don't you worry, don't you worry child

maeve + dakota

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    Appoggiò il mento sulle braccia incrociate chinandosi in avanti oltre la ringhiera della culla, lo sguardo verso il basso e un sorriso leggermente ebete sulle labbra sottili. Lewis, sottilissimi capelli bruni a far capolino sulla testa pallida, agitò un pugnetto in aria e Dak, senza pensarci, allungò una mano verso di lei, un dito teso che subito venne afferrato in una stretta morbida; se possibile, l'espressione del Wayne si illuminò ancora di più, seppur conscio che da parte della bambina fosse stato un gesto del tutto istintivo e non dettato da un particolare tipo di amore per lui. Provò a ritirare la mano dopo qualche secondo e Lewis, mezza addormentata, emise un gorgoglio offeso. «Non ti lascio » mormorò Dakota immediatamente «Ora sono qui»
    Dakota sarebbe potuto rimanere a guardare le figlie di Mae per ore senza mai stancarsi. Non aveva mai avuto dubbi sul fatto che gli piacessero i bambini, ma i neonati? Non credeva fossero il suo forte; troppo imprevedibili, incomprensibili, fragili. Anche quando aveva avuto occasione di guardare i figli di Jaden, di Al, o le gemelle di Xav, non ne era stato particolarmente colpito; i bebè erano carini, sì, adorabili, ma come potevano esserlo i cuccioli di qualsiasi razza... con Lewis e Carole era diverso. Le vedeva da lontano, e accelerava il passo per poter star loro vicine; facevano una qualsiasi cosa, un qualsiasi movimento, e gli si stringeva il cuore; le prendeva il braccio, e doveva sforzarsi per rimetterle nella culla o fra le mani della madre. Era certo che fossero le bambine più belle del mondo (anche se non si era permesso di dirlo davanti Al per non obbligarlo a difendere River, sicuramente già abbastanza nei suoi pensieri), e le amava in maniera per lui incomprensibile, considerando che non le conosceva neanche. Merito di Mae, indubbiamente, del fatto che fossero un po' parti di lei essendo sue figlie.
    Sue figlie.
    Santo cielo, ancora, ancora Dakota aveva bisogno di metabolizzare quella cosa, e se ci pensava troppo a lungo perdeva un battito come la prima volta che aveva visto il pancione. Maeve era sempre stata una figura materna, ma era così folle immaginarla effettivamente mamma a soli ventidue anni! Non perchè non fosse un'ottima madre, ovvio, o perchè Dakota non se la vedesse con due bambine appresso senza un padre (gli spiaceva, che Lewis e Carole non avessero un padre biologico e Mae un compagno, ma sarebbero tutte e tre sopravvissute più che bene, ne era certo), bensì perchè aveva sempre pensato che lui avrebbe avuto tutto il tempo necessario per elaborare la cosa. Che avrebbe avuto nove mesi, che avrebbe vissuto a stretto contatto con Mae la gravidanza, che le avrebbe portato cibi strani quando lo richiedeva, che le avrebbe fatto i massaggi se lo necessitava, che le avrebbe fatto compagnia in sala d'aspetto prima delle visite, che ci sarebbe stato quando la ragazza avesse scoperto il sesso del nascituro o scelto i nomi... Dakota, invece, era stato privato ingiustamente di tutto quello, e ancora adesso, dopo settimane, dopo quei raggi di sole in un mondo sconosciuto che erano le gemelle, ancora si sentiva violato, triste, arrabbiato. A volte con Vasilov, a volte con nessuno in particolare, più volte con se stesso. Maeve parlando raccontava un piccolo episodio capitato in quei mesi nel 2118, e Dakota stringeva i denti in un sorriso forzato, il cuore a sprofondare un po'. Io non c'ero. Vedeva le foto del pancione, e quasi voleva piangere. Io non c'ero. Si ricordava che Maeve era stata da sola per un mese, incinta, e provava l'impulso di gridare. Io non fottutamente c'ero.
    Sapeva, logicamente, non fosse stata colpa propria. Sapeva di non aver scelto del tutto volontariamente di fare una vacanza di mesi nell'universo alternativo, e che anche quando era diventata una scelta fosse stata quella giusta restare con Amalie e Cora e assicurarsi che non fossero le uniche a perdersi, che fosse stata la scelta giusta aiutare Lancaster con quell'arma perchè aveva evitato il martirio di troppe altre persone. Sapeva che Maeve non lo odiava, che lo aveva già perdonato... ma questa consapevolezza del cuore non era abbastanza per farlo dormire serenamente la notte, per farlo stare accanto a Mae come se niente fosse successo e guardarla negli occhi senza aver paura di leggervi la sua delusione, senza sentirsi un mostro nascosto dietro un sorriso. Amava così tanto Maeve, e proprio per questo a volte trovava difficile starle accanto senza sentirsi male, preferendo farsi da parte per persone che davvero non l'avevano lasciata sola in uno dei periodi più difficili della sua vita. «però se le fai chiedere da quell’infermiera se puoi andare, sono abbastanza certo ti lascerà entrare» «nah, dovresti andarci tu» A volte credeva di non meritarsi di starle ancora accanto, quando aveva scelto altri invece che lei, o che guardandolo Maeve non riuscisse a non pensare che l'aveva abbandonata come tutti, anche se poi era tornato, e che il solo esserci di Dakota in quel momento potesse renderla ancora più triste.
