolta, priva di costrizioni, vera. Ci aveva provato a frenarla, a darsi un contegno, ma aveva fallito miseramente, incapace di restare seria troppo a lungo. Ne sentiva il suono, la percepiva sfuggire dalle sue labbra, come se cercasse una libertà che mancava da troppo tempo. Il tono cristallino, quasi puro, faceva da contrasto alle luci della stanza, alle note sensuali che si insinuavano nelle crepe dei suoi clienti, fino a farli andare in frantumi, distrutti dai loro stessi vizi. Lei era lì, sulla sua poltrona da cui avrebbe goduto di una visuale perfetta, le dita affusolate troppo impegnate a picchettare le lacrime che pizzicavano all’angolo degli occhi, quasi volessero anche loro godere di quello stato di grazia.
    Non aveva mai assistito a uno spettacolo simile. Era quasi tentata di darsi una pacca sulla spalla e ringraziarsi per aver reso tutto questo possibile. Non era da tutti, in fondo, costringere il grande Elwyn Huxley a mostrarsi col suo volto in una situazione potenzialmente imbarazzante. Non era per tutti sostenerne lo sguardo senza provare il minimo timore per le conseguenze. Un po’, però, l’ex giocatore se l’era andata a cercare, stringendo il patto con la bionda. Se le apparenze di Maggie potevano ingannare, facendola passare per una ragazzina ancora innocente e facile preda delle angherie dei più forti, di certo non si poteva dire la stessa cosa di Svetlana, che tesseva la sua tela nell’ombra, finendo per ribaltare la situazione, rendendo gli altri vittime delle sue trame. Era tutto un bilanciarsi in quel gioco di potere, un alternarsi costante di equilibri che le imponevano di avere sempre una situazione di vantaggio sugli altri, per non restarne schiacciata. Se avesse saputo di perdere quella scommessa, non avrebbe calcato la mano, sarebbe stata la prima a disinteressarsi. Non avrebbe fatto leva sullo spirito di competizione dell’uomo, stuzzicando quella parte che agognava primeggiare, specialmente dopo la caduta in rovina. Le voci giravano, specialmente nei bar, e non era stato difficile reperire informazioni sull’ex-Corvonero ancor prima che potesse, in qualche modo, stuzzicare la propria attenzione per i suoi affari.
    Quel giorno non ci sarebbero state critiche per le sue ballerine, non ci sarebbero stati commenti costruttivi, suggerimenti che le avrebbero aiutate a esprimersi meglio nelle esibizioni successive. Le iridi chiare della donna erano puntate sul corpetto stretto che aderiva al petto di Elwyn, stringendogli la vita, nell’intento di esaltarne i pettorali e, in teoria, la forma longilinea delle gambe. Il risultato, tuttavia, era ai limiti del paradossale. Il capo di lingerie sembrava quasi fosse stato incantato per stringere sull’uomo ed quanto più doveva sottolinearne le linee, più ne marcava i muscoli, la peluria, con un effetto che dava quasi sul grottesco. Però funzionava. Tutto stava funzionando meravigliosamente bene. Era corsa ai ripari, facendo annunciare quello spettacolino come un’anomalia, come un regalo della casa per i suoi fedelissimi avventori con l’intento di farli divertire, lasciando che fossero trasportati con quell’atmosfera surreale e d’epoca nel teatro dell’assurdo, dove ogni cosa era possibile. Aveva messo le mani davanti, consapevole del temperamento focoso dell’ospite d’onore di quella sera. Lo aveva osservato entrare in scena, calcare il palco con una totale assenza di grazia che non poteva non strappare un sorriso. Aveva risposto al suo caloroso saluto inviandogli un bacio con la mano, in un gesto che sprizzava pura ironia. Svetlana era nel suo regno, lo guardava dall’alto del suo trono e non aveva battuto ciglio fino alla fine dell’esibizione, troppo impegnata a non perdersi neanche un momento di quello show di cui era stata l’artefice. Gli aveva lasciato il suo palco, rendendolo parte del suo mondo, anche solo per una mezz’ora. Ma questo pensiero, così intimo e personale, non le aveva ancora sfiorato la mente, rendendole impossibile, in quel momento, rendersi conto di quanto si fosse esposta, quanto lei si fosse spinta oltre con uno sconosciuto.
    C’era un debole filo che la legava all’ex-Corvonero, talmente sottile che sarebbe bastato nulla per reciderlo, una parola non detta o una di troppo. Aveva temuto che non si presentasse, che si tirasse indietro all’ultimo momento, che continuasse a nascondersi dietro un volto che non gli apparteneva. Sotto questo aspetto, erano molto più simili di quanto entrambi potessero immaginare. Eppure, nonostante tutto, Elwyn era lì, davanti a lei e al suo pubblico, mantenendo la parola data, rispettando ogni singola indicazione che la donna gli aveva imposto, braccandolo senza dargli una scappatoia, una via di fuga.
    Lo aveva visto spogliarsi, contorcersi e spalmarsi sugli strumenti di scena, ammiccare al pubblico, essere provocante, ma tutto questo non bastava. Voleva di più, nonostante avesse ottenuto tutto quello che aveva richiesto. Era come se non lo avesse stuzzicato abbastanza, come se mancasse ancora qualcosa, il suo tocco da protagonista. Non era abituata a restare ai margini della scena, ad essere una spettatrice passiva. Era stato fin troppo facile giocare con un soldatino obbediente, per quanto fosse stato divertente.
    Non era appagata.
    Lasciò la sua postazione d’onore non appena le luci si spensero sul palco, indicando la fine di quello spettacolo, e, mentre le ballerine lasciavano il posto ai tecnici che lo avrebbero preparato per lo show successivo, lei si diresse verso i camerini, dispensando saluti e sorrisi a chiunque incontrasse lungo il cammino, scambiando veloci parole di circostanza.
    Seguì le tracce del passaggio di Huxley fino alla stanza che gli era stata assegnata per l’occasione. A differenza dell’uomo che aveva una certa urgenza di tornare a vestire i suoi panni, e sicuramente sparire dalla faccia dell’universo, lei aveva tutto il tempo del mondo. Pregustava la sua vittoria come un predatore sentiva già le proprie fauci stringersi attorno al collo della sua preda. Non sarebbe stata crudele, non era nel suo spirito, voleva solo che l’eco di quella risata durasse un po’ più a lungo. Le sarebbe bastato anche solo un secondo di più.
    “Per il debutto della mia prima ballerina!”
    Esclamò allegramente, affacciandosi nella piccola stanza senza essere stata prima invitata – ma era a casa sua, quindi poteva fare un po’ quello che le pareva – e poggiando un bocciolo di rosa sul boudoir dove erano sparsi alcuni degli accessori di Elwyn.
    “Cercavi per caso questi?” continuò, senza perdere il guizzo leggermente canzonatorio nella sua voce, facendo roteare sull’indice il paio di boxer che l’altro stava cercando. Li allontanò dalla presa dell’uomo, studiandoli con occhio critico. “Oh, non c’è bisogno di provare a coprirsi, sappiamo entrambi che non sai cosa sia il pudore. Senza contare che non è il primo pene che vedo… ero convinta avessi almeno una terza abbondante, sai? Sono quasi delusa.”
    Sospirò, la mano all’altezza del petto, con finto disappunto, prima di accomodarsi sulla poltroncina davanti allo specchio, continuando a fissare spudoratamente il corpo che aveva davanti, le dita intrecciate sotto il mento, con l’intento di metterlo in soggezione.
    “Sai a cosa stavo pensando?” domandò una volta che l’Huxley aveva finito di rivestirsi, cercando la bottiglia di Whiskey tra quelle che erano nel piccolo armadietto dietro di lei, dando per la prima volta da quando era entrata le nude spalle all’uomo, le iridi rivolte verso lo specchio, controllando che non si desse alla fuga. “Che dovremmo festeggiare la tua prima esibizione al Lilum! Hai anche ottenuto una discreta mancia. Sapevo che quei bicipiti avrebbero fatto colpo su qualcuno.” Scherzò, poggiando sul ripiano un assegno con la cifra che sarebbe spettata al giovane. Era una donna onesta, teneva al suo lavoro forse più della sua stessa vita, e non avrebbe mai trattenuto una somma non sua. Per quanto potesse essere stata sadica costringendolo a svolgere quell’esibizione, gli avrebbe riservato lo stesso trattamento dei suoi dipendenti che ogni giorno si esibivano lì. “Non è molto alta, non come quelle cui sei abituato, ma poi comunque comprarci qualcosa. Eccetto la tua dignità…” si era alzata, avvicinandosi e porgendo uno dei due bicchieri ad Elwyn che era poco distante da lei. Sulle labbra aveva il sorriso di chi aveva l’ultima mano vincente a un tavolo da gioco; il freddo cristallo del bicchiere che sfiorava la pelle esposta del petto, ancora accaldata per la doccia, scivolava piano su di lui, spostandone i lembi aperti della camicia per rivelare di più. “… quella ormai mi appartiene.”

    Margaret "Maggie" Piper | Svetlana
    Former Slytherin
    14.02.96 | 22 Y.O.
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    Riusciva a vederli ancora perfettamente, come se non avesse mai lasciato quel palco. I sorrisi maliziosi, gli sguardi compiaciuti, i lineamenti che le luci soffuse del Lilum avevano contribuito a nascondere – ma non abbastanza. Aveva davanti agli occhi quei volti, Elwyn Huxley, profili di sconosciuti che erano lì per noia o per piacere, per dimenticare o per ricordare cosa volesse dire provare qualcosa, per sentirsi vivi o semplicemente potenti; uomini diversi guidati da un istinto comune, dalla ricerca di un appagamento effimero, dalla necessità di dare libero sfogo alle proprie pulsioni e desideri inespressi, individui unici le cui differenze, tra quelle mura, si assottigliavano fino a perdere consistenza.
    Sentiva i loro occhi addosso mentre teneva chiusi i propri, il capo chino e le mani appoggiate contro le piastrelle del bagno. Non si mosse; per diversi minuti si limitò a lasciar scorrere il getto d’acqua calda sul suo corpo. Avrebbe voluto convincersi che quel moto costante sarebbe stato sufficiente a far scivolare via le immagini della serata, cullarsi nell’illusione che sarebbe bastato quel tepore per dimenticare ogni cosa, ma creare problemi dal nulla era la sua specialità, rimuginare su tutto e su tutti qualcosa cui non poteva proprio rinunciare; lo faceva sempre, che si trattasse di un evento di grossa portata o della conversazione più insignificante, avvenuta con una persona che non avrebbe mai più rivisto e svoltasi in un luogo in cui era certo non avrebbe messo piede in futuro. Immagazzinava memorie – dialoghi, dettagli –, dava loro un ordine, un senso che nessun altro aveva motivo di vedere, e ci costruiva attorno le certezze di cui aveva bisogno. E sarebbe stato così anche quella volta: avrebbe rivissuto l’esibizione attraverso la superficie argentea nella quale si immergeva più spesso di quanto avrebbe dovuto, ne avrebbe osservato i contorni prendere forma per poi svanire nuovamente davanti ai suoi occhi. Avrebbe studiato ognuno dei presenti, avrebbe ripensato a ogni gesto e si sarebbe convinto di essere stato sufficientemente attento da non farsi scoprire, sufficientemente furbo da sapere che nessuno avrebbe parlato di quello spettacolo per non rischiare di rivelare di avervi preso parte. Si sarebbe convinto di avere il controllo sulla situazione.
    O quasi.
    La voce della donna lo strappò via da quel palco e lo riportò all’interno della stanza. Uscì dalla doccia, avvolse un asciugamano attorno alla vita e ne utilizzò uno più piccolo per sfregare i capelli; eseguì ogni operazione con estrema lentezza, lasciando intendere che, al contrario della Piper, non aveva alcuna fretta di iniziare quella conversazione. Sapeva bene che lo spettacolo non era che una piccola parte della sua condanna, un assaggio della punizione che avrebbe dovuto scontare per il resto dei suoi giorni – colpevole di aver scommesso con l’ex-serpeverde e destinato a subirne i velenosi commenti tutte le volte in cui avrebbe avuto la sfortuna di incrociare la sua strada. Faceva parte del gioco, dopotutto, e se l’onestà fosse rientrata tra le sue doti, avrebbe riconosciuto che al posto della donna si sarebbe comportato esattamente allo stesso modo. Avrebbe potuto persino sforzarsi di attingere alla sua scarsa autoironia ed evitare di prendere ogni parola come un affronto personale, scaldandosi anche quando non ce n’era alcun motivo. Ma non possedeva nessuna delle due caratteristiche, Elwyn, incapace di mettersi in discussione o di ridere di sé troppo a lungo. Non gli restava che indossare la sua maschera migliore, benché il suo umore oscillasse tra una costante insofferenza e un palese odio verso tutto e tutti. Doveva solo fingere di essere abbastanza maturo da incassare i colpi senza arrivare a scatenare una guerra. Poteva farcela.
