The things we hide

Perses × Charles

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    D’accordo, forse poteva anche prendere atto del fatto che mettersi a fare jogging con la sua bella tuta invernale nel bel mezzo di Ottobre, in una giornata in cui il cielo non prometteva un bel tempo, non era stata la scelta più azzeccata. Fin lì ci siamo. Poteva anche capire che, se Theia lo avesse visto in quello stato, a correre sotto la pioggia, non gliel’avrebbe fatta passare liscia per nulla al mondo, ma fortunatamente lei non lo sapeva e sperava non l’avesse mai saputo o i suoi giorni da uomo libero sarebbero finiti. E al posto di una sorella si sarebbe ritrovato una badante. Ah, maledizione, era probabile lei l’avesse già immaginato: solo mezz’ora prima, lei si era messa a fare l’ansiosa e urlargli contro di non fare il cogl- lo scemo e avventurarsi fuori dal castello con quel tempaccio. Alla ramanzina, lui aveva risposto con un lento sorrisetto tra il perplesso e un “Oookay...” e si era subito girato col suo caro termos in mano, scappando da Sua Escandescenza.
    Quello che Perses non aveva preventivato, era di essere così sfigato da trovarsi proprio nella zona dell’Avis lontana da qualsiasi gazebo dei tanti sparsi per il parco. La solita fortuna. Quando aveva sentito le prime gocce di pioggia bagnargli i capelli il Serpeverde se l’era presa comoda, pensando che tanto c’erano i gazebi; invece, quando si rifugiò sotto il primo di questi ultimi capitatogli a tiro, era zuppo dalla testa ai piedi. Pers emise un sospiro secco e si sedette sulla panchina del tavolino, tirando fuori dalla tasca il termos per sistemarlo accanto a lui. «Ah, cavolo.» Si passò le mani tra i capelli nel tentativo di togliersi l’eccesso d’acqua. Probabilmente l’unico effetto che ottenne fu la cosiddetta acconciatura a leccata di mucca, ma tutto sommato gli andava bene così: magari la mattina dopo si sarebbe svegliato con un bel malanno, però esistevano dei rimedi e non era stato uno di quei tipi che avevano paura di prendere anche solo un banale raffreddore.
    Perses possedeva quell’anima tenebrosa (???) che lo rendeva affine più alle giornate di pioggia che a quelle soleggiate. Gli piacevano il cielo cupo, il suono della pioggia e il profumo di terra bagnata, l’eco dei tuoni, il saettare dei fulmini, l’ululare del vento e il fruscio delle chiome degli alberi. Gli piacevano le notti di anni fa, in cui Theia sgattaiolava nel suo letto e appoggiava la testa sul suo petto, mentre insieme ascoltavano l’imperversare di un temporale cui entrambi avrebbero assistito affascinati, quindi perché non farlo insieme? Aveva sempre vissuto nella sua visione oscura, nella tendenza al pessimismo che gli faceva vedere le cose nei toni del grigio o del nero, e per il bianco non c’era spazio.
    Si sentiva a casa nel buio, nella solitaria quiete dove albergava la certezza che il tiepido calore della luce del sole era temporaneo e non eterno. Libero di tenere d’occhio ciò che lo circondava, poggiò i gomiti sul tavolo e lasciò che la mente vagasse, concentrato sul ritmo della pioggia scrosciante che iniziò inconsciamente a imitare picchiettando il dito su un braccio. Non comprendeva come alcune persone detestassero la pioggia, quando su di lui aveva il potere di rilassarlo completamente. Doveva essere questione di caratteri, rifletté; poi stroncò sul nascere la propria teoria nel valutare che sua sorella era una delle persone più solari che conoscesse e, da quel punto di vista, era davvero simile a lui. Gli piaceva trattenersi in considerazioni simili e, del resto, nella sua mente c’era molta più loquacità di quanto la bocca non dimostrasse. Si aveva l’abitudine di credere che gli individui taciturni non avessero nulla da dire e non gli importasse di niente, nonostante fosse l’esatto contrario.
