'Oh, please. I am the victim here.'

Aaron x Hunter

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    Ormai non aveva più parole per descrivere i suoi sentimenti nei confronti della sfiga.
    Sembrava come se una forza a lui sconosciuta si fosse presa a cuore la sua vita, per rendergliela una vera, gigantesca, maleodorante merda. E non era solo un’esagerazione, perché davvero qualcosa proprio non andava.

    Nell’arco della mattinata aveva: rischiato di cadere dalle scale due volte; smarrito il suo libro di Trasfigurazione; Nox si era rifatto le unghie sul suo preziosissimo libro d’Incantesimi; perso una partita contro gli Hufflepuff e si era rotto il naso per colpa di un Cacciatore avversario. Poi, come se non bastasse, aveva chiesto a quest’ultimo la rivincita aggiungendo, alla posta in gioco, anche una stupidissima scommessa che pensava di poter vincere.
    Avrebbe dovuto capire che le congiunzioni astrali non erano in suo favore e lasciare perdere.

    E, wow, sorpresa! aveva perso.
    Era stato sconfitto per un fottutissimo punto, ma cosa importava? Era pur sempre una delusione da aggiungere al carico. In più, perché non poteva certo finire lì la dose di terribile iella a gravargli sulle spalle, quel Mabel era stato così subdolo (beh, nella sua visione delle cose quel termine era più che adatto) da chiedergli di essere “amici”, di trattarlo bene. Argh.

    «Quante volte te lo devo dire» corrucciato, sibila di dolore per via delle cure «non ho partecipato a nessuna rissa. Un cre--» prende un profondo respiro, alzando gli occhi al cielo. Doveva mantenere la parola data, persino lontano da quell’idiota riccioluto «-- Cacciatore, Mabel, mi ha dato una gomitata sul naso e» molto intelligentemente «ha effettuato un incantesimo per metterlo a posto» con risultati pietosi. Non era stata una mossa molto saggia da parte del Tasso, perché sistemare delle ossa senza prima una visita approfondita—beh.
    Se il suo naso ne avesse risentito, anche in minima parte, per quello stupido sbaglio-- sarebbe andato a cercarlo per fargli provare lo stesso dolore.

    «E solo che—dovevamo sistemare i conti» bofonchia, sussultando nuovamente al tocco del giovane infermiere. Sembrava come se Hunter lo stesse facendo di proposito.
    «Ouch! Stai attento, le costole mi servono!» lo guada di traverso per un attimo, concentrandosi poco dopo sulle proprie mani. Insomma, quella volta non aveva fatto nulla di male, era stato corretto, niente risse o perdita di autocontrollo. Era qualcosa di cui andare fieri, no? Avrebbe potuto spaccare la faccia a Mabel, e invece? Invece no, era stato bravo!

    Il Capitano della squadra, però, poco dopo lo scontro con il riccio, non aveva esitato nemmeno per un istante nel mandarlo in Infermeria per delle cure più approfondite, intimandogli in ogni caso di non far piangere più il loro unico Cercatore.
    Se lo demoralizzi, quel poveretto non vorrà più giocare!” e avrebbe anche risposto “beh, grazie tante, è una schiappa!” ma si era trattenuto, senza ribattere.

    «Dillo, te lo leggo nella faccia» oh, oggi sembrava come se la sua aura da stronzo attirasse persone dalla simpatia travolgente «pensavi che mi fossi cacciato in qualche rissa, mh?» come biasimarlo? Hunter era uno di quelli che, praticamente la maggior parte delle volte, si occupava di rimetterlo in sesto «ma ho smesso, lo sai. Non ho più tempo per quelle stronzate da Babbani. Ho vent’anni e se voglio uscire da questa scuola» del cazzo «non posso più mancare alle lezioni, né finire in Sala Torture.»

    E ne avrebbe fatto anche a meno, di seguire le lezioni, a dire il vero. Odiava quelle lagne dei professori o imparare tutto come se fosse una sorta di automa senza personalità. Studiava solo le cose che per lui erano importanti, come Pozioni, Arti Oscure e Trasfigurazione. Le altre materie, beh—sì, erano importanti, ma poteva anche prendere i libri e fare tutto per conto proprio.
    Invece, purtroppo, era costretto a darsi da fare e, letteralmente, sforzarsi di essere uno studente migliore, com’era nei suoi primi anni.

    «Ma che cazzo, Hunter! Perché pressi così tanto!?» sì, decisamente sembrava come se lo stesse facendo di proposito.