    Sollevò pigramente lo sguardo sulla figura della donna e osservò quei buoni propositi infrangersi davanti ai suoi occhi. Si era sbagliato, non poteva. «Vedo che l’esibizione non ti è bastata.» commentò, secco, mentre l’ex-serpeverde si divertiva a far ruotare attorno all’indice i boxer di cui si era appropriata. Non era stato sufficiente ricoprirlo di pizzo e di ridicolo, costringerlo ad indossare un costume femminile, sculettare a ritmo di musica e poi spogliarsi davanti a un mucchio di arrapati. Per Svetlana, un’umiliazione pubblica non era abbastanza. Strinse le dita attorno all’asciugamano più piccolo, il mercenario, le nocche sempre più chiare, i muscoli tesi e i lineamenti del viso più marcati. Avrebbe voluto urlarle che non sarebbe rimasto a subire l'ennesima umiliazione, ma si era già messo in imbarazzo ad un livello così profondo che un simile pensiero suonò stupido persino a se stesso. Avrebbe voluto appellare quell’indumento – e lanciare un paio di incantesimi in direzione della proprietaria del Lilum –, ma la bacchetta gli era stata requisita al suo ingresso all’interno del locale. Avrebbe voluto poter risolvere la questione nell’unico modo che conosceva, ma erano piuttosto chiari i motivi per cui non avrebbe potuto ripiegare su una scazzottata in vecchio stile.
    Doveva mantenere la calma.
    Lasciò l’asciugamano sul mobile al suo fianco, mentre la donna continuava a schernirlo, e avanzò lentamente fino a fermarsi a pochi passi da lei, le iridi fisse nelle sue. «Divertente.» affatto. «Ma non attacca con me, dovresti saperlo.» tagliò corto, senza nascondere un pizzico di delusione nel suo tono di voce. Credeva davvero che un metamorfomagus potesse avere quel genere di problemi? Che un individuo capace di modificare ogni parte del proprio corpo potesse essere vittima di un complesso di inferiorità così banale? Ovviamente si sbagliava. Su una cosa, però, aveva ragione: l’ex-corvonero non possedeva il comune senso del pudore. Era convinto di non aver nulla di cui vergognarsi, sebbene le ripetute trasformazioni potessero far credere il contrario; non era il suo corpo il problema, ma l’apparenza era l’unica cosa che il mercenario era in grado di modificare per illudersi che il contenuto fosse di volta in volta differente.
    Senza distogliere lo sguardo, sflilò l’asciugamano che aveva attorno alla vita, lo sollevò quel tanto che bastava per includerlo nel campo visivo della donna e lo lasciò cadere a terra pochi istanti dopo – inutilmente teatrale, come sempre. Recuperò i boxer, sottraendoli all’ormai blanda presa della Piper, e iniziò a rivestirsi con studiata calma. «Toglimi una curiosità.» indossò i pantaloni scuri, le sopracciglia inarcate in un’espressione di finto interesse. «Da quanto tempo fantasticavi su di me?» il tono piatto alterato da un'impercettibile nota di spavalderia. Tuttavia, non era il suo smisurato ego a parlare, nonostante il precedente commento dell’ex-serpeverde e quello spettacolo privato lo avessero convinto di essere stato protagonista dei più scabrosi pensieri della donna – non poteva darle torto. Si trattava piuttosto di un debole tentativo di deviare la conversazione. Fece passare i bottoni della camicia nelle rispettive asole, mentre sentiva lo sguardo di Svetlana spostarsi su ogni centimetro del suo corpo e analizzarne anche il più piccolo movimento. Era certo che la mente della proprietaria del Lilum fosse impegnata a confrontare il suo aspetto con quello della vasta quantità di uomini che aveva incontrato, scandagliando l’archivio della sua memoria fino a trovare paragoni che avrebbero potuto far sfigurare il mercenario sotto ogni punto di vista. Ed era esattamente quello il genere di pensieri che avrebbe dovuto evitare per non cadere nella sua trappola, per non farle credere che fosse riuscita nell'intento di metterlo a disagio. Perché non era così che si sentiva, Elwyn. Si sentiva usato. Si sentiva un giullare davanti al suo sovrano, una marionetta nelle mani di un burattinaio che non voleva saperne di tagliare i fili.
    Seguì in silenzio i movimenti della Piper e si soffermò sulla schiena scoperta, realizzando che si trattava della prima volta, nell’arco della serata, che riusciva a vederla come donna e non come sadica serpe, giocatrice attenta e approfittatrice di uomini terribilmente impulsivi. La osservò avvicinarsi e, quando la fredda superficie del bicchiere incontrò il suo petto, Elwyn trattenne il respiro, ma non si scompose – nonostante quel gesto, nonostante la vicinanza della donna, nonostante il fatto che quella situazione sembrasse l'unico risvolto interessante di una giornata da dimenticare. Poggiò delicatamente una mano sulla sua, per impedirle di andare oltre, e rimase a guardare l’ex-serpeverde per qualche istante, le iridi azzurre in quelle chiare della donna. Inclinò impercettibilmente il capo e soppesò le sue parole, cercando di leggerne il significato attraverso i suoi occhi, l'espressione del viso e il tono che aveva appena utilizzato. Avrebbe dovuto potuto prenderla come una minaccia e reagire malamente, ma non avrebbe portato a nulla; avrebbe soltanto sottolineato quanto fosse importante, per lui, aggrapparsi a quei frammenti di un passato lontano, stralci di memoria che lo vedevano ancora come un talento del Quidditch, come qualcuno da ammirare. Oppure, avrebbe potuto confessarle che non era l’unica cosa cui aveva dovuto rinunciare nel corso della sua vita, che era l’umanità che temeva di aver perso per sempre e di cui gli importava davvero – ma non era pronto ad ammetterlo a se stesso. Invece, si limitò a sollevare gli angoli della bocca in un sorriso amaro. «E hai già in mente cosa farne?» abbandonò l’intonazione asettica delle ultime battute, ammorbidendola e privandola dell’astio che l’aveva contraddistinta fino a quel momento. E prima che la donna potesse avere modo di rispondere, scostò le bionde ciocche che ne incorniciavano il volto e le portò dietro all’orecchio, fino a seguire poi i morbidi lineamenti del viso con un leggero tocco. Pervaso da un improvviso moto di misericordia, si avvicinò ulteriormente e le sussurrò quello che, ne era certo, non sarebbe mai apparso come un consiglio spassionato. «Pensaci bene.» un invito, il suo, a non farsi prendere dalla smania di potere, a non lasciarsi accecare dalla prospettiva di averlo in pugno, di poterlo ricattare condizionando la sua vita. Non glielo avrebbe permesso, Elwyn, avrebbe fatto di tutto per impedirle di mettere a rischio ciò che restava della sua immagine, per evitare di alterare quel precario equilibrio che era riuscito a mantenere negli ultimi anni. Si allontanò dalla donna, solleticandole il viso con il sottile strato di barba che aveva nascosto durante l’esibizione, e accennò un sorriso beffardo. Strinse la presa attorno al bicchiere, liberando l’ex-serpeverde dalla propria, e si diresse verso il foglietto bianco che le aveva visto tirare fuori pochi minuti prima. Non aveva bisogno di aprirlo, di leggerne il contenuto, per sapere di cosa si trattasse. Lo prese, lo ridusse in pezzi e lasciò cadere quei coriandoli sullo stesso ripiano su cui l’assegno era stato precedentemente appoggiato. Aveva fatto ciò che Svetlana gli aveva chiesto, aveva rispettato i patti e mantenuto la parola. Non aveva bisogno dei suoi soldi, non era un pezzo di carne o l’attrazione del giorno.
    Si voltò verso la donna, sforzandosi di mandare giù quella che riteneva l’ennesima stilettata della serata e di risultare, ancora, in perfetto controllo della situazione. «Dimmi, con chi ho il piacere di bere?»
     
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    Non sarebbe stata Svetlana, se si fosse accontentata solo dell’esibizione, della mera rappresentazione grafica dell’umiliazione dell’Huxley. L’uomo avrebbe dovuto ben saperlo che non si sarebbe fermata a quello, che non sarebbe rimasta una spettatrice lontana. Era sempre stata lei la protagonista, sempre. Non poteva certo lasciare che la musica e il palco la privassero di quella sottile soddisfazione nel veder scricchiolare la facciata dell’uomo, di vedere oltre la maschera che aveva deciso di indossare quel giorno. Perché, in fondo, erano più simili di quanto si potesse immaginare, perché privarlo del controllo che aveva sulla propria vita, in fondo, si stava rivelando essere un divertimento inaspettato. Svetlana era una serpe, si avviluppava attorno alla sua preda e la stringeva nella sua morsa fino a infrangere ogni resistenza, fino a privarla di quel soffio che la manteneva in vita. Si insinuava nella mente dei suoi clienti e trovava il modo per legarli a sé, per far sì che avessero sempre bisogno di lei, che la pagassero solo per poter trascorrere con lei un secondo in più di quello pattuito. Aveva imparato a conoscere gli uomini nel peggiore dei modi e aveva fatto delle loro debolezze il suo scudo, la sua arma principale. Stava iniziando a costruire il suo impero sulle ceneri della sua innocenza e, ormai, aveva prostituito ogni parte di sé. Tutto pur di essere libera, pur di dettare le proprie regole. Tutto pur di non doversi spezzare davanti a chi era più forte di lei. Le avevano dilaniato l’anima, l’avevano fatta a pezzi e avevano gettato i brandelli di quel poco di umanità che le restava tra le vie dell’Inferius. Era stata abusata, usata come fosse una bambola gonfiabile, ma nulla aveva spezzato la sua integrità, quella dubbia morale che le aveva permesso di sopravvivere. Aveva avuto il volto tumefatto, lividi violacei lungo tutto il corpo, aveva sperimentato sulla propria pelle la bassezza dell’animo umano, ma questo il Mercenario non poteva saperlo. Non poteva immaginare quale fosse stata la sua vita prima del Lilum, né lei era particolarmente propensa a ripercorrere il viale dei ricordi.
    Se fosse stato il tipo sveglio che tanto diceva d’essere, avrebbe quanto meno immaginato la possibilità che lei andasse a fargli visita dopo lo spettacolo, che continuasse a prendersi gioco di lui per il mero gusto di farlo. Non aveva sempre bisogno di un secondo fine, l’ex Serpeverde, non era il mostro che l’uomo si ostinava tanto a dipingere nella sua mente, fino a quasi demonizzarla.
    “Il grande Elwyn Huxley. Sei tu che hai costruito da solo questo mito?” Domandò allora, una punta di curiosità nella voce, consapevole della facoltà dell’ex giocatore di cambiare le dimensioni del suo corpo a piacere. “Sarebbe molto triste. Denoterebbe davvero una scarsa autostima.” Continuò impassibile, il tono, tuttavia, divertito. Perché non riusciva a stare zitta, perché non riusciva a non pizzicare le corde dell’uomo. Non sapeva fino a che punto potesse sopportare, non sapeva fino a che punto lei potesse spingersi, né tanto meno se fosse pronta allo scoppio della sua ira. Eppure… eppure c’era qualcosa che le impediva di andare avanti. Di solito non era così. Sul posto di lavoro, non era mai così. Doveva essere succube, obbediente, doveva ascoltare i bisogni e i desideri dei suoi clienti fino ad annullare se stessa. Con Elwyn, invece, si spingeva oltre. Faceva esattamente quello che voleva, correva il rischio di oltrepassare il limite, di entrare prepotentemente nei suoi spazi personali solo per il puro e semplice gusto di farlo. L’Huxley non aveva mai chiesto di provocarlo. Non aveva mai mostrato il benché minimo interesse per quel gioco che sembrava fosse portato avanti solo dalla donna. Svetlana, però, non se ne curava. Non doveva compiacerlo, non doveva obbedirlo, non doveva ascoltarlo, semplicemente, non doveva piacergli. Ed era quasi un pensiero liberatorio, come se non esistesse solo il Lilum, come se il suo corpo non fosse l’unico oggetto di valore nella sua vita.
    “Da quando ho pensato che potresti essere utile per attirare clientela femminile. C’è solo qualcosina da cambiare.” Giusto la totale assenza di sorriso, i modi burberi, il cipiglio scontroso o l’atteggiamento aggressivo. Ma aveva anche dei difetti.
