A New Show is Going to Begin

Festa aperta a soli maggiorenni

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    Lilum - Burlesque Bar - Strip Club - Pleasure House - Night Club
    « I don't know the question, but alcohol sex is definitely the answer. »
    Il Lilum riapriva i battenti.
    Dimenticate il peggior pub di Diagon Alley, dove la musica è sempre la stessa dalla sua apertura e gli spogliarellisti eseguono gli stessi passi dalla notte dei tempi. Dimenticate le panche e i tavoli di legno, il bancone sporco e l’alcool scadente. Dimenticate ogni minimo dettaglio del vecchio locale, la carta da parati logora, i bagni con i lavandini sbeccati e gli specchi incrostati. Dimenticate ogni cosa, perché questa notte è l’alba di una nuova era.
    Svetlana aveva lavorato per mesi, instancabile, sulla progettazione di quello che avrebbe poi definito il suo regno. Da quando aveva rilevato il locale, aveva seguito personalmente l’andamento dei lavori, non lasciando nulla al caso. Tutto, nel locale, era stato appositamente studiato con un unico obiettivo: il piacere.
    L’ampia sala era suddivisa in zone. Lo sguardo, però, veniva subito catturato dal grande palco in fondo ad essa, dove si sarebbero svolti spettacoli di ogni tipo e in grado di accontentare i gusti anche dei più esigenti. Immediatamente sotto ad esso, era collocata l’area VIP, per consentire una visuale migliore (e mance maggiori) e libera da qualsivoglia distrazione. L’ambiente prevedeva, inoltre, diversi cubi – o gabbie, in base al tipo di serata - posti in punti strategici e la presenza di tavolini in tutta la zona centrale. Ai lati, e strutturati in più livelli, vi erano i privè, zone con divanetti, lettini e, soprattutto, tende incantate che avrebbero celato ciò che sarebbe avvenuto al loro interno anche allo sguardo più curioso. I banconi del bar erano posti agli angoli vicino l’ingresso. Vi era anche una piccola porta incantata, la quale dava accesso a una vera e propria Pleasure House.
    L’esterno del locale, invece, era la vera grande novità. Aveva fatto abbattere i muri, sostituendoli con delle ampie e luminose vetrate che occupavano tutta la facciata. All’interno di queste nicchie, erano presenti dei pali da pole dance e delle ballerine, col puro scopo di divertirsi, far divertire e stuzzicare l’interesse dei passanti maggiorenni – gli unici in grado di vedere oltre la dissimulazione utilizzata per proteggere l’innocenza delle menti dei più piccoli.
    Il Lilum non era un locale pretenzioso, era un locale che mutava. Mai uguale a se stesso, sempre in movimento; un cambiamento costante in base alla serata, agli spettacoli, al tipo di clientela, seguendo un programma tutto da scoprire.
    Pensava in grande, Svetlana. Per la prima volta, nella sua breve vita, aveva deciso di fare qualcosa per se stessa, di essere protagonista, di fare qualcosa che l’avrebbe resa fiera. Voleva fare le cose in grande, tornare sul mercato in grande stile, con una veste tutta nuova. Per questo motivo, aveva ideato una campagna di marketing su larga scala, senza badare a spese.
    A una settimana dal tanto atteso, almeno per lei, evento, ancora tutto taceva. Solo la nuova insegna era stata scoperta. A meno di sei giorni, era stata svelata la facciata del locale. La mattina del terzo giorno (-5), tutte le comunità magiche si erano risvegliate in un mondo fatto di boa colorati e canterini, che seguivano i passanti ovunque, insieme ai volantini che annunciavano la riapertura del Lilum; ovviamente, anche questi ultimi erano stati incantati in modo tale da arrivare ovunque: nelle case, nei giornali, tra il pane appena sfornato. Il giorno dopo, invece, fu la volta delle maschere da Burlesque che, magicamente, tendevano agguati ai maghi che non prestavano loro sufficiente attenzione, aderendo ai loro volti per qualche ora. A meno tre giorni, ogni centro abitato fu svegliato da una pioggia di preservativi colorati tutti i gusti+1, mentre il giorno dopo la pubblicità del locale venne affidata a perizomi, tanga, reggiseno e qualsiasi altro tipo di intimo maschile e femminile. A meno un giorno, invece, fecero la loro comparsa manifesti giganti, i sempre fedeli volantini e dei frustini magici che, a tradimento, facevano schioccare le loro linguette di cuoio sul fondoschiena di chiunque capitasse a tiro.