    Sarebbe stato più facile sopravvivere con i propri sensi di colpa se fosse riuscito a trovarsi un fottuto lavoro per tenere impegnata la testa, invece che rimuginarci su ogni santo giorno, ma a quanto pareva le sue competenze da guaritore nel 2118 erano parecchio antiquate, e i corsi di formazione si erano rivelati più noiosi e meno impegnativi del previsto. Non chiedeva altro di poter essere dannatamente utile anche in quel futuro, Dakota Wayne, di potersi dedicare ad una causa e sentirsi necessario; era così tanto da esaudire? Come poteva rendere di nuovo Mae fiera di sè, se passava tutto il giorno a bighellonare?
    Lewis si addormentò nuovamente, facendo scivolare la presa da Dakota, e il ragazzo si alzò stiracchiando la schiena. Si baciò indice e medio, posando poi le dita leggerissimo sulle testoline delle gemelle.
    Quando Dakota si voltò, mano a strofinarsi gli occhi stanchi per la veglia della sera prima (poteva non essere il padre delle gemelle, poteva non doversi alzare ogni santa volta che piangevano nel cuore della notte, ma anche Dakota viveva in quella casa nonchè era in corsa come miglior zio possibile e supporto per la bionda), Mae era ancora seduta sul divano, poco distante. Si umettò le labbra, sforzandosi di trovare il coraggio di guardarla negli occhi. "Non è colpa mia", si ripeté, "Era la cosa giusta da fare"
    «Ti porto qualcosa? Caffè, da mangiare? Il signor Hamilton ha detto che c'è una torta, da qualche parte» signor Hamilton. Chiamarlo Leonard lo metteva a disagio, così come dargli del tu; non era mai stato abituato a stare con persone sopra i venticinque anni che non fossero i suoi professori, e Leonard, in quanto poliziotto, rientrava in una categoria solitamente additata da Dakota negativamente; era strano pensarlo come uno dei buoni. Ci aveva messo almeno due settimane a prendere coraggio e servirsi da solo in cucina senza chiedere ogni volta il permesso, o entrare e uscire di casa senza avvisare.
    Fece per andare nell'altra sala (che Mae lo desiderasse o meno, lui aveva bisogno di caffè), ma si fermò in mezzo al corridoio, un'improvvisa rivelazione. Leo a lavoro, Al da qualche parte, Jason a farsi un giro, Amalie con Barry, le gemelle addormentate... Si girò nuovamente verso la ragazza, guardandola da sopra la spalla con un'espressione divertita e stupita del tutto in contrasto con il tono nostalgico e triste che l'accompagnò: «E' la prima volta in settimane che siamo da soli» non che avesse cercato di evitarlo. Non proprio volontariamente, almeno. «E' come essere a Reggia Makota mentre Scott è fuori. Sembra... passata una vita» e in un certo senso era così #100anni
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    don't you worry child era il testo sul primo regalo grafico makota che mi hai fatto e sono ancora emotiva al riguardo
     
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    Aveva letto diversi, troppi libri, Maeve Winston, per poter credere che diventare madre fosse così semplice. Continuava ad aspettarsi che da un momento all’altro una delle bambine smettesse di respirare, o che stretta in grembo e cullata non avrebbe mai cessato di piangere - o che sparissero, di punto in bianco; che fosse stato tutto un sogno. Non era neanche un mese che Carole e Lewis erano venute al mondo, eppure la bionda Corvonero non riusciva a ricordare come fosse una vita senza di loro; era giunta alla conclusione che finchè il pianto delle bimbe non era rimbalzato da una parete all’altra della sala parto, non avesse vissuto affatto. Ricordava gli anni della sua infanzia, quando tutto era facile e leggero; ricordava l’adolescenza, e quello strappo netto che la Resistenza aveva sancito nella sua esistenza trasformandola interamente in prima e dopo. Ricordava, Maeve Regan Winston, che da quel momento era stato tutto diverso: alzarsi la mattina, frequentare le lezioni – come studente e come insegnante -, preparare il pranzo o la cena, tornare a letto sentendo già l’ansia crescente per la giornata successiva. Ricordava la paura - o almeno, credeva di farlo. Da quando Lewis e Carole le si erano addormentate fra le braccia, il viso tondo e paffuto poggiato sul petto e le spalle ad alzarsi ed abbassarsi con abbandonata fiducia, aveva compreso che quella provata fino a quel momento – partecipando ad una missione della resistenza, , ma anche il costante nodo alla gola che uno dei suoi amici venisse scoperto, o ultimamente il mero voltare l’angolo di una strada non troppo familiare – non era stata vera paura: guardando le sue - le sue - figlie, sentiva un terrore nuovo e lancinante.
    Di perderle. Di non essere all’altezza. Di deluderle. Erano delicate e fragili, giovani esseri umani vulnerabili - e lo sarebbero rimaste a lungo (per quanto la riguardava, per sempre). Non era (o meglio, non solo) preoccupata che potessero farsi male fisicamente, in quel momento come negli anni successivi; sì, avrebbe sicuramente ricordato loro di indossare la canottiera prima di uscire e di coprirsi bene, di portarsi l’ombrello malgrado prevedessero sole tutta la giornata, ma era parte di una normale routine: quello che le toglieva il sonno, già movimento dal pianto delle ragazze, era il mondo in cui sarebbero cresciute. Aveva provato sulla sua stessa pelle quanto potesse crudele, quanto - quanto - potesse cambiarti, schiacciarti, umiliarti e farti pregare di non essere mai venuto al mondo. Quanto fosse cattivo, e ti corrompesse che le scelte fossero giuste o sbagliate, sporcandoti le mani di sangue e lasciandoti tremante in un angolo buio di te stesso. Stava lottando per quello, Maeve; da quando aveva scelto la Resistenza, aveva cercato un modo per proteggere il futuro da quello che lei, e tanti come lei, erano stati costretti a vivere e sopravvivere ogni maledetto giorno, una vita più serena ed in cui non temere che alzare la voce potesse costarti una condanna.