    “Theia è la mia gemella, non è uno strumento di misura attendibile.” Le sue labbra si piegarono in un accenno di sorriso, perché era vero: certe volte la condivisione di stati d’animo e pensieri andavano oltre la loro stessa comprensione, ed era bello che riuscissero ancora a stupirsi dopo una vita intera passata assieme. Quello con Theia sarebbe stato l’unico legame che non si sarebbe mai spezzato, nemmeno se avessero voluto, ed era una certezza che si portavano addietro. Pers era sicuro che per la sua bionda sorellina fosse lo stesso. Girò il polso destro verso l’alto per focalizzarsi sul piccolo fiocco di neve nero che spiccava sulla pelle chiara propriamente detta tintarella fantasmino.
    Sì, Theia decisamente non era da considerare, era troppo simile a lui per seguire delle basi pseudo logico scientifiche ma wat. Gli avrebbe fatto comodo qualcun altro da prendere in considerazione, qualcuno che non fosse influenzato da un rapporto stretto con lui, da analizzare tacitamente. Lui stesso si accorgeva che era talmente entrato in un’ottica il più possibile distaccata che non riusciva a discostarsene neppure quando ne aveva l’intenzione ma, se questo un po’ preoccupava la sorella, non preoccupava lui, che credeva ne avrebbe tratto soltanto benefici. Di sicuro non veniva considerato uno stronzo perché ci teneva ad avere un rapporto empatico con gli altri.
    Si domandò quanto sarebbe durata la situazione: sbirciando le nubi scure oltre il gazebo, ritenne non sarebbe stata questione di dieci minuti.

    Perses Sinclair | 16 y.o. | sheet
    Pureblood
    12/10/18 | H: 16:30 a.m.
    Metamorphomagus
     
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    «mi irrita.»
    «lo hai già detto.»
    «da morire.»
    «da morire.»
    «flûte!»
    «non ti capisco.»
    «questo era evidente.»
    Chiuse con un tonfo il libro di Cura delle Creature Magiche, lanciando poi un'occhiataccia al suo compagno di stanza. Per Salazar, non si considerava un tipo particolarmente petulante lo era o fastidioso anche quello, possibile che per /una/ sola volta innumerevoli che avesse bisogno di lamentarsi con qualcuno questi si dimostrasse tanto insensibile ai suoi sfoghi? Jonas era, a suo parere, la persona meno empatica dell'universo. Insomma, doveva ritenersi fortunato ad avere un coinquilino come lui, ordinato e piuttosto rispettoso degli spazi altrui. Neanche quando portava qualcuno in stanza o tornava dopo una serata particolarmente distruttiva si era mai comportato in maniera più molesta del dovuto. E Jonas, dannato Serpeverde indegno della sua Casata, se ne stava lì a poltrire sul suo letto e a mancare di rispetto al suo povero animo frustrato. Sconfitto ed oramai rassegnato, Charles si alzò in piedi con un sonoro sbuffo, prendendo poi a camminare su e giù per la stanza con fare irrequieto. «senti, man» calcò Jonas su quell'ultima parola, un leggero sorriso di scherno sulle labbra poiché ben conscio di chi altro usasse quell'appellativo. Piccolo stupido stronzetto. Charles non lo degnò nemmeno di uno sguardo certo che, se l'avesse visto in faccia, probabilmente gli avrebbe spaccato il naso. «perché non vai a rilassarti un po', mh? magari inviti anche quel tipo, il grifondoro che avevi adocchiato l'altra volta... o forse no. forse è meglio se lasci stare il pinnacolo per un po', vero? insomma, anche qualcuna—»
    «ho afferrato il concetto jonas e, no, non ho bisogno di questo tipo di svaghi io.»

    Tante cose si potevano dire su Jonas, meno che non conoscesse ormai il Dumont come le proprie tasche. A ragione, era impossibile che uno come Charles non si rivelasse totalmente prevedibile dopo averci vissuto insieme per anni, considerando poi che le sue reazioni alle emozioni intense si limitavano ad un range di opzioni piuttosto ridotto: bere per dimenticare, fumare per dimenticare, lamentarsi per dimenticare, portarsi qualcuno a letto per dimenticare. Ed ecco, scommettendo su quell'ultima opzione, Jonas non avrebbe perso in quella precisa circostanza. Ebbene sì, alla fine aveva ceduto Charles, perché aveva capito che restare nella sua stanza a rimuginare avrebbe potuto condurlo soltanto alla pazzia e non aveva abbastanza monete per permettersi di annegare nei suoi vizi, così — così eccolo, aveva mandato un messaggio al suddetto grifondoro e gli aveva chiesto di incontrarsi nel parco di Diagon Alley. E dunque eccolo, nel luogo dell'appuntamento con una manciata di minuti d'anticipo, le mani in tasca per scaldarsi un po' dal vento secco che aveva cominciato a tirare da quelle parti. Era stata una pessima idea, ne era sempre più convinto.