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    “No, Halley. Ti ho già detto che non…”
    La frase restò così, sospesa a mezz’aria, non appena il giovane Corvonero si voltò verso l’entrata dell’Infermeria. Era dall’inizio del turno che sua sorella appariva a intervalli regolari cercando, in tutti i modi, di convincerlo a tornare a Londra nel fine settimana. L’ultima volta che era stata lì, l’aveva vista uscire come una furia, sbattendo la porta così forte da far tremare tutte le ampolline sulla parete opposta. Un po’ la capiva, in fondo, anche lui avrebbe dato un rene per tornare nella Capitale, ma sapevano benissimo entrambi che non era possibile, non quell’anno. Sarebbe stata la prima volta in cui non avrebbero assistito al “The North London Derby” e, da tifoso dell’Arsenal, comprendeva benissimo quanto fosse importante quel match. Era la partita più importante della stagione appena iniziata e si sarebbe tenuta nello stadio degli Spurs. Ricordava ancora con emozione il sonoro 2-0 inflitto in casa l’anno precedente, sotto i loro occhi estasiati. Erano stati fuori fino a tardi, festeggiando nei pub in prossimità di Trafalgar Square, intonando cori come se avessero vinto (quando mai?) il campionato. Avevano avuto, addirittura, il permesso di infrangere il coprifuoco solo per quella notte e solo in caso di vittoria! 
Per questo, dire no ad Halley, era stato più difficile del previsto. Hunter era il primo a voler essere lì, a guardare Ramsey giocare il penultimo Derby con quella maglia, solo… non potevano. Avrebbero destato troppi sospetti. Non avrebbero potuto chiedere un permesso e motivarlo con un’attività babbana. Non in una scuola in cui ti insegnavano fin da subito che essere Purosangue era giusto e vantaggioso, mentre il resto era solo feccia che meritava la sala torture solo per la nefandezza del loro status. Vivere in Istituto era stato una sorta di limbo, e, per quanto avessero potuto considerarla una prigione gigante, li aveva protetti dalla corruzione del Mondo Magico. Questo li aveva resi ingenui, inesperti e impreparati, però aveva dato loro modo di conoscere la cultura della Londra babbana e di ammirarla senza il filtro dei pregiudizi o della dottrina del Regime.
    Senza contare che, da quando non lavorava più in biblioteca e non arrotondava al pub, non potevano permetterselo. Certo, la Grifondoro aveva i suoi risparmi ma era suo dovere non metterla in pericolo, più di quanto già non facesse da sola.
    Per questo, voltandosi e distogliendo l’attenzione dalle pozioni che stava sistemando, si aspettava di essere placcato dalla furia della sorella. Ci mise qualche secondo a realizzare non fosse lei, sebbene la figura davanti a sé fosse decisamente più alta (se non torreggiante), adulta e, soprattutto, mascolina. Non nego che Hunter avrebbe voluto tanto alzare gli occhi al cielo, o prendere a testate uno degli armadietti vicini, alla vista di Icesprite. Perché? Semplice: a pelle, non lo sopportava. Era troppo pieno di sé, così arrogante da scatenare i suoi peggiori istinti e fargli venir voglia di prendere il primo tomo enciclopedico a disposizione e suonarglielo in testa per vedere se, almeno così, potesse diventare più intelligente. Non che non lo fosse, il Corvonero aveva notato quanto il compagno potesse brillare a Pozioni, e proprio per questo era ancora più irritante. Non lo dava a vedere, l’Oakes, ma tutti i discorsi su quanto Aaron fosse bello, dal sangue puro, un buon partito, atletico, migliore (a suo dire) nello sport, etc., gli avevano gonfiato i testicoli fino a rischiare di farglieli esplodere. Per fortuna era sempre stato troppo impegnato a minimizzare il rischio che sua sorella gli si lanciasse addosso generando così una rissa. Voleva ancora troppo bene alla Grifondoro per saperla rinchiusa in uno dei posti peggiori del Mondo Magico.
    Fece un lungo sospiro, interiore e mentale, prima di avvicinarsi al ragazzo. O uomo? Ancora doveva capire come definirlo o etichettarlo. O, più in generale, come rapportarsi a lui.
    Da un lato, voleva seguire la sua ragione e ignorarlo completamente, limitandosi a medicarlo quando finiva in infermeria; dall’altro, l’istinto gli suggeriva di dargli l’occasione di farsi conoscere.
    Hunter sapeva chi fosse. Meglio, conosceva il suo nome. Crescere in un Istituto di Custodi dava accesso a delle informazioni preziose, a volte anche più delle loro vite. Aveva letto quel nome, Aaron Felix Icesprite più volte sulle pergamene, accompagnato dalla voce “Messaggero”. Una parola che raccoglieva un universo di significati, molto spesso contorti, intricati e, soprattutto, pericolosi.
    Sentiva di aver avuto una sorta di legame con lui, così sotto pelle da essere quasi impalpabile e impercettibile. Forse, semplicemente, perché erano entrambi figli di un futuro che non esiste più, uniti semplicemente da una missione che entrambi avevano deciso di intraprendere.
    “Rissa?”
    Domandò avvicinandosi, mentre gli faceva segno di sedersi a uno degli sgabelli vicino la scrivania. In quel primo mese a Hogwarts aveva imparato a riconoscere i volti delle persone più avvezze all’Infermeria e ad evitarle accuratamente per evitare di finire coinvolto in qualche scontro. Ok, era un Prefetto, ma questo non bastava a renderlo immune da qualsiasi cosa accadesse in quelle mura.
    Avvicinò la lampada al viso del Serpeverde, osservandone i lineamenti con rigore scientifico. Sicuramente, aveva vissuto giorni migliori.
    “Quante volte ti devo ripetere che bisogna farsi curare da qualcuno esperto in materia?”
    Non che lui fosse un luminare della scienza medica, ma ne sapeva abbastanza per poter gestire da solo i casi meno gravi che gli passavano tra le mani.
Posò le dita guastate sul setto nasale del compagno, applicando un po’ più di pressione del necessario. Il fatto che Hunter non gli avesse mai risposto per le rime durante una discussione, non voleva di certo dire che accoglieva con passività ogni sproloquio uscito dalla bocca del Serpeverde.
    “Non hai nemmeno messo del ghiaccio!”
    Borbottò mentre continuava ad analizzare la zona, chiedendosi come, a ventun anni, ancora si potesse non conoscere l’ABC del primo soccorso.
    Si morse la lingua per evitare di ribattere alla questione dei conti da regolare solo per evitare della polemica sterile. Sarebbe stato inutile ricordargli che, quando si subisce un infortunio, bisognerebbe smettere di fare qualsiasi cosa e raggiungere il punto di soccorso più vicino.
    “Se non vuoi che ti spezzi una costola per sport, dovresti, quanto meno, collaborare e sollevare la maglietta. Ancora non hanno inventato occhiali che mi consentano di vedere attraverso la stoffa eventuali incrinazioni, lesioni o traumi della zona toracica. E no, dalla posizione delle ossa nasali e della cartilagine, si vede che la colluttazione non è avvenuta durante una rissa. Senza contare che, in quel caso, saresti stato conciato peggio.” Fece spallucce, come se fosse la cosa più scontata del mondo. Hunter non provocava mai, constatava l’ovvio.
    “Wow.” esclamò sarcastico, sollevando entrambe le sopracciglia in finto stupore, mentre le dita andavano a stringere, volontariamente, la parte gonfia del naso “questa botta ti ha aperto gli occhi, illuminandoti la via? Finalmente ti sei reso conto che c’è un mondo fuori queste mura che aspetta solo te per essere vissuto?”
    Non doveva. Non era professionale. Non poteva permettersi di allontanare un Messaggero. Il suo compito era quello di proteggere, non ironizzare!
    “Scusami, è che davvero non capisco. Non sei stupido, non hai problemi di apprendimento… Possibile che al posto di fare del tuo meglio per finire gli studi il prima possibile, tu voglia talmente tanto male a te stesso da prolungarne l’agonia? Non vuoi essere qui, si vede, eppure non puoi fare a meno di scavarti la fossa da solo.”
    Si allontanò dal paziente per andare a prendere il suo fascicolo. Era un alternarsi di ricoveri a seguito di risse, sala torture o incidenti sul campo di gioco. Non c’erano altre cause o malattie di particolare rilevanze. E non stava neanche prendendo in considerazione la frequenza con cui era lì dentro!
    La punta della piuma scorreva veloce sul modulo pre-compilato, graffiandone la pergamena, quando si tolse gli occhiali, posando le sue iridi azzurre sulla figura davanti a lui.
    “Ho due cose da dirti. La prima: sto ancora aspettando tu ti tolga la maglietta, non amo ripetermi. La seconda, beh, se vuoi riavere il tuo bel nasino, dobbiamo spaccarlo.”
    Deadpan as fuck.

    Hunter Oakes | 17 y.o.
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    Non era di certo colpa sua se qualcuno, nell’alto dei cieli, era stato tanto generoso da donargli una bella faccia.
    A dire il vero non voleva nemmeno pensarci;
    i chiacchiericci lo infastidivano più degli apprezzamenti, perché sapeva di essere un Purosangue, un giovane promettente con le porte spalancate, ma non era forse questo il problema? Essere solo un viso? Un bell’oggetto da conquistare e mettere sul comodino come trofeo? Un buon partito? No, grazie tante.
    Stava bene da solo.

    Poteva comprendere la ritrosità di Hunter nei suoi confronti, non era il primo e non sarebbe stato nemmeno l’ultimo.
    Sapeva perfettamente d’avere un carattere difficile, forse persino arrogante, ma l’Oakes non aveva nemmeno idea di quanto si stesse sforzando per essere migliore, per evitare di invischiarsi in stupide diatribe o di finire appeso per le gambe in Sala Torture.
    A Hogwarts, nonostante il cognome, era considerato come uno studente problematico, una testa calda che veniva spesso salvato solo ed esclusivamente dalla linea di sangue. Niente di più, niente di meno.

    Non era mica vanto, il suo, se non consapevolezza di essere uno dei migliori nell’aula di Pozioni. Era una dote naturale, un talento che l’aveva sempre accompagnato dall’inizio del suo primo anno, così come quello del volo.