    Ma non era ancora, quel futuro. Le sue - le sue - bambine non erano pronte a quello; non voleva che il mondo le avesse. Sapeva per certo, in ogni febbricitante battito nello sterno, che avrebbe fatto qualunque cosa pur di proteggerle, dove sacrificare la sua stessa vita era solo il minore dei mali - ma.
    Ma. Evidentemente non era bastato, non era maledettamente bastato, perché Amalie Shapherd le sorrideva ogni mattino da sopra la tazza di caffè domandandole se avesse dormito bene. Sua figlia. Le si stringeva il cuore al solo pensarlo, e quando ne incrociava le iridi familiarmente azzurre, provava un dolore quasi fisico al costato. La sua bambina? Non avrebbe dovuto essere lì, ed intendeva in un qualunque lì, anche se lo specifico duemila-maledizione-centodiciotto certamente non perorava la causa. Perché. Dove aveva sbagliato? Da qualche parte Maeve Winston, la Resistenza, il cielo sapeva cosa, aveva fallito, costringendo una ragazza dal cuore troppo buono ed il sorriso troppo bello ad un viaggio spazio temporale che l’aveva strappata dalla vita che conosceva – una vita in cui Maeve le aveva rimboccato le coperte, cantando la ninna nanna per farla addormentare, preparato la zuppa calda quando stava male, ed offerto gelato per i primi, cocenti, cuori spezzati. Mabel Winston – Crane aveva partecipato ad una missione potenzialmente letale per salvare il mondo.
    E non era giusto. Non avrebbe dovuto essere suo compito. Guardando Lewis e Carole addormentate nella culla, non poteva - non poteva - immaginare che un giorno avrebbero potuto, o dovuto, fare la stessa scelta: era il suo lavoro in quanto ribelle, in quanto essere umano, ed in quanto madre impedire loro decisioni del genere.
    Non
    Era
    Giusto
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    Era fiera di Amalie? Sempre. Fiera di quella Mabel intrappolata nelle foto che la Corvonero le aveva mostrato? Sempre.
    Il problema, come sempre in quei casi, era Maeve. Aveva sbagliato una volta – anche se non sapeva come, né quando – non voleva ripetere gli stessi errori. Ed aveva un fisico malessere al petto, a pensare che la sua bambina (perché la era, la sua bambina) fosse cresciuta con dei perfetti sconosciuti che non l’avevano mai apprezzata quanto avrebbero dovuto – e tutto per colpa loro, perché non erano riusciti a risolvere i problemi prima che fosse troppo tardi. Maeve non c’era stata, per dirglielo - a Mabel. Non c’era stata. E dire che a lei, Hemingway, Hyde e Jekyll? l’avrebbe ripetuto finchè avesse avuto voce con cui farlo e dita con cui scriverlo nella polvere.
    Mi dispiace.
    Mi dispiace. Non servivano a nessuno, quelle scuse – e lo sapeva, Dio!, lo sapeva! – ma non sapeva come altro fare. Non poteva più rimediare, né in quella linea temporale, né in quella precedente. Si era persa Mabel, nel 2043; si era persa Amalie nel 2018.
    Guardava Carole, e la supplicava con lo sguardo di non lasciare che si perdesse anche lei.
    «Ti porto qualcosa? Caffè, da mangiare? Il signor Hamilton ha detto che c'è una torta, da qualche parte» Staccò non senza fatica lo sguardo dalle bimbe per portarlo su Dakota, perfettamente consapevole che l’ex Grifondoro potesse leggere buona parte di quelle domande, di quei dubbi, nei troppo chiari occhi azzurri, o nelle labbra curvate verso il basso. A che pro nascondergliele? Era sempre stata una ragazza insicura, ed essere diventata mamma – specialmente così giovane - certamente non poteva aiutare. Guardando Dakota, si ricordò che Aiden, in giro per il mondo, neanche sapeva Maeve fosse rimasta incinta; che i suoi genitori fossero morti, e non avrebbero mai potuto viziare le bimbe con un biscotto in più rubato dalla teglia. Che Jade non era lì. Poco importava, a quel punto, che fosse sua sorella; non era per quello che la Winston avrebbe voluto volerla accanto, né – anche se certamente, giocava la sua parte - non poterle chiedere consigli sulla maternità.
    Era la sua migliore amica. Non le importava che del sangue, effettivamente, le legasse, o che prima di lei avesse affrontato una situazione simile: voleva semplicemente potesse essere lì perché era Jade, perché avrebbe saputo cosa dirle e come farlo, e perché avrebbe amato Lewis e Carole quanto Maeve amava Uran. Umettò le labbra e rivolse un debole sorriso al Wayne, ancora poco avvezza ad averlo intorno in quel contesto ed in quel mondo. Non ricordava neanche se gli avesse mai detto quanto le fosse mancato; quanto, ogni giorno, si domandasse come stesse, cosa stesse facendo, se sarebbe mai tornato - e più passavano i mesi, più si chiedeva se avrebbe mai conosciuto le sue nipotine. Ora che era lì, davanti a lei, sentiva di poter (e di voler) scoppiare a piangere.