    La sera dell’inaugurazione, le strade di Diagon Alley erano state invase da delle bellissime e meravigliose Veela, l’insegna illuminata del Lilum creava dei giochi di luce con i riflessi delle vetrine, rendendo i movimenti delle ballerine al loro interno seducenti e invitanti. I buttafuori avevano preso il loro posto all’ingresso del locale e, man mano che gli ospiti del locale arrivavano, ritiravano le loro bacchette e applicavano sulle mani un timbro magico che, per l’occasione, oltre allo champagne di benvenuto, teneva il conto dei tre drink offerti dalla padrona di casa.
    Chiunque avesse varcato la soglia del Lilum, solo per quella notte, avrebbe potuto accedere a spettacoli gratis, alla possibilità di diventare socio del locale attraverso il tesseramento platinum (che garantiva sconti, accesso alla zona vip e altri vantaggi) e di avere un assaggio di quello che poi sarebbe stato proposto.
    Svetlana aveva fatto attenzione a ogni minimo dettaglio: dai tavolini di vetro perfettamente tirati a lucido, ai nastri che scivolavano giù dal soffitto, dalle pieghe delle tende alle divise dei camerieri che dovevano mostrare quella giusta quantità di pelle in grado di stimolare la fantasia senza mai essere volgare. Tutti i dipendenti del Lilum, avevano l’obbligo di indossare una maschera di pizzo o di raso e di adottare un nuovo nome durante i turni di lavoro. Camminava avanti e dietro nel backstage, controllando il trucco delle ballerine, sistemando sbavature e scuciture improvvise. Dispensava sorrisi, pacche leggere sulle spalle, parole di incoraggiamento. I suoi passi procedevano senza sosta, uno sguardo alla scaletta, un altro ai costumi. Sembrava tranquilla, rilassata, sebbene sentisse una morsa poco familiare stringerle lo stomaco. Si fermò un momento davanti a uno dei grandi specchi dei camerini, controllando che il trucco degli occhi fosse impeccabile. Portò una mano tra i capelli biondi e sistemò ciocche inesistenti, un gesto fatto più per abitudine che per necessità. Sapeva che tutto stava andando secondo la sua tabella di marcia, sapeva di potersi fidare dei suoi colleghi, di coloro che sperava diventassero la sua nuova famiglia, ma non riusciva a placare quell’ansia crescente, quella paura che qualcosa, qualsiasi cosa potesse mandare in frantumi il sogno di un locale tutto suo. Strinse un po’ di più la cintura della vestaglia, lasciando che fosse il tocco delicato della seta a calmarla.
    Controllò per l’ennesima volta l’orologio e si rese conto che, ormai, le porte erano aperte da qualche minuto. Avrebbe lasciato che i suoi ospiti fossero accolti dai flute di champagne e dalla musica che pian piano inondava il locale, guidando i movimenti delle ballerine che avevano già preso posto sui cubi.
    Lo show stava per avere inizio.
    the heart is deceitful above all things,
     
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    Con un gesto lento, il ragazzo portò una ciocca di capelli biondo grano dietro l'orecchio, restando poi immobile a fissare il proprio riflesso. Anche capigliatura a parte, di differenze ce n'erano; piccole, visibili solo ad un occhio attento e allenato, ma c'erano. Il giovane che si osservava ora nello specchio - un giovane che non era Noah - aveva il viso un po' più rotondo, i tratti meno androgini, piccole lentiggini sul naso leggermente rotto, un accenno di barba chiara su mento e guance e un corpo decisamente più robusto; se Noah pareva uscito da un quadro di Renoir, costui, già dall'apparenza più rozzo e duro, pareva fuggito da una fattoria. Era distinguibile da Noah, con un po' di accortezza, ma abbastanza simile perchè fosse ovvia al primo sguardo la loro correlazione - se non gemelli, per lo meno fratelli.
