A New Show is Going to Begin

Festa aperta a soli maggiorenni

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  1. #scopettaro
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    tate spudmore
    i'm too sober for this shit

    Ci sarebbe morto, per colpa di tutto quel fumo. Una, due, tre, quattro sigarette se ne erano andate, una dietro l’altra, colmandogli i polmoni di catrame e la testa di innaturale leggerezza. Ogni volta che qualcuno gli domanda il motivo per cui fumasse, Tate rispondeva sbrigativo dicendo che lo aiutava con lo stress, o almeno si autoconvinceva fosse così. Aspirò un’ultima volta, prima di arrivare all’altezza del filtro e gettarlo in strada davanti l’ingresso del Lilium, permettendo alla nicotina di invadergli la bocca ed uscire subito dopo a mo’ di nuvola. Si chiese coma diamine ci facesse lì, perché avesse deciso di alzarsi dal divano, vestirsi e mettere piedi fuori casa ad un orario del genere. Pensò ad Argo e a quanto fosse beato lui, a russare sul mega cuscino che usava come materasso. Una stretta alla bocca dello stomaco gli fece valutare l’idea di tornarsene indietro, di ignorare le preghiere dei colleghi e diamine, di mettersi in pigiama e spararsi una nuova serie dalla comodità del suo appartamento. Tate Spudmore era più il tipo da pub, che da claustrofobica discoteca piena di luci psichedeliche. Dio, se solo non avesse detto che avrebbe fatto un salto. Mandò giù anche l’ultimo sorso della birra che si era portato dietro, lasciando la bottiglia di vetro all’angolo dell’edificio da bravo cittadino esemplare. Non che una birra gli facesse chissà cosa, ma era un inizio? In quei posti si facevano pagare quantità spropositate per cocktail formati un 90% acqua e 10% vodka del bangladino; non voleva mica diventare povero per ubriacarsi. Sfilò il pacchetto di sigarette dalla tasca anteriore del pantalone, indeciso se fosse arrivato già il momento della quinta. ’Finirai sul serio per ucciderti’.
    Si fece spazio fra i corpi sudati, con il mento all’insù per respirare un briciolo di aria fresca ed incontaminata. E se non avesse avuto neppure un briciolo di senso civico (ciao lele), Tate li avrebbe volentieri sterminati tutti. Si muovevano al ritmo di quella musica dannata, petulante, da farti contorcere i timpani e poi esplodere. Con quel regolare battito che ti chiedeva di muoverti a scatti, di fare con la testa, di alzare le braccia al cielo e cantare. Cantare cosa poi? Raramente qualcuno conosceva le parole del pezzo e – se così era – questo veniva remixato/mashuppato talmente tanto che erano più le volte che sbagliavi gli attacchi che quelle che riuscivi a fare il sing along. Lo Spudmore si avvicinò al bancone mezzo rincoglionito da tutti quei cambi d’illuminazione, maledicendo sé stesso per aver deciso di avventurarsi in una serata del genere. Poco importava che era l’inaugurazione del Lilium, il suo letto era meglio. Appoggiò i gomiti sulla tavola, lasciando che lo sguardo si perdesse fra i corpi danzanti, mentre andava alla ricerca di qualche volto conosciuto. Se qualcuno dei compari ribelli l’avesse