    Non che l’avrebbe fatto, era pur sempre Maeve Regan Winston. «caffè» sospirò, lasciando che il sorriso si allargasse spontaneo. Era la sua coperta di Linus, il caffè – il suo marchio di fabbrica. Corrugò le sopracciglia, il capo reclinato sulla spalla. «e torta. decisamente una fetta di torta, per favore.» concluse, arrotolata sul divano con le ginocchia piegate sotto di sé. Inspirò dalle narici, espirò lentamente. La quiete del futuro la …turbava più di quanto non la tranquillizzasse, a voler essere onesti; pareva un’immensa ironia, avrebbe dovuto esserne grata, ma…egoisticamente, perché? Non era il suo mondo, o il suo tempo; avevano raggiunto quel benessere grazie a loro, ma non con loro: potevano chiamarli Salvatori quanto volevano, ma la verità era che i Prescelti altro non erano che un immenso mare di guai.
    Voleva tornare a casa. Per quanto corrotta, sbagliata - marcia - voleva tornare a casa. In teoria, in teoria, potevano, o perlomeno così le avevano detto.
    Era la pratica, come sempre, a peccare.
    «è la prima volta in settimane che siamo da soli. È come essere a Reggia Makota mentre Scott è fuori. Sembra... passata una vita» Il sorriso apparso sulle labbra della Winston ad inizio di quella frase, svanì come il sole all’orizzonte alla sola menzione di Scott. Scott Chipmunks, il ragazzino a cui avevano promesso protezione ed una casa.
    Una famiglia.
    Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, deglutendo fino a cancellare il denso sapore della bile rimasto sul palato. Si limitò ad annuire, un flebile «una vita» a sgusciare distratto dalle labbra dischiuse. La era - ben più di una vita, se aveste chiesto alla bionda. «mi domando sempre cosa faccia» battè le palpebre, spostò lo sguardo su un punto imprecisato del divano. «come stia» un sussurro appena udibile, il cuore a spostarsi in tonfi sordi in gola ed ogni muscolo. Colpevole - un altro fallimento. «so che è un ragazzino in gamba, e so che -» ce la può fare anche senza di noi, ma… Alzò la testa in direzione del Wayne, sapendo già che qualunque cosa avesse pensato in quei mesi, l’aveva già pensata anche Dak: ma «mi manca.» Concluse, tentando un sorriso più convincente. «l’hai…l’hai visto? Nell’altro universo, intendo» Fece guizzare la lingua fra le labbra, stringendola poi fra i denti. «so che non era il nostro, ma…» era comunque qualcosa, no? «era pur sempre scott Credeva. Aveva compreso poco dell’altro mondo – e quel poco, non le era piaciuto - ed aveva avuto poco tempo, o spazio, per domandare. L’antico e mai sopito animo da Corvonero si riaccese alla consapevolezza di poter finalmente accedere ad ogni risposta, approfittando soprattutto dell’assenza del resto dei coinquilini. Non che Dakota le avrebbe mai mentito in ogni caso, ma… le mancava parlare con lui. Le mancava lui. «cos’è successo nell’au, dak?» domandò, pur sentendo nel denso battito cardiaco di non volerlo davvero sapere - così come sapeva che quel bisogno d’ignorare, significava che dovesse sapere. Lo osservò più a lungo del dovuto, sentendo le spalle vibrare ad ogni dettaglio che si era imposta di non dimenticare: il sorriso gentile, gli occhi sottili e sempre caldi, la fossetta sulla guancia e gli spettinati capelli castani. «mi sei mancato, grifolasagna»
    Per tutta una vita.
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
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    Letter by letter, it cut me line by line
    I'm proud of these scars 'cause they're mine
    written in the scars - the script
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    «una vita»
    Quando Maeve ripetette l'ultima frase, il diciannovenne si sentì immediatamente in colpa. Ricordare Scott, ricordare che l'avevano lasciato solo nonostante le promesse, non aiutava nessuno dei due. Tanto più che Dakota sapeva non l'avrebbero mai più rivisto.
    Strinse il labbro inferiore fra i denti, riprendendo il viaggio verso la cucina per racimolare caffè e viveri. Non senza disagio, si mise a frugare in giro alla ricerca di quanto promesso a Maeve, trovando con qualche difficoltà la torta decantata dal signor Hamilton.
    «mi domando sempre cosa faccia, come stia. so che è un ragazzino in gamba, e so che -» Voltandosi con la torta in mano, Dakota sorrise leggermente, capendo perfettamente i pensieri della bionda; erano i propri, a cui lui non riusciva a dare voce senza pensare inevitabilmente a Noah.
    «mi manca.»
    «lo so» un mormorio leggero, un "anche io" detto con altre parole, che nel caso di Dakota valeva doppio... e alla fine, la domanda che temeva arrivò: «l’hai visto? Nell’altro universo, intendo»
    Dakota solitamente non aveva problemi a parlare della morte, o di qualcuno che se n'era andato. Fin da quando era poco più di un bambino aveva convissuto con la spiegazione di cosa fosse successo ai propri genitori, e crescendo fra l'infermeria, la ribellione e poi l'ospedale aveva visto sempre più cose terribili, ferite incurabili, azioni irreversibili. Anche quando avrebbe pianto, era solito obbligarsi a reagire con calma e sangue freddo (cinismo, se vogliamo dirlo così) per non far star peggio chi si trovava di fronte: a volte bisognava comunicare a un giocatore di quidditch che non avrebbe mai più giocato sapendo che per lui era la fine del mondo; capitava che un bambino entrasse in ospedale che era già spacciato, e dovevi comunicarlo alla famiglia senza poter indorare la pillola perchè non esisteva un "potrebbe andare peggio"; in certe situazioni i corpi dei compagni ribelli non si potevano riportare alle famiglie, perchè i mangiamorte non scoprissero che erano stati nella resistenza, e tutto quello che potevi fare era fingere di non saperne niente.