    Il ragazzo scioccò la lingua, voltando finalmente il viso per osservarsi di profilo imperfetto (un tocco di difettoso che si era concesso ricordando quando, a dodici anni, suo padre gli aveva rotto l'osso del naso, poi aggiustato da un'abile guaritrice strapagata) «Piacere, Gideon», si presentò con leggera soddisfazione allo specchio. Sollevò leggermente il mento, si passò la lingua sul bordo dei denti (un gesto che aveva visto fare una volta al protagonista del film; dalla reazione di Amos, aveva deciso fosse qualcosa di secsi). «Gideon Lance Parrish; ti servirà quando più tardi vorrai gridare il mio nome» anche questa l'aveva rubata ad un film. Ok, forse erano film porno, ma quale miglior fonte di intrattenimento a sfondo sessuale per entrare nella mentalità di un deviato?? Hardvard sembrava sempre così sicuro di sè sullo schermo (persino nei primi film che aveva girato, quando ancora non era un magnate dell'industria porno!), che Noah aveva deciso di prenderlo da esempio per Gideon.
    L'idea di Gideon non era nata del tutto a caso. Con la sparizione della maggior parte dei suoi parenti ancora in vita, la presenza di Magnus come seconda identità del Parrish aveva perso mordente. Chi sparito nel nulla (nel passato o nel futuro, anzi), chi andatosene per questioni lavorative, ad uno a uno i contatti del vecchio Noah nel nuovo millennio erano caduti come mosche, e il ragazzo si era ritrovato con un personaggio fra le mani (un personaggio ben costruito, con un background che funzionava e una rete di conoscenze) pressapoco inutile e solo. Per quanto Magnus fosse utile per tutte le cose che Noah, in quanto special, non poteva fare, allo stesso tempo era anche noioso senza poterlo sfruttare con altri come avrebbe potuto fare - era un uomo di una certa età, con una certa reputazione e una certa facciata da mantenere, ormai troppo in là con gli anni per fare un cambio netto. Noah era un animale sociale, aveva bisogno di persone per divertirsi, aveva bisogno di un pubblico che lo guardasse mentre si esibiva sul palcoscenico... per questo Gideon. Un gemello tenuto nascosto spuntato da chissà dove, un segreto che non voleva rivelare a nessuno, neanche a Noah, riguardo al perchè se ne fosse andato dall'America, un modo di fare più diretto e meno sottile del fratello di comportarsi... Gideon era ciò che Noah aveva appreso da quel ventunesimo secolo, le perversioni e i divertimenti moderni. A Noah non serviva Gideon (non come all'inizio gli era servito Magnus per trovare il proprio posto in quel mondo), ma era comunque divertente pensare di poter ingannare le persone sul fatto di avere un gemello. L'unico problema era il non poter essere entrambi nella stessa stanza contemporaneamente, ma su quello ci avrebbe lavorato (al momento aveva pensato ad un litigio misterioso fra i due fratelli; così misterioso che ancora non l'aveva deciso ma dettagli).
    Fino a quel giorno non aveva ancora usato molto Gideon in pubblico con persone che conosceva.
    Era andato in giro per Londra, si era ordinato da bere, aveva accennato al fatto di essere appena arrivato, così come Noah aveva accennato distrattamente a casa di aver ricevuto una lettera da suo fratello che gli diceva che sarebbe andato a fargli visita, ma era finita lì. Non sapeva ancora come metterla, e aveva pensato che quello sarebbe potuta la sua grande occasione per presentare Gideon al mondo.
    Andiamo, quale occasione migliore dell'inaugurazione della tana del peccato per l'apparizione del gemello pervertito??
    Sistemò la maglietta bianca aderente, il gilè scuro sopra di essa, pronto a uscire dal bagno.
    «Stai... parlando con me?» Noah si immobilizzò, notando solo a quel punto una figura nel riflesso dello specchio che lo fissava. Dannazione, ogni volta che si guardava restava ammaliato dalla propria bellezza e chiudeva fuori il resto del mondo, dimenticandosi questo. Beh, era il momento di usare la tattica Gideon: «Parlo col ragazzo più carino della stanza» "me stesso!!!!!!" «E ci siamo solo noi due qui» mamma mia che boss, si sarebbe dato il cinque da solo. Aveva allo stesso tempo abbordato un tipo e detto la verità (effettivamente stava parlando da solo, ed era il più bello fra loro)
    Il ragazzo neanche gli rispose, andandosene borbottando qualcosa, ma Noah era sicuro di averlo visto arrossire.
    Quando uscì, la serata al lilum lo aspettava.
    Luci basse, musica d'atmosfera, ragazzi e ragazze che ballavano sinuosi cercando di attirare l'attenzione e le mance dei passanti. Noah- Gideon avanzò di qualche passo, guardandosi attorno e poi dirigendosi al piano bar. Ordinò rapido dell'alcol a scelta della cameriera, lanciandole un'occhiata che nella sua testa doveva essere languida e inopportuna.
