please, save me before i fall

Gideon x Perses

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    Gideon Saul McPherson
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    Quella giornata di metà ottobre non avrebbe potuto iniziare in un modo peggiore, e se il buongiorno si vedeva dal mattino, era probabile che Gideon non avrebbe visto il mattino successivo.
    Aveva avuto il piacere di conoscere la professoressa Anjelika Queen, insegnante di Pozioni, qualche settimana prima, ma non ne aveva ancora assaggiato la frusta – dicevano che fosse avvezza ai giochi di ruolo in cui interpretava la dominatrice, e tutti gli studenti erano i suoi sottomessi. Giravano persino storielle su lei e qualche studente, ma nessuno sapeva se fossero leggende metropolitane. - Certo era che, quel giorno, aveva deciso di mandare in sala torture il suo compagno di banco del giorno - Take Away, un grifondoro del settimo anno - per aver osato fiatare mentre lei spiegava. Si era professata persino magnanima, dopottutto aveva “evitato di torturarlo davanti a tutta la classe”, in questo modo avrebbe assistito solo il torturatore. Gentile, no?
    Non conosceva Anjelika Queen se non per la sua famigerata reputazione, ma Gideon si domandava come si potesse voler mandare Away in sala torture. Insomma, sembrava quasi che la signora con la falce fosse lì alle spalle dell'asiatico, pronta a prenderlo e portarlo via quando meno se lo aspettava. Gideon non era un Grifondoro, non ne aveva l’animo, non era mai stato coraggioso, affatto e, anzi, temeva Anjelika Queen come qualsiasi altro studente munito di un po’ di materia grigia, ma...ma non ce la faceva a rimanere a guardare in silenzio mentre la prof sentenziava il destino di un suo compagno in quel modo. Aveva paura di Anjelika, ma la paura che in quel momento provava per Take Away era maggiore. Era probabile che non conoscendola ne sottovalutasse la crudeltà, convinto che un dialogo maturo ed attento avrebbe potuto risolvere tutto. Attese qualche secondo – forse non abbastanza - prima di parlare, aveva valutato tutti i pro ed i contro in poco tempo, ed era giunto alla conclusione che le probabilità che andasse bene ad entrambi si aggiravano intorno al 30%, eppure, quel 30% era bastato per dargli speranza.
    30% di speranza, 70% fottuti.
    « Professoressa. » Avanzò, timoroso. « Sono sicuro che Take era attento, ha preso appunti durante tutta la lezione. » Gli avrebbe passato i propri.
    « Per favore non lo mandi in Sala torture. » Pessimo errore, Gid. Ne era consapevole, persino lui aveva sentito Take tentare di reclutare qualcuno nel suo Suicide club mentre la professoressa spiegava – e bè se non era riuscito a convincere altri studenti, con il senno di poi di sicuro aveva reclutato lui. – Alle sue parole Anjelika si lasciò andare ad una breve risata divertita, poi smise all'improvviso, ed alzò un indice al cielo con l'espressione attenta di chi aveva appena udito qualcosa di importante.
    « La senti questa melodia, McPherson? » Lui non sentiva un cazzo, ma era seria?
    « E' la tua dichiarazione d'amore che ha appena fatto cilecca. ». Ah. Gideon si guardò intorno, sempre più confuso, vedendo le facce di tutti gli studenti preoccupate per ciò che stava accadendo. Chissà se cantarle una canzone avrebbe risolto qualcosa...PLEASE HAVE MERCY ON ME (and Take Away)! Voleva ribattere ancora, spiegare i motivi scientifico-psico-filosofo-moral-sociali (?) per cui non fosse il caso di mandarle Take in Sala torture. Sarebbe stata una storia molto lunga ed avvincente, ma ciò non avvenne.
    Da sotto il banco, Scott Chipmunks, probabilmente già conscio del fatto che le parole non sarebbero servite a niente con la Queen, pensò di pizzicargli una coscia per farlo tacere, così forte da fargli male, male davvero. E gli vennero le lacrime agli occhi per il dolore.
    « Smettila di piangere, non voglio poppanti nella mia classe. FUORI! E sala torture per entrambi stasera alle 20.00 con la sottoscritta. »
    Cosa era appena successo?
    Uscì dalla classe con la coda tra le gambe, il cuore in gola e con i propri libri stretti in petto. Ma soprattutto, con la rabbia montante che avrebbe potuto provare qualsiasi adolescente dinnanzi a quell’ingiustizia.
    Dopo circa quindici minuti era già disperato. Davvero, sull’orlo di un baratro. Non solo probabilmente non era riuscito ad evitare la sala torture per il suo compagno, ma ci sarebbe finito anche lui per aver espresso un pensiero. Ancora non aveva imparato a farsi i cazzi propri in sedici anni di vita?! Continuò a ripetersi che chi si faceva i fatti propri campava cento anni, se lo ripetè per tutto il tragitto di uscita dai sotterranei. Si domandò, anche, cosa diavolo avesse bevuto a colazione per fargli tirar fuori quel coraggio che in sedici anni di vita non lo aveva sfiorato nemmeno per sbaglio. Era forse impazzito? Per di più aveva rischiato la vita per qualcuno che, con ogni probabilità, sarebbe stato persino contento di lasciarci le penne in Sala torture! Si sentiva un idiota.
    Dopo circa trenta minuti di lentissima camminata, arrivò all’ingresso del castello, minuti infiniti durante i quali era stato raggiunto e superato da altri compagni, magari anche gli stessi con cui poco prima aveva seguito la lezione. Era abbattuto, silenzioso e nemmeno il vociferare degli studenti che andò a sfumare poco a poco, facendolo ripiombare nel silenzio, bastò a coinvolgerlo come accadeva di solito. Era isolato nei suoi pensieri, perso. Decise allora che si sarebbe seduto in cortile per scrivere varie lettere:
    1) Una lettera di addio ai suoi genitori, in cui chiariva quanto gli volesse bene nonostante tutto, e che gli dispiaceva di aver fallito per così poco, ma alla fine lo aveva fatto per una giusta causa.
    2) Una lettera ad Hazel in cui le diceva che poteva avere la sua camera e tutti i suoi averi e che avrebbe voluto darle più materiale per la McOakes, per vederla sorridere. Si sarebbe inoltre soffermato su quello che avrebbe voluto avere come suo epitaffio: breve e conciso,
    “Qui giace Gideon Saul McPherson, morto in sala torture prima di sua sorella Hazel!!!” (i tre punti esclamativi avrebbero dovuto essere riempiti d’oro).
    3) Una lettera ad Halley in cui le diceva che gli sarebbe andata bene anche una carrellata se questa fosse stata una scusa per rivedere i suoi occhi e che avrebbero chiamato quel carrello Cupido.
    4) Una lettera ad Hunter, per dirgli che era il fratello che non aveva avuto, e che sapeva molto bene che Plutone era un pianeta, chi diceva il contrario era un ignorante.
    Invece, quando arrivò in cortile, la prima cosa che spiccò ai suoi occhi furono i capelli biondi di Perses Sinclair. Talmente biondi da abbagliarlo e distoglierlo da qualsiasi altro pensiero. Lo vide intento a scrivere qualcosa su una pergamena e si avvicinò alle sue spalle quatto come un gatto (cit)
    Con un movimento silenzioso raccolse uno dei fogli di pergamena che Perses aveva appoggiato al proprio fianco e con lo sguardo scorse il testo che vi era scritto. La calligrafia era impeccabile, questo doveva riconoscerglielo. Era senza dubbio migliore di quella che lui avrebbe mai potuto avere e questo, in fondo, un po’ gli bruciava.
    « Sbagliato. ». Scorse con lo sguardo le righe perfettamente scritte. « Errore. ». L’espressione dubbiosa sul suo volto era palese. « Direi di no. Merlino, che cimitero. » Se avesse avuto una grande penna rossa, avrebbe segnato mille croci rosse su tutto il foglio. « Sicuro di aver studiato abbastanza? » Domandò con l’intenzione di insinuare il dubbio come il più malefico dei serpenti. Era triste, triste, abbattuto e disperato, nonostante questo, comunque, la sua voglia di scherzare non sembrava essere stata intaccata. Gli sarebbe passata presto, doveva ancora realizzare che solo nove ore dopo si sarebbe trovato in sala torture. Voleva vivere quelle ore come se fossero le sue ultime fottute ore. Improvvisamente si incupì, colto da un pensiero triste.
    Facciamo qualcosa di stupido? Ti prego. Non ne aveva abbastanza per quella mattina? Avrebbe voluto domandarglielo davvero, era un Corvonero, mai negato che fosse un po' eccentrico e strambo. Non conosceva Perses Sinclair così tanto da chiedergli una cosa simile, ma si trovava in un limbo in cui non era mai stato, quasi come se fosse entrato in una vita che non gli apparteneva e stesse seguendo le orme di uno sconosciuto. Era sicuro che, comunque, se glielo avesse chiesto, lui avrebbe risposto di no, ma aveva l'estrema necessità di parlare con qualcuno, persino con un muro come lui, ma non sapeva come.