    Se era stanco di stare tra quelle mura? Beh, sì.
    Non aveva ancora mollato tutto, dandosi alla macchia, solo ed esclusivamente per non deludere l’unico essere umano di cui gli importava veramente, ovvero suo nonno. A quest’ultimo aveva promesso di rigare dritto quell’anno, perché leggere la delusione negli occhi azzurri dell’anziano era sempre più doloroso di qualsiasi frustata ricevuta.

    In ogni caso, non era passato inosservato il “rolleyes” da parte di Hunter, né i modi alquanto discutibili adottati dal suddetto.
    Oh, okay. Ci mancava solo la ramanzina.

    Annoiato, scuote impercettibilmente il capo, provando a non essere sgarbato. Forse non era stato abbastanza chiaro prima, quando aveva detto ad Hunter che Mabel aveva preso l’iniziativa, senza nemmeno pensare alle conseguenze. Era certo che l’Oakes si fosse estraniato, probabilmente troppo impegnato a blaterare e comportarsi da emerito stronzo.

    Si lascia prendere il viso tra le mani, per poter determinare quanto grave fosse la situazione, e lo fissa, con gli occhi azzurri accesi dal fastidio.

    «Sai com’è» inizia, stringendo i pugni per non pensare al dolore «quell’Hufflepuff non mi ha dato neanche tempo di aprire bocca. Ha estratto la bacchetta e il resto lo sai» non che ci fosse altro da spiegare.
    Quella volta non era colpevole, non c’entrava assolutamente nulla con le condizioni del suo naso! Anzi, prima che Mabel gli corresse incontro per chiedergli scusa, stava per andare negli spogliatoi a mettere il ghiaccio sulla parte lesa.

    «Tecnicamente, occhiali del genere potrebbero esistere senza che tu lo sappia. Ma non importa» dal tono di voce di Hunter, non gli sembrava proprio il caso di intavolare una discussione sulle potenzialità della magia e sugli utilizzi in campo medico. Non voleva di certo farlo agitare sapendo di essere sotto le sue cure.

    Quando il moro inizia a inveire contro la sincerità appena dimostrata, si ritrova a socchiudere gli occhi e lanciargli uno sguardo inceneritore.
    Ma che diavolo di problemi aveva? Cosa non capiva?
    Era proprio per quel motivo se evitava di parlare con gli altri delle proprie intenzioni. Anzi, di parlare in generale.

    «Oh, grazie per questa sintesi illuminante» risponde, inacidito. Era partito con le migliori intenzioni quella volta, cercando di fare conversazione come una persona normale, ma ehi! Era proprio bello il rinfaccio di tutti i suoi fallimenti, come se già non pesassero sul groppone.
    Nonostante questo, si ritrova a scuotere nuovamente il capo, ignorando la voglia di uscire da quella stanza senza voltarsi indietro.
    Che giornata del cazzo.

    «Ci sto provando» ed era tutto quello che poteva dire, nonostante l'altro non credesse ad una singola parola.

    Gli lancia un’occhiata seccata, prima di togliersi la maglietta con una smorfia di dolore, rivelando un un livido violaceo, quasi nero, a spiccare sulla pelle pallida del costato. Il Bolide l’aveva colpito senza pietà, forse ancora peggio di quella gomitata sul naso.

    Ripone la maglia poco vicino, a disagio. Sapeva di non dover provare un sentimento simile di fronte ad un infermiere, ma l’idea che l’altro vedesse le cicatrici che si era procurato durante le punizioni, lo faceva sentire ancora più in colpa verso sé stesso e Magnus.

    «Immaginavo. Fai pure» stringe i denti, faticando a sospirare dal naso.
    Se Mabel non si fosse intromesso, magari, avrebbe risolto quella questione molto prima.