    Il fatto era quello: poco paziente lo era sempre stato, e non era certo inusuale che s'innervosisse in quel modo, ma ogni volta aveva l'impressione di star peggio della volta precedente. Ultimamente, poi, il motivo della sua rabbia girava sempre attorno allo stesso nome: Iden Kaufman. In quella precisa occasione, per esempio, a spazientirlo era l'idea che, sebbene lui avesse fatto in modo di lasciargli un segno chiaro ed inequivocabile, questi avesse comunque continuato ad ignorarlo. Che Ventimiglia non avesse svolto il suo lavoro d'intermediario? No, si trattava senza dubbio di quell'orgoglioso del corvonero, che traeva piacere dal lasciarlo in balia del dubbio. Dubbio, per altro, che si faceva più intenso col passare dei giorni ed ancora più prorompente, ora, nella stressante attesa del grifondoro. Ma chi glielo faceva fare? Quel tipo non gli interessava neanche.
    Cominciando a ponderare l'idea di andarsene, il boato di un tuono poco distante e l'umido tocco di un paio di gocce sulla sua pelle decisero infine per lui: si calcò il cappuccio sulla testa e cercò con lo sguardo il gazebo dell'Avis per potersi riparare dalla pioggia. Come se quella pessima giornata non lo avesse già vessato abbastanza, quello che era iniziato come un leggero acquazzone passò immediatamente ad un consistente temporale, impedendogli di giungere al riparo asciutto come aveva sperato.
    «mon dieu» imprecò una volta arrivato al gazebo, togliendosi il cappuccio e scuotendo leggermente la testa per liberarsi delle gocce fra i capelli. Nel farlo, colse una figura familiare affianco a sé con la coda dell'occhio. «perses?» si passò una mano sulla fronte per scostare le ciocche rimastevi incollate e si voltò verso il compagno di casata, squadrandolo da capo a piedi con fare perplesso. «ma... sul serio? jogging all'aperto con questo tempo?» certo, non è che lui avesse fatto di meglio invitando il povero grifondoro nel peggiore momento possibile, ma ovviamente preferiva non far caso a questo genere di sottigliezze. «dimmi che almeno hai una sigaretta: salveresti una vita e ti assicureresti un posto in paradiso.» scroccone come sempre? Fino alla fine. «metterei una buona parola io per te, ma temo di essermi giocato l'ingresso un po' di tempo fa.»
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    Perses non era uno di quelli che affermavano di amare la solitudine e che poi lo rimpiangevano e desideravano qualcuno a far loro compagnia: per lui non c’era cosa più bella del tempo speso a concentrarsi sul proprio silenzio, su ciò che di sé emergeva quando anche l’ultima persona varcava la porta della stanza e non c’era motivo di stare sulla difensiva. Non lasciava che vi fosse qualcuno, nella stanza, nel momento in cui la linea delle spalle si rilassava, la rigidità del volto si scioglieva in un’espressione umana e non da manichino, e poteva deporre l’arma del sarcasmo per un po’. E seppur non abbattesse le mura che si erigeva attorno, perché quelle mura avevano la contraddittoria funzione di separarlo da se stesso, dalle riflessioni sospese che avrebbero fatto solo male, era quasi facile scorgere qualche emozione nelle iridi blu scuro.
    Per questo, ammorbidito dalla tranquillità che gli stava offrendo quel gazebo, fu con aperto fastidio misto a curiosità che assistette all’avvicinarsi di un ragazzo con la testa china verso il suo rifugio. La tranquillità era già finita? Pers afferrò il termos, svitandone il tappo che capovolse per farne un bicchiere, e vi versò del tè nero al limone, perché un Sinclair mica poteva bere tè da poracci #wat. Ostinato a ignorare il tipo, un’occhiata più approfondita gli fece tuttavia pensare che quest’ultimo gli risultava fin troppo familiare. Forse gli sarebbe anche rimasto il dubbio, cui avrebbe reagito con un’alzata di spalle e un distogliere lo sguardo, se alle sue orecchie non fosse arrivata un’esclamazione inconfondibile: prima di tutto, non c’erano molte persone che, in quanto a drama queens, usavano quelle due parole tanto quanto Charles; secondariamente, il suo tono scocciato era come la faccia meme il candido pallor della cute l’impassibilità di Perses. Inconfondibile.