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    Perses Sinclair era proprio come una nuvola: si sa, i cieli grigi sono solo nuvole di passaggio. Quelle stesse nuvole silenziose e leggere, sempre presenti ma che mai si facevano notare, che osservavi soltanto quando ti adombravano la luce del sole e di cui per il resto del tempo non ti accorgevi. Ogni tanto alzavi lo sguardo al cielo per una manciata di secondi e le scrutavi scorrere, trascinate per inerzia dal vento, e ti chiedevi quanto fossero in alto e cosa vedessero da lassù.
    Perses non era mai stato una nuvola piovana. Non lasciava il segno, nelle vite delle persone che conosceva, ed era una sua scelta. Sceglieva di essere, tra tutte, quella nuvola bianca che viaggiava in solitudine per quella distesa di seta azzurra che sfiorava con le dita in un personale tumulto che mai si riversava sul terreno. Sceglieva la solitudine, sceglieva di non mettersi in gioco, sceglieva di rimanere un elemento di sfondo per tutti quelli di cui avrebbe incrociato il cammino, perché Perses Sinclair non puntava a essere riconosciuto. Nonostante lasciasse che trapelasse, di lui, l’esatto contrario: c’era chi diceva che il cielo era da pioggia, da neve, che si sarebbe rasserenato, ma non importava la forma che avrebbe preso. Una nuvola era sempre una nuvola.
    Faceva finta di non ricordare, Dio se lo faceva. Che faccia tosta aveva nel fingere il contrario, quel suo cuore avvolto nelle tenebre di cose non dette, rimaste inespresse, di riflessioni che sarebbero rimaste sigillate al sicuro nella sua anima, di paura di ciò che sarebbe potuto essere se solo… se solo…
    C’erano giorni in cui il ricordo era solo un’ombra che ti seguiva, altri in cui i pensieri lo facevano sentire fragile.
    Fragile, lui, che si professava sempre una spanna sopra gli altri e in realtà si metteva sempre in discussione; lui, che non voleva avvicinarsi e allo stesso tempo aveva timore di farlo, come se qualcuno che non fosse Corey ne sarebbe davvero stato capace di convincerlo che, di mettersi in gioco, forse ancora ne valeva la pena. Fragile, quando la notte sognava un paio di occhi verdi che lo guardavano in lacrime, e quelle lacrime cercavano di esprimere le parole che il Fato aveva loro negato. Era davvero forte, Perses Sinclair, a portare da solo sulle spalle un peso che un sedicenne non avrebbe dovuto avere? Sua sorella credeva andasse tutto bene e che il passato fosse solo il passato, ignara che quest’ultimo si dilettasse a fargli visita proprio nei momenti in cui lui abbassava le difese; forse l’aveva intuito e non aveva mai detto nulla, perché vedeva che se la cavava anche da solo, come aveva sempre fatto.
    Ma era così logico che, se era difficile accettare una breccia a incrinare lo scudo come lo era stato quel suo amico che adesso giaceva dove nessuno avrebbe potuto disturbarlo, lo era immensamente di più accettare che questa se ne andasse proprio quando avevi iniziato ad accettarla come parte di te.
    Sì, c’erano quei giorni in cui le nuvole minacciavano di lasciare scorrere le lacrime sulla terra, e Pers li odiava con tutto se stesso. Ed era così abituato a reagire in modo freddo e razionale che sembrava naturale comprimere quel dolore, quei se e quei ma, quei magari e quei battiti accelerati che non appartenevano a colui che mostrava di essere, sotto la superficie. Erano lì, erano sempre stati lì, ma il distacco lo aiutava a stare meglio come il ghiaccio su una lesione, come il sollievo della quiete su di lui; e allora le righe d’inchiostro di un libro, la spiegazione di una lezione, un ragionamento ripetuto tra sé e sé a fiori di labbra gli schiarivano le idee. Un profondo sospiro e il Serpeverde impassibile di sempre tornava a essere tale.
    Stava ponendo un’attenzione quasi maniacale nel tracciare le linee che mano a mano andavano a riempire i fogli di pergamena; non aveva piena coscienza di ciò che stava scrivendo, non stava rileggendo le frasi, bastava pensare e buttare giù, concentrarsi su qualcosa che non fosse se stesso. Non poteva controllare tutto, Perses, ma ancora si ostinava a non accettarlo. Prima una “a”, poi una “b”, avendo cura di tracciare una curva perfetta, perfettamente lineare senza l’assenza di titubanze. Sbatté le palpebre, inclinò la testa, ignorando qualunque altra distrazione che potesse offrire il cortile, inserendo il punto alla fine del discorso.
    Fu un attimo, distrarsi dal suo ferreo metodo di controllo, delle dita che entravano nel suo campo visivo e gli sottraevano la pergamena che aveva appena appoggiato al proprio fianco. Perses si interruppe con la mano a mezz’aria e alzò la testa, ma non si aspettava proprio Gideon McPherson. Pers, memore di quello che era accaduto quella stessa mattinata in classe, accantonò la frecciatina scocciata che gli stava solleticando le labbra e, semplicemente, lo osservò mentre leggeva quel che aveva scritto e mormorava commenti poco carini con cui lui sarebbe probabilmente stato d’accordo. Si domandò di sfuggita perché lui si fosse avvicinato, dato che non era mistero che non nutrisse particolare simpatia nei suoi confronti, prima di rinunciare a trovarvi risposta.
    Gideon era il suo opposto, era lampante, eppure non era scontato come tanti altri. Pers era stato sorpreso dal coraggio – o dalla stupidità? – dimostrato dal Corvonero mentre difendeva un compagno. Aveva tentato di salvarlo dalla Sala Torture e infine era andato incontro al medesimo destino. Se se l’era aspettato? No, affatto, ed era per questo che la sua vista gli provocava un leggero senso di fastidio. Gideon, rispetto a lui, era un raggio di sole, ma soprattutto si era mostrato imprevedibile: non poteva conoscerlo in maniera analitica, non sapeva come avrebbe reagito, era un'incognita. A Perses le incognite non piacevano, perché non sapeva cosa aspettarsi né come erigere le sue barriere, scoperto su più fronti e completamente disarmato. Ne osservò con attenzione i tratti puliti del viso, i capelli castani e mossi, l’espressione un po’ corrucciata in una dimostrazione di perplessità e disgusto che quasi lo divertì.
    « Sicuro di aver studiato abbastanza? » Perses fece una risatina sardonica. Scontato, veramente scontato. Alzò gli occhi al cielo e, nel farlo, incontrò i suoi. Non seppe cosa successe di preciso, ma qualcosa alla bocca dello stomaco lo bloccò di nuovo, facendogli deglutire l’ennesima risposta mancata. Strinse le labbra, e finalmente comprese cosa c’era che non andava: McPherson non aveva quello sguardo allegro e un po’ impacciato che si era abituato a incrociare alle lezioni e ai corridoi. Il Serpeverde non era intervenuto, a lezione, perché era convinto che chi si faceva gli affari propri dimostrava più intelligenza; eppure, dopo tanto tempo, sentì uno stato d’animo che si poteva definire “in colpa” farsi strada in lui. Diamine, perché avrebbe dovuto sentirsi in colpa per essere rimasto zitto? Non avrebbe cambiato la situazione e lo sapevano tutti.
    Ma nemmeno Perses sapeva che quello che aveva toccato una corda segreta, in lui, era che Gideon non stesse provando a nascondere la preoccupazione. Si stava mostrando per quello che era, probabilmente perché faceva schifo a fingere ed era troppo spaventato per pensare lucidamente. La conosceva, quella sensazione, e nonostante la determinazione a lasciar perdere e tenersi alla larga, quel “uno di quei giorni” era troppo poco razionale per permettergli di rimanere indifferente e di non immedesimarsi. Per quanto strano, Perses intravide qualcosa che glielo faceva somigliare più a lui.
    Un secondo, due, tre, passati a osservare impassibile il ragazzo dal basso verso l’alto. Resistette ancora un attimo, poi sbuffò e si allungò a riappropriarsi della pergamena. “Stupido McPherson.”
    «Be’, ho altri talenti» commentò secco. Sistemò il foglio e si passò una mano tra i capelli, per poi girarsi e scrutarlo apertamente. Era in preda a un insolito sprazzo di comprensione, e non sapeva come comportarsi o se dovesse ignorare la cosa. L’aveva sempre fatto. «Almeno resto fuori dai guai,» aggiunse. L’istinto prese il sopravvento prima ancora che Perses potesse frenarsi e dare un taglio a quella spiccata empatia che l’aveva colto, nei confronti di Gideon, poi. Diamine. «Facciamo un gioco, genio.» Lui che proponeva di giocare? Se ne sarebbe pentito, lo sapeva: eppure l’altro sembrava così spaesato che gli era venuto spontaneo. Di sicuro era perché non ce la faceva più a sopportare quella faccia da cane bastonato. No? No. «Io dico una parola che riguarda me, tu ne dici una che rispecchi il tuo umore. Ma deve iniziare con l’ultima lettera della mia.»
    Quante volte avevano fatto quel gioco, lui e Theia? Quando erano turbati e lo capivano a vicenda, ma nessuno dei due aveva realmente voglia di parlarne e si esprimevano a monosillabi? Era un modo per instaurare un legame tra ciò che sentivano, condividerlo e distrarsi alla ricerca di una parola con l’iniziale giusta. Un giochetto stupido, che però terminava in risate e “Non vale, è troppo difficile” che l’altro puntualmente contestava.
    Non aveva la benché minima idea di cosa stesse facendo e, se Gideon lo avesse preso in giro, prima gli avrebbe nascosto Sleepy in mezzo ai quaderni e poi l’avrebbe ignorato per il resto dell’anno. E anche di quello successivo. Distolse lo sguardo da lui, con un atteggiamento talmente rigido che pareva Gideon l’avesse obbligato. «Troppo stupido per te? Io devo passare il tempo,» inventò lì per lì.

