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    Shadowhunters GDR

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    ❝ Noah Cavendish❞✦ sheet ✦ 30 (43) ✦ Neutrale ✦

    Era passato molto tempo dall'ultima volta che Noah aveva messo piede fuori casa.
    Prima ancora che Bella entrasse nella sua vita. Anche se quel periodo non potevano considerarsi proprio vere uscite.
    Da quando la ragazza se ne era andata, poi, si era chiuso in se stesso, cercando di riprendersi dal dolore dell'abbandono.
    Quella mattina aveva deciso che era ora di uscire dal suo guscio e tornare a prendere possesso della propria vita. Si fece una doccia fredda e si vestì con un paio di jeans ed una tshirt verde. Dopodichè prese la sua giacca nera e si materializzò a Hogsmade. Giunto all'entrata del villaggio, fece una passeggiata sulla via principale godendosi l'aria frizzantina della mattina. Arrivò da Madama Piediburro a metà mattina, con l'intenzione di andare a fare colazione. Certo era ormai tardi per farla, era più l'ora di uno spuntino, ma a Noah non importava. Non aveva mai seguito l'etichetta delle fasce orarie per mangiare. Ciò nonostante gli piaceva tenersi in forma, così da allungare la giovinezza del fisico, aiutando quindi le pozioni che creava.
    Entrò nel locale salutando cordiale il personale poi si sedette al bancone.
    "Salve, potrei avere una tazza di caffè bollente e un paio di cupcake della casa?" chiese, lanciando uno sguardo alla commessa dietro il banco.
    Mente quella prendeva l'ordinazione e andava in cucina, Noah si guardò intorno. Il locale era pieno di giovani maghi e streghe, intenti a mangiare, chiacchierare, o a lavorare. Lui, ovviamente, lavorando a casa, non poteva certo portarsi le bottiglie delle pozioni in giro. Erano delicate.
    La ragazza tornò con una tazza fumante e un piattino con su due dolcetti fatti in casa.
    "Grazie" fece lui di rimando, lanciandole un occhiolino e prestando poi tutta la sua attenzione a ciò che aveva davanti.
    "abbiamo appreso tanto quanto abbiamo sofferto"
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    belladonna
    I fucked up, I know that, but Jesus
    Can't a girl just do the best she can?