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    “Io non volevo...” comportarmi in questo modo con te, perché non sono uno stronzo – a differenza di altri- e dovrei essere abbastanza intelligente da comprendere che possano esserci motivazioni più profonde per cui tu sia ancora a scuola e mettere il dito nella piaga non è un comportamento da persone mature; non solo, prendermela sottilmente con te per una tua visione del mondo che discosta dalla mia è un comportamento infantile e ipocrita, tutti abbiamo diritto di esprimere la nostra opinione in questo mondo – ma solo se non si è special, babbani, mezzosangue, esperimenti del laboratorio. Era questo che innervosiva Hunter più di ogni altra cosa. Aaron aveva la libertà di poter dire qualsiasi cosa, di fare tutto quello che gli passasse nella mente, di esprimere un giudizio filo-regime e di non avere un contraddittorio. Lui poteva essere completamente se stesso e il mondo lo avrebbe accettato per quello che era, perché le sue idee erano quelle che il Governo e che la società ritenevano fossero giuste. Era questa ingiustizia di fondo, la mancanza di un’opinione diversa, di qualcuno che alla luce del sole dicesse che son tutte cazzate senza doverne poi pagare le conseguenze. Era bastato poco, ad Hunter, per capire che li avrebbero voluti tutti così, come Icesprite: fedeli, con le idee giuste, combattivi. Bastava veramente poco per spezzare l’identità di un ragazzino di appena 11 anni e plasmarla secondo un’ideale perverso e malato. Ad Hogwarts non si insegnava, si indottrinava. Era questa la differenza che aveva percepito non appena si era trasferito lì. Per quanto potesse essere bello, finalmente, uscire dall’Istituto e avere una vera vita da mago, il silenzio e l’asservimento erano il prezzo che doveva pagare per quel barlume di libertà.
    Non conosceva il passato del Serpeverde, ma la facciata che mostrava, rispettava a pieno quello che tutti volevano vedere nelle nuove generazioni. O giovani vecchie, nel caso specifico. Il Corvonero amava i rompicapi e, apparentemente, poteva averne appena trovato uno.
    Lasciò cadere la frase così, senza aver la premura di continuarla, senza neanche sapere se il più grande l’avesse effettivamente sentita. C’erano tante cose che non voleva fare, eppure non poteva dire di averle evitate tutte.
    “Mi dispiace tu sia qui, davvero.” Puntò all’onestà. Almeno quello poteva dirlo. Nonostante l’Icesprite fosse uno dei fedelissimi dell’infermeria, vederlo spesso lì non era bello. “Senza contare che, se esistessero occhiali del genere, ne avrei un paio sempre appresso per agire immediatamente qualora Halley dovesse combinarne una delle sue. Abbiamo un codice di gravità del dolore, ma a volte penso che sminuisca troppo e finisca per il falsarne i dati per non farmi preoccupare o per sentirsi immortale. Ma si potrebbe sempre rimediare… agli occhiali, intendo. Mia sorella è irrecuperabile.” Sorrise davanti alla verità di quell’affermazione, continuando a compilare il modulo che aveva sottomano. “Hai fratelli o sorelle?” chiese alzandosi e dirigendosi nuovamente verso l’armadietto con le pozioni.
    Tolse i guanti, lavò e igienizzò le mani, asciugandole poi con cura. Prese un nuovo paio di monouso e lì infilò, spostandosi per prendere una ciotolina sterilizzata, delle garze e una boccetta di essenza di dittamo. Versò un po’ del contenuto nel recipiente, facendo attenzione a non sprecarlo, e si voltò verso il Serpeverde.
    “Saprai già che farà male, eppure non hai battuto ciglio. Ammirevole…” e lo era davvero. A parti invertite, probabilmente avrebbe chiesto di essere schiantato pur di non essere vigile e cosciente qualora avessero dovuto rompergli il setto nasale. Aveva una soglia del dolore nella media, forse?, ma era sempre stato suggestionato dalle reazioni della gente al San Mungo, dalle loro urla di dolore, dalla loro agonia. Era empaticamente curioso. Sperava di non essere nella condizione di nessuno dei pazienti, ma non poteva fare a meno di chiedersi quale fosse il motivo del loro soggiorno in infermeria, o in Ospedale, se ci fosse una cura specifica, se fossero in corso sperimentazioni, se…
    L’ambiente medico lo affascinava, ma non sentiva una vera e propria vocazione per quel campo. Non sentiva una vocazione per nulla in particolare, in quel momento, ma non riusciva a smettere di pensare al fatto che ci sarebbe sempre stata una nuova Malattia che avrebbe avuto di una Cura e che, a volte, neanche il più brillante degli scienziati o dei medici avrebbe potuto debellare.
    Si avvicinò nuovamente ad Aaron, studiandone il fianco colpito e, ormai, tendente al violaceo. Questa volta, lo toccò con la delicatezza che gli avrebbe dovuto dedicare dall’inizio e, per fortuna, non c’era niente fuoriposto.
    “Quando verrà l’Infermiere Capo, controllerà nuovamente queste ferite. Non credo ci sia niente di rotto e nessuna costola dovrebbe essere stata incrinata. Penso basti una medicazione base e la tratteremo come tale.”
    Prese una garza con la pinza e la intinse nell’essenza magica, prima di passarla sulla zona colpita, attento a non sporcarsi e a non sporcare.
    Non era bravo nelle conversazioni, o con le persone in generale, ma sapeva che c’era qualcosa che doveva dire, qualcosa che avrebbe potuto togliere un sassolino da quel muro che c’era tra loro.
    “Non posso fare nulla per il tuo naso. Nel senso, ho inoltrato la richiesta di una visita immediata ma non posso darti nulla se non del ghiaccio da applicare sia sul viso che sul fianco. Se ti dessi qualche altra pozione, potrei soltanto stimolarne la guarigione e peggiorare il tutto.”
    Spiegò sedendosi accanto a lui, mettendo sul comodino gli strumenti che aveva utilizzato fino a quel momento. Il silenzio accompagnò quel suo gesto per un po’, mentre con fare assorto valutava le sue opzioni. Nella peggiore delle ipotesi, sarebbe scomparso da Hogwarts, mentre nella migliore avrebbe occupato il lettino accanto a quello dell’Icesprite.
    “Quando dici che ci stai provando… a cosa ti riferisci?” Domandò infine, un po’ titubante. Era strano vedere qualcuno, interagirci senza sapere quali potessero essere i suoi pensieri. Con Halley era facile capirla ed essere capiti, erano due libri aperti alla stessa pagina, che raccontavano la stessa storia utilizzando sfumature e colori diversi; ma gli altri… gli altri erano sempre un grande punto interrogativo. “E, soprattutto, perché? Perché nonostante il tuo cognome, sei ancora qui?”
    Avrebbe voluto chiedergli se avesse paura di qualcosa, se fuori ci fosse qualcosa di talmente grande da terrorizzare persino lui. Tuttavia, voleva evitare di essere preso a pugni e, per quanto volesse provare ad instaurare un dialogo con il Serpeverde, sapeva che non poteva riempirlo di domande come se fosse un interrogatorio, ma ottenere la sua fiducia. O, almeno, un briciolo di essa.
    Hunter Oakes | 17 y.o.
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    Era un po’ stanco, a dire la verità.
    Di doversi giustificare, di sentirsi in colpa, d’avere il fiato sul collo per ogni scelta, per ogni piccolo inconveniente. Il suo naso rotto era forse un motivo valido per punzecchiarlo? Per fargli notare, ancora una volta, quanto fosse privilegiato rispetto al resto degli altri studenti? Cazzate. Tutte grandissime, incommensurabili, gigantesche stronzate. Dov’era questo incredibile privilegio, uhm? Se fosse stato un figlio di papà (ma poi, quale padre?) avrebbe passato gli esami senza nemmeno doversi impegnare, avrebbe anche fatto domanda per il posto di Capitano nella Squadra di Quidditch di Serpeverde senza dover sudare quattro camicie, senza allenamenti e incazzature di vario genere. Non si sarebbe fatto il sangue amaro dietro le risse, non avrebbe trovato giovamento nel picchiare qualcuno per sentirsi vivo.
    Però, ehi. Era fortunato, non gli mancava nulla. Andava tutto a meraviglia nella sua vita, tanto che guardandosi allo specchio non provava disgusto, repulsione per la sua immagine. No, no assolutamente. Stava alla grandissima.

    Era quello che non riusciva a tollerare e che, inevitabilmente, l’aveva fatto diventare il ragazzo aggressivo, silenzioso e solitario che tutti conoscevano e di cui avevano timore. Aveva dovuto farlo, per difendersi; non c’entrava assolutamente nulla che crescendo fosse diventato un uomo massiccio, che le sue spalle fossero ampie e ben piazzate, che la sua altezza gli permettesse di troneggiare sugli altri studenti; la consapevolezza di essere un ragazzino diverso, con passioni e svaghi troppo adulti per poter essere capiti dagli altri bambini, l’aveva portato a disprezzarli e ad isolarsi.

    E quello, purtroppo, era il risultato di tante scelte sbagliate.
    Eppure, adesso, sapeva di doversi sforzare. Dover dare una svolta decisiva, cestinando con determinazione la ritrosia nei confronti del mondo.
    Questo non voleva dire assolutamente che approvasse certi comportamenti e, a dispetto di quello che si poteva pensare di lui, era una persona che non ammetteva scorrettezze. In uno scontro, in un test o in una partita che fosse, tendeva a giocare secondo le regole. Tutti credevano che fosse spregevole, solo perché ammetteva certi comportamenti del regime, ma se gli avessero dato l’opportunità di spiegarsi, magari ne avrebbero capito le motivazioni; ma se nessuno si impegnava per venirgli incontro e capirlo, perché diamine avrebbe dovuto fare diversamente?

    «Dispiace più a me che a te, di questo puoi starne certo.»

    Per tanti motivi, non solo per il dolore lancinante, ma anche perché stare lì a farsi insultare non era proprio la sua massima ispirazione nella vita. Nonostante questo, il cambiamento nei modi di Hunter lo spinge a fare altrettanto, rilassando le spalle tese e dando al ragazzo un’altra possibilità. Non era facile, lo capiva. Anni di preconcetti, fondati, senza ombra di dubbio, non potevano essere cancellati in poche ore.
    Per questo, si schiarisce la gola, ammorbidendo lo sguardo e ascoltandolo ciarlare riguardo agli occhiali e alla sorella Halley.

    «Sembri molto legato a tua sorella» constata, notando il sorriso affettuoso al nominare della ragazza. Hunter doveva volerle molto bene. Era possibile provare tanto amore per qualcuno? Nemmeno con suo nonno riusciva ad essere spontaneo o parlarne come se gli importasse; non che non gli volesse bene, anzi, era tutto ciò che di bello la vita gli avesse donato. Eppure… c’era qualcosa che proprio non andava in lui. Un senso di apatia che nessuno era mai riuscito a scuotere. Si domandava spesso se avrebbe mai trovato qualcuno da amare o, più probabilmente, qualcuno che riuscisse a volergli bene.