    Se avesse osservato il fisico dell’uomo? Solo una stupida non l’avrebbe fatto. Prima di figurarselo sul palco, di pensare allo spettacolo perfetto in cui farlo esibire, aveva studiato a lungo il corpo dell’ex Corvonero, immaginando quanto e cosa nascondessero i suoi vestiti. Le iridi fredde di Svetlana assecondarono quell’ostentata teatralità, rendendosi conto che per aver smesso di giocare, era ancora in forma. Poteva scorgere i muscoli guizzare sotto la pelle dell’Huxley ad ogni movimento, tesi e tonici come se, comunque, continuasse ad allenarli. O era davvero così, o era l’ennesima farsa che il maggiore costruiva per mantenere quelle apparenze che, in quella stanza, importavano soltanto a lui.
    Se avesse continuato a provocarlo? No, era semplicemente stata onesta. Se avesse notato l’impercettibile nota di spavalderia? Con ogni probabilità, ma non stava a lei compiacerlo, né gonfiare il suo ego. Lo osservò continuare a vestirsi, senza provare a distogliere lo sguardo, facendo cadere la conversazione per cercare di capire quali fossero i pensieri del suo ospite, quale potesse essere la sua mossa successiva. Sembrava quasi di essere sul ring, costantemente in attesa che uno dei due facesse la prima mossa, che scoprisse uno dei suoi punti vitali per poi affondare il colpo proprio lì, lì dove faceva più male.
    Sentì la mano callosa sulla propria, stupendosi di quel gesto che strideva con l’espressione diffidente dell’uomo. Perché, all’improvviso, si era mostrato gentile? Perché, dal nulla, la stava trattando con delicatezza? Se l’avesse osservata con attenzione, se l’avesse conosciuta abbastanza, quella sarebbe stata l’unica domanda che vi avrebbe letto in quello sguardo di ghiaccio. Quel velo di sorpresa a farle incurvare appena le sopracciglia. Non se lo aspettava, Svetlana, non da uno come lui.
    Sussultò appena quando le spostò i capelli dal viso; per un attimo, un brevissimo attimo, aveva pensato volesse colpirla. Quella, in fondo, era sa situazione più adatta per farlo, vicini abbastanza da non permetterle una via di fuga, immediatamente dopo un gesto particolarmente carino. Attese un colpo che non arrivò, un dolore che non si diffuse dal punto di quell’impatto che non avvenne. Poteva farlo, Elwyn, eppure non lo fece. Socchiuse appena le palpebre, concentrandosi sulla sensazione dei polpastrelli che le disegnavano il viso.
    Perché? Si chiese ancora una volta, domandandosi cosa l’uomo volesse da lei, cosa volesse ottenere. Ci sarebbe sempre stato un secondo fine, qualcosa che gli altri volevano da lei. E l’Huxley era uguale, era un uomo come tutti gli altri che stava provando a batterla al suo stesso gioco. Perché, in fondo, di quello si trattava.
    “No, al momento mi basta possederla.”
    Non si era resa conto di aver trattenuto parte del suo respiro fino a quando il più grande non si fu allontanato da lei, fino a quando non fosse stato abbastanza lontano da potersi difendere. Verbalmente e fisicamente.
    Sorrise appena per quell’integrità ormai compromessa, per quel totale rifiuto dei suoi galeoni e per quell’orgoglio che, la maggior parte delle volte, lo rendeva stupido. Sebbene lo ritenesse tale, non si meravigliò di quella scelta, di quella teatralità con cui le aveva notificato la mancata accettazione del compenso della serata. Era così da Huxley che fu costretta a mascherare una risata con un colpo di tosse.
    Si sedette sulla poltrona, ruotandola appena con le gambe, lo sguardo sottile a scrutare l’uomo oltre le proprie ciglia. “Credo ti sia conquistato la possibilità di scegliere la tua compagnia.” Se proprio la sua presenza dovesse essere per l’altro una sofferenza, tanto valeva dargli l’opportunità di allietare la propria serata facendo un passo indietro. Erano entrambi bravi a mentire, avrebbero potuto entrambi scegliere di essere due perfetti sconosciuti, o due amici d’infanzia. A quel punto non le importava veramente quale fosse la decisione di Elwyn. Se fosse stato una persona intelligente, avrebbe costruito il prototipo della ragazza perfetta e lei avrebbe interpretato quel copione che ormai conosceva a memoria, diligentemente, senza opporre resistenza. Se fosse stato una persona intelligente, avrebbe fatto la scelta più saggia per entrambi.
    Pensaci bene. Lo ammonì usando il suo stesso tono e le sue stesse parole, perché da quel momento in poi, non sarebbero più tornati indietro.
    Margaret "Maggie" Piper | Svetlana
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    14.02.96 | 22 Y.O.
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    Edited by ReLoad - 13/4/2020, 00:10
     
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    Rimase in silenzio, il mercenario, le iridi chiare fisse in quelle della donna e la mente proiettata altrove – lontano da quella stanza, lontano dal ricordo di quello spettacolo avvilente, lontano da un insieme di fattori che, normalmente, lo avrebbero spinto ad abbandonare la conversazione già molto tempo prima. Eppure se ne stava lì, assorto, come se indugiare per qualche istante sulla bionda fosse sufficiente a trovare una risposta a domande che non aveva neppure avuto modo di formulare. C’era qualcosa, in lei, che gli suggeriva di restare. Niente che avesse a che fare con la gonna esageratamente corta o con la schiena lasciata scoperta dall’ampia scollatura; niente che avesse a che fare con il sesso e la possibilità di dare un risvolto piacevole ad un incontro ben lontano dall’essere definito come tale. C’era qualcosa in grado di elevarsi oltre il rumore dei suoi pensieri, oltre il caos generato da un carattere spesso troppo impulsivo per accettare compromessi; qualcosa capace di solleticare l’interesse dell’ex-corvonero, di alimentare un bisogno mascherato da mera curiosità. C’era qualcuno oltre il personaggio che quel ruolo le imponeva, oltre le battute e le frasi di circostanza, oltre la facciata che mostrava al resto del mondo. Lo aveva intravisto nel suo sguardo, Elwyn, nel momento in cui i polpastrelli le avevano sfiorato il viso; una crepa leggera, un’increspatura tale da distogliere l’attenzione dalla maschera e concentrarsi sui contorni. Perché erano i dettagli a fare la differenza. Perché non conosceva Margaret, Maggie o Svetlana al punto tale da poter essere certo di quel presentimento, ma conosceva bene le persone come lei, come loro. Perché mentire faceva parte della natura umana; cambiava lo scopo, cambiava la frequenza, cambiavano le conseguenze – cambiava tutto e non cambiava niente. Era ciò che li distingueva e qualificava.
    E ciò che non conosceva della donna.
    Non sapeva se vestire i panni di Svetlana costituisse per lei un lavoro, una difesa o un’abitudine. Se non fosse altro che parte del vasto materiale di scena o se si trattasse di un travestimento indossato talmente a lungo da essere diventato una seconda pelle. Se la Piper fosse in grado di rimuovere quel velo, una volta abbandonate le mura del Lilum, o se il confine tra finzione e realtà fosse diventato così labile da non riuscire più a coglierne le differenze. Se fosse consapevole delle bugie, del loro peso, del loro prezzo, o se mentisse persino a sé stessa. Se sentisse la necessità di strappare via la maschera tanto quanto quella di indossarla per non rivelare cosa ci fosse dietro. Non sapeva nulla di lei, della vera Margaret – l’avrebbe chiamata in quel modo, assecondando l’idea, del tutto errata, che il nome di battesimo potesse essere considerato una sorta di certificato di autenticità, fuso attorno al quale avvolgere la matassa di vicende che ingarbugliavano la propria esistenza –, eppure, in certo senso, era come se la conoscesse. Non abbastanza e probabilmente mai del tutto, ma quel tanto che bastava per confidare nel fatto che avrebbe ceduto all’egoistico impulso di comprendere per sentirsi compresa, cogliendo così la sua provocazione.
    Assottigliò lo sguardo, il mercenario, mentre con gli occhi seguiva i movimenti della donna e con la mente continuava a rincorrere ipotesi, pensieri e domande. Rimase in attesa, ancora qualche istante, fino a che le parole dell’ex-serpeverde non gli strapparono un sorriso compiaciuto. «Questo è un compenso interessante.» sebbene non avesse alcuna garanzia sulle sue intenzioni – lui, per primo, non avrebbe potuto offrirne –, scelse di aggrapparsi alla convinzione che la Piper fosse sufficientemente intelligente da aver compreso la natura della sua domanda e che, se non avesse voluto sfiorare quelle corde, non avrebbe dato seguito a quella conversazione. Soppesò le parole della donna, una ad una, quel «Credo ti sia conquistato la possibilità di scegliere la tua compagnia.» in cui scegliere spiccava tra tutte. Era ciò che l’Huxley faceva ogni giorno. Decideva chi essere, cosa provare, come comportarsi. Decideva se essere alto, basso, magro o grasso; se mostrarsi ingenuo o ostentare conoscenze di cui non era in possesso; se passare le sue giornate nei panni di un anziano intento a sistemare rumorosamente la dentiera o in quelli di un ragazzino iperattivo. Decideva per sé e per gli altri. Al contrario della donna. «È quello che fai qui, giusto? Lasci che siano gli altri a scegliere.» a credere di poter scegliere. Non c'era accusa nel suo tono, né compassione o giudizio – non era lì per commentare le scelte di vita della proprietaria del Lilum e non avrebbe avuto alcun diritto di farlo, sebbene normalmente non perdesse occasione per mettere bocca su questioni che non lo riguardavano affatto. Si trattava di una semplice constatazione davanti alla quale sarebbe stato pronto a respingere le obiezioni della bionda. Perché era un dato di fatto. Poco importava che fosse lei a permettere agli altri di scegliere, che fosse lei ad avere il controllo o poter dire l’ultima parola, che fosse lei a concedere ai clienti la possibilità di trasformarla in tutto ciò che la loro mente era in grado di immaginare; importava poco quando di lei restava soltanto un corpo cui aggiungere lustrini o attribuire un nome di fantasia. Finiva per annullare se stessa ed essere Svetlana, oggetto del desiderio. Emblema della finzione. E non aveva alcun interesse, il mercenario, nell'intavolare una sterile conversazione tra maschere.
    «Ho una domanda.» proseguì, corrugando la fronte come se stesse scavando nella sua mente per dare forma a pensieri confusi. Non sapeva cosa la bionda si aspettasse da lui: se lo considerasse uguale a tutti gli uomini che abitualmente varcavano la soglia di quel locale, disperato al punto da approfittare di quella concessione per un unico scopo; o se lo ritenesse così infantile – e non sarebbe stato errato pensarlo – da aspettarsi un atto di pura vendetta; oppure, ancora, se credesse che avrebbe optato per una soluzione rapida ed indolore per abbandonare quella stanza nel minor tempo possibile. Non gli importava saperlo; semplicemente, non voleva rinunciare all’opportunità che si era venuta a creare, nonostante richiedesse pazienza e quest’ultima non rientrasse tra le sue pressoché inesistenti virtù. «Se ti chiedessi di essere te stessa – non le avrebbe domandato quanto ci fosse di Margaret in Maggie o Svetlana; forse, lo avrebbe capito col tempo. Non l'avrebbe spinta a svestire i panni che indossava in quel momento e rivelarsi per ciò che era realmente; non l'avrebbe costretta ad esporsi più di quanto non sentisse di voler fare – dopotutto, sarebbe stato controproducente. Le avrebbe domandato qualcosa di apparentemente semplice, ma di gran lunga più complesso; qualcosa su cui egli stesso avrebbe dovuto riflettere e a cui alla fine, con buona probabilità, avrebbe risposto negativamente. – ne saresti davvero in grado?»
     
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    C'erano tanti modi in cui quella serata sarebbe potuta finire, molti dei quali accomunati dalla figura dell'ex Corvonero che lasciava il Lilum dopo essersi sbattuto la porta alle proprie spalle, mentre dedicava parole decisamente ben poco carine alla sua persona. I motivi di quel gesto e di quello scoppio di galanteria sarebbero stati i più disparati e molti, se non la quasi totalità, la vedevano protagonista. No, non perché Svetlana amasse che tutte le luci del palcoscenico fossero puntate su di lei, non perché adorasse rubare la scena appropriandosi di ciò che non fosse suo, quanto per puro e semplice divertimento. Il suo lavoro la costringeva a rispettare dei limiti, a non superare mai quella linea sottile che serviva demarcare il sogno dalla realtà. Quel filo sottile era il suo margine di manovra, la sua comfort zone, il fragile universo in cui esisteva e in cui poteva esistere. A metà tra il mondo onirico, dove ogni cosa era concessa e in cui la sua stessa presenza era legittimata dalla pura e semplice fantasia, e quello reale fatto di regole, pregiudizi, obblighi e tabù, quel mondo in cui per sopravvivere bisognava fingere, in cui per tenersi a galla bisognava essere camaleontici, rinunciando a pezzi della propria identità, ormai irrimediabilmente mutilata.