    Perses Sinclair | 16 y.o. | sheet
    Pureblood
    19/10/18 | H: 11:00 a.m.
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    Gideon Saul McPherson
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    Se avesse potuto, sarebbe sprofondato in un buco nerissimo per nascondersi dal mondo. Le sue paure avrebbero rischiato di affossarlo. Quando aveva passato la linea di confine tra studente modello e ultimo della classe? Lui, Gideon McPherson, non era mai finito in punizione in vita sua. Mai! E sebbene fosse conscio che “ci fosse sempre una prima volta”, aveva di sicuro delle preferenze ben marcate su ciò che avrebbe voluto come sua prima volta. Odiava trovarsi al centro dell’attenzione, e non importava quale fosse l’argomento, se un gossip, qualcosa di reale o altro: voleva rimanere anonimo, aveva dei traumi non indifferenti riguardo questo, che ponevano radici nel periodo scolastico delle elementari. Alla fine, alcune tra le più terribili esperienze, le aveva avute a scuola.
    Quando frequentava le elementari era il cocco delle maestre, odiato da tutti gli altri compagni per essere quello “privilegiato” e coccolato dalle insegnati che lo veneravano. Gideon aveva un modo di fare che catturava gli adulti, sentendosi già un po’ adulto lui stesso non potendo fare ciò che facevano gli altri bambini. Era cresciuto troppo in fretta, si era sentito grande troppo presto: non chiacchierava mai durante le lezioni, aveva un tono di voce pacato quando spiegava le cose ed alzava la mano prima di parlare, non diceva mai parolacce, non correva in giro ed anzi, stava sempre seduto, mangiava la sua merendina in modo ordinato, studiava ogni giorno, faceva i compiti in maniera perfetta e, soprattutto, era intelligente ed acuto. Non si era trovato bene, a scuola. Essere il classico bambino che gli adulti prendevano come esempio, un esemplare straordinario da seguire ed imitare - secondo loro - aveva reso tutti i bambini invidiosi, perché avrebbero voluto essere al suo posto. Questo li aveva portati ad odiarlo, gli facevano i dispetti, lo vedevano come un estraneo, parte del corpo insegnanti e non della classe, non come un loro coetaneo ma come qualcuno da isolare.
    E, come se non bastasse, le maestre continuavano a metterci del proprio quando decidevano che, essendo lui il pupillo della classe, avrebbe dovuto stare seduto al centro della stanza, da solo, mentre tutti i compagni gli stavano seduti intorno, in un quadrato di banchi perfettamente ordinato e che lo accerchiava.
    Perchè non siete come lui? Domandavo le insegnanti, indicando il povero McPherson con gli occhi tra il sognante ed il disperato. Era l’alunno perfetto, lui. E, con il suo ciuffetto perfettamente impomatato, Gideon non se la sentiva di ribattere a quegli elogi. Nell’ignoranza della fanciullezza si sentiva lusingato di essere così ben voluto dagli adulti, a discapito di molti compagni. Ma lo sguardo dei coetanei bruciava sulla sua pelle come il fuoco, aveva sempre bruciato. Era arrivato al punto da non chiedere mai all’insegnante il permesso di andare in bagno, al punto da tenersi i suoi bisogni per paura che, se fosse uscito solo, i compagni lo avrebbero aggredito fisicamente. Era successo altre volte, spesso quando gli insegnanti non guardavano, come nel tragitto classe-palestra - lui era privilegiato anche in quello, praticava esercizi più semplici degli altri - o quello dalla classe all’uscita da scuola. Era...un ennesimo trauma, per lui.
    Per questo, entrato a Salem, aveva fatto in modo di essere uno studente anonimo, tanto da sembrare più un pezzo da parete che un alunno della classe, nella speranza che i professori evitassero di prenderlo, di nuovo, come esempio. Non ostentava ciò che sapeva, tentava di essere più aperto e socievole con i compagni, tanto di instaurare qualche amicizia, ma mai...MAI era stato lo studente da punire, mai.

    Perses gli prese il foglio di mano e Gid certo non fece forza per tenerselo, era più il tipo che si lasciava scivolare addosso le cose, troppo pigro per fermarle o cambiarne il corso. Semplicemente, sbuffò.
    “Almeno resto fuori dai guai”
    Una pugnalata, quella, che non si aspettava. Si prese un attimo di tempo prima di muoversi, fermo come una statua di sale che difficilmente si sarebbe sciolta. Aveva ragione, lui era un tipo saggio, mentre Gideon era solo un idiota. Dopo un tempo che parve infinito, si mosse, prendendo posto nella stessa panchina occupata dal Sinclair, non troppo distante da lui e con sguardo basso sul terreno in pietra.
    Colpito e affondato, Pers.
    Lo sguardo perso nel vuoto annunciava un pensiero importante.
    Quando avevo nove anni le maestre mi amavano. Ammise, con tono di voce tra il neutro ed il nostalgico. In altre circostanze, vedendosi da fuori, avrebbe riso per il tono solenne con il quale parlava della sua infanzia. Si sarebbe preso per il culo da solo, ma non era quello il momento. Aveva la tendenza a diventare melodrammatico quando si trovava dinnanzi ad un problema che gli sembrava impossibile da superare. Come ho fatto a cambiare tanto e finire così?! In cuor suo, il McPherson non poteva accettare di essere cambiato così tanto, di essere cresciuto, fino a diventare lui quello da punire. In cuor suo non riusciva a perdonarsi quello slancio di coraggio anche se, probabilmente, potendo tornare indietro avrebbe reagito nello stesso identico modo. Nonostante fosse sempre stato un tipo positivo e supportivo per i problemi altrui, magari non esattamente il massimo del talento nel consolare il prossimo, ma qualcuno su cui si poteva contare sempre, i suoi problemi riuscivano ad abbatterlo molto facilmente. Riusciva bene a tirare su gli altri, ma adesso chi avrebbe tirato su lui? Eppure, si sforzava di pensare ad una soluzione. Cosa poteva fare per cambiare le cose? Sarebbe servito presentarsi nell’ufficio di Anjelika ad implorare pietà? O avrebbe solo accelerato il corso del suo destino? Magari poteva proporle una punizione alternativa? Ma chi era lui per andare contro la decisione di un’insegnante?
    Morirò in quella sala torture. Non ce la faccio fisicamente. Insomma, non era il classico ragazzo fisicamente forte, si era adagiato molto per parecchi anni ed adesso avrebbe dovuto recuperare la forma fisica molto in fretta, perchè Hogwarts non era Salem, non risparmiava nessuno.
    Il solo pensiero di levarsi la camicia e mostrare a qualcuno la cicatrice che avrebbe voluto nascondere da qualsiasi occhio indiscreto - persino al proprio, tanto che faticava a guardarsi nudo allo specchio - lo lasciava senza fiato. Se anche fosse sopravvissuto fisicamente, il suo spirito ne avrebbe risentito davvero tanto.
    Era consapevole del fatto che non sarebbe stato in grado di sopravvivere, per una serie di motivazioni che, al momento, non aveva nemmeno voglia di stilare.
    Che gioco? Apprezzava il suo sforzo, comunque. Ne era davvero sorpreso ma lo apprezzava, Perses Sinclair stava forse cercando di distrarlo per fargli pensare ad altro? Non è stupido... Alzò lo sguardo per osservare meglio il suo compagno, notando che adesso, guardandolo meglio, aveva quasi un aspetto meno stronzo del solito (wat)
    Grazie, Pers.
    Quando si ritrovò a dover pensare ad una parola che descrivesse il suo stato d’animo, però, si trovò dinnanzi ad un muro altissimo. Fu una sensazione strana, quella di non riuscire a capire come si sentisse. Era normale? Provava una serie di emozioni delle quali nessuna prevaleva sull'altra, forse la paura? No, non era solo quello. Nessuno gli aveva mai chiesto di leggersi dentro, e lui non ne aveva mai avuto bisogno, convinto di sapersi descrivere alla perfezione all'occorrenza, ma non era così. Rimase in silenzio per una manciata di secondi, a pensare. E' che non lo so nemmeno io come mi sento, pensavo fosse più semplice. Ammise. Confuso, spaventato, arrabbiato, traboccante, pieno. Vuoto vale? Perchè, forse, è così che mi sento. Il dubbio che forse non si sentisse del tutto pronto ad aprirsi gli sfiorò la mente per un attimo, forse era per questo che non riusciva a spiegare come si sentisse? Aveva paura, questo senza dubbio, ed adesso, parlando con Perses, ne aveva ancora di più.





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    post orribile ma tratto da esperienze di vita alle elementari del tutto vere
     