    «Uhm, no. I miei genitori sono morti subito dopo la mia nascita, quindi non c’è stata occasione» risponde, senza mostrare nessun segno di dispiacere o, quanto meno, tristezza. Era così abituato a lasciare correre le emozioni, da non sentirle nemmeno come proprie. Gli sembrava quasi che tutti i sentimenti, racchiusi in una bolla, fossero solo ricordi di qualcun altro.

    «I Mangiamorte li hanno uccisi prima che potessi conoscerli» una persona normale avrebbe anche pensato che fosse una cosa crudele, ma non si sentiva affatto di pronunciarsi sull’argomento. Avevano tradito il Regime, passando alla fazione opposta senza nemmeno valutare ciò che la loro scelta avrebbe comportato in futuro. Un figlio abbandonato e tutto per quegli stupidi sognatori che, per quanto disconoscessero gli avvenimenti nei laboratori, non avevano fatto altro che alimentare la guerra e portare ancora più problemi.
    Odiava i Ribelli e tutto ciò che rappresentavano. Tutto ciò che gli avevano tolto, sebbene le mani sporche di sangue fossero quelle dei Mangiamorte. Eppure, a suo parere, le colpe erano condivise. Nessuno della Resistenza gli aveva mai spiegato perché i suoi genitori fossero morti. Nessuno di loro aveva mai avuto cura di preoccuparsi di un bambino lasciato a morire in quella società corrotta e cupa.

    Quindi, non c’era da stupirsi se il rancore nei confronti degli oppositori fosse tale da dubitare persino delle loro buone intenzioni. Sì, non era cieco, sapeva che il Regime fosse una dittatura. Sapeva anche che fossero crudeli e che uccidessero senza pietà. Era capitato anche a lui, sebbene non l'avesse detto a nessuno. Aveva ben chiaro cosa comportasse vivere in un mondo fatto di potenze oscure, ma era così abituato a viverci, a sentire il sapore del sangue sulla lingua, da non avere interesse nel cambiare le cose.
    Era grazie alle torture se poteva vantare la capacità di rompersi il naso e di non aver bisogno di un’anestesia per sopportare il dolore acuto. Era un maestro nel far finta di niente.

    «Come potrei?» domanda, alzando lo sguardo per seguire i movimenti di Hunter, intento a armeggiare con gli strumenti dell’infermeria «la Sala delle Torture è peggio di un naso rotto. Diciamo che mi ha temprato.»

    Diciamo anche che l’aveva sfinito.
    Non c’era uno spazio di pelle lindo, pulito, che potesse dire il contrario. Era sporco come un foglio inchiostrato male, ma non aveva alcun interesse in quello. Non aveva interesse in nulla, se ci pensava bene.

    Distrattamente, annuisce alla precisazione del ragazzo. Non aveva voglia di rimanere ancora lì, ma sapeva di non poter andare da nessuna parte, specialmente perché ci teneva al suo povero naso.
    Solo quando l’Oakes gli si siede accanto, provando forse ad approcciarsi più cautamente e meno da stronzo, si permette di chiudere gli occhi. Era così fottutamente stanco, davvero.
    Poteva parlare con Hunter? Poteva credere che avrebbe capito?

    «Non so se ti è mai capitato di sentirti—un estraneo» uff, era difficile. Davvero difficile spiegarsi «nel tuo stesso corpo. Come se sapessi di poter fare di più, di poter essere migliore, ma alla fine non riesci, perché—beh, perché non hai mai provato. Semplicemente, sto tentando—boh, di fare qualcosa per sistemare le cose?»

    Si passa la mano sul mento, evitando accuratamente di guardare l’altro. Non sapeva il perché stesse dicendo quelle cose al Corvo, ma era—liberatorio? Forse?

    «Pensi che il fatto che sia un Icesprite mi faciliti la vita?» domanda, questa volta con un tono beffardo, accennando uno sbuffo seccato «no. Non è così. Il mio sangue è un ottimo modo per poter evitare grane, a differenza degli altri, ma non mi esonera dalle punizioni, né dalle bocciature» magari fosse stato così semplice «sono qui per colpa mia e non ho intenzione di usare il cognome di mio nonno per fare lo splendido e saltare degli step. Senza modestia, sono abbastanza intelligente—mi manca la voglia di stare seduto in classe» il che era, più o meno, la verità. Non tutta, solo quella più facile da digerire.

    «Perché queste domande, comunque? Pensavo di non piacerti, l’hai dimostrato abbastanza chiaramente» come il resto della scuola, d’altronde.

    Aaron Felix Icesprite
    Mood: disappointed
    Rolleyes
    What?