    Eppure, con l'Huxley era come tracciare una linea sul bagnasciuga che veniva costantemente cancellata dalle onde e, ogni volta che questo accadeva, si rendeva conto quanto fosse facile premere i tasti giusti – ovvero quelli più sbagliati – per ottenere un briciolo di autenticità, per avere un’idea di quanto e cosa ci fosse di vero nell’uomo dai mille volti, per capire quanto ci fosse ancora di genuino nella persona che aveva davanti.
    Se c’era una cosa che Svetlana aveva imparato negli anni, era che l’odio non si può fingere. Tra tutti i sentimenti e le emozioni che l’essere umano può provare, l’odio e il disprezzo sono le uniche due sfumature che non potevano essere imitate, replicate o costruite ad hoc; questo perché sono ben radicate alla propria natura, a ciò che si è veramente. Sono il collante tra i traumi passati e chi si è in un determinato momento della propria vita e, per quanto si possa essere in grado di perdonare, certi avvenimenti lasciano solchi profondi che scavano dentro, rompendo così qualcosa che non potrà mai essere riparato.
    Se la sua teoria era fondata, allora, avrebbe fatto di tutto per aggrapparsi a quel briciolo di verità, a quel granello d’odio e di malcelata sopportazione che le ricordava che, per quanto si fosse bravi a fingere, in ogni bugia c’è sempre un fondo di verità, c’è sempre un frammento di quell’anima che lei da tempo aveva smesso di avere. E le sarebbe bastato perché per quanto questo potesse sembrare assurdo, non avrebbe mai chiesto ad Elwyn di deporre l’ascia di guerra; per quanto questo potesse sembrare autodistruttivo, non avrebbe provato ad addomesticarlo, a renderlo mansueto e obbediente come chiunque varcasse la soglia del Lilum.
    Se avesse voluto allontanarlo, se avesse voluto davvero che il Metamorphomagus smettesse di essere il tarlo che le corrodeva la mente facendole credere che ci fosse ancora qualcosa di autentico anche in gente come loro, alimentando così una speranza quanto mai effimera e pericolosa, allora si sarebbe alzata da quella poltrona e, senza lasciargli alcuna scelta, avrebbe spogliato entrambi dei vestiti, liberandoli da quegli strati sottili di stoffa ma non delle proprie maschere, di quelle difese che li rendevano più tangibili e reali; avrebbe reso l’intero camerino il loro personalissimo parco giochi e avrebbe assecondato quell’istinto carnale che, presto, si sarebbe estinto. Sarebbe stato intenso, certo, probabilmente violento, rabbioso e il miglior sesso che Elwyn avesse mai fatto in tutta la sua vita, ma sarebbe finito tutto quella notte. Una volta consumato l’orgoglio, cosa sarebbe rimasto? Non ci sarebbe stato nessun arrivederci e neanche un addio, perché, in fondo, avrebbero fatto come se tutto quello non fosse mai successo e l’Huxley l’indomani si sarebbe semplicemente risvegliato da un incubo, finalmente in una vita priva del rischio di scommettere - e perdere - contro di lei. Di scommettere - e perdere - ancora una volta la propria dignità. Si sarebbero usati e avrebbero bruciato come fiammiferi, privi di una fiamma viva e di calore. Ancora una volta, lo avrebbe privato della libertà di scelta, della possibilità di dire la sua, di esprimere la propria opinione perché lei sapeva che non si sarebbe opposto, per quanto potesse sperare il contrario, per quanto volesse, almeno una volta, che qualcuno le dicesse no. Perché voleva illudersi, Svetlana, che Elwyn fosse diverso e questo significava dover distruggere quella fantasia, dover provare necessariamente il contrario ed estirpare ogni germoglio che avrebbe potuto renderla umana, che avrebbe potuto portare una punta di colore in quella fragile solitudine che si celava dietro al velo.
    Un sorriso compiaciuto, gemello di quello che le stava mostrando il Mercenario, curvò le sua labbra. Era una piccola vittoria, un secondo in più che l’altro le concedeva, insieme a quell’attenzione che non si era resa conto di volere. E forse, arrivati a quel punto, avrebbe dovuto dare ascolto a quell’istinto di sopravvivenza che la supplicava di lasciar perdere, che le ricordava che aveva già ottenuto quello per cui l’Huxley era lì quella sera, che avrebbe dovuto lasciarlo andar via appena aveva rifiutato la paga. Doveva finirla lì, lo sapeva, eppure non poteva fare a meno di giocare quel gioco in cui bastava poco, il minimo errore di calcolo o valutazione, per perdere tutto.
    “In realtà hanno già scelto.” rispose pacata, sollevando quasi impercettibilmente le spalle per sottolineare quello che per lei era un’ovvietà. “Chi viene qui è perché ha bisogno di qualcosa e sa che noi siamo in grado di soddisfare quel bisogno. Chi lavora qui, d’altro canto, sa che deve fare del suo meglio per sopperire una determinata mancanza.” Perché, infondo, era di questo che si trattava: una volta eliminata la transazione, restavano solo due persone con le proprie necessità. “Ed è quello che fai anche tu, Elwyn. I nostri lavori non sono poi così diversi.” Cambiava solo la percezione che la società aveva di questi, entrambi borderline tra ciò che fosse giusto e sbagliato, tra ciò che fosse moralmente accettabile o meno. Erano entrambi mercenari, entrambi al servizio di altri e raramente di sé stessi. Entrambi vendevano le proprie prestazioni al miglior offerente ed entrambi avevano scelto quella strada; cambiavano le modalità, certo, ma questo non poneva l’ex Corvonero un gradino sopra di lei, non quando la sostanza, alla fine, restava sempre la stessa.
    Fu una risata amara quella che lasciò le labbra della bionda, la schiena ormai abbandonata contro la poltroncina. Se avesse dovuto scommettere sull’esito della sua provocazione, mai avrebbe pensato che l’ex giocatore si sarebbe spinto a tanto. Non era un azzardo, era l’azzardo che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di fare, che nessuno avrebbe mai dovuto fare.
    “Dovrei prima ricordare chi sono.” disse portando il mento sul palmo della sua mano. Non c’era retorica in quella frase, perché non c’era niente di più vero in quella stanza se non quelle parole lasciate sospese nell’aria. Non era se stessa da troppo tempo che, probabilmente, non sarebbe mai più stata in grado di esserlo. Vestiva e svestiva costantemente panni di persone che gli altri volevano vedere perché ciò che era davvero, ciò che restava al di là di Maggie, Margaret e Svetlana, non interessava a nessuno. Non c’era profitto, non c’era guadagno, non c’era nessuna soddisfazione che avrebbe potuto giustificare quell’essere se stessa ed Elwyn, se era davvero questo quello che stava cercando, ne sarebbe rimasto molto deluso. Perché tutto ciò che c’era dietro le sue infinite maschere, era solo il frammento di una persona che aveva smesso di esistere da tempo, l’ultimo petalo di una rosa appassita. O, forse, soltanto una sua spina.
    “A quanto mi venderesti?” domandò allora, incrociando le braccia e inchiodando l’uomo col suo sguardo. “Quanto ti hanno offerto per distruggermi?” continuò, rifiutando l’idea che l’ex Corvonero fosse davvero interessato a lei e che non stesse sfruttando l’occasione a suo vantaggio. Perché era quello ciò in cui erano più bravi, se non forse i migliori. “Non dovrebbe interessarti così tanto.”
    Tuttavia, una parte di lei voleva credere che Elwyn fosse onesto con lei, che non ci fosse un secondo fine dietro le sue parole. Lo osservò per qualche istante, studiando ogni sua reazione, espressione, variazione impercettibile sul volto, prima di alzarsi e avvicinarsi allo specchio, sedendosi davanti ad esso, continuando a guardare l’uomo attraverso il suo riflesso.
    “Potrei provarci.” Il che era un compromesso piuttosto accettabile. “Ma solo e soltanto ad una condizione.” Continuò avvicinandosi allo specchio e togliendo con delicatezza le ciglia finte, prima di passare il panno magico per rimuovere ogni traccia di trucco dal viso, per rimuovere quello strato di prodotti che servivano a nascondere ogni imperfezione, che allargavano lo sguardo e rimpolpavano le labbra, che le scolpivano i lineamenti e potenziavano i suoi punti di forza. Ruotò lo sgabellino per cercare le iridi di Elwyn, fronteggiandolo con fierezza, perché ormai, priva di trucco, non le restava molto altro. “Che tu faccia lo stesso con me.”
    Perché la fiducia era un lusso che non potevano permettersi.
    Perché, in questo modo, si sarebbero distrutti entrambi.
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    La verità era che Elwyn non era mai stato bravo ad incassare. Serviva del tempo, per imparare a farlo; serviva ricevere centinaia di colpi, prima di essere in grado di schivarli. E ne aveva presi a decine, il mercenario, tanto da sapere come evitare che l’impatto si rivelasse sufficientemente forte da impedirgli di reagire, che uno schiaffo, un pugno, un bolide, fossero così violenti da costringerlo a restare a terra, che le insinuazioni, i giudizi, le parole lo ferissero al punto da non riuscire a liberarsi di quella familiare stretta allo stomaco. Lo sapeva bene, ma non bastava. Perché a volte quei colpi lo coglievano di sorpresa, troppo repentini per potersi anche solo illudere di essere pronto. Perché spesso era il primo a cercarli, ad attaccare per difendersi da nemici che esistevano soltanto nella sua mente. Perché la verità era che l’Huxley non era che un ragazzino cresciuto troppo in fretta, che di colpi ne aveva presi molti e mai abbastanza; e avrebbe voluto possedere un briciolo di quella saggezza tipica dei corvonero o dell’autocontrollo che il suo mestiere richiedeva, ma doveva fare i conti con una realtà diversa. Non funzionava così, il mercenario. Approfittava di sprazzi di luce – e calma, e lucidità – tra lunghi istanti di buio dal quale riemergeva con un livido in più, con una nuova cicatrice, con l’ennesimo tarlo ad alimentare una rabbia costante, con in corpo un quantitativo di alcol tale da annebbiare la mente e donargli qualche ora di sollievo; buio dal quale si era lasciato avvolgere quando lo sguardo aveva incontrato le sue mani insanguinate, ancora scosse da quel fremito che avrebbe dovuto fargli provare vergogna di se stesso, ma di cui continuava a non pentirsi. Funzionava male, Elwyn – permaloso, paranoico e perennemente sul piede di guerra. Perché era più semplice trarre conclusioni affrettate, e muoversi a tastoni, piuttosto che sforzarsi di osservare i dettagli, di riflettere e porsi le domande giuste. Era più semplice agire e dare ascolto alla collera, al risentimento, alla paura, all’istinto. Sarebbe stato più semplice, anche quella volta, se le parole dell’ex-serpeverde non lo avessero colpito con una violenza tale da lasciarlo paralizzato.
    «I nostri lavori non sono poi così diversi.»
    Fu come avvertire un vuoto all’altezza dello stomaco e percepirlo espandersi tanto rapidamente da temere di precipitare al suo interno.
    Fu come sentire il pavimento cedere e l’equilibrio venir meno, mentre profonde crepe minavano le fondamenta di una realtà creata col tempo e con estrema fatica. Perché aveva impiegato anni, l’Huxley, per costruire una reputazione solida, facendo attenzione a ogni minimo particolare: al volto, diverso per ogni cliente o situazione; al nome, sostituito da uno pseudonimo come unico riferimento costante; ai luoghi d’incontro, bizzarri, improbabili e mai riconducibili alla sua persona; ai suoi pensieri, persino, protetti dalle barriere magiche che l’occlumanzia riusciva a garantire. Aveva fatto il possibile per mantenere quel segreto che ora era lì, sospeso a mezz’aria, reso tangibile da quelle parole che lo avevano messo a nudo, ancora una volta – privo di ogni difesa, privo dell’ennesima maschera, privo della sua unica certezza. Non aveva poi tante, il mercenario, non sul suo futuro, non sulla sua famiglia, né tantomeno su se stesso. Viveva – sopravviveva – esercitando un maniacale controllo su aspetti insignificanti della sua giornata per alimentare la costante illusione di tenere ben salde le redini della sua esistenza. Ma non ne era in grado – non sempre e mai del tutto. Neppure quella volta.
    «Quanto ti hanno offerto per distruggermi?»