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    Sarebbe stato un bugiardo se avesse finto di non accorgersi che le sue parole avevano sortito un effetto tutto fuorché positivo su Gideon. Anche se fosse stato incline al dispiacersene, Pers non approfondì abbastanza la questione per farlo. Era sempre stato il suo scopo, quello, lanciare frecciatine per zittire, fare male con le parole, allontanare da sé, tracciare un confine per far capire agli altri che dovevano stare al loro posto. Non aveva fatto altro che ripetere ciò che faceva ogni giorno. Nulla di personale, come sempre, e lo scopo era proprio quello: evitare coinvolgimenti personali.
    Allora perché quella… voglia di aiutarlo?
    Certo non si sarebbe aspettato che, dopo la sua spiacevole insinuazione, il McPherson prendesse posto accanto a lui. Pers si voltò appena a guardarlo, e una ruga di riflessione apparve tra le sue sopracciglia. Gideon era diverso da lui: lui si lasciava scivolare le parole addosso, Gid, invece, le accusava ma non lasciava che risentimento o rancore lo pervadessero a lungo. Si vedeva. Lui chiudeva a lucchetto la sensibilità, il Corvonero lasciava che quella facesse di lui una persona migliore. L’avrebbe davvero stimato, Perses, se si fosse permesso di provare ammirazione, perché dopo il loro incontro che era stato essenzialmente uno scontro, Gid gli aveva proposto di fare pace e ora manifestava l’intenzione di stare in sua compagnia; tuttavia non fraintese quel gesto. Sapeva che, se ci fosse stato qualcun altro al suo fianco, Gideon non si sarebbe seduto su quella panchina, forse limitandosi a lanciargli un’occhiata per poi tornare a parlare coi suoi amici, e sapeva anche che Gid era una vittima delle circostanze e al momento chiunque sarebbe andato bene per cercare conforto.
    Il vero elemento di sorpresa era che Perses Sinclair si sentiva incline a offrirglielo, un supporto, nelle limitazioni che un cuore freddo come il suo poteva permettersi.
    Mentre cercava di dissipare la confusione attraverso la logica e la razionalità, le braccia che andavano a incrociarsi, non poté fare a meno di ascoltare Gideon avendo cura di mantenere un’espressione criptica. E nonostante all’esterno i suoi pensieri fossero insondabili, tra sé e sé Pers avvertì quella maledetta stilettata al petto che era comprensione. C’era una nota di malinconia nella voce di quel ragazzo che glielo rendeva diverso dagli altri, o magari era amarezza, o rimpianto o chissà cos’altro, ed ecco che si scoprì non in grado di decifrarlo. Eppure, pur essendo profondamente diversi, lo sentiva vicino a sé, pericolosamente in maniera personale… quasi potessero diventare amici. I suoi schemi si stavano incrinando lasciando il posto a un territorio inesplorato, una novità che lo lasciò strabiliato.
    Sì, lo capiva, capiva lo sgomento – che per lui era stato solo iniziale – di essere quel bambino che tutti avrebbero voluto come figlio, quello che nel suo caso obbediva e assecondava sempre mamma e papà e poi, in un momento della propria vita, ci si rendeva conto di essere cambiati. C’erano di sicuro un miliardo di differenze tra le loro situazioni, ma la domanda di fondo rimaneva. Da quando lui, osservatore dall’occhio clinico, non riusciva a decifrare qualcosa ma lo avvertiva come personale?
    Si rifiutò di continuare ad analizzare quella sensazione. Aveva la luna storta e voleva aiutare Gideon? Poteva concederselo, ma avrebbe lasciato fuori se stesso. «Non morirai.» Basti pensare che tua sorella è ancora in giro. «Sei più forte di quanto pensi. Io non sbaglio mai,» aggiunse, con il solito tono da snob. Non poteva lasciare che quel dialogo divenisse più sentimentale di quanto gradisse, ed era tuttavia ignaro del fatto che tra pochi minuti non ci sarebbe riuscito poi così bene, oltretutto per un’idea che era stata sua. #agenius!
    Prima che il Serpeverde cambiasse idea, la proposta del gioco mlml quale proposta? QUALE GIOCO? #gides gli uscì dalle labbra, stanco di percepire, più che di vedere, quella tristezza che sul faccino da schiaffi di Gideon stonava, come quando le sue dita scivolavano sul tasto sbagliato del pianoforte e l’armonia si interrompeva bruscamente. Se una parte di sé si stesse chiedendo cosa diavolo stesse combinando, perché si stesse lasciando trasportare da un’empatia che dio, se segretamente gli faceva paura generalmente sentiva così forte solo verso Theia e sua cugina, lui la lasciò da parte. Non avrebbe fatto altro che peggiorare la sua temporanea perdita di controllo sulle emozioni. Raramente gli capitava di non sapersi gestire come sarebbe stato normale per un adolescente, e mai per un’altra persona.
    A quel punto non era più nemmeno sicuro di star mantenendo una facciata impassibile e sperò vivamente che Gideon non si accorgesse di nulla. Nel non sentire un suo diniego, ne fu egoisticamente contrariato, ma anche sollevato. Se fosse stato cattivo, oltre che stronzo, avrebbe troncato lui stesso la conversazione e se ne sarebbe andato. Invece no, quelle stupide gambe rimasero ferme dov’erano, se si escludeva l’accennato e ritmico battere del suo tallone per terra, più isterico di quanto avrebbe dovuto. Contrasse la mascella nel ricambiare lo sguardo dell’altro, rifiutando quella gratitudine che vi lesse dentro. Lui non meritava gratitudine, meritava antipatia, odio, indifferenza. Ma, escludendo di nuovo Theia che era l’unica ad avere il suo amore e a poter parlare con lui di questioni spinose, qualcuno aveva mai provato gratitudine nei suoi confronti?
    Per fortuna, Gideon rimase a pensare in silenzio e lui riuscì a riprendere le redini almeno del proprio corpo: smise di battere il piede, distese la fronte, lasciò che le mani si posassero sulle cosce ostentando tranquillità. Gli sembrava di star prendendosi in giro, perché era tanto schietto con gli altri quanto con la propria coscienza e, seppur consapevole di star ignorando cosa significasse quel piccolo passo avanti verso il McPherson, non ci voleva credere. Non lo voleva metabolizzare, non voleva lasciargli spazio, eppure era lì. Se si fosse allungato, quel passo avrebbe potuto terrorizzarlo.
    «E' che non lo so nemmeno io come mi sento, pensavo fosse più semplice.» Già, lo pensava anche lui. Si sentiva confuso, spaventato, forse arrabbiato. Dispiaciuto per lui, quando al massimo provava una distaccata pietà per chi finiva in Sala Torture. Evidentemente pensava che Gideon non se lo meritasse e, di fatto, il ragazzo aveva solo voluto aiutare un compagno. «Vuoto vale? Perchè, forse, è così che mi sento.»
    Non si aspettava quella risposta, Perses; tante cose, ma non proprio quella che lui capiva. Quel giorno la sua testa doveva essere proprio in vena di fargli qualche brutto scherzo, non c’era altra spiegazione. Capiva l’oppressione e il disorientamento che potevano portare troppe emozioni. Tutte insieme, schiacciavano e soffocavano, arrivando a un livello tale che vi eri ingannevolmente insensibile e ti sentivi, beh, vuoto. Avrebbe voluto portarsi le dita al tronco del naso con esasperazione, invece si limitò a fare un sospiro. «Può valere.» Come se lui ne fosse estraneo. “Uao Sinclair, non ti credevo così ipocrita.” Avrebbe dovuto venirne a patti, non era una cosa che poteva ignorare. Avrebbe fatto finta di niente fino a quella sera, nel suo dormitorio, quando sarebbe stato libero di pensare a cose che gli avrebbero fatto male, tolto il sonno o infestato quest’ultimo di incubi.
    «A volte parli come se fossi un Grifondoro: stupido. Da un Corvonero come te questo davvero non me l’aspettavo.» Fece una pausa, in cui sarebbe sembrato crudele e menefreghista nei confronti del suo sfogo. Sorpresa, non era così, non che non sarebbe stato più normale il contrario. Si mosse appena sulla panca, incrociando i suoi occhi con superiorità, il mento sollevato. «Ammetto che sei stato coraggioso, a lezione. Non aggiungo come un Grifondoro: un principio di stupidità secondo me c’è in tutti, sul coraggio ho qualche perplessità.» #rude Avanti, Pers, ripigliati dal tuo essere più serpe che Serpeverde(?) e torna alle cose serie. Si schiarì la voce. «Comunque. È da stupido chiederti come hai fatto a “finire così” come se fossi un criminale. Oggettivamente non hai commesso qualcosa che possa essere giudicato sbagliato o immorale e il tuo tentativo ti ha fatto onore. Sei stato altruista. Se andrai in Sala Torture, è perché-» Si fermò un attimo dal suo tentativo di consolazione, mascherato da analisi logica dell’accaduto per non dargli l’impressione di essere ciò che non era – dolce, gentile – e garantirsi la protezione che l’oggettività gli dava. Proveniva da una famiglia Purosangue e non si era mai pronunciato sulla questione, quindi anche Gid, come tutti, probabilmente dava per scontato fosse Mangiamorte; in realtà era un Neutrale, troppo cinico per pensare a persone animate da buoni ideali e non da profitti che volevano liberare il mondo, ma ciò che stava per dire poteva essere scambiato per il concetto di un Ribelle. Uao, mi sono fortemente confusa da sola. Rifletté, incurante di lasciare in sospeso il McPherson – se era lì con lui voleva dire che non aveva molto da fare – e giungendo infine a una conclusione che gli pareva attendibile. Gideon era un tipo discreto, non avrebbe sparso in giro false informazioni su di lui. Non avrebbe avuto motivo di farlo, senza contare che era di un umore che non gli avrebbe fatto far caso a quel particolare, o così giudicò.
    «In questa scuola si professano i valori sbagliati. E chi ha valori giusti passa dalla parte del torto.» Si fermò e studiò la sua espressione. Chissà se le sue parole avevano sortito l’effetto di farlo sentire meglio. Perses non era bravo o interessato ad aprirsi con gli altri e quella era, chiaramente, un’eccezione. Stette in silenzio per qualche attimo, passandosi una mano sulla guancia. Si domandò una volta di più perché dovesse impazzire sempre nei momenti meno indicati, prima di schiarirsi la voce.
    «Ostile,» annunciò, continuando il gioco. Era ostile contro se stesso e quella non era una novità; alla propria compassione e a scoprire che, forse, riuscire a distrarre Gideon del pensiero della Sala Torture gli avrebbe fatto piacere. Dannazione, detestava non sapere le cose. Prese un foglio di pergamena in mano, leggendo velocemente ciò che aveva scritto, ricercando gli errori che il Corvonero aveva tanto enfatizzato prima. Concentrarsi sui suoi doveri, per il Serpeverde, lo isolava sempre dai fattori esterni, e invece si ritrovò a posarla dopo pochi secondi, disinteressato. «Togliti quell’espressione, McPherson, secondo te ti faranno morire sapendo che tua sorella darebbe fuoco alla scuola? Sarebbe uno spettacolo interessante, ma se lo risparmierebbero volentieri» disse, facendo un movimento della mano come a dire “impossibile”. Alla fine, eccelleva nell’essere sarcastico, e dove qualcun altro avrebbe usato abbracci o paroline dolci per farlo stare meglio, lui utilizzava quello.


    Perses Sinclair | 16 y.o. | sheet
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    19/10/18 | H: 11:00 a.m.
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    In un monto diviso tra purosangue e sangue sporco, Gideon aveva sempre rappresentato la seconda fazione, e nonostante in America questa divisione non gli avesse pesato sulle spalle più del necessario, la sensazione di inferiorità si palesava ogni volta sentiva pronunciare il cognome di sua madre. McPherson. Non rinnegava il suo cognome, amava sua madre così come adorava le sue origini, ma ogni volta che sentiva accennare al cognome materno, la sua mente non poteva non soffermarsi sulla figura di suo padre e sui motivi che lo avevano spinto a non riconoscerlo. Ricordava con chiarezza l’espressione sul suo volto quando aveva tentato di spiegargli che, semplicemente, non avrebbe potuto perché lui non era un purosangue. Era solo un bambino quando aveva capito cosa significasse far parte di un qualcosa e, al contrario, sentirsi tagliato fuori, escluso, non voluto. Nonostante consciamente sapesse che era sbagliato, il pensiero che il suo sangue fosse troppo sporco per suo padre riusciva in ciò in cui molti fallivano, ferirlo. Toccava dei tasti particolarmente delicati della sua anima.