    Ma parlare di Noah non era ancora facile. Parlare di Noah, o Gkee, di Jade, di Eugene... per mesi erano stati amici, compagni, il suo mondo, una parvenza di normalità in un universo sconosciuto. Scott-au o no, era arrivato un momento nell'altro mondo in cui non aveva più avuto importanza l'aspetto di nessuno, la versione alternativa di nessuno. Noah era Noah, era stato suo amico, ed era morto. A poco importava consolarsi all'idea che il suo Scott fosse ancora vivo da qualche parte. Non erano la stessa persona.
    «so che non era il nostro, ma… era pur sempre scott Si girò cercando due tazze, espirando lentamente per tentare di riprendere il controllo.
    «Noah Larson» disse versando il caffè bollente; si schiarì a voce cercando di renderla più leggera «Diverso dal nostro Scott, ma un bravo ragazzo» si umetto le labbra, ripensando a quando l'aveva casualmente incontrato la prima volta su una panchina, e aveva cercato di indagare su di lui, e Noah aveva risposto che se voleva farselo non era giornata. Dakota era rimasto senza parole per poi scoppiargli a ridere in faccia. «Sei uguale ad un mio amico, eppure non gli assomigli per niente» «Occhiali, fighetto... affatto timido, decisamente saccente e narcisista» ridacchiò. «Un piccolo genio» e la risata morì da sola sfumando quando si ricordò, in pochi secondi, che stava parlando di qualcuno che non c'era più, che non sarebbe stato più niente di tutto ciò. Una freccia al petto, l'intervento del Wayne decisamente inutile quando la battaglia era ormai terminata, il danno irreparabile. Combatteva in Dakota la voglia di mettersi a piangere fra le braccia di Maeve, e allo stesso tempo risparmiarle un dispiacere inutile. Neanche l'aveva conosciuto, Noah; perchè dirle che era morto? «Un... un eroe» Si portò la mano alla bocca, soffocando un singhiozzo. Chiuse gli occhi; li riaprì poco dopo. Poteva tenerselo per sè ancora un po'. «Ha combattuto nella resistenza contro il dittatore Seth; ha fatto la differenza nel suo mondo» e tanto bastava per rendere chiunque fiero di lui.
    «cos’è successo nell’au, dak?» Dakota afferrò il vassoio con sopra la torta e le due tazze e si voltò per tornare in sala, sulle labbra secche un sorriso che Maeve sicuramente, conoscendolo, poteva vedere sull'orlo dell'incrinatura. Cosa non era successo, nell'au. Tornò verso il divano, e senza guardare la bionda posò il vassoio sul tavolino. Si sedette accanto a lei con la schiena in avanti, lo sguardo per terra fra le gambe e le mani congiunte. Non era certo di voler essere del tutto sincero, ma non era certo di poterle mentire; aveva bisogno di dirle la verità, e dirle quanto stesse male, quanto fosse stato brutto. «mi sei mancato, grifolasagna»
    sbuffò nervosamente una risata. «Anche tu, viso d'angelo» Anche lei. Sempre, ogni giorno, da far male. Non era stato di conforto poter conoscere un'altra Maeve, perchè nessuna sarebbe mai stata la propria ed era stato stupido illudersi di ciò nell'AU anche solo per mezzo secondo. «ma sono felice che tu fossi al sicuro qui. Cosa... cosa vuoi sapere?» alzò la testa, la bocca ancora incurvata leggermente. «Abbiamo passato qualche settimana a nasconderci e basta, come criminali, e a un certo punto abbiamo fatto... cadere la copertura, e abbiamo invece iniziato ad aiutare la ribellione» si strinse nelle spalle «La nostra gente continuava a sparire - veniva qua, anche se non lo sapevamo ancora - ma non era una cosa facile da controllare e-» strinse le labbra distogliendo di nuovo lo sguardo, le mani a torturarsi «io sono rimasto volontariamente nell'universo alternativo, Mae. Mi dispiace. Sarei potuto venire qui, da te, mesi fa, ma-... ma avevano bisogno di me lì; capisci?» deglutì. Alzò la testa, ma non guardava ancora la ragazza. «Non solo Amelie, non solo Cora - anche se sicuramente non avrei lasciato nessuno indietro, finchè non avessimo trovato un modo per andare via tutti insieme - ma anche...» scosse la testa, lo sguardo fisso sulle tazze avanti a sè. «Loro. Gli altri - gli abitanti di quel mondo. Glielo avevamo incasinato noi, abbiamo reso noi il loro dittatore più mostruoso che mai, e glielo... dovevamo, in un certo senso. Quella non è solo una versione alternativa, non è un videogioco... sono persone come noi con sogni, aspettative, amici, paure-... e se la passavano male. Male davvero» rabbrividì, stringendo le mani fra loro mentre la voce si faceva rotta dal ricordo e dalla rabbia «Ho visto quando Seth ha bruciato vivi un paio di ragazzini chiaroveggenti, o ha fatto uccidere pubblicamente figli dalle loro madri promettendo la salvezza di terzi, mentendo» finalmente, sollevò lo sguardo su Maeve, negli occhi tutto il proprio senso di colpa. «Mi dispiace averti lasciata sola, Mae. Non sapevo-» deglutì, lo sguardo ad andare verso la culla, per poi tornare su di lei. «Pensavo fossi a casa, al sicuro. Non avevamo idea-» scosse la testa. «Mi dispiace, tesoro. Non avrei voluto lasciarti sola, ma era la cosa giusta da fare» Sospirando per calmare il battito del cuore che accelerava, si passo le mani fra i