notato, avrebbe potuto fare dietro-front, no? Girò su sé stesso, sporgendo il busto dall’altro lato del bancone per attirare l’attenzione di qualcuno (davvero, chiunque) ed ordinare un drink. Altro problema dei club: non potevi prendere la birra. O meglio, potevi, ma la gente avrebbe molto probabilmente storto il naso. “Negroni sbagliato” urlò nel tentativo di sovrastare il suono della musica “molto sbagliato” aggiunse poi, per sicurezza. Mai fidarsi dei baristi dei club, soprattutto alle inaugurazioni. Nel mentre aspettava il bicchiere la sua attenzione venne inevitabilmente catturata da oibò! facce notte. Gli sarebbe bastato scolare in un nanosecondo il drink, approcciare il gruppetto fingendo di essere dannatamente contento di essere lì a festeggiare – cosa poi, l’apertura di un posto dove non avrebbe mai più messo piede? -, e sparire subito dopo con la scusa di “star portando a casa una figa da paura”. Avrebbe fatto la sua bella figura, no? Con un cenno del capo ringraziò il ragazzo, afferrò il bicchiere e si allontanò dal bar per procedere con il primo step del suo semi-piano. Doveva non aver calcolato bene gli spazi (ma quali), lo Spudmore, perché fra un passo, un sorso, e tanta distrazione era andato a scontrarsi contro un muro, e buona parte del suo adorato negroni era finito sul pavimento. No, non aveva sul serio preso un muro. Era un tipo. Alto, elegante, neanche lo guardò in faccia ad esser sinceri, l’unica cosa che lo preoccupava era se si fosse o meno macchiato la camicia. “Zì scusa sono ubriaco” aveva rifilato al ragazzo decisamente più giovane di lui, superandolo subito dopo senza neanche preoccuparsi di ricevere una risposta – o un pugno? Ad ogni modo, se c’era una cosa che Tate Spudmore non era in quel momento, quella era definitivamente ubriaco. Ma in situazioni del genere è meglio mentire spudoratamente e far finta nulla fosse successo; del resto, la sua camicia sembrava non essere stata vittima dell’impatto, il resto non gli importava. Con appena due dita di liquido rimaste nel bicchiere, continuò a farsi largo verso un angolo del locale, più in disparte rispetto gli altri, stavano per caso giocando d’azzardo senza di lui??? Più si avvicinava più cercava di assumere le sembianze del tipico ubriaco: barcollava un po’, sbatteva lentamente le palpebre, un aria confusa dipinta in volto. Si ritrovò di fianco a Nate, poi notò Rea Hamilton, erano andati ad Hogwarts insieme no? Se ci avesse mai parlato, quello rimaneva un punto interrogativo. Fatta eccezione per Stiles, gli altri non aveva idea di chi fossero ma hey, finchè si parla di scommettere soldi – che non aveva – a Tate andava bene. Fece per salutare Nate, spalancando le braccia in direzione del compagno di bevute, ma per qualche strano motivo venne travolto da un’ondata di vibes negative e si fermò dal proseguire. Merlino no, drammi anche stasera no. Quindi, di soppiatto, cominciò ad indietreggiare lentamente sperando che nessuno lo notasse – o che pensasse fosse troppo ubriaco per sostenere una conversazione. Fanculo, probabilmente avrebbe dovuto scegliere il divano.