    Da quando aveva messo piede in Gran Bretagna, la terra razzista per eccellenza, Gideon McPherson aveva imparato a conoscere molto bene la sensazione di sentirsi in soggezione durante il confronto con un’altra persona, così come aveva imparato a riconoscere, a pelle, quali fossero le persone in grado di farlo sentire strano e fuori posto ad un solo sguardo, tanto da non doversi nemmeno impegnarsi per proferire parola per piacergli o instaurare un rapporto.
    Pareva avercelo scritto in fronte: Mezzosangue. Sangue sporco.
    E doveva ammettere che, all’inizio, questa stessa sensazione l’aveva provata anche con il Sinclair. Un pregiudizio nei suoi confronti, adesso lo aveva capito.
    Lo aveva visto irraggiungibile, sotto troppi punti di vista. Non solo era bello, tanto da apparire quasi finto ed etereo, ma era persino intelligente, era popolare, era ricco, era purosangue e...nonostante tutto, sembrava avere dei valori importanti.

    Lo osservava nel dettaglio, mentre Perses parlava, mentre si muoveva così sicuro di sé e distante dal mondo, mentre era convinto che Gid fosse distratto ed invece non lo era, lo osservava come si osservano le bellezze esposte nei musei: da una parte avrebbe voluto assomigliargli, gli sarebbe piaciuto apparire misterioso agli altri e non il solito libro aperto dal finale scontato come si sentiva di solito.
    Avrebbe voluto essere un Purosangue anche lui, come suo padre, e potersi chiamare Rosier.
    Avrebbe voluto che Perses scendesse dal suo piedistallo o magari salire là sopra con lui, per sentirsi alla sua altezza e potergli essere amico.
    Riconosceva che quelli erano pensieri egoistici, che non portavano alcun rispetto a sua madre la quale, invece, meritava tutta la considerazione del mondo. Ma Gideon non era certo perfetto, tutt’altro, era impastato di difetti.

    Intrecciò le braccia sul petto, con espressione indecifrabile in volto. Mi hai definito stupido tre volte in meno di cinque minuti. Constatò, e se quel giorno non lo avesse pensato persino lui di sé stesso, il McPherson si sarebbe addirittura offeso per quel poco riguardo nei suoi confronti. Ma a conti fatti, poteva dargli torto?
    Non se la prese più di tanto, invece, quando il Sinclair lo paragonò ad un Grifondoro. Ammirava la casa di Godric e la poneva al secondo posto dopo la propria in quanto a valori. Provava una sorta di invidia per gli studenti rosso oro, spesso estroversi, temerari, a volte persino incuranti del pericolo. Non come lui, in breve. Si cagava addosso persino quando i professori lo guardavano, figurarsi in altri contesti. Il colpo di testa di quella mattina era stato isolato e non da lui, quasi come se fosse stato mosso da una forza divina.

    In questa scuola si professano i valori sbagliati. E chi ha valori giusti passa dalla parte del torto.

    Rimase basito per qualche istante. Corrugò le sopracciglia a quelle parole e, non volle ammetterlo, ma si sentì più vicino a Perses di quanto mai si era sentito con qualsiasi studente lì ad Hogwarts. Sono...stupito. Non dovresti dire così, anche i muri hanno le orecchie. E nel dirlo, quelle parole gli bruciarono la gola, come se non dovesse porre l’accento su determinati argomenti che, dopotutto, avrebbero dovuto essere taboo. Magari Perses voleva fargli compagnia in Sala torture? E i Purosangue potevano finire in Sala torture o questa era riservata ai Sangue sporco?
    Ma ti ammiro per averlo detto. Siamo più simili di ciò che pensassi.
    Quell’estate alla Sala giochi aveva avuto un assaggio di ciò che li accomunava, lì si era confrontato con Perses per la prima volta, trovando punti in comune che, con il tempo passato a scuola, si era quasi dimenticato di avere. Sospirò, rilassandosi in un sorriso carico di aspettative e facendosi più vicino all’amico.

    Perché ti senti ostile? Verso chi? Qualcosa gli suggerì che la risposta sarebbe stata semplicemente contro il sistema, aveva avuto la mezza conferma che sotto la divisa serpeverde niente si celasse ben più che un ragazzo purosangue con saldi principi legati al regime. In parte, il Sinclair glielo aveva confermato con le sue parole. E questo lo attirava ancora più verso di lui, come non avrebbe mai creduto possibile.

    Togliti quell’espressione, McPherson, secondo te ti faranno morire sapendo che tua sorella darebbe fuoco alla scuola?

    Rise alla sua ultima frase, ed il suo pensiero andò ad Hazel. Aveva chiesto ad Halley di tenerla occupata fino al giorno dopo, per far sì che non venisse a conoscenza del fatto che, quella sera, sarebbe stato torturato. Sapeva molto bene come avrebbe reagito sua sorella se lo avesse saputo, e non ci teneva a vederla lì con lui in sala torture, a fargli compagnia. Hazel non...deve saperlo. Mai. Impazzirebbe. La conosco troppo bene. Temeva la sua reazione, perché non poteva prevederla. Era come un fulmine a ciel sereno, inaspettata, improvvisa, pericolosa.
    Esitante.
    Continuò il gioco pronunciando la sua parola.
    Non so fino a che punto posso fidarmi di te, ma so che vorrei farlo.
    Dopotutto, i Sinclair erano conosciuti per essere una famiglia di Mangiamorte fedeli al regime e...coincidenza, era proprio la cugina di Perses che avrebbe potuto incontrare quella sera in Sala torture, dato che era l’assistente della torturatrice.