capelli, togliendoseli dalla faccia. «Ed è il motivo per cui credo che non-... non sia una buona idea tornare nel 2017» Ecco, l'aveva ammesso. Con Jason non era stato tanto franco, lasciando che continuasse a passare i suoi giorni cazzeggiando convinto che sarebbero tornati a casa, mentre Dakota si dava da fare per imparare tutto di quel mondo, per poter essere assunto in ospedale, per potersi rifare una vita lì... ma un giorno avrebbe dovuto parlarne col ragazzo, e fargli capire che quando fosse arrivato il momento di scegliere, Dakota sapeva già da che parte avrebbe fatto pendere il piatto della bilancia. «Lancaster ha detto che le giratempo, ricaricandosi, ci riporteranno a casa, ma-... se Vasilov riuscisse a usarle per i propri scopi, liberando Abbadon? Forse troverà un altro modo, non lo so, ma perchè aiutarlo, perchè rischiare?» si nascose la faccia fra le mani sospirando, negli occhi le immagini di corpi martoriati di civili e innocenti, di disperazione, di pianti. Nessun universo meritava un Abbadon, e in un certo senso poteva capire perchè fosse stata cancellata la memoria di lui. Spesso voleva dimenticare persino Dakota quei pochi mesi. «Non ne valiamo la pena»
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    maeve regan winston // n.1 mom.mp3
    Avrebbe voluto essere meno Maeve, Maeve Regan Winston, nello stringersi le braccia attorno alla vita incapace di riempire gli spazi bianchi lasciati dal racconto di Dakota. Riusciva a vederli, a sentirli fra un vibrato e l’altro di materiale per incubi che a lei erano stati risparmiati: Ho visto quando Seth ha bruciato vivi un paio di ragazzini chiaroveggenti, o ha fatto uccidere pubblicamente figli dalle loro madri promettendo la salvezza di terzi, mentendo. Aveva davvero creduto che il loro mondo potesse essere il peggiore in circolazione? Quell’universo era una versione ancor più distorta del loro tempo; era l’utopia di una società già corrotta – era la paura per la quale un’adolescente Winston aveva deciso di abbandonare il quieto terreno della neutralità, unendosi alla Resistenza.
    Un…un eroe. Lo dicevano anche di loro, nel futuro; Maeve sapeva non fosse un complimento. Così si era limitata a deglutire, lasciando che il non detto rimanesse tale e perdesse concretezza. Era abbastanza intelligente da sapere quali domande avrebbe dovuto porre, e abbastanza codarda per non averne alcuna intenzione: le conferme, non piacevano a nessuno. Strinse maggiormente la presa su se stessa, gli occhi chiusi e le labbra serrate. Mentre il Wayne le raccontava di un altro mondo ed un altro Scott, la bionda non poteva fare a meno di pensare che, per quanto ne sapessero, il loro tempo poteva essere diventato così; il loro Scott, un eroe.
    Maeve Winston voleva tante cose per Scott Chipmunks, ma non che diventasse un eroe: il prezzo da pagare, sarebbe stato troppo alto. Inspirò ed espirò piano, schiudendo gli occhi per posare lo sguardo oltre la finestra e ivi lasciarlo vagare. In parte voleva fidarsi del paradosso spazio temporale, e della certezza che se il loro mondo avesse cambiato la propria rotta, quel tempo avrebbe cessato d’esistere; un pensiero terrificante, certo, ma in qualche modo anche confortante, perché significava avere la certezza che una Jade Beech sarebbe sopravvissuta abbastanza da avere un’altra figlia, ed iniziare la discendenza dei Jackson francesi. D’altra parte, dato che non c’era nulla di normale o scientificamente provato in tutta quella maledetta situazione, poteva essere successa qualunque cosa, alla sua Jade; il 2118 poteva non essere altro che una diramazione della realtà, l’ennesima presa in giro di un universo dal piccato senso dell’umorismo.
    Non si fidava più di nulla, Maeve.
    Riportò gli occhi cerulei su Dak solamente alla parte delle scuse, incapace di tenere per sé l’espressione scettica che le corrugò le sopracciglia. «non devi chiedermi scusa, grifolagna» osservò, sospirando sollievo nel familiare tono piccato sgusciato dalle labbra. Qualcosa di familiare, ricordare a Dak che non le dovesse chiedere perdono per nulla, in quel contesto come in centinaia d’altri passati: poteva non approvare sempre le sue scelte, ma si fidava di lui – e sapeva, sapeva, che dietro ogni scelta del Wayne, fatta eccezione per l’ambito amoroso (dai, Jason Maddox era stato un errore di calcolo; glielo perdonava ♥), c’era una motivazione sensata. «avrei fatto lo stesso», se avessi potuto. Abbassò gli occhi colpevole, spostando il peso da una parte all’altra. Non era Dak, ovviamente, a metterla a disagio, quanto la consapevolezza di aver nuovamente! fallito nel proteggere sua figlia: avrebbe dovuto essere lei quella a rimanere nell’altro universo, lei il punto fermo all’interno del caos. Glielo doveva. Era sinceramente sollevata dal fatto che ci fosse stato almeno, almeno, Dakota a prendersi cura di Amalie; d’altronde, era suo zio. Sollevò gli occhi chiari sul ragazzo, il labbro inferiore stretto fra i denti. Poteva dirglielo? Voleva dirglielo, Mae, ma non sapeva se l’altro avrebbe voluto sentirlo.