    Edited by Miss Badwrong - 4/11/2018, 00:58
     
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    Disagio. Sarebbe stata quella la parola con cui Hunter avrebbe risposto se gli avessero chiesto cosa provasse in quel momento. Non per la piega del discorso che stavano affrontando, quanto per il peso che sentiva sulle proprie spalle, un macigno talmente grande che si portava dietro da anni e che era costretto, non per scelta, a condividere con poche, pochissime, persone. Era qualcosa di così intimo e personale che aveva paura delle risposte che avrebbe potuto dare, nonostante fossero ormai ben sedimentate in lui. La sua curiosità, l’ossessione di voler essere sempre a conoscenza di ogni cosa che lo riguardasse, lo avevano spinto sull’orlo di un precipizio emotivo che aveva paura di affrontare. Aveva fatto un passo indietro, era sceso a patti con se stesso e aveva imbottigliato quella sete di sapere per il futuro, per quando sarebbe stato pronto. Era ancora troppo presto per infrangere quel muro di Oblivion che lo teneva lontano dalla persona che era stato. Era ancora troppo presto per conoscere Uran Jackson e sedersi con lui alla mensa dei ricordi. Era ancora troppo presto per comprendere e comprendersi.
    Tuttavia, c’erano dei punti fissi, degli elementi immutabili in quelle due vite così diverse tra loro, che gli permettevano di guardarsi dentro e di scorgere il suo volto anche in quel riflesso all’apparenza così lontano. Halley era uno di quei punti e non avrebbe mai, MAI, dubitato del legame che li teneva uniti. Avrebbe potuto avere delle riserve sulla missione del futuro, sulla Malattia, sul fatto che fossero tornati indietro per un fine superiore, sulla corruzione e il degrado della realtà da cui proveniva, ma non sulla sorella. Sebbene avesse il nome di una cometa e la personalità esplosiva di una supernova, lei era la stella più importante del suo universo e tutto il suo mondo ruotava attorno a lei. Era qualcosa che aveva sempre saputo, un rapporto che prescindeva le barriere spazio-temporali. Sapeva che, se non fosse stato attento con le parole, sarebbe potuto passare per lo schiavetto della sorella, che eseguiva i suoi ordini a comando, ma non era così, anzi. Erano talmente liberi e talmente diversi che qualcun altro avrebbe potuto questionare fossero persino parenti. Eppure si completavano, sopperivano alle mancanze dell’altro, si bilanciavano. Potevano avere idee diametralmente opposte e riuscire comunque a trovare un punto di contatto. Hunter, però, si era assunto delle responsabilità enormi, specialmente per un bambino. In un mondo in cui potevano contare solo su loro stessi, le era stato da padre, madre, fratello maggiore e migliore amico. Era stato lì per lei anche quando lui era assente a se stesso. Sarebbe stato sempre al suo fianco anche, e soprattutto, per proteggere Halley da se stessa. Non potevano permettersi di compiere passi falsi, non se volevano ancora avere un futuro in cui sperare.
    Erano pensieri così profondi per un diciassettenne che, probabilmente, anche un uomo adulto avrebbe avuto difficoltà ad esprimerli con le parole. Per questo, in un primo momento, quando Aaron gli chiese se fosse molto legato a sua sorella si limitò ad annuire. Si poteva essere legati all’acqua, all’aria, al sole, all’universo? No.
    Gli sarebbe davvero piaciuto rispondere così, ma avrebbe dovuto spiegare che sono tutti elementi che ci permettono di restare in vita, di respirare. Sono così indispensabili e talmente parte di noi che è quasi impossibile pensare a un’esistenza senza essi. E Halley era così. Poteva non dirle di volerle bene apertamente, di averla amata dal primo istante delle loro vite, qualsiasi esso sia stato, ma era indubbio che fosse parte di lui, che fosse la sua stessa essenza.
    Eppure, quando ormai stava per partecipare alle olimpiadi del fissiamo la punta delle scarpe in imbarazzo, decise che il Serpeverde meritava qualcosa in più di un semplice cenno del capo. Un po’ perché le loro storie erano simili, un po’ perché si rispecchiava nelle sue parole.
    “Io non ho mai conosciuto i miei genitori.” Iniziò dall’argomento più semplice, quello dove era più facile destreggiarsi tra le mezze verità, ripetendo la storia che gli avevano raccontato e che era la versione ufficiale di quel mondo. “Ci hanno detto che son morti quando io e Halley eravamo ancora in fasce. Siamo cresciuti in un orfanotrofio e nessuno si è mai fatto avanti per adottarci.” Perché siamo due Custodi e possiamo essere cresciuti come tali solo da altri Custodi. Non aveva mai fatto troppe domande sulla questione dell’adozione, ma aveva ritenuto i Messaggeri fortunati. Loro potevano ricominciare tutto da zero, vivere come se fossero persone nuove, senza la benché minima idea di quello che in realtà sono o rappresentano. Venivano smistati in diverse famiglie e tutto finiva lì. C’erano casi, come quello di Aaron, in cui le cose andavano diversamente da quello che il Corvonero aveva immaginato. Avrebbe voluto allungare la mano e stringerla su quella del più grande, sentiva di doverlo fare, come se lo avesse già fatto in passato, ma frenò quell’impulso. Non voleva che l’altro pensasse che lo stesse commiserando o che provasse pietà per lui o che si stesse approfittando di quel momento per farlo sentire debole. Lui aveva sempre convissuto con l’idea che i suoi veri genitori, la sua vera famiglia, fossero ancora vivi, da qualche parte, che anche se nessuno aveva mai mostrato interesse nei due fratelli Oakes, loro potevano sempre contare di tornare a casa, ovunque essa fosse. Sentiva fossero ancora vivi, era come il suo istinto gli stesse gridando che lo fossero, che, altrimenti, lo avrebbe saputo. E forse lo erano anche quelli di Aaron.
    Non sapeva se il Serpeverde avesse ricevuto o meno la sua lettera, se avesse già adempiuto al suo ruolo da Messaggero. Voleva fargli capire che poteva sempre ricominciare ancora una volta, che non era solo, che c’era qualcun altro in quel mondo che era legato a lui in un modo così impensabile che avrebbe potuto essere scambiato per un pazzo.
    “Siamo sempre stati solo io, Halley e Rudy… almeno fino a quando lui non è andato a studiare a Durmstrang. Penso che dire di aver un legame profondo con lei è riduttivo. Siamo come due gemelli siamesi: lei è il cuore, io il cervello. Non sto dicendo che uno non può vivere senza l’altro, ma che abbiamo bisogno l’uno dell’altra.”
    Ci aveva provato, davvero, a spiegare senza passare per lo psycho di turno e sperava che Aaron leggesse tra le righe. Era davvero un argomento così complesso da affrontare che percepiva il principio di una forte emicrania. Dannata Halley, riusciva a stanarlo anche a diversi piani di distanza!
    “Ma mi hai visto?” trattenne a stento una risata, mentre allargava le braccia con quell’ironia che sembrava averlo un attimo abbandonato lì, senza preavviso. “Dovrei chiederti di specificare cosa intendi per estraneo.” Si lasciò sfuggire una risata che abbandonò subito il suo sguardo, lasciando il posto all’amarezza. Lui non si sentiva estraneo, lo era. Lo aveva sempre saputo e aveva l’obbligo di nasconderlo.
    “Non appartengo a nessun mondo.” Ammise cauto. “Non conosco le mie radici o il passato della mia famiglia. So di essere un Purosangue, dovrei ritenerlo un vanto ma… a quanto pare sono uno di quelli che non interessa a nessuno, di un lignaggio talmente basso da non ritenerlo degno neanche di una protezione.” Sospirò piano, ponderando bene le parole, provando a non sbilanciarsi quanto avrebbe voluto. “Sono cresciuto nel mondo babbano perché avevano paura che i sicari della mia famiglia potessero tornare per me e mia sorella e mettere a repentaglio coloro che vivevano in Orfanotrofio con noi.” O, se voleva essere preciso, per evitare che il Governo scoprisse della loro missione e decidesse di far fuori tutti i Custodi. “Ci hanno voltato le spalle tutti e ho sempre pensato fosse colpa mia. Che io e mia sorella non fossimo mai abbastanza. Mi sono chiuso dietro un muro di libri perché, almeno così, potevo fingere di essere qualcun altro, avere un altro corpo, uno scopo, una missione. Dal salvare l’universo in una delle Guerre Stellari, al distruggere l’anello del potere a Mordor. Ho iniziato ad appassionarmi alle materie scientifiche perché erano le uniche a potermi dare qualche certezza. Nonostante non fosse un tratto poi tanto apprezzato dagli altri bambini.” Per niente. Avrebbe voluto aggiungere che non era apprezzato neanche dal suo interlocutore, ma sarebbe stata una pessima mossa quella di aggredirlo. Si limitò a stendere le labbra in una smorfia di disappunto.
    “No, penso che tu non voglia semplificarti la vita, pur avendone la possibilità.” Non era un’accusa, tutt’altro. Era un atto coraggioso e così distante dai colori della Casata del Serpeverde, che quasi gli sfuggì quella sfumatura di ambizione che spingeva Aaron a volersela cavare sempre da solo, a volersi migliorare con le proprie forze, senza chiedere aiuto. E il suo corpo urlava il suo pensiero ad ogni ferita, ad ogni segno lasciato dalle cicatrici su quella pelle che ormai si era indurita come la tempra del ragazzo accanto a lui. “Però, penso che a volte si può scendere a compromessi e, pur di ottenere quel si vuole, far ricorso a tutti gli strumenti che si hanno a disposizione. Un vincolo, un legame di sangue, un favore, una persona. Ritengo sia importante pensare al quadro generale e se pensi tu possa esprimerti di più fuori questa scuola, essere veramente te stesso e trovare la tua strada, non dovresti aver paura di chiedere aiuto a qualcuno. Non si tratta di essere deboli, ma di ottenere quel che si vuole in modo efficiente ed efficace.”
    Lui lo avrebbe fatto. Ancora non lo sapeva, ma sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe messo da parte la sua morale e i suoi principi pur di raggiungere un bene ritenuto superiore.
    Soppesò la domanda di Aaron e, ancora una volta, scelse di essere onesto, così come Icesprite lo era stato con lui.
    “Sono alcuni tuoi atteggiamenti a non piacermi, ma hai detto di voler cambiare. Vuoi dimostrare che questa non è la versione migliore di te e questa tua volontà è ammirabile.” Sei un Messaggero e io sono un Custode, è tra i miei compiti starti vicino anche se vorresti schiacciarmi come una mosca fastidiosa. “Vorrei darti una mano, per quanto possibile, ma non sta a me decidere.”
    Hunter Oakes | 17 y.o.
    2043: Uran Jackson
    10.09.2001 | 10.06.2017
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    Edited by Messier_43 - 6/11/2018, 22:44
     