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    tbh non fa nulla, si scontra con darth (<3) e si avvicina a stiles,nate, eube, rea e sin ma respira drama e fugge
     
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    andrew stilinski
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    Arrivava da un mondo diverso, Andy; da una realtà diversa, e dovette ricordarsene in ogni, maledetto, secondo in cui avrebbe voluto reagire come la natura umana comandava: liberandosi dalla stretta di Nathaniel, per esempio. Prendendo la mano di lui nella propria e staccando ogni maledetto dito dai vestiti, un’occhiata gentile – ma severa – ad ammonirlo dal provarci un’altra volta. Ma non poteva. Non poteva perché gesto, ogni fottuto movimento poteva fare la differenza fra l’apparire innocuo o aggressivo, e lo Stilinski non poteva permettersi di rientrare nella seconda categoria. Se non fosse stato strettamente, e disperatamente, necessario, neanche si sarebbe mai avvicinato agli abitanti di quel mondo.
    Ma lo era stato, e lo era, il che imponeva ad Andy di sottostare a qualunque genere di trattamento che avessero voluto riservargli: scettico, prepotente, grondante di rancore malgrado Andy fosse innocente. Atteggiamenti in ogni caso preferiti rispetto a quello che, da vicino, vedeva nelle iridi cerulee di Nathaniel Lowell.
    Speranza.
    Quanto si odiava, per essere dovuto giungere a quello. Deglutì senza abbassare lo sguardo, gli occhi scuri e stanchi a sondare quelli del suo interlocutore. «Tu sei Andrew Stilisnki. Ma tu non sei Stiles» Non essendo una domanda, Andy non rispose. A quel punto, ed a quella distanza, le differenze con il suo alter ego dovevano essere abbastanza cristalline senza bisogno che Andy sottolineasse l’ovvio. «Tu vieni da laggiù, dal-... purgatorio. Dal sottosopra» Il Purgatorio? L’ombra di un sorriso balenò sulle labbra strette fra loro dello Stilinski, più amaro che sincero; si trovava in quella realtà da pochi giorni, eppure erano stati abbastanza da permettergli di intuire che quello fosse a tutti gli effetti un inferno – non dissimile a com’era stato il suo mondo. «un altro universo» scandì lento, cercando di capire quanto sapesse del sotto sopra. Il fatto che ne avesse sentito parlare, scaldò l’animo – e l’ottimismo – dello Stilinski, perché nessuno, eccetto chi c’era stato, sapeva della sua esistenza. Il che, se la logica non l’aveva abbandonato, poteva solamente significare che gli altri fossero lì, che fossero tornati a casa, che - «Quando ti hanno aiutati? Li hai visti?» Aprì la bocca per replicare, ma la richiuse sotto il fiume di domande dell’uomo. Cercò di mettere insieme i troppo frammentati pezzi di storia che quel genere di quesiti andava delineando, offrendo un’espressione impassibile ed impenetrabile.
    Nulla di promettente. O di sensato. Il sorriso folle del Lowell gli strinse il cuore, un brutto presentimento a stringere la gola ed accelerare il battito cardiaco. Chiuse gli occhi e si costrinse ad inspirare, i pugni chiusi lungo i fianchi a serrarsi ritmicamente: siamo soli.
    Era, solo. «Come sei arrivato qui?» Tenne gli occhi chiusi, ma soffiò un’amara e dolente risposta: «per errore» un sussurro, ma certamente udibile dall’altro. «Esiste un passaggio?» Ma lo ascoltava, perlomeno? Gli sfuggì una risata secca ed agrodolce, più dolorosa sul proprio palato che non all’ascolto. Fu tentato di sollevare le mani in segno di resa ed ammettere che si fosse trattato solamente di uno scherzo, una pacca sulle spalle mentre abbandonava il Lilum per dirigersi solo Dio sapeva dove, ma lontano da quel posto – da tutti loro.
    «Tu non sai come comunicare con loro»
    Non capiva? Scosse impercettibilmente il capo, la mano sinistra a coprire la bocca e trascinarsi lungo il collo. Loro avrebbero dovuto già essere lì. E per quanto maleducato potesse apparire, loro non erano un suo problema. Possibile che non si rendesse conto di quale - di quale - fosse il problema lì, in quel momento? Comprese solo in quel momento che forse, forse, Nathaniel Lowell aveva bisogno di sentirselo dire: «io non dovrei essere qui» sillabò, arcuando entrambe le sopracciglia ed indicando il proprio petto. Lui non c’entrava, con i viaggi temporali: arrivava da un’altra dimensione.
    Da un altro maledetto universo.
    «ok, cosa cazzo sta succedendo?» Sollevò nervoso lo sguardo su - Eugene Jenkins. Rea Hamilton. - i nuovi arrivati, sentendo la fronte inumidirsi di sudore ed un basso, vago suono roco graffiargli la gola.