    meh, no, non ne sarebbe mai stata pronta. C'era chi non faceva altro che ripeterle come fare il genitore fosse il lavoro più difficile del pianeta – persino più del suo, ricca mantenuta che di tanto in tanto si preoccupava di andare a timbrare il cartellino al ministero per poi sparire a fare chissà cosa in giro, da vera italiana qual era #wat – tuttavia, malelingue a parte, belladonna non aveva trovato così difficile quella parte dello svegliarsi la notte, pulire i pannolini, occuparsi di sfamarlo eccetera, ed essenzialmente perché non se n'era mai preoccupata. Da quando buona parte della sua famiglia sembrava essersi dileguata nel nulla, chi morto chi meno, belladonna aveva deciso di sfruttare le loro eredità per se stessa il suo splendido bambino.
    Hai voluto morire, cole? bene, ora ci comprava i peluche con la tua parte di eredità (quale).
    Hai voluto prendere e fare un viaggio per chissà dove, arci? E tu, ake, lasciare il tetto familiare per andare a procreare altrove? perfetto, ora donna usava la loro /misera/ parte di guadagno della panetteria per pagarsi abbastanza tate da non essere /mai/ lasciata sola con quel figlio del demonio. Che, a proposito, più lo guardava più ne restava sorpresa: come faceva il figlio di un vecchio come l'hansen avere /ancora/ così tanta voglia di correre, gridare, piangere, tirare, mordere, vivere, quando suo padre era l'emblema della vecchiaia avanzata?
    Perché sì, era inutile fingere: quel demonio bambino non poteva che essere nato così, da quella scellerata notte – di cui aveva riacquistato i ricordi solo molto tempo dopo, diluito tutto l'alcool in eccesso e fatto un rapido esame di coscienza sul come diavolo avesse fatto a trovarsi incinta dal giorno alla notte. Aveva pianto donna, aveva pianto come una ragazzina, perché lei quel figlio non l'avrebbe voluto – perché lei di diventare donna, madre, non ne voleva sapere – perché tutto le avevano rubato in gioventù, e ora più che mai temeva di vedersi strappare anche il futuro.
    Lei, che a stento riusciva a badare a se stessa, che trent'anni mai poteva dire di aver mentalmente raggiunto – ora madre. E piangeva, piangeva a dirotto, le prime notti temendo di annegare nel proprio stesso pianto. La soluzione più logica, in ogni caso, era stata respinta: si odiava, lo odiava, ma non avrebbe mai potuto portare a termine un aborto. Più di tutti odiava sinclair, che solo dopo qualche mese dalla nascita di eugène poté davvero riconoscere come padre, e che lì non era quando sentiva che ogni minuto di vita di quella creatura, rubava anni a lei.
    Era un mostro? Sì, ma non sarebbe mai riuscita a compiere un atto simile – e nei mesi che trascorrevano, arrivò al punto in cui poté solo arrendersi al fatto che il bambino sarebbe venuto al mondo, e lei lo avrebbe dovuto accudire.
    Eppure sorrise, al primo abbraccio fra madre e figlio – giusto qualche istante, forse dovuto allo sforzo del parto e alla gioia di averlo superato, prima di sentire l'angoscia tornare a stringerle la bocca dello stomaco, e delicatamente allontanare il bambino dal petto per lasciarlo nelle calde mani di una delle prime donne di cui si era circondata già dai primi vagiti del bambino. Donna aveva paura, e non voleva restare sola con lui.
    Casa baudelaire era diventata improvvisamente silenziosa dalla sparizione dei suoi parenti, ed era in quei momenti che ne sentiva forte la mancanza: inizialmente, aveva chiesto più volte a lydia di restare a dormire, mentre nella stanza affianco delle tate si davano il turno per stare dietro i pianti del mocciosetto – poi aveva iniziato a trovare immaturo chiamare la nipote per farle compagnia, così come rebecca, e quindi aveva smesso. Più volte si era ripetuta che se c'era qualcuno da chiamare, quello era sinclair, lui e lui soltanto. E più volte la notte, per disperazione, le sfiorava la mente il pensiero di farlo effettivamente – e passava le notti così, a rimuginare, per poi riuscire a prendere sonno solo alle prime luci dell'alba.
    Ma non l'aveva fatto.
    E forse, sperava, avrebbe potuto continuare così – indossando con nonchalance la sua indifferenza verso l'uomo come un paio di occhiali gucci. Ignorava di averne più bisogno di quanto voleva ammettere; o forse, fingeva solo, perché non era niente il lavoro delle tate, in confronto a quello che lei sentiva sulle spalle, quel peso sempre peggiore che doveva stare attenta a far sì che non la schiacciasse. Perché giorno dopo giorno quel bambino cresceva e imparava, approcciandosi a lei in modo sempre diverso, sempre più... umano – non era più il bambolotto da portare in giro per rimorchiare, né quello dagli orari fissi, che si svegliava – piangeva – mangiava – poi tornava a dormire, in un loop continuo.
    Ora il bambino stava in piedi di fronte a lei, la fissava, la toccava - con quelle mani grassocce si appendeva alle sue gambe e la tirava - a volte si arrabbiava e diceva cose. A modo suo comunicava e cercava un modo per farsi capire a vocaboli poco convinti, a volte lamentosi, a volte arrabbiati... come se un po' gli scocciasse dover /addirittura/ sforzarsi ad aprire bocca per ottenere quello che voleva. E tutto ciò, spaventava donna.
    Quella mattina non era troppo diversa: era ormai consuetudine da un anno portare il bimbo a passeggio in carrozzino, sempre bellamente conciata, con affianco una ragazza che essenzialmente doveva occuparsi di tutti gli imprevisti e le faccende spiacevoli legate alle “passeggiatine” /improvvisi pianti, ricerca di cibo, bisogni fisici... roba che donna non toccava, sia mai./ Quel giorno, in particolare, aveva deciso di portare il bambino ad hogsmeade: sperava in cuor suo che la magia di quel posto lo incantasse e lo tenesse zitto, almeno per un po', lasciandole il tempo di farle passare l'emicrania di cui ormai soffriva ogni giorno per le notti infauste. E infatti, per qualche decina di minuti il piano parve funzionare: eugène si osservava attorno entusiasta e confuso, con gli occhi colmi di domande, a volte meraviglia, altre paura – ma il passaggio di fronte al negozio di madama piediburro attirò la sua attenzione più che mai, col piacevole odore che dalla porta usciva ogni volta che un cliente entrava, spargendosi sulla stradina in modo invitante.
    Ed eugène, come del resto qualunque essere umano ancora privo di autocontrollo, iniziò ad agitarsi sul passeggino, cercando di scendere e lamentandosi in modo capriccioso – diamine, faceva sempre i capricci «sì sì, eccomi... che c'è?, ti piace questo posto?» per quanto distaccata, donna non voleva essere una cattiva madre. Non voleva essere come la madre di cole e lydia, ma sapeva solo a cosa non ispirarsi... una donna che aveva ucciso il marito e spedito la figlia in una scuola lontana da casa, essenzialmente. Poi certo, netflix e film davano esempi di come fare la madre – ma lei non si sarebbe mai ridotta come joyce di stranger things, sciatta e sfibrata. Oddio, stanca lo era già, ma non si sentiva di darne la colpa al piccolo, e fissandolo iniziò a slacciare la cintura del passeggino; eugène annuì rapido e scese dal passeggino, zampettando -inizialmente incerto poi sempre più sicuro- verso il negozio. «non penso sia l'ora adatta per far fare la merenda al bambino...» belladonna non le rispose, lasciando la ragazza in mezzo alla strada col passeggino per seguire il figlio con passo severo; gli aprì la porta e lo vide iniziare a correre verso il grande bancone a vetro dietro cui erano esposte torte di ogni dimensione e forma, per ogni gusto e occasione. Lo seguì, ma si tenne a una discreta distanza dal bancone, per vedere che vi fosse qualcosa capace di migliorarle l'umore, «questo... voglio questo!» e con un dito grassoccio eugène puntò una torta dietro il vetro, potendoci quasi sbavare sopra – tuttavia, il movimento di una torta fatta levitare con un incantesimo attirò il suo sguardo così tanto da farlo indietreggiare stupito, fino a sbattere contro le gambe di un uomo di spalle, alto e imponente. Scappò via, verso dei barattoli aperti in esposizione, pieni di caramelle a tema di halloween «no, quelle no!» la ragazza gli corse dietro per fermarlo dal riempirsi la bocca di denti corn dall'aria estremamente allegra, fatti per attirare l'attenzione (incauta) di un bambino.
    Belladonna si avvicinò invece al vetro, puntando una coppia di muffin di cioccolato fondente e aroma di arancia, decorato con una certa maestria – tanto da renderlo probabilmente più bello che buono; approfittando della vicinanza si scusò «lo perdoni, è un po' vivace» con l'uomo contro cui eugène era andato a sbattere, senza curarsi di fissarlo – più per stanchezza che vero disinteresse. Ora come ora voleva solo prendere quei muffin e tornarsene a casa «mamma, mamma!, prendi quelli» quel nome le fece stringere lo stomaco tanto forte da sentire l'aria venire meno in tutto il corpo, e quasi le vertigini: eugène le si attaccò nuovamente alla gamba scoperta dalla gonna dal ginocchio in giù, e la tirò, con l'arroganza tipica dei bambini. Strinse i denti, sentendo l'emicrania farsi più forte «belladonna, eugène, ho anche io un nome come te, ed è quello» e, per far smettere i capricci del bambino, lo afferrò dalle braccia per farlo staccare dalle gambe. Il bimbo non si oppose, ma la guardò in quel modo che già più volte aveva creato confusione e dolore nella donna, che sentiva solo di voler chiudere gli occhi e dormire... dormire tanto, ancora, per sempre. E sapeva che per farlo doveva muoversi ad uscire da lì.
    Allora facendosi forza si chinò e lo prese in braccio, tenendolo così seduto addosso al suo petto «ti piacciono quelli? Li prendiamo?» e il bimbo, mogio, annuì.