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    to get things right.
    C’era qualcosa, in quelle parole, che sapeva di nostalgia.
    Era strano, inusuale per lui, sentirsi così affini a qualcuno, tanto da credere di aver vissuto una vita simile, ma allo stesso tempo diametralmente opposta. Hunter era una persona con cui non aveva mai intrattenuto conversazioni profonde, sempre troppo diffidente per lasciarsi andare, sempre troppo indaffarato a farsi detestare. Eppure, in quel momento, il Corvonero sembrava intenzionato ad instaurare, seppure cautamente, una sorta di dialogo. Il mutismo iniziale, dove l’Oakes non aveva fatto altro che fissarsi le scarpe ed annuire, forse a disagio, forse senza parole per potersi esprimere adeguatamente, era stato sostituito da una fiumana di frasi, pensieri e confessioni che non avrebbe mai pensato potessero essere rivolte a lui.

    A differenza di Hunter, non si sentiva a disagio.
    Erano poche le cose che riuscivano a metterlo in difficoltà, o più semplicemente in imbarazzo, quindi ascoltarlo non era qualcosa di così terribile, né fastidioso come avrebbe pensato. Quel ragazzo aveva davvero qualcosa da dire, di importante soprattutto, e sembrava intenzionato a renderlo partecipe dei suoi pensieri.
    Cosa aveva appreso da quel discorso? Che Halley fosse una parte indispensabile nella vita di Hunter. Che, probabilmente, fossero legati da un filo rosso, da un qualcosa di indissolubile, più resistente del grafene. Era palese, scontato quasi, che il Corvo avrebbe fatto qualsiasi cosa per la sorella, che la amasse più di quanto potesse mai capire. E, nemmeno sforzandosi, riusciva a figurarsi come si potesse voler bene ad una persona così tanto da rischiare la propria vita per proteggerla, per difenderla, per darle qualsiasi cosa in cambio della sua sopravvivenza. Era impensabile, ma non impossibile; ancora, in ogni caso, non aveva incontrato nessuno per cui valesse la pena lottare così tanto.

    Oh, ne sapeva qualcosa del “chiudersi e avere interessi diversi dagli altri bambini”.
    Quello lo capiva, eccome. Era sempre stato un bimbo particolare, non come Hunter, né come la sorella Halley, ma diverso.
    I primi anni ad Hogwarts non erano stati semplici, ma anzi, si era ritrovato a dover lottare per farsi un po’ di spazio, per avere la considerazione degli altri compagni Serpeverde, per riuscire ad integrarsi senza risultare il piccolo strambo della situazione. Nonostante gli sforzi, non era servito a nulla; era stato bullizzato, maltrattato, schernito per via delle sue passioni e questo aveva contribuito nel renderlo l’Aaron schivo e aggressivo che tutti conoscevano. I ragazzini potevano essere terribili, crudeli ancor peggio degli adulti e non aveva imparato niente se non che stare soli, incutere timore, fosse la forma di rispetto più efficace contro il dolore. Non avere amici era sinonimo di sicurezza: nessuno poteva farlo soffrire, nessuno poteva tradirlo. I pugni erano diventati la sua arma, forse più della bacchetta, e il pensiero di diventare un Mangiamorte ancora più vivido.

    Il problema di fondo, però, era che in tutto quello, in tutta la rabbia, il rancore, la solitudine, non aveva trovato la pace. Era come una malattia, una maledizione che sentiva addosso e che non gli permetteva di godersi nulla, se non pensare ossessivamente: cosa sto facendo? È questo che voglio?
    Magnus era sempre in giro con i suoi viaggi, con le sue avventure, ma aveva trovato il tempo per mettergli una pulce nell’orecchio: “rifletti bene sulle tue scelte, perché determineranno chi sei”.
    E lui, alla fine, chi voleva essere? Un Mangiamorte? Qualcuno che poteva fare la differenza? Che con le sue doti e la sua intelligenza avrebbe potuto cambiare le cose?

    Era difficile da dire, ancora di più da accettare. Era stato indottrinato verso quello che il Governo riteneva più giusto, dove il lato oscuro era la normalità. Ma aveva una mente pensante, sapeva che fosse sbagliato, che c’era qualcosa che proprio non andava in quella vita corrotta, ma non poteva fare a meno di pensare che le torture, a dispetto di tutto, l’avessero reso l’uomo che era e che sapeva come affrontare le difficoltà senza piangersi addosso. Quelle, dal suo punto di vista, sebbene fossero brutali, erano state una parte fondamentale della sua vita. Giusto o sbagliato che fosse non aveva importanza.
    Non avrebbe mai fatto parte delle file dei Ribelli, ma era naturale domandarsi cosa sarebbe successo se avesse deciso di cambiare per sé stesso. Non per i Mangiamorte, né per i Ribelli. Per lui.

    «Halley è fortunata» risponde, dopo qualche istante di silenzio, senza aver mai aperto bocca prima della fine di quello sfogo o confessione «ad avere qualcuno come te, che possa tenerla d’occhio, o proteggerla. E mi dispiace che abbiate passato momenti bui.» alza lo sguardo, unendo le mani e grattando con le unghie le nocche «Sentirsi… diversi è qualcosa che posso comprendere, ma è la volontà di rimanere unici che non dovrebbe mai essere messa in discussione. Vedi» si schiarisce la gola, pensando a cosa dire «forse non potrò mai capire ciò che ti lega a Halley, ma credimi quando ti dico che so cosa vuol dire il resto» punta gli occhi sulle scarpe coperte di fango, con un sospiro «Quando dici che hai iniziato ad appassionarti alla scienza—beh, non credo che ci sia niente di anormale in questo. Prendi me. Diresti mai che leggo tomi di Pozioni più grandi degli scaffali? O che disegno? O che—che ne so, mi piace sistemare gli appunti come se fossero le Sacre Scritture? I bambini possono essere brutali, Hunter, ma questo non vuol dire che bisogna annullarsi» se avesse saputo quanto quel discorso lo toccasse personalmente, probabilmente, la visione delle cose sarebbe stata molto diversa «La mia non è vergogna, non mi importa di dover scendere a compromessi per ottenere qualcosa. Ma questo non riguarda gli altri, riguarda me stesso, e fino a quando non sarò in grado di capire chi sono—non posso chiedere aiuto. Non posso dire cose che non sono o che non penso, esprimermi senza prima essermi messo in gioco» poi sbuffa una risata, annuendo «comprensibile. Ma ti ringrazio. Accetto la tua mano in segno di pace.» quelle parole l’avevano colpito? Sì, come una mattonata sui denti.
    Era così abituato a non considerare l’idea che qualcuno volesse dargli una possibilità, che non aveva tenuto in conto di persone come Hunter. Avrebbe pianto, forse, se non fosse stato così arido, se non avesse ancora il timore di mettersi a nudo. Accettare il suo aiuto era stato, comunque, un passo enorme.