    Siete morti. Il fatto che non li avesse conosciuti, non rendeva più…semplice guardarli, sapere che esistevano. Per loro poteva apparire strano ed alieno Andy, ma potevano immaginare come si sentisse lui? Era tutto - era tutto al contrario. «quando i vostri…amici,» iniziò lento, umettandosi le labbra. «hanno viaggiato nel tempo, hanno …strappato la realtà, entrando a far parte della nostra. In pochi mesi…» morse l’interno della guancia osservando le proprie mani, sfiorando appena il polso dove il braccialetto del Lilum copriva il tatuaggio sottostante.«la delicata situazione politica è collassata; quando sono precipitati nella nostra dimensione, hanno aperto un varco verso le destinazioni che avrebbero dovuto raggiungere: ecco perché siamo riusciti a contattarli. Ecco perchè sì, li ho visti: abbiamo combattuto una guerra insieme» spostò gli occhi scuri sul Lowell, abbassando ancora il tono di voce. «non li vedo da cinque anni» accorata, la voce di Andrew Stilinski – compassionevole, lo sguardo cioccolato: poteva solamente immaginare cosa…cosa si provasse. «mi dispiace. mi dispiace davvero» inspirò profondamente. Sapeva che, nella propria onestà, s’era probabilmente giocato le possibilità che loro si muovessero a suo favore, ma non avrebbe mentito per raggiungere i suoi scopi.
    Non sarebbe stato giusto - ed Andy, corretto, lo era sempre.
    «siete preoccupati per la vostra gente, lo capisco» doveva provarci. Aveva bisogno di provarci, Andy. Fece guizzare la lingua fra le labbra, reclinò appena il capo all’indietro. «ma non sono qui per loro; sono qui per la mia» Cercò lo sguardo di ognuno di loro, supplicandosi silentemente almeno di ascoltare: non si aspettava che lo aiutassero, ma potevano almeno ascoltarlo. «non sono l’unico ad essere finito qui. stavamo partecipando ad una missione, e dobbiamo aver…creato una sorta di interferenza dimensionale…siamo stati sbalzati via, e…» strinse le labbra fra loro. Punse con la lingua la guancia. «li ho persi» spostò gli occhi dall’uno all’altro, privo di orgoglio o pudore quando si giungeva a quello - la sua gente. «non riesco a trovarli» sapevano cosa significava? Potevano immaginarlo? «siamo in territorio straniero, e nemico» fomentato dal proprio discorso, drizzò la schiena sentendo le guance avvampare. «metà dei miei amici, in questo mondo, è considerata morta. potete immaginare cosa succederebbe se qualcuno - se qualcuno - li trovasse prima di me? non posso-» si costrinse a respirare, distogliendo il colpevole sguardo bruno per portarlo sulle proprie mani. «sono una mia responsabilità» Continuò, tagliando il calore emozionale del proprio tono. «lo so, e non ve lo chiederei se…» sapessi cosa fare. Chiuse gli occhi, grattò distrattamente la nuca. «avessi altre possibilità. non mi sarei mai esposto a tanto, né vi avrei chiesto aiuto, se non temessi di …arrivare troppo tardi.» cercò ancora i loro occhi, deglutendo nervoso da quell’attenzione che non poteva più permettersi.
    Doveva andarsene. «non posso promettervi nulla per i vostri amici, ma vi aiuterò quanto possibile» sollevò l’angolo delle labbra in un sorriso cordiale e mite. «non voglio nulla in cambio. lo farei in ogni caso, loro ci hanno salvato. gli siamo debitori» Si guardò attorno, strinse ancora i pugni lungo i fianchi. «and- stiles è al sicuro, lo giuro. appena me ne sarò andato potrà rientrare» sapeva quanto azzardata fosse la frase successiva (una volta saputo dove fosse l’ostaggio, avrebbero potuto decidere di ucciderlo seduta stante) ma era pronto a correre il rischio se significava guadagnare un briciolo, uno sputo, di fiducia. «è solo nel vicolo qui accanto. Mi serviva…» indicò il proprio completo, si strinse nelle spalle. «devo davvero…» Non si sentiva a suo agio, così allo scoperto. Puntò lo sguardo sul Lowell, facendolo poi scorrere sul piccolo gruppo riunito attorno a lui. «vi prego» si lasciò sfuggire strozzato, disposto a pregare perché impedissero ai suoi di venire, ingiustamente, catturati. Con movimenti lenti e misurati, prese dalla tasca un piccolo cartellino bianco ed immacolato, mostrandolo cauto prima di posarlo sul bancone spingendolo in direzione del Lowell. «se trovate qualcosa, scrivetelo su questo biglietto e lasciatelo nel sottovaso fuori da amortentia» un sussurro.
    Doveva davvero andarsene.
    «per favore. non se lo meritano, è…» colpa mia. Avrei dovuto stare più attento – avrei dovuto legarci con qualche maledetto incantesimo. «un mio errore. Sono disposto a pagare per questo, ma loro non c’entrano niente» Espirò, drizzò le spalle. «non posso rimanere. non è un addio: mi farò trovare, per qualsiasi cosa vogliate…fare, denunciarmi o imprigionarmi – lo capirei. ma devo trovarli» chinò il capo in segno di rispetto, lanciandogli un’ultima, disperata, occhiata. «pensateci. almeno pensateci, per favore.» e prima che potessero aggiungere altro, Andrew Stilinski se n’era già andato.
    Ma non per sempre.
    psychowizard | 21 y.o.
    trying to keep it real
    That I'm losing my mind
    Trying to find the perfect line
    I think I'm running out of time
    This battle for gold is killing my soul


    stay tuned zanzanZAN
     
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46 replies since 19/7/2018, 00:56   2619 views
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