    Avrebbe dovuto farlo, arrivati a quel punto? Avrebbe dovuto scagliarsi contro di lei, immobilizzarla e interrogarla fino a scoprire con chi avesse condiviso quel segreto? Avrebbe dovuto torturarla, per ottenere le risposte che cercava? Avrebbe dovuto ucciderla e lasciare che anche quel viso, come quello di suo padre, popolasse i suoi incubi? Avrebbe potuto, invece si limitò a seguire i movimenti della donna con lo sguardo, mentre le dita, nascoste tra le braccia conserte, reclamavano la presa sulla bacchetta lasciata all’ingresso del locale – su quell’arma che lo avrebbe fatto sentire meno impotente, che gli avrebbe dato la possibilità di agire in modo impulsivo, di sbagliare e guadagnare del tempo per rimediare ai suoi errori. Per aggiustare le cose e tornare ad avere il controllo sulla sua vita. Avrebbe potuto, ma rimase fermo, immobile, mentre dal volto era sparita ogni traccia del sorriso mostrato poco prima e nella testa continuavano a ronzare quelle domande, a rimbombare fino a sovrastare tutto il resto.
    Non gli restavano che quelle, unite alla sgradevole sensazione di essere stato ingenuo a credere che- credere a cosa, esattamente? Che due completi sconosciuti, per un attimo, avrebbero potuto ignorare ciò che erano diventati e soffermarsi, invece, su ciò che avevano dimenticato di essere? Che l’ex-serpeverde avrebbe potuto capirlo, quando in pochi si sarebbero sforzati di farlo e nessuno lo avrebbe mai giustificato fino in fondo? Che avrebbe potuto vedere dell’altro, in lui? Lo aveva fatto, in un certo senso. Aveva visto il mercenario, l’immagine che Elwyn aveva davanti agli occhi ogni giorno, guardando il suo riflesso allo specchio, e che nessuno era ancora riuscito a scorgere. Nessuno, eccetto lei. Avrebbe dovuto esserne contento? Avrebbe dovuto sentirsi sollevato all’idea che la donna avesse conosciuto una delle sue maschere peggiori, che avesse visto ciò che era – ciò che era in grado di fare – e che non fosse scappata via?
    Ancora domande, ancora una volta quelle sbagliate.
    Perché avrebbe potuto fermarsi a riflettere e concentrarsi sui gesti, sui toni, sulle intenzioni. Su ciò che non era stato detto, ma che faceva decisamente più rumore. Avrebbe potuto abbracciare l’idea che fosse stata Margaret a parlare, e che lo avesse fatto per dimostrare di essere disposta a rinunciare al suo asso nella manica – a un facile ricatto e a una vittoria certa – per un briciolo di sincerità. Ma non ne vedeva il motivo. Era più facile, più logico, convincersi che quell’affermazione non fosse altro che un modo per ribadire chi, tra lui e Svetlana, avesse il pieno controllo della situazione.
    Avrebbe potuto concentrarsi su quel «Non dovrebbe interessarti così tanto.» e accettare la realtà dei fatti, ammettere che non gli importava nulla della vita degli altri, delle loro preoccupazioni e dei loro problemi, che non gli interessava perdere tempo nell’ascoltare le loro lamentele e, soprattutto, che non si esponeva mai, in prima persona, per sapere qualcosa in più, per barattare un’informazione con un’altra, un segreto con qualcosa di altrettanto privato. Non lo aveva mai fatto, prima di quel momento, prima di lasciarsi guidare da quel pericoloso presentimento che lo aveva portato ad ignorare tutti i segnali di pericolo. A rischiare, e per cosa?
    Avrebbe potuto soffermarsi su quel «Dovrei prima ricordare chi sono.» e rendersi conto che era esattamente lo spiraglio che avrebbe voluto scorgere, la conferma di non essere l'unico ad aver sepolto se stesso sotto strati di bugie talmente intricate da non essere più in grado di distinguere la realtà dalla finzione.
    Avrebbe potuto apprezzare il gesto della donna, quel tentativo di rimuovere la maschera in pizzo e lustrini per provare a conoscerlo – nonostante la sua prestazione imbarazzante, nonostante il suo lavoro mettesse in luce una moralità completamente distorta, nonostante i difetti caratteriali emersi, nonostante tutto. Guidata, anche lei, soltanto da un presentimento.
    Avrebbe potuto, ma era Elwyn.
    Ed era fatto male.
    «Pensi davvero che mi sarei messo in ridicolo, se avessi voluto distruggerti?» modulò il tono di voce per sottolineare quanto trovasse assurda quell'insinuazione, mantenne l'espressione severa di chi aveva smesso da tempo di partecipare a quel gioco e non interruppe mai il contatto visivo, nonostante il timore, fondato, che le iridi chiare potessero rivelare fin troppo, che potessero lasciar presagire ciò di cui il mercenario era capace – e spaventarla, perdendo così la possibilità di ottenere quelle informazioni senza ricorrere alla violenza – o che lasciassero trasparire quelle preoccupazioni che avrebbero dato ulteriore valore all'informazione in possesso della donna. Ma non avrebbe potuto farci nulla. Non avrebbe potuto impedire che l'ex-serpeverde ci leggesse tutto ciò che l'Huxley stava provando, che ci leggesse paura, rabbia, frustrazione, impazienza. «Non funziona così.» lui, il suo lavoro o quello strano rapporto tra loro. «Non può funzionare così.» né ora né mai. Gli aveva chiesto se fosse disposto a fare lo stesso con lei, a smettere di essere il mercenario, di interpretare ruoli differenti, di nascondersi dietro storie e volti che non gli appartenevano per tentare di essere Elwyn e Margaret. Ebbene, «Non è equo.» e non lo avrebbe fatto, non a quelle condizioni. Non fino a che il coltello sarebbe stato puntato nella sua direzione, l’impugnatura stretta tra le dita della donna. Non fino a che il mercenario avrebbe avuto la sensazione di essere lui l’unico ad avere tutto da perdere. Non fino a che non sarebbero partiti da zero. «Vogliamo essere sinceri? Ok, iniziamo.» mandò giù un sorso di whisky, per guadagnare qualche istante e illudersi di poter ritrovare la calma di cui avrebbe avuto bisogno, e si sedette davanti all'ex-serpeverde. «Come sai del mio lavoro?»
     
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    “Penso tu sia disposto a tutto pur di raggiungere il tuo scopo.”
    Perché alle supposizioni che per il Corvonero erano assurde, Svetlana rispondeva con la sua logica. Perché non le sarebbe parso improbabile che l’uomo fosse in grado di compiere qualsiasi cosa, anche umiliarsi, pur di portare a termine una sua missione. In fondo, era la stessa persona che si era finto una donna per continuare a giocare a Quidditch, per incrementare il numero delle sue conquiste, per qualsiasi altra ragione lo avesse spinto a costruire quella bugia che, alla fine, era stata per settimane la prima pagina di molti giornali e che aveva spaccato l’opinione pubblica in due: chi lo condannava apertamente e chi, sotto sotto, un po’ lo ammirava per aver avuto il coraggio di osare lì dove molti non avrebbero potuto. Quindi sì, la ex-Serpeverde pensava davvero che si sarebbe messo in ridicolo, se avesse voluto distruggerla. Era un modo come un altro per farle abbassare le difese, per renderla più vulnerabile, per colpirla lì, nel cuore dei suoi affari, nonché il centro del suo mondo. Sarebbe stato il palcoscenico perfetto, la fine ideale. Iconica.
    Le dita tamburellavano leggere sulla superficie del boudoir, mentre le iridi fredde scansionavano il volto dell’uomo davanti a lei. Non fu difficile notare la durezza dei lineamenti del viso, fattisi improvvisamente più spigolosi, la linea netta della mascella, la tensione di ogni muscolo nel disperato tentativo di tener a bada ogni impulso più violento. Si soffermò sullo sguardo dell’ex-Corvonero, sul cambio repentino dei suoi occhi, macchiati da tonalità più cupe frutto di emozioni contrastanti. Avrebbe dovuto avere paura. Forse, per una volta, avrebbe dovuto temere per la sua incolumità, tenere a cuore la sua vita. Avrebbe dovuto fare un passo indietro. Avrebbe dovuto chiedere scusa. Ma per cosa, poi? Ancora non aveva fatto nulla di male, niente per cui valesse la pena chinare il capo e fare ammenda. In quella fredda e asettica concezione del mondo, per quegli occhi che avevano visto fin dove la bassezza umana potesse spingersi, avevano semplicemente smesso di giocare. Aveva semplicemente osato troppo, giocando una mano fin troppo rischiosa, una mossa fin troppo audace. Era un azzardo che non poteva permettersi in quel momento – erano pur sempre due sconosciuti che avevano in comune essersi diplomati nella stessa scuola - e che, con ogni previsione avversa, aveva comunque scelto di compiere. Non aveva più la possibilità di tornare indietro, di correggere quel tiro che avrebbe potuto rivelarsi letale, seppur perfetto. Perché, in fondo, era quello che Svetlana aveva voluto fin dall’inizio, quello per cui aveva cercato di impiegare al meglio il poco tempo a disposizione con l’Huxley per raggiungere il suo scopo, per quanto fosse machiavellico e contorto. Certo è che non credeva che bastasse solo quella rivelazione a far traballare anni e anni di bugie e menzogne, a scuotere fin dalle fondamenta l’intera maschera che l’ex-giocatore vestiva ogni giorno. Tuttavia, lo capiva. Lo giustificava, sapeva quanto ci si sentisse al sicuro dietro quel volto che faceva da scudo e che tutti ormai erano abituati a vedere. Comprendeva la frustrazione, la preoccupazione, la rabbia. Ma per far sì che quello che ormai aveva smesso di essere un gioco fosse equo, allora anche lui doveva mostrarsi per quel che era veramente, perché Svetlana non avrebbe mai perso, non da sola, almeno. Non quando poteva finalmente scorgere qualcosa di autentico nel suo interlocutore e, se solo fosse stata più audace, se solo avesse davvero voluto distruggere ogni cosa, allora si sarebbe spinta ben oltre, avrebbe alimentato quell’odio fino a farlo esplodere. No, non perché fosse masochista, era solo una ragazzina stanca di vivere nell’illusione, stanca di dover piegarsi costantemente alle volontà altrui, stanca di dover compiacere con sorrisi e parole chiunque la circondasse. Era curiosa di scoprire come ci si sentisse ad essere normale, ad essere oggetto di repulsione e non di desiderio, a suscitare disgusto, ad accendere quella miccia di odio e rabbia che nulla avevano a che fare con la finta adulazione. Voleva distruggere quel piedistallo che aveva impiegato anni a costruire, voleva ballare sui frammenti di quella vita di cristallo fino a sanguinare, fino a quando non fosse rimasto altro che la consunta immagine di se stessa. Voleva qualcosa di vero, anche a costo di dover andare oltre, di innescare una bomba i cui effetti non era in grado di contenere. Poteva essere masochista, forse, ma non era ancora una stupida. Se lo fosse stata, se non fosse stata consapevole del territorio in cui si stava addentrando, avrebbe calcato la mano fino a quando gli effetti delle sue parole fossero stati tali da lasciare un segno indelebile, incancellabile. Ma non era lì per umiliare l’Huxley più di quanto l’altro non sentisse di aver fatto sul palco. Per questo trattenne il respiro un secondo in più, fondamentale per tenere a freno quella lingua che, negli anni, era diventata biforcuta. Per questo si limitò a pensare a quanto l’uomo davanti a sé non fosse altro che un idiota. Tenne per sé lo stupore, le occhiate giudicanti e qualsiasi altro gesto avesse potuto lasciar trasparire il suo giudizio insufficiente con il quale aveva appena etichettato il suo interlocutore. Se avesse voluto, avrebbe potuto far notare all’ex-Corvonero quanto il cappello parlante si fosse sbagliato con lui, dato che aveva appena bevuto da un bicchiere il cui contenuto avrebbe potuto non essere ciò che sembra. Era stata lei, in fondo, a prendere la bottiglia e riempire i due cristalli, dando per di più le sue spalle all’uomo. Avrebbe potuto avvelenarlo, o peggio. Arricciò il naso in segno di disappunto, prima di distendere le sopracciglia e prendere un respiro profondo, continuando a studiare le braccia dell’ex-giocatore, cercando di scorgere ne nocche nascoste nelle pieghe del gomito, provando a valutare in modo sommario quanto tempo ancora le avrebbe concesso prima di saltarle al collo. Sarebbe stato rapido – meno di otto minuti se le avesse spezzato lo ioide – e indolore – rispetto a quello che avrebbe potuto subire in altre circostanze. Un lavoro pulito, senza lasciare alcuna traccia magica o prova tangibile del suo gesto.