    Il biondo, vedendo il pericolo che il suo tè venisse allungato, fece un piccolo cipiglio e portò una mano a coprire protettiva il contenuto del bicchiere da contaminazioni esterne. Ma dico io, che modi erano quelli? Avrebbe dovuto insegnargli un po’ di educazione e, data quella specie di confidenza che, volente o nolente, si era instaurata alla lunga tra lui e il francesino dei suoi stivali, se ne avesse avuto voglia non si sarebbe neanche fatto problemi a dirlo apertamente. «Perses?» «Ciuchino? Eh,» rispose soltanto, fissandolo con fare poco amichevole prima di mettersi, in perfetto stile Sinclair cui nessuno doveva guastare il proprio tè, a sorseggiare indifferente.
    Finì con tutta calma di bere il primo sorso, grato di essersi ricordato di portarlo e potersi riscaldare, fradicio com’era, almeno con quello. E insomma, poteva anche piantarla, Charles, di fare quella faccia perplessa manco fosse stato in mutande. «Già. Tu ti diverti a scrollarti come i cani con questo tempo?» gli domandò, alzando un sopracciglio chiaro in sua direzione. Erano in due a essere fradici, e non poteva non esprimere il suo disappunto per il rischio che aveva corso il suo termos. «No. Infatti i miei polmoni sono sani.» Lo so, la simpatia era il tratto caratteristico di Perses Sinclair, ma che volete farci, quando uno è spassoso come lui non si riesce a nasconderlo.
    Si passò una mano sulla nuca per scaldarsi quel punto, seppur il freddo lo avesse sempre sopportato bene, e guardando il suo concasato zuppo dalla testa ai piedi si rassegnò con un sospiro a finire il suo tè, e richiudere il termos spingendolo un po’ in avanti, a disposizione dell’altro se avesse voluto, ma fatto in un modo in cui l’offerta sembrasse involontaria. Di sicuro, se il Dumont avesse bevuto dal suo stesso tappo lo avrebbe lavato per bene. Non capiva come ci si potesse attaccare alla bottiglietta di un altro: essere amici non implicava condivere serenamente la propria saliva in tutti i sensi.
    Continuò a scrutare Charles, chiedendosi cosa effettivamente lui stesse combinando al parco da solo: non gli risultava fosse sua abitudine fare una passeggiata in quei dintorni, ma non aveva una conoscenza così tanto approfondita delle sue abitudini: avrebbe anche potuto sbagliarsi. Si riavviò i capelli, ricongiungendo le mani tra loro.
    «Il Paradiso. Ambizioso,» ironizzò, e non seppe nemmeno lui perché avesse pronunciato la prima frase con così tanto scetticismo. Probabilmente era troppo cinico per credere sulla bontà altrui, credere che un uomo potesse meritarsi il fantomatico Paradiso, qualsiasi forma avesse nell’eventualità in cui esistesse. In questo caso, Pers aveva conosciuto una sola persona così buona da spingerlo ad augurarsi lui si trovasse lassù, ed era morto troppo presto per essere davvero una ricompensa sufficiente.
    Come ogni volta che il ricordo di Corey si avvicinava alla parte cosciente di sé, Perses chiuse a chiave la porta dei propri divagamenti e sbatté le palpebre, concentrandosi su altro. Si schiarì la voce, lo sguardo lontano ma concentrato. «Giocato con la prima sigaretta o cosa?» Un quesito puramente sarcastico, uno di quelli con cui Charles si era scontrato fin dalla loro prima conoscenza ma cui non aveva mai fatto una piega. Ecco perché erano riusciti a instaurare un rapporto: Charles sopportava il suo mutismo e lui sopportava, o meglio faceva finta di non sentire, le sue scenate. «Allora? Volevi abbronzarti? Idea interessante.» E stette di nuovo in silenzio, alzando gli occhi a scrutare le nubi di pioggia a enfatizzare il concetto.




    Perses Sinclair | 16 y.o. | sheet
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    12/10/18 | H: 16:30 a.m.
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