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    deatheater | pavor
    mother | dickhead


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    ❝ Noah Cavendish❞✦ sheet ✦ 30 (43) ✦ Neutrale ✦

    Stava tranquillamente consumando il suo pasto quando un bambino piccolo andò a sbattergli contro. Noah lo fissò, un pò stupito perchè non se lo aspettava e un pò pensieroso: aveva un aria dannatamente familiare. Sarà.. pensò tra se, alzando gli occhi e continuando a mangiare. Quella pausa però durò molto poco perchè venne nuovamente disturbato - se così si può dire - da quella che credeva fosse la madre del bambino. La donna, una giovane bionda sulla trentina, gli si avvicinò scusandosi per la vivacità del pargolo.
    "Oh, non si preoccupi" rispose lui guardandola velocemente senza degnarle troppa attenzione.
    Attenzione che però tornò vigile quando la bionda disse il suo nome. Belladonna.
    Con una fitta di dolore al petto, Noah girò la testa lentamente, fissando il suo sguardo verso di lei. Per un momento che parve lungo un'eternità la vide bene: solo una persona poteva avere quello sguardo, quella voce e quel caratterino sempre un pò ribelle ma amorevole se meritevole. Era davvero lei?
    "Non ci posso credere" sussurrò a bassa voce. Tornò a voltarsi dall'altra parte, cercando di far finta di niente. Come era possibile che dopo tutto questo tempo, dopo che se ne era andata via, le loro strade si sarebbero incontrate nuovamente? Dopo il loro trascorso, come l'avrebbe presa lei, se Noah si fosse presentato? Era una decisione difficile da prendere, in quanto non era convinto di volersi scoprire così tanto. Non ora, non quando ormai si sentiva meglio dopo aver ripreso a lavorare. Non ora che Csaba aveva portato un pò d'aria fresca nella sua vita.
    Decise però che non doveva farsi mettere i piedi in testa da Belladonna, non poteva e non doveva darle tutto questo potere su di lui. Anzi, quando andò a pagare, prese un muffin e si diresse verso la donna. Avvicinatosi, si accucciò per essere alla stessa altezza del bambino sul suo grembo, e offrì il dolcetto.
    "Tieni" gli disse sorridente. "Tua madre ha sempre avuto questo caratterino, non è vero?". Parlava con lui, ma il suo viso rilassato e scoperto era facilmente individuabile dalla donna.
    "abbiamo appreso tanto quanto abbiamo sofferto"
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