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    Era impegnato in una lotta personale, che si stava rivelando più complicata del previsto: da una parte c’era la sua incrollabile resilienza, il suo conseguente bisogno di isolarsi, avere tutto il tempo necessario per svolgere i propri calcoli. Calcoli, solo calcoli e logica e osservazione analitica, le unità di misura che gli consentivano di mantenere il proprio equilibrio; dall’altra, il ragazzo che il suo equilibrio lo stava stravolgendo, come aveva fatto Corey, ma in una maniera diversa perché, oh, Gideon non era Corey e non c’era pericolo che li confondesse tra loro. C’era quell’avvicinamento, però, che era stato improvviso alla pari del suo primo dialogo con quello che era stato un Grifondoro, e c’era quindi un lato celato da tutto e tutti, di Perses Sinclair, che si sforzava di non riportare alla mente l’unico e vero amico che fino a quel momento aveva avuto e che gli era stato strappato via.
    Perses non ricordava la sofferenza che aveva provato, quando aveva pianto accanto al corpo immobile di Rey. Non ricordava quanto avesse desiderato fosse come nei libri, in cui bastava un “Per favore, svegliati” per far accadere il miracolo. Non ricordava il dolore, acuto come mille spine conficcatesi nella pelle, che il suo cuore adesso circondato da una patina di gelo aveva dovuto affrontare, da solo. Non lo ricordava, Pers, perché il suo istinto di conservazione aveva bandito tutto quello dalla sua memoria, l’aveva chiusa in uno scrigno impolverato che rischiava di tornare alla luce.
    Non l’avrebbe fatto. Il coperchio non si sarebbe aperto, non quel giorno, non in quell’occasione e sperava mai. Lui non lo avrebbe permesso e, oggettivamente, quella con il McPherson era un rapporto differente.
    «Mi hai definito stupido tre volte in meno di cinque minuti.»
    E allora? Il suo sguardo trasudava volutamente quel pensiero, ma scelse di essere clemente e non commentare che, se non si facevano cose stupide, allora non si poteva essere definito uno stupido. C’era da dire che il suo, più che un insulto, era una mera constatazione. Non aveva intenzione di offenderlo; non per questo si sarebbe censurato, o avrebbe smesso di essere brutalmente sincero per non ferire la sua sensibilità.
    Chiunque avrebbe potuto cogliere con facilità lo stupore che fece capolino in Gideon e, d’altronde, non capitava affatto tutti i giorni di sentirsi dire da un Sinclair, che fosse lui o uno dei suoi cugini, che i valori di una Scuola governata dai Mangiamorte non corrispondevano al giusto. Per quanto lo riguardava, non avrebbe replicato quel consapevole errore. L’ultima cosa che voleva era rischiare e, per questo, fissò senza timore il volto del ragazzo, ascoltandolo con attenzione. Non dovresti dire così. Come se ci fosse stato bisogno che glielo venisse a precisare lui. Poi non doveva dirgli che era stupido, che pretese oh!!!
    «Infatti tu non hai sentito niente. Sapere qual è l’oggettiva giustizia e praticarla sono due cose separate,» aggiunse. Il messaggio era lampante. Ma Gideon non era una spia e Perses, come chiunque conoscesse un minimo lui e la sua reputazione, lo sapeva bene. Se gli aveva lanciato quell’avvertimento, era stato solo per ribadire il concetto e ammonirlo di non fare stupidaggini, ma non sussisteva il reale sospetto che sarebbe andato a diffondere pericolosi pettegolezzi su di lui. L’americano era un candidato perfetto e affidabile per ottenere la fiducia di chiunque, eppure non aveva ancora la sua.
    Rimase interdetto nell’apprendere che – anche – il McPherson iniziava a credere che loro due fossero persino simili: aveva sperato fino all’ultimo che quella presunta affinità fosse percepibile solo da lui, dovuta sicuramente a un colpo di testa o al fatto di aver dormito poco e non essere nel pieno delle sue facoltà. Se non era l’unico a pensarlo, però, le cose volgevano a suo sfavore, togliendogli ogni scusa plausibile. Gli lanciò un’occhiata di sbieco segretamente risentita per aver dato voce a ciò che non aveva intenzione di ammettere, scoprendo che l’altro gli stava rivolgendo un sorriso fin troppo socievole e sincero per essere rivolto a Stronzo Sinclair e- no, no no, oh, cos’era questa confidenza?? Fissò ostile le chiappette del Corvonero che coprivano la distanza sulla panchina che li separava – e non si era avvicinato eccessivamente, in fin dei conti, ma per uno che avrebbe voluto le ordinanze restrittive di almeno mezzo continente e gradiva la distanza minimissima di tre metri, era esagerato. Espresse il suo disappunto con un «Mh» sdegnato, scrutandolo dall’alto in basso con una sorta di diffidenza. Non è che ti avvicini ancora, eh? Sala Torture o no, non avrebbe avuto problemi a spingerlo giù dalla panca e riappropriarsene. Ma io non lo so, sti millenials.
    «Perché ti senti ostile? Verso chi?» Gli venne voglia di strizzare gli occhi in una smorfia di insofferenza. Avrebbe giurato che Gideon fosse un tipo più discreto, ma chissà, magari era la vicinanza con la sua presunta morte a renderlo più sfacciato. Forse avrebbe avuto l’occasione di capirlo meglio, forse no, ma non si era aspettato quella dimostrazione di confidenza: la loro conoscenza in biblioteca non si era svolta nel migliore dei modi. Evidentemente, quando il McPherson decideva di fare pace faceva proprio sul serio. Gli sarebbe stato quasi simpatico se avesse avuto l’interesse a considerarlo tale. Nella sua testa c’era ancora quell’interrogativo fisso, che lo portava a chiedersi se, normalmente, quella fosse la procedura con cui si faceva amicizia e come Gideon stesse reputando le loro parole, se ci vedesse un’evoluzione di qualche tipo. Avere tante ipotesi e nessuna certezza lo infastidiva oltre ogni immaginazione e c’era una punta indispettita nel tono in cui si espresse.
    «Al momento verso la possibilità che tu ti avvicini ancora. Non apprezzo la vicinanza. Questa è appena accettabile,» decretò schietto. Nel mentre fece vagare gli occhi di ghiaccio altrove, ponderando la sua vera risposta. Si teneva dentro ogni sensazione, era il suo carattere e gli andava benissimo così: meno rivelava di sé, meno gli altri avevano di potere su di lui. E nonostante tutto, era più che certo di non voler concederlo a nessuno. «Anche alle persone perfette capita di mettere in dubbio la propria perfezione,» commentò caustico, la convinzione di chi si credeva odiosamente superiore agli altri; pur reputandosi di intelletto superiore a parecchie persone, tuttavia, c’era differenza tra senso di superiorità e la presunzione di ritenersi perfetti, anche se a Pers faceva comodo che tutti gli reputassero quella presunzione.
    Lo guardò ridere con curiosità, trovando nella sua evidente abitudine a fronteggiarsi con il carattere distruttivo della sorella una somiglianza – l’ennesima – con la divertita rassegnazione con cui Perses assecondava Theia in tutto quello in cui lo trascinava. «Di certo non sarò io a dirglielo.» Ma assolutamente no, a quel disastro su due gambe Pers non si sarebbe avvicinato neanche morto; se ne guardava bene da capitare nelle vicinanze della McPherson, non si poteva mai sapere che guaio la Grifondoro avrebbe combinato. I falli e le litigate che scatenava durante le partite di Quidditch – che erano un po’ un appuntamento con effetti sorpresa assicurati, tra quelli che prendeva a mazzate o a parolacce e quelli che rischiava di far cadere dalla scopa – erano sufficienti a convincerlo a starle alla larga.
    «Esitante.» Il biondo si sentì preso in causa, e comprese che forse Gideon credeva che stesse cercando di tirargli fuori informazioni per ritorcerle contro di lui. Non se ne stupì: nel clima in cui si viveva Hogwarts riguardo il proprio sangue, avere il suo cognome poteva essere una buona motivazione per dubitare di lui. Non se ne rallegrò, né se ne risentì, con la sua impassibilità encomiabile. Non smentì i suoi dubbi, né li avvallò come gli sarebbe convenuto fare, se realmente voleva mantenere una certa distanza da lui. Non infierì con delle bugie, coerente con la decisione di distrarlo da ciò che lo aspettava in Sala Torture. «Se vuoi fidarti o no sono affari tuoi, io non chiedo fiducia,» puntualizzò girandosi verso di lui, sostenendo il suo sguardo. Lo disse come se fosse stata una cosa assurda e lo era. Non se ne faceva nulla della fiducia, una persona che non voleva avere a che fare con la gente. Gideon era il suo opposto: si stava già domandando quanto gli convenisse fidarsi e lui, che si fidava solo di se stesso e della ragione, a sua volta si domandò come facesse a essere così ingenuo e accogliente verso gli altri.
    «Eloquente. Sto parlando davvero troppo.» E non gli piaceva. No, non era sarcasmo, o meglio lo era, ma mischiato a verità. Non capiva come si potesse essere logorroici quando avrebbe fatto volentieri a meno delle parole. Già che c’era, però, non si sarebbe risparmiato. «C’è qualcosa di strano nella tua paura. Quasi disperazione. Sai che molti ragazzi che si aggirano per i corridoi sono stati in Sala Torture e, be’, se camminano devono essere vivi.» Forse troppo tagliente, ma non si fermò dal suo esame. «Sì, c’è qualcos’altro.» Lo guardò con una sorta di leggerezza. Non era in attesa trepidante di una risposta, non lo reputava questione di vita o di morte. Se avesse voluto, il McPherson stesso avrebbe parlato.
    Era bravo ad analizzare, Perses, ma cosa avrebbe fatto se qualcuno lo avesse messo di fronte all’impossibilità di farlo?


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    "Sapere qual è l’oggettiva giustizia e praticarla sono due cose separate"

    Madò che filosofo. #gideoncolpito

    Si sentì sciogliersi, sempre di più, grazie alle parole del ragazzo che si rivelarono in un certo senso, rassicuranti. Forse non lo sapeva, Perses, ma nonostante la sua introversione era riuscito a mettere il Corvonero a proprio agio. Sorrise, Gideon, constatando quanto l'altro fosse allergico alla vicinanza ad un'altra persona ed al contatto fisico. Avrebbe dovuto semplicemente allontanarsi da lui, lasciargli il proprio spazio, e lo avrebbe anche fatto, in altre circostanze, ma ehi, doveva morire, poteva fare il cazzo che gli pareva!!111! E quindi, per tutta risposta, ovviamente, scalò ancora verso di lui. Rimanendo con la coscia sovrastata dal mantello nero, a diretto contatto con quella di Perses. Hai tipo paura che come ultimo desiderio decida di limonarti qui, su questa panchina, Sinclair? Non succederà per ora. Ma che problemi aveva Perses? Morgana, gli risvegliava il ribelle dentro. E non mordo, cazzo, sto per morire, vuoi darmi un po' di affetto? E con affetto non intendeva certo un abbraccio, o qualsiasi altra cosa comportasse un contatto fisico vero e proprio, eh. Intendeva solo...di non allontanarlo. Chiedeva il mondo? Poi, però, si alzò, ponendosi dinnanzi a lui perchè stanco di stare seduto. Senza contare il fatto che sentiva l'incessante bisogno di muoversi, non poteva stare fermo, doveva bruciare l'ansia. Si morse le pellicine delle dita, mentre lo ascoltava, preso dalle sue parole. Non avrebbe fatto la spia, ed era un filo-ribelle, e Gideon lo apprezzava per questo. Chi lo avrebbe mai detto? I Sinclair avevano la fama di essere dei Purosangue DOC, e se fino a quel giorno Gideon aveva accostato la parola Purosangue a...snob e soprattutto, mangiamorte, Perses Sinclair lo aveva fatto ricredere.

    Eloquente. Sto parlando davvero troppo

    Espresse stupore, dischiudendo le labbra.
    Emozionato. Perses Sinclair con la lingua sciolta con me? Pensavo mi odiassi un po', sai...dopo la biblioteca. A proposito, dov'è il roditore? Lo guardò dall'alto della sua posizione, soffermandosi ad osservare il suo cuoio capelluto splendente e del tutto biondo, dello stesso colore delle sue ciglia. Uao, ma allora forse non era tinto? Ma poi il ricordo del centro commerciale lo investì in pieno come un treno in corsa. Ma certo che non era tinto. #iykwim

    Doveva trovare il lato positivo di tutta quella faccenda, e dopo aver sviscerato i propri pensieri era arrivato ad una conclusione, sì, lo aveva trovato, quel lato positivo. Accedere alla Sala torture non doveva per forza essere del tutto negativo o tragico, gli avrebbe consentito un certo vantaggio conoscitivo. Avrebbe potuto perlustrare quella sala, ricordarne le armi di tortura, i nomi dei torturatori e le dinamiche che avvenivano là dentro. Non lo avrebbe fatto per ricordarsele meglio in futuro, ovviamente, ma per preparare sua sorella, nel probabile caso in cui anche a lei fosse toccata la stessa sorte in futuro. Le avrebbe presentato una realtà peggiore di ciò che l'avrebbe effettivamente aspettata, così che una volta entrata non sarebbe stata così terribile: avrebbe perlustrato la sala torture, per il bene della conoscenza (?), così da prepararsi per poter preparare a sua volta Hazel.

    "Sai che molti ragazzi che si aggirano per i corridoi sono stati in Sala Torture e, be’, se camminano devono essere vivi."

