beer and bruises

tate x morpheus

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  1. #scopettaro
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    tate spudmore
    Quel posto puzzava di marcio. Sudicio, buio, costellato di macchie sul soffitto provocate da chissà quale infiltrazione. Grandi finestre rettangolari circondavano la sala, una di fianco l’altra nella fascia superiore delle pareti, lasciando il sole del tardo pomeriggio affacciarsi a spiare la situazione. Al centro, un grande ring con qualche buco in mezzo, rattoppato alla bell’e meglio con quadrati di pelle corvina, su di esso una coppia di pugili che pendevano dall’insultare le proprie madri a darsene di santa ragione. Ad una delle due estremità della palestra vi era una piccola area dedicata alla preparazione atletica: qualche corda per saltare, materassini per fare addominali, pesi da sollevare e cubi su cui poter saltare. Tate, dall’angolo opposto della palestra, prendeva a pugni un sacco, noncurante delle urla – di dolore così come di incitamento – dei compari atleti. Aveva passato la mattinata al quartier generale, a sfogliare l’ennesima valanga di inutili fascicoli idolatranti il corrente regime. Non erano andati molto avanti con le scoperte, nell’ultima settimana, il che lo aveva messo parecchio giù di morale. Quindi prima di pranzo aveva deciso di timbrare il cartellino decisamente in anticipo, dicendo anche agli altri di fare lo stesso: serviva per il morale dell’intera squadra. Erano cinque giorni che non facevano altro che consultare articoli, cercare collegamenti, soluzioni, indizi, ma niente. Non avevano trovato nulla, se non uno stato di comuna disperazione e depressione. Spudmore li poteva osservare, chini e con le mani fra i capelli, o a massaggiarsi le tempie, mentre sprofondavano dietro montagne di tomi e vecchie edizioni di giornali. Li guardava bere un caffè dietro l’altro, nel tentativo di trovare la concentrazione necessaria, ma inevitabilmente finivano per accasciarsi nei loro cubicoli. Se non gli avesse concesso una pausa, sarebbe andato avanti così per ancora molto. E poi diciamocelo, anche a Tate l’idea di prendersi un pomeriggio lontano da caratteri size 8 e spaziati 0,5 non appariva così malvagia. Sarebbero tutti tornati il mattino seguente, più svegli e meno depressi.
    Troppo pigro per cucinare, così come per andare a fare la spesa, passò a casa Spudmore per scroccare il pranzo. Salutò la madre lasciandole un bacio sulla fronte, un cenno con il capo in direzione di Terence, e un rullo di pugni sulla schiena di Thomas. Da un lato gli mancava vivere con la sua famiglia. I pasti caldi, l’accoglienza ad ogni ingresso, l’appoggio altrui nei momenti più bui, Tate aveva rinunciato a tutto ciò non appena aveva deciso di diventare un adulto, e più andava avanti più si rendeva conto di quanto gli sarebbe piaciuto restare lì ancora un po’. Dio, lui la lavatrice non la sapeva fare, e odiava lavare i piatti. Per non parlare del piegare i vestiti, rifare il letto, fare la spesa. La dispensa straripava di saikebon e pacchi di pasta, in frigo vi era solo il latte, ed i fornelli erano quasi sempre immacolati. Non a caso il microonde era l’aggeggio più utilizzato in tutto l’appartamento. “Ti vedu nu pocu sciupat’ ammamm” La donna gli aveva scompigliato i capelli in modo affettuoso, carezzandogli la guancia per poi afferrargli il mento e girargli il volto, prima a destra poi a sinistra, per controllo se avesse qualche evidente problema. Il mangiare poco– e male -, l’elevata attività fisica e lo stress accumulato al quartier generale lo stavano inevitabilmente abbattendo. Era stanco, Tate. Incastrato nella routine come fosse una gabbia, chiuso dentro e privo di chiave. Non distingueva neppure più i giorni, era sabato? O era un martedì? Si era liberato del commento della madre con una scrollata di spalle, afferrando piatti e bicchieri per cominciare ad apparecchiare la tavola. Era affamato, e l’odore di pasticcio di pollo (#cheschifostiinglesi) lo stava torturando.


    Un pugno dietro l’altro, secco, rapido, poi si spostava, saltellava, si accovacciava fingendo che il sacco fosse un avversario. Le gocce di sudore scivolavano silenziose, lungo la fronte, dietro il collo, lungo i bicipiti sotto sforzo. Senza musica quel giorno, voleva sentire il suo corpo, e le note prepotenti che erano solite fargli compagnia lo avrebbero solamente distratto. Stava sfogando quella sensazione di responsabilità e pesantezza, quel suo sentirsi ridotto ad un essere, indeterminato, tanto per, che se ci fosse o meno avrebbe fatto alcuna differenza. Era entrato in una crisi esistenzialistica nel varco di poche ore, immedesimandosi in Sartre e detestando chiunque avesse intorno, perché dovevano esistere? Perché lui doveva esistere? Quindi Tate aveva accumulato odio in tutta quella giornata, odio nei confronti di quelle persone che non capivano cosa stesse succedendo proprio sotto i loro nasi, odio perché ignoravano il problema, non andavano alla radice, vivevano e basta, in silenzio. Pensava a Kierkegaard, e a quanto si sentisse vicino a lui in quel momento, a come facesse dannatamente schifo non essere compreso, sapere che gli altri non sapessero, ma non poter far nulla per aprirgli gli occhi. Un altro pugno, più arrabbiato, poi si fermò. Respirò profondamente, asciugando il sudore della fronte con le braccia scoperte. Un senso di leggerezza cresceva e mangiava via quello di rabbia, mentre Tate abbracciava il sacco nero così da fermarlo. Non vi era un orologio nella palestra, perciò gli era impossibile capire da quanto tempo fosse lì dentro. Sapeva di essere entrato verso le cinque del pomeriggio, dopo aver procrastinato a casa Spudmore per qualche ora, probabilmente si era addormentato, poi era passato al volo al suo appartamento per prendere il cambio, dare da mangiare ad Argo ed uscire ancora una volta. Non ci si accorge del passare del tempo quando ci si diverte, meh? Una volta che si convinse di non poter rimanere rinchiuso lì dentro ancora per molto - insomma, sarebbe morto, il suo corpo chiedeva venia -, si diresse verso lo spogliatoio. Dopo una doccia lampo (#tate usa il sapone pls) appallottolò i vestiti sudati all'interno dello zaino grigio, indossando quelli puliti e fiondandosi fuori dalla palestra, alla mercè di una serata autonnale che avrebbe volentieri passato in solitudine, coccolato un po' dalla birra, un po' dalle attenzioni dell'amico Argo.
    i would love to
    but my dog said no
     
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