    “Come so del tuo lavoro?” Domandò retorica, guadagnando qualche secondo in più per trovare le parole giuste, le più neutrali, quelle che avrebbero potuto aprire a un dialogo e non a condurre a un punto di rottura. “Semplice: Special.” Poggiò il viso sulla mano, un sorriso leggero a incurvarle le labbra. “Nessun mago può utilizzare la magia all’interno del Lilum, ogni cliente viene privato della sua bacchetta, ma lo stesso non si può fare con gli Special. Il loro potere, non può essere ancora contenuto.” Perché il governo era da sempre stato più impegnato a ucciderli, utilizzarli come bestie in un circo o, nella migliore delle ipotesi, a discriminarli. “Nel mio entourage ci sono alcuni che hanno il dono di poter leggere nel pensiero di chiunque varchi le soglie di questo locale. Individuano potenziali minacce, scorgono le vere intenzioni di possibili contatti e riferiscono a me.” Avrebbe potuto fermarsi, avrebbe potuto ritenere quella spiegazione sufficiente, ma non lo fece. Elwyn meritava un po’ di più, o era quello che si sarebbe detta per giustificare tutto il resto. “Il Lilum non è solo quello che si scorge ad occhio nudo, dovresti ormai ben saperlo. Ci sono persone importanti che hanno accesso ad un altro tipo di benefici, ad altri servizi e, in quel caso, i galeoni sono solo la minima parte della paga. I segreti, oh i segreti sono il vero motore del nostro mondo.” E per poter restare a galla, per poter continuare a fare il suo lavoro, non bastava soltanto il sesso, non bastava inginocchiarsi davanti al politico o al magnate del momento in attesa di una ricompensa. Non quando poteva tenerli sotto scacco, non quando i sussurri potevano fruttarle più di quanto avesse mai potuto immaginare. “Basta chiedere, per avere delle risposte. Ma quelle più scabrose, come ben sai, hanno un prezzo che solo in pochi sono disposti a pagare.” Gli stessi che finanziavano le attività del mercenario, che erano pronti a pagare somme da capogiro pur di far fuori un rivale politico, pur di ballare sulle carcasse dei propri nemici. Si fermò lì, senza andare oltre, senza dover necessariamente riportare altri dettagli di quella vita fin troppo borderline, perché anche il sesso era un’ottima fonte di notizie, soprattutto quando i clienti era convinti lei fosse una cagna fedele. “Tuttavia, una volta scoperto qualcosa, io resto l’unica a saperlo.” Non perché uccidesse i suoi dipendenti, era soltanto fin troppo brava con gli incantesimi di memoria e teneva all’incolumità di chi lavorava per lei. Abbassò lo guardo per qualche istante, soffermandosi qualche secondo di troppo sulle sue dita. “Segreti, ricatti e minacce sono la mia specialità. Tutto pur di proteggermi e tenere al sicuro il Lilum e le sue persone.” Perché ci era passata in prima persona e c’erano delle ferite che, ancora a distanza di anni, facevano male come la prima volta, che non erano mai guarite del tutto. “Avrei potuto mettere del Veritaserum nel bicchiere da cui hai bevuto, estorcerti ogni tipo di informazione ma non l’ho fatto.” Sfilò uno dei suoi anelli, poggiandolo sul tavolino vicino ad Elwyn, quasi volesse dargli quell’arma per utilizzarla contro di lei. Le sarebbe bastata solo una goccia, ma non lo aveva fatto. “Come puoi vedere, è ancora intatto. Se vuoi uccidermi per mantenere al sicuro il tuo segreto, fa pure.” Non c’era la traccia di alcun tono di sfida nelle sue parole, né spavalderia. Erano calme, piatte, con un’unica sfumatura di rassegnazione ad accompagnarle. Le labbra si piegarono in un sorriso amaro, privo di ogni trucco e/o provocazione. Non arrivava agli occhi, non aveva la forza per farlo, e non raggiungeva neanche il cuore. Era sospeso su quel volto ormai privo di ogni maschera, almeno in quel momento, almeno per quella frase. “Saresti l’unico ad aver premuto il grilletto.” Elwyn avrebbe potuto vantarsene, crogiolarsi in quella sensazione di essere riuscito dove altri avevano già fallito, guadagnandosi una delle sue ultime prime volte, nonché la più irripetibile. Avrebbe potuto colpirla finché non fosse stato soddisfatto, tanto a quello era stata abituata, avrebbe potuto stringere le dita attorno al suo collo sottile fino a spezzarlo, avrebbe potuto prenderla a calci, pugni, testate, qualsiasi cosa, e le sarebbe andato bene. Perché era questo quello che lei era: un mero oggetto. Un passatempo. Un’ombra di passaggio, talmente chiara da non attirare l’attenzione, benché meno il segno. L’Huxley, però, prima di avere carta bianca, avrebbe dovuto prometterle che quella sarebbe stata l’ultima volta, che non ce ne sarebbero state altre. Nessun risveglio con la pelle squarciata, nessuna cicatrice da dover nascondere, nessun osso da dover ricomporre. Nessun risveglio. Punto. Quella, per lei, sarebbe stata la vera liberazione e, probabilmente, gliene sarebbe stata anche grata. Nessun volto sconosciuto, nessuna mano appartenente a un cliente senza nome, solo l’odio di qualcuno che l’aveva vista per davvero, che provava per lei qualcosa di autentico. Perché, alla fine, era quello il nocciolo della questione, era quello ciò che lei aveva sempre desiderato più di ogni altra cosa. Non gli occhi adoranti di chi non aveva mai avuto la possibilità di andare oltre Svetlana, oltre la proiezione dei propri desideri. Non le mani di chi aveva promesso che non le avrebbe mai fatto del male, che sarebbe stato gentile. Aveva imparato a diffidare di quegli uomini, di quelli che all’inizio amavano mantenere le apparenze e che, appena chiusa la porta dietro le loro spalle e saldato un conto che molti non si sarebbero potuti permettere, diventavano peggio delle bestie feroci. Quest’ultime agivano mosse dall’istino di sopravvivenza, loro dal puro bisogno di sollevarsi da quella condizione infima in cui versavano, da una metodica e studiata volontà che muoveva ogni loro gesto. “Dubito qualcuno possa sentire la mia mancanza, avrai anche il tempo necessario per crearti un alibi di ferro.” Di quelli indistruttibili, inconfutabili, perfetto al punto da essere sollevato da ogni sospetto. Ancora una volta, la voce della donna uscì pacata. Non lo stava sfidando, non c’era sarcasmo in quelle parole, non era l’ennesimo proiettile al vetriolo. Mosse piano le spalle, scrollandole appena, cercando di dare poco peso a quella verità che poteva ferire solo lei, le dita strette attorno a quella lama che spesso aveva ignorato. Se di solito la respingeva via, questa volta ci si stava pericolosamente avvicinando.
    Spesso si era fermata a pensare a cosa si sarebbe lasciata indietro, a chiedersi quale sarebbe stata la sua eradità, a domandarsi cosa sarebbe rimasto una volta andata via e nessuna risposta le aveva mai dato sollievo. Non parlava con la sua famiglia da talmente tanto tempo che era piuttosto convinta avessero ormai dimenticato il suo volto, il timbro della sua voce, il suono della sua risata. Non aveva amici, non più almeno, e Maeve e Will erano andati avanti – forse fin troppo avanti – nelle loro vite da rendere la sua presenza quasi un’illusione. Harvard avrebbe perso un po’ di guadagni, ma avrebbe presto trovato un altro volto per sostituirla, così come il Lilum avrebbe avuto un altro proprietario e le sue tigri avrebbero trovato delle prede con cui cibarsi. Aveva già disposto i suoi averi, aveva già deciso chi avrebbe ereditato la sua piccola fortuna e l’Hilton, al momento, era l’unica persona di cui si fidasse veramente; avrebbe potuto fare beneficenza a suo nome o meno, avrebbe potuto accrescere la sua immagine di magnate diventando il benefattore di centri contro la violenza di genere che lei aveva personalmente scelto, ma non le sarebbe importato, non se ogni zellino fosse stato impiegato per aiutare qualcuno. Tuttavia, nessuno si sarebbe ricordato di lei, nessuno avrebbe pianto la sua scomparsa, ne avrebbero rimpianto quel mondo in cui Maggie, Svetlana e Margaret erano state solo delle comparse, degli oggetti di scena da distruggere a fine spettacolo, una volta calato il sipario. Non aveva niente da perdere, non perché avesse ormai già perso tutto, ma perché non aveva mai avuto il privilegio di poter veramente perdere qualcosa. Oltre a dei video in internet e delle foto sbiadite, non ci sarebbero state tracce del suo passaggio.
    “Oppure…” Fece schioccare la lingua sul palato mentre incrociava le gambe e portava una mano sotto il mento, scegliendo ogni parola con cura. “Potremmo lavorare insieme.” Non per me, benché meno con me. Non si rese protagonista della frase, né una benefattrice, né un’elargitrice di elemosina. Non era lì per convincere Elwyn di diventare suo partner in affari, non era neanche una tattica per salvarsi la vita. Se l’avesse fatta sparire, probabilmente sarebbe stata una liberazione. Svetlana aveva pur sempre bruciato il suo jolly, quell’asso nella manica che avrebbe potuto giocare per ribaltare una situazione e riportarla a suo vantaggio. Avrebbe potuto tenersi stretta quell’informazione e rivelarla nel momento più opportuno, per minacciarlo, per piegarlo al suo volere, invece vi aveva rinunciato. Per cosa, poi? Non lo sapeva neanche lei. Lei che calcolava ogni sua mossa, che studiava i suoi avversari minuziosamente per sapere esattamente dove colpire. Odiava per tempo e odiava ancor di più sprecare energie e risorse inutilmente.
    “Se non può funzionare così, se non è equo, cos’altro vuoi sapere? O cosa mi vuoi dire?” Domandò riprendendo le parole dell’uomo. Sarebbe stato da stupidi, in quel momento, parlare di fiducia, di indorare una pillola che andava presa liscia, che doveva raschiare le pareti dell’esofago, che non doveva essere in alcun modo facilitata nel suo compito. Non erano bambini, non erano ingenui, non erano neanche degli individui rispettabili. Non c’erano parole che avrebbero tenuto più dei fatti, più della manifesta volontà di venirsi incontro attraverso ogni singola azione. Certo, avevano smesso di giocare, ma ciò non significava che fossero pronti a far cadere maschere e riserve, che fossero in grado di farlo. Non c’erano certezze, solo la possibilità di procedere a tentoni in un campo talmente minato che, al minimo errore, avrebbe potuto far saltare ogni minimo traguardo raggiunto.
    Do your worst, Elwyn. I’m ready.
    Margaret "Maggie" Piper | Svetlana
    Former Slytherin
    14.02.96 | 22 Y.O.
    L i l u m
     
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    elwyn huxley
    Abbozzò un sorriso, si umettò le labbra e indirizzò lo sguardo verso un punto imprecisato della stanza, distogliendo l’attenzione dalla donna. «Il mio scopo» ripeté, risalendo la corrente dei suoi pensieri alla ricerca di un significato che andasse oltre il semplice concetto di incarico. Il suo scopo, fece eco mentalmente; il fine ultimo delle sue azioni, il motore della sua esistenza, il perché che gli avrebbe permesso di sopportare ogni come. Per anni aveva creduto di conoscerlo: aveva fantasticato sul suo futuro, accarezzato l’idea di diventare un giocatore professionista, abbracciato quella prospettiva che era stata una confortante certezza, un faro verso cui puntare la rotta e, insieme, il porto sicuro pronto ad accoglierlo durante la tempesta. Era stata uno stimolo, un freno, un balsamo, un’illusione cui aggrapparsi per sentirsi un figlio speciale, pur non essendolo davvero. Era stata tutto e poi fin troppo, fino al punto in cui non era diventata che l’ombra di quel sogno coltivato a lungo – di quello scopo che non gli era mai appartenuto davvero. Lo aveva realizzato tardi, l’Huxley, e anziché voltare pagina, aveva deciso di strapparla via con forza, senza riservarsi la possibilità di tornare sui suoi passi, senza concedersi il lusso di sentirsi svuotato, smarrito, spogliato di quell’identità che gli era stata cucita addosso fin da quando era bambino. Non aveva avuto tempo di chiedersi se potesse esistere un Elwyn Huxley senza la divisa da battitore, se possedesse un talento che andasse oltre il saper disarcionare gli avversari e attentare alla loro vita; non aveva avuto modo – non aveva avuto la forza – di cercare una strada differente. Aveva svestito i panni del giocatore di Quidditch e indossato quelli del mercenario, convincendosi che fosse l’unica, naturale, conseguenza di quell’attimo di follia che aveva cambiato la sua vita per sempre. E non c’era un fine più grande, in quel mestiere, né tantomeno un intento nobile; non c’era uno scopo, diverso dal denaro, per chi era soltanto uno strumento al servizio del caos e della violenza. Era quello il linguaggio, quello ciò che ci si aspettava da Elwyn.