    Il discorso di Perses non faceva una piega, ma aveva dimenticato un dettaglio importante. Gideon l'osservò con le sopracciglia aggrottate in un'espressione di pura confusione. Ma li aveva visti gli studenti che giravano a scuola? Gran parte di loro erano delle bestie di satana, nati e cresciuti ad Hogwarts dopo anni di severi allenamenti, talmente pesanti da aver forgiato i loro fisici ed averli abituati al dolore. La maggior parte di quegli studenti era arrivata al sesto anno scolastico dopo averne passati cinque sotto tortura. Mentre lui, vissuto nella più mite e tranquilla Salem, non aveva avuto questa fortuna. Senza contare il fatto che non era fisicamente allenato nemmeno nelle prove fisiche basilari che la vita metteva dinnanzi ad un qualsiasi comune persona. Correva e si stancava subito, non saltava mai se non sul proprio letto, non era nemmeno abituato agli sforzi fisici di nessun tipo ed era pigrissimo - per di più, spoiler: gideon mcpherson era stitico, aveva persino l'intestino pigro! #losochevolevisaperlo
    Sollevò le spalle, non voleva nè essere compatito, ne passarsi come inetto o debole, era solo la verità. Io vengo da Salem. Li è diverso. Sono anni che la Sala torture non viene utilizzata. Non sono mai stato torturato. Fece una pausa. Molti ragazzi che girano per i corridoi di Hogwarts, sanno già cosa gli aspetta. E poi... e poi, non doveva certo porre l'attenzione sulla sua particolare condizione fisica, ma voleva farlo. Non lo faceva mai se non si sentiva completamente a proprio agio, e lì con Perses lo era. Davvero. E dai, dopo il centro commerciale avevano la confidenza giusta per...farlo. Gideon abbassò lo sguardo sulle proprie mani indecise, le portò sotto il gilet, alla camicia bianca che sfilò con cura dai pantaloni. Si guardò intorno per assicurarsi che fossero soli, in un orario in cui gran parte degli studenti avrebbero dovuto trovarsi a lezione. Sospirò, insicuro, ma poi tirò su piano quella stessa camicia per mostrargli il petto, e la cicatrice sopra impressa che divideva in due lo sterno, evidenziata dalla quasi totale assenza di peluria sul petto del ragazzo. Uno scambio equo di informazioni sui propri corpi, alla fine: Gideon sapeva che a Perses brillava il gingillo, e Perses sapeva che Gideon aveva nel petto un cuore non suo. E poi ho paura.




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    Chi doveva limonare chi?
    Perses fissò Gideon, perplesso dalla sua sfacciataggine. Non si aspettava che il McPherson fosse così diretto, o forse era solo la paura a farlo parlare in quel modo. Quel che non si spiegava, era come gli fosse anche solo venuto in mente che lui potesse credere quelle stupidaggini. Pers non avrebbe limonato proprio con nessuno, solo il pensiero gli faceva venire l’orticaria a fargli cambiare idea ci voleva solo l’erba nei termosifoni #capodanno e non si astenne dal guardarlo male.
    «Sono terrorizzato per la mia virtù, davvero,» commentò sagace, lasciando poi cadere il discorso. Dio, le persone che amavano il contatto fisico proprio non le capiva, e fu solo perché in fondo non avrebbe avuto vantaggi a infierire che non si scostò in maniera sgarbata. Però spostò un po’ la coscia dalla sua, nella misura sufficiente per non sentirlo lagnarsi e per non avere i nervi a fior di pelle. Non era cattiveria, non era reale disgusto, perché Gideon non era poi così fastidioso. Riflettendo, gli risultava meno indigesto di molti altri e gli aveva chiesto di fare pace quando altri avrebbero continuato tranquillamente a odiarlo, senza provare a correggere il passo falso della loro conoscenza. Insomma, gli sembrava una brava persona, ma Pers non andava a preferitismi: non gli piaceva essere troppo vicino a qualcuno, in nessun caso e con nessuno. Theia poteva fargli tutto quello che voleva che non le avrebbe mai detto nulla, ovviamente, e d’altronde loro due erano cresciuti insieme, sempre a stretto contatto e il legame con lei superava qualsiasi cosa.
    Affetto? Trovò buffo, ridicolo e al limite dell’impossibile che Gideon lo conoscesse e nonostante tutto gli chiedesse affetto; o davvero non lo conosceva, o il suo stato ansioso lo faceva delirare. Corrugò appena le sopracciglia, e si rese conto che no, di certo non lo avrebbe abbracciato, ma non era neanche sicuro di sapere come si facesse a dare affetto. Si parlava di abbracci, strette di mano? Lui le reputava superflui, ma gli altri? Sapeva che comunemente ci si mostrava affetto così, eppure al solo pensiero non si sentiva in grado. Gli avrebbe persino detto qualcosa come “Mi dispiace ma non sono capace”, con una freddezza che avrebbe nascosto il disorientamento, perché non aveva compreso pienamente se Gideon si fosse aspettato un gesto di conforto da lui, gesto che non sarebbe arrivato e questo lo faceva quasi sentire in colpa. Molto vagamente, per quanto lo riguardava, ma già quello era un traguardo.
    Gli parve di tornare a respirare ossigeno quando Gid si alzò dalla panchina, lasciandogli di nuovo lo spazio di cui aveva bisogno; se notò la notevole mancanza di calore contro la gamba e il braccio, fu solo per una frazione di secondo prima che ritornasse a posarsi allo schienale. Il McPherson probabilmente non si rendeva conto di quale consistente peso fosse persino accennare a delle ideologie diverse da quelle dei Mangiamorte, per un membro dei Sinclair, cresciuti a caviale e privilegi; era un po’ un tabù, perciò si sentì più leggero e al sicuro nel sorvolare l’argomento e tornare a concentrare l’attenzione su Gideon. Assistette al suo stupore in silenzio – non era mica assurdo definirsi eloquente –, ma schiudendo d’istinto la bocca per ribattere.
    «Ghiro. È un ghiro. Si chiama Sleepy, ed è in dormitorio in letargo.» Scrollò le spalle, osservandolo con sguardo cauto. Perses non aveva mai avuto dubbi, non aveva mai provato odio per Gid. Odio era un concetto troppo estremo, non dava abbastanza importanza alle persone per odiarle e non c’era spazio nella sua analiticità per un sentimento che l’avrebbe reso poco oggettivo. «Ora non ti montare la testa. Abbiamo avuto un diverbio, ma tu hai ritrovato il mio ghiro e ti ringrazio. Abbiamo fatto pace, ricordi?» Scosse appena la testa, alzando le sopracciglia come a rinfrescargli la memoria. Non disse che Gideon, il suo sorriso e la sua ironia stavano diventando pian piano familiari, che si stava abituando a vedersi salutare da lui per i corridoi – perché Gideon salutava sempre tutti, era una cosa che altri sicuramente reputavano tenera –. Era diversissimo da lui, però non gli dava noia, semmai il contrario: lo ignorava per evitare di dargli l’impressione che lui potesse fare cose come abbracciarlo – no –, ma era consapevole della sua presenza e in fondo andava bene così.
    Quando sua sorella e lui erano da soli e lei decideva di utilizzarlo come cuscino, spesso Pers si vedeva obbligato a togliersi una cuffia dall’orecchio per cercare di capire di cosa caspita stesse parlottando quel piccolo uragano che gli premeva la guancia sul petto, facendogli intendere di star reclamando la sua attenzione; se parlava di scarpe o borsette, lui ci metteva poco a zittirla avvolgendole le spalle e tirandola con sé sul divano, iniziando una delle loro guerre più o meno innocue in cui si scombinavano i capelli e si schiacciavano per la supremazia gemellare #wat. Perses si divertiva a lasciarle sempre vantaggio nella lotta o a farla vincere, perché Theia era una primadonna e perché, be’, era la sua sorellina e lo faceva ridere vedere la soddisfazione sul suo viso quando dichiarava la propria sconfitta. Forse, nonostante il biondo non ne fosse consapevole Gideon gli trasmetteva una sensazione simile a quella di Theia: un po’ serio e un po’ giocoso, talvolta ingombrante – e fastidioso – come pochi, ma entrambi avevano quel tipo di calore tiepido che rasserenava durante l’inverno senza bruciare.
    Quel collegamento involontario poteva essere un’altra ragione per cui il Sinclair non se ne fosse fregato del Corvonero e della sua preoccupazione: era da anni che tentava di garantire la serenità a quella combinaguai della gemella, era un riflesso del tutto istintivo e protettivo.
    Però non aveva considerato che Gid veniva da Salem. Lì la realtà era diversa, anche se Perses era improntato sull’ottica che si acquisiva ad Hogwarts. Strinse le labbra e annuì. In tutta sincerità, non credeva ci si potesse preparare per affrontare la Sala Torture.
    E fino a quel momento aveva creduto che fosse questione di sola paura, quella che spingeva Gideon a essere tanto pessimista. Si alzò dalla panca, perché Gideon si stava sul serio spogliando della camicia davanti a lui, e attribuì quel colpo di testa a una crisi di nervi da arginare. «Non voglio vederti nudo, risparmiatelo,» provò a dire, ma le mani dell’altro non si fermarono. Per sicurezza scorse mentalmente la lista degli incantesimi che conosceva, alla ricerca di uno che avesse la funzione di calmante tavor 2.5, o che fosse d’aiuto.
    Ma dubitava che potesse essere preparato a quello. «E poi ho paura.» Pers si sentì preso in contropiede, bloccato nei movimenti mentre fissava il petto e la confusione non accennava a diminuire. Allo stesso tempo, si rese conto di varie cose: primo, che Gideon aveva una cazzo di cicatrice verticale al centro del petto; secondo, che lo conosceva ancora meno di quanto credesse e poco importava quanto avrebbe potuto studiarlo, Perses non avrebbe mai compreso niente se l’altro non glielo avesse appena svelato; terzo, che forse il McPherson aveva ragione ad avere paura. Rimase per una manciata di secondi in silenzio e quando alzò gli occhi verso quelli scuri dell’amico Corvonero lo sgomento era visibile sui suoi lineamenti. «Cristo, è...» Diamine. Questo no, non se lo sarebbe aspettato, non avrebbe potuto. Alzò persino la mano per sfiorargli la pelle, prima che si domandasse cosa diavolo stesse facendo e la abbassasse di scatto. «Cosa ti è successo?» Si portò all’indietro i capelli, tirandoli in una proiezione della sua incredulità. Lo aveva colpito, non sarebbe riuscito a nasconderlo.
    Quello gli interessava, anche se a Pers non interessava mai nulla, se non l’accademico necessario. Gli importava, più di quanto dovesse, e voleva capire cosa fosse successo a Gideon, cosa avesse portato a un intervento tanto rilevante di cui portava il segno sul corpo. Questo cambiava tutto, e ora poteva tranquillamente fare due più due e arrivare al timore di Gideon, alla sua ansia. Era logico, accidenti, era per quello che aveva paura. Fece un paio di passi avanti, provando un’emozione diversa dalla pena – no, Perses non compativa –, molto più vicina all’irrequietezza dell’ignoto, quanto quello che avrebbe sopportato in Sala Torture avrebbe influito su quello che aveva davanti a sé.