    O forse, aveva semplicemente paura che potesse giudicarla. Irrazionale, lo sapeva, ma quando si andavano a sfiorare determinate tematiche, la Winston faticava a collegarle al raziocinio, troppo legata al battito tachicardico dietro le costole.
    «Lancaster ha detto che le giratempo, ricaricandosi, ci riporteranno a casa, ma-... se Vasilov riuscisse a usarle per i propri scopi, liberando Abbadon? Forse troverà un altro modo, non lo so, ma perchè aiutarlo, perchè rischiare? Non ne valiamo la pena» Si fermò a metà movimento, il busto allungato verso il tavolino per afferrare una delle tazze. Non era il non ne valiamo la pena ad asciugare la bocca di Maeve, quanto - «e se trovasse comunque il modo di farlo, e noi non fossimo lì a proteggere i nostri amici? la nostra famiglia» Non voleva altri eroi, l’oramai ex insegnante di Incantesimi. Non voleva - non poteva - sacrificarli per un se. Aveva paura? Sempre, oramai pareva essere una costante nei suoi respiri, ma aveva più paura di non esserci per loro, che di un super cattivo leggendario incontrato in un universo alternativo.
    Oh, quant’era in errore - ma non poteva ancora saperlo, Maeve Winston.
    Strinse la tazza fra i palmi, soffiando sul caffè ed osservando Dak da sopra la ceramica. «da una parte…» deglutì, lo sguardo a ripiegarsi sulle proprie dita. «sarebbe più semplice credere che possa bastare rimanere qui, a non scatenare l’apocalisse» e gli occhi scivolarono sulle culle dove Lewis e Carole dormivano ignare ed innocenti, una stretta al cuore esibita nelle nocche bianche attorno alla tazza. «a tenere tutti al sicuro» un sussurro, la voce densa dei dubbi condivisi da anni con il Wayne (come facciamo a salvarli tutti; come facciamo a salvarci noi). «ma…non è forse un rischio anche questo? È tutto un azzardo, dak» scosse il capo, le dita a spingere una ciocca platino dietro l’orecchio. «è tutto confuso» ancor più, da quand’era madre. Le preoccupazioni di Maeve avevano raggiunto livelli così superiori, che talvolta temeva non ci fosse più posto per se stessa, in quel troppo esile corpo che condividevano.
    Ma c’era sempre posto per entrambi; ma c’era sempre un’altra mattina, ed un’altra giornata, ed un’altra guerra da vincere che costringeva Maeve Winston e le sue paura e convivere ancora un po’. «se vasilov riuscisse a liberare seth anche senza il nostro, ipotetico, contributo…siamo gli unici ad essere a conoscenza di cosa seth sia in grado di fare, o di essere; potremmo…potremmo fare la differenza» O magari, le sue, erano solo scuse per poter tornare a casa. «ho sentito racconti di un altro viaggio nel tempo; di ragazzi disposti a sacrificare le loro vite, la loro esistenza, per la minuscola speranza di poter cambiare la storia, e salvare tutti» Un respiro e mezzo, due battiti a pulsare in gola. «potevano fallire, e morire nell’impresa; potevano fallire, e causare paradossi tali da far collassare la realtà su se stessa, decretando la fine della razza umana» *sips quietly her coffee* Voleva davvero fingere che quei dubbi non le fossero sovvenuti dalla maratona di Doctor Who fatta nei mesi in cui s’era ritrovata da sola – ma tant’era. «ma ci hanno provato lo stesso; glielo dobbiamo, di valere la pena» spostò gli occhi su Dakota, socchiuse le palpebre. «e sai chi c’era fra quei ragazzi, dak? le mie bambine» fece scivolare lo sguardo sulle culle, costringendo la propria voce a non tremare. «ci puoi credere?» io non potevo. «non l’avrei fatto, se non me l’avesse raccontato lei stessa» Ancora scosse il capo, ancora si fermò i secondi necessari per deglutire timori e saliva acida. «ora lewis, un tempo mabel» Lo sguardo che rivolse a Dakota Wayne, al suo grifo lagna, era trasparente quanto il vetro di una bottiglia d’acqua. Negli occhi limpidi di Maeve c’era solo la supplica di essere creduta, di avere il cieco supporto, malgrado l’assurdità della situazione, dello stesso Grifondoro che alla sua prima lezione al castello, le aveva portato una mela ed un sorriso: ce la puoi fare, viso d’angelo. Non aveva nulla da nascondere al ragazzo: i timori di essere madre, di essere stata madre, di aver perso e di star inconsciamente ancora perdendo, di non essere stata abbastanza – di averci provato, ed averci provato, e «tu la conosci come amalie» ci provo sempre, Dakota, ma non capisco dove sbaglio.