    «Penso tu sia disposto a tutto.»
    Registrò quell’affermazione ed evitò di snocciolare una lista di almeno dieci espedienti cui avrebbe potuto ricorrere, per distruggerla, senza dover utilizzare tacchi, calze a rete e vestiti succinti. Si limitò a lasciare quelle parole sospese tra loro, decidendo di alimentare il dubbio e sfruttare il timore che ne sarebbe potuto derivare; decidendo di ascoltare – o, quantomeno, sforzarsi di farlo davvero. Setacciò il discorso della donna da ciò che non aveva bisogno di conoscere – in quanto ovvio, dato il mestiere e le circostanze – e soppesò ciò che ne restava – il tono, il linguaggio del corpo, la leggera reticenza prima di un’ammissione scomoda. E non tentò di nascondere quel fastidio che la proprietaria del Lilum avrebbe scambiato per orgoglio, quel risentimento che sarebbe apparso come una reazione naturale all’oggettiva impotenza di fronte al potere degli special. Non poteva sapere, Margaret, che quella ferita non si sarebbe mai rimarginata del tutto; non poteva sapere di Wayde, di suo padre, del modo in cui Elwyn aveva scoperto dell’esistenza dei laboratori. E non avrebbe potuto far altro che osservare i lineamenti severi del suo interlocutore, rimasti tali anche quando l’ex-corvonero avrebbe voluto voltare il capo e controllare che l’anello della donna fosse effettivamente intatto. Ma non lo fece. Continuò a sostenere lo sguardo dell’ex-serpeverde, ostinatamente deciso a mantenere quella parvenza di sicurezza che quel giorno non aveva mai avuto davvero – vulnerabile come non succedeva ormai da tempo. Si sentiva in trappola, bloccato al centro di un enorme lago ghiacciato, diviso tra la necessità di restare fermo – e misurare ogni respiro, parola, sguardo o movimento – e l’imprudente istinto di scappare via; aveva provato ad avanzare, il mercenario, ma ogni passo era stato accompagnato dal rumore sordo delle crepe ramificatesi sotto i suoi piedi, su quella lastra sottile che, temeva, non sarebbe stata in grado di reggere ulteriormente il suo peso. Aveva riflettuto poco e poi troppo a lungo, perdendosi in quel groviglio di ipotesi, paure ed elucubrazioni che la sua mente continuava a produrre.
    «Se vuoi uccidermi per mantenere al sicuro il tuo segreto, fa pure.»
    Corrugò leggermente la fronte e si sforzò di non lasciar trapelare quanto quell'affermazione lo avesse lasciato interdetto. C’erano volute quelle parole per spazzare via ogni altro pensiero o stato d'animo; c’era voluto del tempo per far scoppiare la bolla in cui l’Huxley era abituato a vivere e sentirsi protetto, confortato dalle immagini distorte restituite da quella spessa membrana. Fino a quel momento, non aveva fatto altro che attribuire ogni colpa a Margaret, nascondendosi dietro scuse grandi quanto un dito e preferendo dipingersi come vittima di un gioco cui lui stesso aveva dato inizio. E aveva ignorato il resto. Aveva ignorato gli appigli che gli erano stati offerti mentre era troppo impegnato nella ricerca di un percorso sicuro. Aveva ignorato l’eventualità che lei non avesse tentato di minare quelle fondamenta per il semplice gusto di vederlo affondare; che non si trovasse sulla sponda più lontana di quel fantomatico lago, ma che fosse lì accanto. Che avesse scelto di trovarsi lì.
    «Se vuoi uccidermi, fa pure.»
    Non gli era sfuggito il cambiamento nel suo tono di voce – privo di ogni traccia di scherno o spavalderia – né che avesse abbassato lo sguardo poco prima di rivelare i mezzi utilizzati per proteggere se stessa e chi le stava attorno. Aveva notato ogni piccolo tentennamento chiedendosi, di volta in volta, se non si trattasse di trucchi cui qualsiasi attore avrebbe potuto attingere – dei bluff, per vincere la partita. Ma quella richiesta andava ben oltre; era l'all-in che aveva appena cambiato la posta in palio.
    Con lentezza si sporse in avanti, allungò le braccia in direzione della donna, fino ad incorniciarne il viso tra le mani, e si limitò a guardarla negli occhi – soltanto il silenzio e i loro pensieri a colmare la breve distanza rimasta.
    Non si fidava di lei, Elwyn, aveva imparato a non farlo di nessuno – tradito da quella figura che avrebbe dovuto proteggerlo e che, invece, gli aveva tolto ogni certezza. Aveva imparato a sue spese quanto le parole potessero essere vuote e i gesti studiati, calcolati, ripetuti fino a sembrare spontanei; aveva imparato a fingere a sua volta e a riconoscere le crepe nelle maschere altrui, quei cambiamenti repentini e apparentemente impercettibili, quelle reazioni involontarie in grado di rivelare più di quanto non si volesse lasciar intendere. Osservò dunque la donna, sondando le iridi alla ricerca della stessa rassegnazione di cui erano intrise le sue parole o di quel lecito terrore legato all’aver affidato la propria vita ad uno sconosciuto.
    «Non sono abituato a questo genere di richiesta esordì, scegliendo con cura l’ultima parola. Perché l’esternazione della Piper non era che quello – diametralmente opposta rispetto a quelle suppliche volte a far leva sulla coscienza del mercenario, a quei disperati tentativi di evitare un finale già scritto. Era la placida constatazione di ciò che Elwyn Huxley era diventato e di ciò avrebbe potuto compiere – di ciò che Margaret voleva compiesse. Non avrebbe dovuto esserne sorpreso – dopotutto «Pensi che sia disposto a qualunque cosa – ma non avrebbe saputo dire se quell’affermazione lo avesse scalfito più di quanto sarebbe stato disposto ad ammettere o se costituisse una sorta di liberazione; se lo avesse portato a convincersi che quella del mercenario non fosse più una maschera oltre la quale scorgere qualcosa o se fosse semplicemente grato di non dover più fingere – almeno per una volta. «Pensi che mi basti metterti le mani al collo e che tutto finisca lì? Per te, certo.» proseguì, mentre continuava a domandarsi se si trattasse del pericoloso azzardo di una giocatrice sensazionale o se fosse la disperata resa di quella che, in fin dei conti, non era che una ragazza cresciuta troppo in fretta. Non riusciva a credere che la Piper fosse disposta a rinunciare alla sua vita senza battere ciglio, sebbene l’Huxley non si considerasse così ingenuo da pensare che la quotidianità dell'ex-serpeverde fosse scintillante come i lustrini che ne ricoprivano il corpo, né così idealista da convincersi che fosse sufficiente votare la propria esistenza ad uno scopo più grande per avere qualcosa per cui valesse la pena andare avanti. Sapeva cosa volesse dire svegliarsi senza alcun obiettivo. O farlo da solo, con la persona per cui si provava maggior disgusto. Sapeva cosa significasse non avere nulla da perdere, eppure, nonostante tutto, non si sarebbe mai spinto così oltre. Non si era mai spinto oltre, quel giorno – sempre una parola in meno, sempre un gesto trattenuto, sempre e solo freni, paure, sospetti inutili. Fino a quel momento. «Conviverci è la parte più difficile.» aggiunse, lasciandosi andare a quell’esternazione che per l’ex-serpeverde non sarebbe stata altro che la naturale conclusione delle sue congetture, ma che per il mercenario aveva un peso del tutto differente. Era un’ammissione di colpa, la prima dopo anni di silenzio. Era una confessione senza attenuanti di sorta – almeno, non consapevolmente. Era un egoistico tentativo di alleggerirsi di quel segreto opprimente e, insieme, il frutto della contorta convinzione di doverle quella conferma, di doverle dare l’opportunità di tirarsi indietro e abbandonare quel gioco al massacro che avevano scelto di intraprendere.
    Attese qualche istante – il battito accelerato e i pensieri proiettati verso angoli oscuri della sua mente – e proseguì. «In ogni caso, non ho alcuna intenzione di ucciderti. E sarei curioso di sapere perché collaborare con qualcuno che non si è dimostrato all’altezza.» e, nel domandarlo, tentò di ignorare quella voce che gli ripeteva di non illudersi che la donna avesse scelto di lavorare con Elwyn Huxley, ma che avesse indirizzato la proposta a quel mercenario senza scrupoli che si era convinta di conoscere, a quello strumento sacrificabile e talmente versatile da poter ricoprire qualsiasi ruolo. Allontanò le mani dal suo viso senza prenderne però le distanze, rinunciando al vantaggio che gli era stato offerto e lasciandole la possibilità di condurre nuovamente i giochi. «So che non hai versato nulla.» più precisamente, sapeva che la proprietaria del Lilum non aveva alterato il contenuto della bottiglia di whiskey davanti ai suoi occhi – dal momento che ogni operazione era stata svolta di fronte ad uno specchio –, ma non aveva tutte le certezze che avrebbe dovuto pretendere da se stesso prima di appoggiare le labbra su quel bicchiere. «Volevi avvelenarmi in modo diverso.» accennò un sorriso, dopo qualche istante di silenzio – dopo un’intera conversazione in cui non aveva visto niente di diverso da ciò che aveva voluto vedere. Aveva impiegato una quantità spropositata di tempo per giungere a quella conclusione, per capire che, nonostante i mezzi differenti, l’obiettivo di entrambi era sempre stato lo stesso; che l’ex-serpeverde non aveva fatto altro che provocare, con l’odio, ciò che il mercenario aveva tentato di scorgere con la paura, ciò che facevano fatica a vedere negli altri e ciò che per primi non erano più abituati a mostrare: una reazione sincera. «Per vedere. Eppure, non mi disprezzi come dovresti.» continuò, con un tono calmo che lasciava trasparire una nota di sorpresa. Non voleva ascoltare frasi di circostanza, sentirsi dire che la comunità magica era corrotta fino al midollo e che ognuno doveva sopravvivere con i mezzi a propria disposizione – erano ragionamenti già fatti, scuse masticate e sputate via. Non avrebbe accettato neppure banalità come il non potersi concedere il lusso di giudicare; perché non era vero. Perché il peso dei loro errori non era relativo a quello degli altri. Perché i loro lavori potevano essere simili – potevano condividere segreti e ricatti, annullarsi per il raggiungimento della soddisfazione altrui, calpestare il concetto di moralità –, ma non lo erano fino in fondo. Elwyn era e rimaneva un assassino e se non era degno di disprezzo, «Qual è il limite allora?» qual era quel confine che avrebbe dovuto superare per essere visto come meritava? Qual’era la linea oltre la quale si sarebbe acceso l’odio della donna?
    Si mise in piedi, si voltò verso il boudoir per raccogliere le sue cose e dopo qualche istante proseguì, riprendendo l’ultima domanda dell’ex-serpeverde. «Non è equo,» perché rivelare informazioni sull’altra persona – privarla dei propri segreti e lasciarla lì, nuda, a gestirne le conseguenze – non poteva essere in nessun modo paragonabile all’avere la possibilità di scegliere di condividerle. Ma «è più di quanto pensassi.» ammise, voltandosi nuovamente verso di lei. Perché se ad Elwyn era stata rimossa una maschera, Margaret aveva deciso di abbandonarle tutte. E poco importava che ciò che aveva raccontato sul suo lavoro non fosse una sorpresa, che le rivelazioni sui compromessi, sui segreti, sulle ombre e sul marcio non avessero fatto altro che confermare la visione che il mercenario aveva degli esseri umani, della società e di mestieri come quelli che avevano scelto. Contavano i fatti, non le parole. E che fosse andata oltre, al punto da spingere l'ex-corvonero a chiedersi se non fosse fin troppo da processare, se non fosse quello il momento giusto per andare via. «Potrei provarci anch’io. A patto che nessuno special usi il suo potere su di me.»
     
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    In quel gioco tra le maschere – perché di questo si trattava – potevano esserci delle strategie simili e speculari, potevano esserci dei punti di contatto e nessuna esclusione di colpi quando si trattava di usare quelle armi di cui si servivano abilmente, potevano non esserci né vincitori né vinti fino a quando non si fosse scorto oltre il velo che copriva i loro volti, nascondendoli dal resto del mondo. Anzi, nessuno dei due avrebbe potuto dire di aver vinto neanche qualora avesse colpito l’avversario – o presunto tale - lì dove nessun altro fendente era mai arrivato, oltre quell’armatura fatta di bugie raccontate così bene da diventare la loro verità, il loro unico credo.