    Perses Sinclair | 16 y.o. | sheet
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    19/10/18 | H: 11:00 a.m.
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    Il massimo del conforto che avrebbe trovato in Perses Sinclair, probabilmente, sarebbe stata una pacca sulla spalla e tanti saluti. Gideon era consapevole di questo e lo accettava così com'era, non voleva certo forzarlo a spargere un po' del suo calore umano, sempre che ne avesse in scorta o ne producesse. Qualcuno avrebbe detto di no, i Sinclair non producevano alcun calore umano, ed Antheia era solo un'eccezione. Nonostante questo, Gideon era convinto che sotto lo strato di freddezza e diffidenza, Perses nascondesse un animo caliente più caldo del suo. Ne era davvero, davvero sicuro.

    Il tempo stringeva, e Gideon sapeva di dover andare, recarsi in quella Sala torture e sperare di uscirne quanto meno ancora sano di mente.
    Voglio assistere all'uscita dal letargo di Sleepy. Piagnucolò. Ma senza libri o pergamene nelle vicinanze. Voleva rimanere lì, voleva continuare a frequentare quella scuola, avrebbe quasi potuto decidere di sopportare il ghiro di Perses, quando sarebbe uscito dai sei mesi di letargo. Sperava di esserci, per quel momento.

    Teneva su la camicia bianca, combattendo contro gli spifferi di freddo di quella non caldissima giornata e guardando con curiosità l'espressione di Perses che scrutava il suo petto, domandando cosa gli fosse accaduto. Non sapeva se gli interessava davvero o se lo stesse chiedendo perchè le circostanze lo portavano a farlo, ma era convinto che la schiettezza del Sinclair non gli avrebbe impedito di sbattergli in faccia, all'occorrenza, il cazzo che gliene fregava, senza troppi giri di parole. Se glielo aveva chiesto, era perchè davvero curioso. E come non esserlo, comunque?
    Chinò lo sguardo anche lui sul proprio petto, in un misto di disgusto e rassegnazione. Non sentiva più il peso che lo aveva oppresso per anni, costringendolo a mentire sulla sua condizione, per cui rispose sinceramente.
    Sternotomia. Aprono lo sterno per operare il cuore.
    Pronunciò forse per la prima volta quelle parole dopo troppo tempo. Ho subito un trapianto di cuore quando ero piccolo. Gli spiegò. Magari adesso poteva capire di più il suo disagio? La sua paura - forse irrazionale - per la sala torture? Nonostante fosse una persona intelligente, Gideon era comunque umano, e la paura per la propria salute e per la morte gli impedivano di distinguere gli eventuali pericoli reali e quelli che, invece, regnavano solo nella sua testa.
    La cosa fantastica è che fino all'anno scorso raccontavo di essere caduto su un ramo, e di essermi fatto male così. Corrugò le sopracciglia, ripensando a quel periodo di vita, a quegli anni di vita. E se aveva sempre mentito perchè sapeva che, alla fine, erano fatti suoi, la verità era che lo aveva fatto anche a causa di un grande senso di colpa che lo avrebbe perseguitato per sempre.
    Poi, qualcosa era cambiato, forse con il tempo era cresciuto, aveva accettato quella realtà ed aveva scelto di conviverci, o meglio, l'aveva accettata a metà. Se anche l'operazione in sè fosse stata una cosa bella da raccontare, ovvero un'esperienza di vita che lo vedeva fortunato e sopravvissuto, ciò che si celava dietro quell'evento, ovvero la morte di sua sorella, era il macabro dettaglio che puntualmente evitava di raccontare. E non importava che fossero passati anni da quell'episodio, Gideon si sarebbe sentito in colpa per sempre. Riabbassò la camicia, risistemandosela con cura dentro il pantalone della divisa e richiudendosi con il mantello per stemperare il freddo. Guardò l'orario sull'orologio a parete esposto sulla torre, ed il solo notare quanto poco mancasse al suo appuntamento in sala, gli fece accapponare la pelle.
    Okay, devo andare. Grazie per...questa breve chiacchierata, Pers. Si strinse ancora di più, tenendo ferme le ginocchia che tremavano e minacciavano di cedere da un momento all'altro, non tanto per il freddo, quanto per la paura. Scusa se sono stato invadente. Magari domani ti dimostrerò che so essere un tipo più...discreto. Sperava di rivederlo presto? Certo, sì.
    O magari no. Sollevò le spalle.
    Magari non sarebbe sopravvissuto.





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    Era assurdo pensare a come da mesi Pers vedesse Gideon per i corridoi, senza aver mai notato quello che celava appena sotto la divisa. Non lo aveva notato nessuno, del resto nessuno avrebbe potuto farlo, ma sapere che fino a quel momento un dettaglio così importante di una persona che incontrava spesso gli fosse completamente sfuggito rendeva tutto davvero troppo relativo per lui, che di incertezze non ne desiderava affatto e men che meno ne sentiva il bisogno.
    Adesso, di colpo, non solo era venuto a conoscenza della cicatrice del Corvonero, ma l’aveva vista coi propri occhi e quello lo rendeva in qualche modo più reale, nemmeno Perses avesse avuto delle idee sulla veridicità delle parole dell’altro. Occhio non vede, cuore non duole; stavolta, Pers non poteva fare finta di niente come faceva sempre, né che la faccenda non lo riguardasse dato che si trovava lì e Gideon gli aveva appena confessato che aveva subito un trapianto di cuore da bambino. Se fosse stata una rivelazione meno inaspettata, probabilmente avrebbe fatto spallucce e ci sarebbe passato sopra con la massima indifferenza.
    Avrebbe voluto fare lo stesso anche quel giorno, eppure non era solo lo sguardo del moro a impedirglielo, bensì l’improvvisa presa di coscienza che… effettivamente, non aveva la più pallida idea se un cuore come quello di Gid – così come, poi? Sulle conseguenze di una sternotomia era assolutamente ignorante e poteva solo tirare a indovinare – avrebbe avuto difficoltà o meno a superare la tortura e il dolore. Cosa sarebbe successo all’interno del suo petto? Perses riusciva a riflettere solo su quello, scrutando il ragazzo che ora era al centro dei suoi pensieri con diffidenza, quasi fosse stata colpa sua se era finito in una situazione in cui non sapeva come muoversi. Però neanche lui se la sentì di ignorare il problema.
    Era un insensibile ma, abituato sin da piccolo a soccorrere Theia anche per un misero graffio sul ginocchio, si ritrovava improvvisamente in disappunto alla prospettiva di lasciare Gideon a se stesso. Ma cos’altro avrebbe potuto fare, in fondo? Guardò un attimo a terra, domandandosi quale fosse la cosa più logica da fare: la risposta era che, purtroppo, non poteva fare nulla. Per qualche motivo, si sentì in colpa per davvero, ed era una sensazione che non avvertiva da… da sempre, forse. O quasi. «Spero tu ammetta che è più imbarazzante la scusa del ramo della vera causa,» mormorò infine, rialzando gli occhi blu tra le spirali di condensa prodotte dal suo fiato, tipiche del freddo e della stagione. Parevano parole prive di particolare empatia, tuttavia Perses voleva dirgli che, semplicemente, non c’era nulla di cui vergognarsi. Forse c’erano persone per cui la cicatrice che Gideon aveva sulla pelle potesse avere un peso – un peso negativo –. Lui non era tra quelle, per fortuna. Tendenzialmente gliene importava meno di zero, tranne in quel caso.
    Anche il Serpeverde controllò l’orologio e l’inquietudine che gli si stava accumulando nello stomaco aumentò nel constatare che Gideon doveva andare in Sala Torture era per lui inspiegabile, ma decisamente tangibile. Non gli piaceva rimanere con degli interrogativi su quello che sarebbe successo e, adesso, stava succedendo esattamente quello.
    «Mmh,» emise solo ai ringraziamenti dell’altro, aggrottando le sopracciglia mentre alzava il mento e lo fissava con la consueta attenzione nello sguardo. Non ci voleva un genio per capire che Gideon aveva una grande paura, come tutti quelli che venivano mandati in Sala Torture… ma lui era diverso, lo era il suo cuore. Come un fulmine a ciel sereno, l’intenzione di cercarlo per i corridoi – o in infermeria, sì – tra qualche ora e assicurarsi che stesse bene, per quanto possibile non gli sembrava tanto banale e stupida. L’avrebbe fatta passare per casualità, e a se stesso disse che lo faceva soltanto per liberarsi del senso di colpa. Niente di più, niente di meno. Non c’era nessun perché.
    «Discreto? Non ci crederò mai, McPherson, ma nessuno ti vieta di provarci,» ironizzò, rivolgendogli però un cenno della testa e un’occhiata appena più lunga della sua norma. «Domani vedremo questo clamoroso fallimento.» Doveva senz’altro essere così, il giorno dopo l’americano sarebbe ancora stato lì a rompergli le scatole fino allo sfinimento.
    Aspettò che l’altro, con la titubanza di chi non se ne voleva andare e non voleva affrontare quello che lo aspettava, se ne andasse per afferrare i fogli che giacevano sulla panchina e metterli in ordine, suo malgrado con fare distratto. Si permise di voltarsi e indugiare per un misero secondo sulla schiena del Corvonero, potendo immaginare benissimo la sua espressione tesa seppur non la vedesse, prima di sospirare e mettersi la pila di fogli sottobraccio.
    Sì, un giro in infermeria prima di andare in dormitorio per il coprifuoco se lo poteva permettere.


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