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    «e se trovasse comunque il modo di farlo, e noi non fossimo lì a proteggere i nostri amici? la nostra famiglia»
    I gomiti appoggiati sulle ginocchia, Dakota nascose il viso fra le mani ancora giunte fra loro, sospirando pesantemente. Non era come se non ci avesse mai pensato, come se non avesse passato quelle settimane sveglio la notte a chiedersi cosa avrebbe dovuto fare - cosa avrebbe dovuto pensare; trovare il modo di tornare a casa? Farsi una vita lì, e convincersi che ormai fosse quella, casa? Era sempre stato un amante delle liste, ordine in una vita di caos e giustizia mai fatta, e aveva fatto un elenco mentale delle cose positive e negative del passare il proprio tempo nel futuro a scoprire la maniera per ritornare indietro nel tempo; l'idea che la propria presenza nel 2017 di nuovo avrebbe potuto fare la differenza nella lotta contro Vasilov lo aveva di certo tentato a pendere per la lista dei pro... ma
    quei visi
    quella disperazione
    quel mondo.
    Davvero volevano aumentare il rischio? L'idea che far funzionare di nuovo le giratempo potesse liberare Abbadon in un mondo dove c'erano il loro Scott, i loro minireb, i loro Stiles, e Isaac, e Niamh... come poteva sottoporli ad un azzardo simile? non voleva fare qualcosa che potesse incasinare tutto solo perchè gli mancavano, solo perchè quel futuro non era il futuro che aveva pensato per sè. Tornando da loro avrebbero potuto aiutarli, forse, avrebbero potuto informarli su tutto ciò che avevano scoperto-
    ma avrebbero anche potuto rovinare tutto.
    Il calcolo del rischio era una funzione matematica, e l'aveva provato a misurare più e più volte.
    «Non-» c'eri, Mae, non l'hai visto.
    Non capisci l'entità del rischio; aiutarli? Forse. O forse gli negheremo questo 2119 pieno di uguaglianza sociale, senza statuto di segretezza, libero dai mangiamorte.
    Non so cosa pensare.
    Non so cosa sarebbe giusto fare.
    Non-

    «da una parte… sarebbe più semplice credere che possa bastare rimanere qui, a non scatenare l’apocalisse. A tenere tutti al sicuro» alzò leggermente lo sguardo, guardandola fra le dita aperte. Stava per arrivare il "ma-", conosceva la sua ragazza. «ma… non è forse un rischio anche questo? È tutto un azzardo, dak. è tutto confuso»
    Sorrise leggermente, senza tirarsi ancora su. «Ho passato del tempo a stretto contatto con William Lancaster, in quei mesi - o... un, Lancaster. Sono d'accordo sul fatto che sia tutto confuso ma- lui era convinto di quella minaccia. Può essere-» arricciò il naso «beh, Lancaster, ma sa il fatto suo, così come sa decisamente più di quanto voglia dirci» su cosa? Su tutto. Doveva ammettere Dakota di star odiando lui e Lafayette per tenere cose per loro; all'inizio aveva sperato altri membri della resistenza (magari William) sapessero qualcosa, avessero comunicato con i due presidi, ma ora era solo offeso di non esserne ancora stato messo a parte e basta.
    Non ebbe il tempo di commentare sul fatto che potevano essere gli unici a raccontare di Seth (lo sapeva, lo sapeva - ma lui non giocava d'azzardo, e se la statistica gli diceva che fosse meno rischioso per chi amava se lui stava lì... voleva stare lì; era un grifondoro, aveva scelto di essere coraggioso, ma forse era anche quello un modo di esserlo) - perchè il racconto di Mae lo catturò del tutto. Per qualche secondo, non riuscì a pensare ad altro.
    «...e sai chi c’era fra quei ragazzi, dak? le mie bambine»
    finalmente, Dakota si tirò su, lentamente. Dubitava Mae lo stesse prendendo in giro in un momento del genere. Portò lo sguardo verso Lewis e Carole. Come...?
    «non l’avrei fatto, se non me l’avesse raccontato lei stessa» Cosa..? «ora lewis, un tempo mabel» tornò a fissare Maeve, occhi spalancati mentre la testa cercava di elaborare quelle informazioni. Un tempo Mabel? Chi..? «tu la conosci come amalie»
    Probabilmente un anno prima quella notizia lo avrebbe sconvolto, non ci avrebbe neanche creduto, non- «amalie, la nostra amalie, shaperd, è lewis? Tua figlia?»
    Ma chi prendiamo in giro, era comunque assurda, nonostante tutto quello che aveva visto in quei mesi.
    Tantissime domande ad affollargli la testa, troppe perchè riuscisse a dar loro un'ordine di importanza per porle: da quanto lo sapeva? Com'era possibile? Conoscevano Amalie da quando faceva il primo anno, era arrivata nel loro tempo a undici anni? Si era avvicinata a Maeve per quello, o era stato un caso e dopo l'aveva riconosciuta? Come avevano viaggiato tanto indietro? Avevano cambiato il loro futuro? E se era stata lei, e gli altri come lei, a fottere la linea temporale e a rendere più debole la prigione di Abbadon o cose simili?
    Prese fiato, cercando di calmare i battiti del cuore, e si sporse in avanti per afferrare la propria tazza, appoggiandosi poi all'indietro sul divano con la schiena. Spill the tea.
    «raccontami tutto quello che sai»
    healer | former gryff | 1998's
    rebel | proudest uncle
    But it was not your fault but mine
    And it was your heart on the line
    I really fucked it up this time
    Didn't I, my dear? Didn't I, my dear.
    now learn from your mother or else spend your days biting your own neck
     
    .
4 replies since 11/8/2018, 17:33   322 views
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