    Erano bugiardi, sì, ma così onesti e leali a sé stessi che mostrarsi per ciò che erano veramente faceva paura. Non per cosa l’altro avrebbe visto, ma per quello che avrebbero visto di sé stessi nello sguardo di chi avevano davanti. Eppure, se quella conclusione poteva essere uguale per entrambi, ovvero che le loro scelte li avrebbero inesorabilmente portati al totale annichilimento della propria persona – o di ciò che restava –, c’era una profonda differenza tra Elwyn e Svetlana: l’ex Corvonero aveva avuto il privilegio di sognare, seppur per una breve parentesi ormai lontana, poteva dire di aver immaginato un futuro, di sapere cosa significasse svegliarsi al mattino e sapere di star realizzando qualcosa. Qualunque cosa. Il maggiore conosceva il valore dell’avere un progetto, dell’avere una prospettiva che era stata una confortante certezza, un faro verso cui puntare la rotta e, insieme, il porto sicuro pronto ad accoglierlo durante la tempesta. Non Margaret. Lei in quella tempesta aveva vissuto per anni, senza il minimo appiglio, senza la più vaga idea di come si facesse a vivere una vita decente, tanto che la normalità era diventata altro.
    Non esiste un futuro quando ti ritrovi all’Inferius. Non esiste una prospettiva quando ormai neanche più il tuo corpo ti appartiene, quando anche la tua famiglia ti ha voltato le spalle non appena maggiorenne, preferendo saperti morta piuttosto che porgerti una mano. Esiste solo il presente e, in quel presente il tuo unico obiettivo è trovare un modo per sopravvivere. No, non vivere. Quella è una prerogativa che non appartiene a chi da tempo ha smesso di esistere, di provare anche la più piccola emozione, pur di proteggersi.
    Elwyn aveva distrutto il suo futuro non solo perché ne aveva uno, ma perché aveva una possibilità di scelta che a lei era stata preclusa.
    Certo, col tempo aveva iniziato a pianificare ogni sua azione per restare a galla, ma la lungimiranza di Svetlana era legata a un do ut des che non faceva sconti a nessuno. Tutto pur di non tornare a strisciare lì dove neanche il sole aveva il coraggio di illuminare le strade, dove gli uomini smettevano di essere tali e diventavano peggio delle bestie, dove venivano privati del loro orgoglio, della loro dignità, del loro essere umani. Lì dove la sua stessa anima, se ne avesse ancora avuta una, era stata stralciata, logorata, fatta a pezzi.
    Anche in quel presente che era riuscita pian piano a costruire, in quella finzione fatta di ricchezza e gioielli, di lusso e sregolatezza, di standard che prima non avrebbe mai immaginato di poter raggiungere, non volgeva mai gli occhi al domani, troppo ancorata alla fugacità di quel presente e al terrore di perdere da un momento all’altro ogni cosa. Se le avessero chiesto come si sarebbe vista tra dieci anni, l’unica risposta, la più onesta e sincera, sarebbe stata che non si sarebbe vista. Non il giorno seguente e benché meno dopo un lasso di tempo così lungo. Non poteva scegliere, né voleva farlo: perché perdere tempo illudendosi che un qualcosa prima o poi sarebbe avvenuto? Perché continuare ad alimentare delle aspettative che sarebbero inesorabilmente state disattese? Tutto ciò di cui era certa era che, una volta tornata a casa, una volta chiusasi le porte del mondo alle spalle, non restava altro che il vuoto di una vita priva di significato e la silenziosa desolazione della solitudine. Ed era proprio quel vuoto che le faceva più paura e che continuava a riempire con volti di cui non ricordava neanche il nome e che avrebbe dimenticato il giorno dopo. Presente, solo e soltanto il presente: ecco tutto quello che le restava, tutto quello che aveva e tutto quello che, forse, avrebbe avuto.
    E in quel presente, in quell’esatto momento, poteva finalmente vedere un punto. Il tanto agognato capolinea.
    Se fosse stata un’altra persona, se fosse stata anche solo una Maggie qualunque, avrebbe potuto sfruttare quel momento, quella vicinanza, per strappare un bacio al mercenario – suo personalissimo sicario in quell’occasione -; un’ultima provocazione o, più semplicemente, un ultimo gesto d’affetto, forse l’unico che avrebbe riservato all’Huxley e molto più di quanto lui non fosse disposto a concedere a lei. Avrebbe potuto premere le labbra contro quelle del maggiore e rubare un po’ più di tempo, un altro respiro, un altro vano ricordo che di lì a poco sarebbe svanito. Avrebbe potuto essere un regalo, il suo ultimo lascito, quel ringraziamento che non sarebbe stata in grado di dire a parole e che, forse sarebbe stato paragonabile a una tregua.
    Ma non era Maggie, appunto, e neanche Svetlana. Non avrebbe poggiato una mano su quella che le cingeva il volto, non avrebbe assecondato, aiutato, impedito all’uomo di compiere quell’unico gesto che si aspettava facesse. Uno scatto. Un solo e semplice scatto con la giusta forza e lei avrebbe smesso di soffrire. Eppure, se le sue dita avessero sfiorato quelle più grandi, così calde e inaspettatamente morbide sulla sua pelle, avrebbe rischiato di essere fraintesa, che quel movimento leggero altro non fosse che la supplica di chi aveva cambiato idea, di chi non aveva più intenzione di morire, troppo spaventata per compiere quel gesto.
    Non era Maggie, non era Svetlana, non era Margaret. Non c’era odio nei suoi occhi così naturalmente freddi, non c’era traccia di ghiaccio in quello sguardo perennemente pungente e glaciale. Non c’era risentimento. Non c’era nulla che potesse lasciar credere all’uomo che gliene stesse facendo una colpa, né che quella richiesta era solo l’atto finale di una tragedia messa a punto con il solo scopo di perseguitarlo.
    Se non era nessuna delle sue tre maschere, allora chi era? La verità? Non lo sapeva neanche lei. Voleva solo andarsene con dignità, con la consapevolezza di averlo fatto a testa alta, senza abbassare lo sguardo, senza aver avuto tentennamenti. Accettava quel destino perché era stata lei stessa a chiederlo, era stata lei stessa a bramarlo, a desiderarlo. Nonostante quell’unica lacrima sfuggita al suo controllo, quell’unico dettaglio che dimostrava quando ancora fosse inesorabilmente attaccata alla vita, pur non avendo prospettive, pur non avendo alternative, pur non avendo qualcuno da cui tornare.
    Era complicato reggere lo sguardo del mercenario, priva di quelle protezioni e di quelle barriere che aveva eretto negli anni, consapevole che essere se stessa sarebbe stato l’unico scambio che l’altro avrebbe potuto accettare per quella richiesta così insolita. E proprio perché aveva idea di quanto fosse difficile conviverci avrebbe pagato quel prezzo così alto. Proprio perché sapeva cosa si provasse ad avere le mani sporche di sangue e a fingere di andare avanti come se niente fosse, confidava che l’uomo potesse riuscirci meglio di lei, che fosse in grado di raccontarsi una bugia migliore, che fosse in grado di dimenticare.
    Non rispose alle parole dell’ex Corvonero, perché avrebbe dovuto? Per esporsi ancora di più? Non credeva in Dio, nell’espiazione dei peccati e benché meno nell’Uomo e nella sua salvezza, perché iniziare a farlo in quel momento?
    Se fosse stata un po’ più attenta, se avesse dato il giusto peso alle parole del mercenario, avrebbe capito quanto quelle fossero importanti. E ci sarebbe arrivata col tempo, rivivendo quella scena ancora e ancora nella propria testa, giungendo alla conclusione che Elwyn, facendo scivolare via le mani dal suo viso, non aveva salvato soltanto lei, ma aveva salvato anche se stesso. Non era in grado di dire come, non era in grado di spiegarne il perché, ma quella sensazione non l’avrebbe abbandonata per tanto, tanto tempo.
    Eppure, in quel momento, non riuscì a nascondere la sorpresa nel vederlo allontanarsi, non riuscì a non riempire i polmoni di aria con quella gratitudine che l’aveva colta impreparata. No, non per non aver assecondato la sua richiesta, quanto per averle dato una seconda opportunità, un’altra, tacita, occasione per riavvolgere il nastro e ricominciare.
    “Perché hai dato valore alla mia vita.” Non riconobbe la voce con cui pronunciò quelle parole, quel tono sottile che non ricordava le appartenesse più, scevro di ogni rigidità, di ogni pregiudizio, di ogni paletto che l’aveva sempre limitata nelle interazioni con gli altri. “Più di quanto non abbia mai fatto io” e più di quanto non abbia fatto chiunque altro . Concluse portandosi una mano sul volto, nascondendolo agli occhi del suo interlocutore per impedirgli di leggere oltre il significato di quelle parole.
    Tirò un lungo sospiro, prima di ricomporsi e di tentare di allontanare quell’alone di vulnerabilità che sentiva ancora addosso e a cui non era abituata. “Non è sinonimo di fiducia reciproca, indubbiamente, però potrebbe essere un inizio.” Un inizio di qualsiasi cosa: collaborazione, odio, amicizia. Stava a loro scegliere da che parte andare, un passo alla volta. Non gli avrebbe promesso di non provocarlo - quello lo avrebbe sempre fatto così come avrebbe sottolineato ogni suo passo falso - ma di rispettarlo, quello sì. Così come Elwyn aveva appena fatto con lei, dandole anche modo di vedere che tipo di uomo fosse davvero. Chi fosse davvero.
    “Non lo so.” Rispose portandosi un dito alla tempia pensierosa un leggero sorriso a illuminarle nuovamente, ripercorrendo quella serata a ritroso, rendendosi conto che forse era lei quella che non aveva un limite o che non si sarebbe fatta scrupoli. Quella che avrebbe chiesto all’Huxley di farle da coscienza qualora servisse quel briciolo di umanità in più che aveva lasciato nel suo passato. “Tuttavia, fossi in te, non vorrei mai scoprirlo.” Non perché fosse una minaccia, sia ben chiaro, ma perché realmente non aveva idea del punto in cui si sarebbe spinta qualora si fosse stati in grado di ferirla e dilaniarla fino al punto di non ritorno.
    Lo osservò tornare alle sue cose, soffermandosi qualche istante in più sui lineamenti dell’uomo, sui suoi gesti, studiandolo per la prima volta con occhi diversi e domandandosi quanto ancora sarebbe durata quella tregua, se una volta andati via da quella stanza avrebbero ripreso come se niente fosse, come se nulla fosse mai successo.
    Arrivò a chiedersi se sarebbe stata in grado di mostrarsi nuovamente a lui o se quello fosse stato un mero errore di calcolo, se l’ex Corvonero l’avesse risparmiata solo per torturarla ancora un po’ o se lo avesse fatto per un secondo fine.
    Aveva bisogno di tempo per pensare con lucidità e non poteva farlo se la fonte dei suoi dubbi era ancora lì davanti a lei. Perché sarebbe bastato un solo sguardo sincero a metterla nuovamente davanti a un bivio, davanti alla possibilità di fidarsi o meno. Di avere ancora un domani a disposizione e non soltanto quell’attimo in cui viveva. Di avere davvero un’altra occasione per smettere, finalmente, di sopravvivere.
    Sollevò lo sguardo quando Elwyn ricominciò a parlare, incapace di trattenere una smorfia rassegnata davanti a quella proposta. “Finalmente inizio a capire perché Corvonero.” Si alzò dalla poltrona per arrivare alla sua altezza, per guardarlo da pari. “Nessun potere su di te, ma nessuna finzione. Nessuna maschera. Nessuna bugia.” Allungò la mano verso l’Huxley, quasi a suggellare il patto. Non era un voto infrangibile, ma era tutto quello che potevano offrirsi e in quella stretta c’era anche tutto quello che erano disposti a perdere.
    “Ti lascio finire di sistemare e… mi farò sentire.” Controllò l’orologio che aveva al polso e, solo in quel momento, si rese conto che il Lilum sarebbe potuto anche andare a fuoco nel mentre e lei non si sarebbe accorta di nulla. Stava per aprire la porta e andar via quando si fermò per qualche istante, le dita ferme sulla maniglia, incapaci di abbassarla. Non aveva idea se fosse il caso di dirlo o meno ma, alla fine, bisognava iniziare dalle piccole cose. O almeno così pensava.
    “Non ti disprezzo, Elwyn, ma mi diverte molto fartelo credere e, soprattutto, darti fastidio.”
    Si voltò brevemente per guardare la reazione sul suo viso, prima di chiudersi la porta alle spalle e materializzarsi nel cuore del Lilum, lì dove il lavoro l’avrebbe impegnata e l’avrebbe distratta fino a quando non fosse stata pronta a rielaborare e rivivere il tutto.
    Margaret "Maggie" Piper | Svetlana
    Former Slytherin
    14.02.96 | 22 Y.O.
    L i l u m

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