    Un passo alla volta.

    Aaron Felix Icesprite
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    Edited by Miss Badwrong - 7/11/2018, 00:46
     
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    Halley è fortunata.
    Se si fosse fermato solo alla prima parte della frase, o a una lettura superficiale di essa, avrebbe detto che no, la sorella non era fortunata. Non lo era neanche lui, ad essere onesti. Erano cresciuti per metà in un mondo e per metà in un altro, con la consapevolezza di non appartenere a quella realtà, di essere frutto di una distorsione temporale che li aveva allontanati dalla loro esistenza, dal loro vero essere. Erano spezzati, senza ricordi, con solo delle vaghissime sensazioni che potevano dar loro la parvenza di ricordare, di vedere il fantasma di un passato talmente sbiadito da rendere impossibile il distinguerne i contorni. Se fosse andato oltre quel significato, se avesse provato anche solo a dare un peso maggiore alle parole del Serpeverde, allora avrebbe capito che la fortuna della sorella era anche la sua, che la sola presenza della ragazza gli aveva consentito di tenersi a galla anche nei momenti più bui, quando era solo un bambino che rischiava di annegare in quel grigio mare di solitudine.
    <b>“Halley è fortunata ad essere ancora in vita!”
    scherzò, ma neanche tanto. Era la beniamina del San Mungo, arrivando a fare amicizia con ogni singolo Medimago, Guaritore o Inserviente. Aveva l’abilità di finire in una delle corsie dell’ospedale magico a intervalli quasi regolari, come se ne sentisse la mancanza, quasi a voler scusarsi della troppa assenza da uno dei Reparti. Era spericolata, talmente piena di forze ed energie che, probabilmente, era anche uno dei motivi per cui lui, a furia di starle dietro, aveva sviluppato una sorta di sesto senso che gli faceva venire la pelle d’oca ogni qual volta Halley stesse per combinarne una delle sue.
    “Abbiamo imparato a non piangerci addosso.” Ammise candidamente, passandosi una mano tra i capelli e facendola ricadere al suo fianco. Era stata quella la prima lezione che avevano imparato, l’andare avanti nonostante tutto, un passo alla volta. Ormai il danno era stato fatto e confidava che la sua versione beta fosse abbastanza saggia e intelligente da non aver preso la decisione di partecipare alla Missione senza aver prima valutato i pro e i contro, senza aver prima ponderato ogni possibile scelta o soluzione.
    “Non sapevo disegnassi! Mi piacerebbe molto vedere uno dei tuoi lavori, se ti va.”
    Sapeva che il ragazzo più grande fosse appassionato di Pozioni, ogni volta che seguivano quella lezione insieme era davvero dura stargli dietro o non notare il guizzo di entusiasmo che si nascondeva dietro lo sguardo del Serpeverde, ma quella del disegno era davvero una novità! Non pensava che l’Icesprite nascondesse un animo artistico e, fino a qualche ora prima, se glielo avrebbero detto si sarebbe anche fatto una risata. Ora, invece, dubitava a credere che Aaron non potesse nascondere un animo più sensibile, che proteggeva ad ogni costo, anche quello di restare solo. Era curioso di vedere uno dei disegni del ragazzo, di avere uno scorcio dei suoi pensieri, di vedere come i suoi occhi fossero in grado di percepire il mondo. Se Halley era l’artista di casa, Hunter era più l’appassionato di storia dell’arte che amava scovare i racconti e i gli aneddoti interessanti dietro le grandi opere d’arte, che provava a connettersi con l’artista e l’ambiente in cui viveva.
    Avrebbe voluto controbattere, dirgli che lui si era annullato già da tempo, resettando la propria vita. Era tornato indietro alle cosiddette impostazioni di fabbrica con una vita intera da riscrivere, come se avesse davanti una tabula rasa pronta a essere incisa. Era stato facile, per Hunter, nascondersi dietro l’esuberanza della sorella, usandola come barriera tra lui e il mondo circostante, come un cuscinetto che attutiva le cose brutte e che, all’occorrenza, era anche in grado di picchiare duro.
    Non era sinonimo di debolezza il suo, tutt’altro. Aveva selezionato le cose importanti, quelle che avrebbero meritato la sua attenzione e ci si era dedicato anima e corpo, sperando di passare sempre inosservato, tranne quando si parlava della sua intelligenza e delle sue capacità. Poteva sembrare un paradosso, ma non lo era.
    “Un giorno vincerai la sfiga con te stesso e sarai orgoglioso di quella persona.”
    Sorrise ancora, ampiamente, felice del fatto che aveva fatto bene a ricredersi, a fare un passo indietro, a cercare di capire, piuttosto che puntare inutilmente il dito.
    Avrebbe voluto aggiungere dell’altro, continuare quella conversazione che lo stava sfiancando, battuta dopo battuta, ma che lo stava rendendo un po’ più libero, un po’ più leggero. Conoscere e non poter dire era come essere costretti a camminare sui gusci d’uovo e dover evitare di romperli. Fu fermato dall’ingresso nella stanza dell’Infermiere Capo, contattato per rimettere in sesto il naso del Serpeverde. Spiegò all’uomo la situazione, spiegando con minuzia di dettagli tutti i passaggi effettuati e il motivo della chiamata. Si sistemò alle spalle del ragazzo, come il dottore gli aveva appena spiegato e poggiò le dita fredde sulla nuca di Aaron, bloccandone i movimenti e tenendolo fermo.
    “Spero non faccia troppo male.”
    Aveva appena instaurato un legame – era ancora troppo presto per dirlo, no? No. – e ora doveva anche assistere alla sua sofferenza (?). Ok, Aaron poteva fare il vocione che sarebbe stato sempre meglio della sala torture, che lui era un macho vero ma gli avrebbe fatto male. Fottutamente. Male.
    Strinse la presa attorno al collo del ragazzo – no, per una volta non stava tentando di farlo fuori -, dopo aver scambiato un occhiata con l’Infermiere e sentì un crack, che non gli piacque affatto, risuonare anche nel suo stomaco. Fu come se lo avessero colpito, nonostante non vedesse l’ora - #4science- di vedere come l’uomo mettesse nuovamente in sesto il ragazzo, che incantesimi avrebbe usato o che manovre avrebbe ritenuto più consone alla situazione. Quando il Medimago glielo ordinò, Hunter si spostò verso l’armadietto dietro la lunga scrivania, riempiendo due bicchieri: Ossofast e Pozione Sonno Senza Sogni, per consentire la completa guarigione del Serpeverde.
    “Bevi, su! Se non altro, da domani avrai il naso più bello di tutta Hogwarts!”
    Hunter Oakes | 17 y.o.
    2043: Uran Jackson
    10.09.2001 | 10.06.2017
    Ravenclaw
     
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