    Il Lilum non era esattamente un posto per Noah. Non era il nudo a non piacergli, nè gli eccessi o la scarsa moralità insita in quel luogo di perdizione, anzi, semplicemente non era interessato alla merce in vendita; non esattamente. Ugualmente, gli piaceva com'era stato addobbato il posto, e gli piaceva lo stile delle ballerine, delle sale in generale; un po' ottocentesco (#bodie) in qualche modo, con quelle maschere di pizzo e i costumi con lacci.
    Ancora seduto al bancone, studiò rapido l'orologio da taschino (che Gideon fosse un buzzurro o meno, Noah non poteva sopportare l'idea di abbandonare quel cimelio a casa). Aveva deciso di fare avanti e indietro fra i due gemelli ogni mezz'ora circa (in mezzo a tutta quella gente nessuno si sarebbe accorto dell'assenza di uno dei due Parrish), un po' come sfida personale, un po' per far vedere che potevano essere alla stessa serata e dare una prova che fossero due persone diverse. Ripose l'orologio, afferrò il bicchiere consegnatogli per prendere un sorso, e ancora si guardò attorno.
    Gli serviva solo qualcuno da molestare, per mostrare Gideon in tutto il suo splendore.
    real: noah emery parrish
    physically i'm here but mentally i am in a renaissance painting wearing a silk dress and looking wistfully into the distance
    Have you ever thought you were
    in love with someone but then realized you were just staring
    in a mirror for 20 minutes?
    shapeshifter | librarian
    1948 1995 | former rav
    date: 19th july 2018
    alter ego: gideon lance parrish



    wow post random!!!!!
    Noah è alla festa come gideon, gemello pervertito di noah (pv: dylan sprouse WOW CHE FANTASIA). In bagno parla con un ragazzo random (VUOI ESSERE TU??? PUOI SE VUOI puoi anche cambiare la reazione #wat), e al piano bar dove è seduto aspetta che qualcuno gli parli #wat dai avvicinateglivi


    Edited by parrish‚ - 20/7/2018, 13:28
     
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    Da un punto di vista puramente oggettivo, supponeva che l’ambiente del Lilum avesse un certo fascino. Non poteva ignorare la minuzia con il quale il locale era stato arredato, o i dettagli intenzionati a lasciar maggior spazio all’immaginazione piuttosto che alla volgarità, inteso nell’accezione popolana e non dispregiativa, di un nudo; il lavoro dietro quella perfetta, seducente, facciata, Hyde non poteva non apprezzarlo.
    Non significava che gli piacesse - nulla di personale, chiaramente: odiava qualunque genere di locale aperto al pubblico, equo ed onesto come un puro misantropo poteva esserlo. Battè languido le spesse palpebre chiare, lo sguardo ceruleo a scivolare sui profili intravisti nell’ombra e sul morbido ondulare delle luci. Il perché fosse lì, non avrebbe saputo spiegarlo a terzi: di giustificazioni avrebbe potuto darne tante, ma nessuna sarebbe bastata a chiarire la posizione del Crane Winston – forse la risposta più semplice sarebbe stata anche la più sincera: curiosità. Sì, bisognava anche considerare che a quell’evento avrebbero partecipato Eugene e Jade, che Jekyll fremeva come un bambino la vigilia di Natale per parteciparvi, e che i fratelli CWS erano riusciti a convincere l’ammogliata buon’anima di zio Sin a partecipare, ma neanche loro sarebbero stati una motivazione sufficiente per Jack Daniels. Neanche l’alcool gratis.
    Era uno studio socio antropologico, il suo. Voleva vedere…come le persone reagissero all’evento mondano, cosa loro piacesse o meno, quale emozione avrebbe tirato i loro volti sulla soglia di un rinnovato Lilum.
    Sostanzialmente, non aveva un cazzo di meglio da fare. Picchiettò la mano sulla spalla di Sinclair, sollevando la coppola sulla fronte di lui così che potesse nuovamente vedere – sì, sotto richiesta dell’uomo Hyde si era premurato di proteggere gli occhi innocenti e fedeli dell’Hansen dalle possibili tentazioni offerte dal locale; ovviamente, la visiera era stata abbassata solo una volta entrati al Lilum: all’esterno avevano dovuto osservare, e criticare, come i muratori avessero lasciato segno delle loro tracce fuori dalla facciata dell’edificio. Loro sarebbero stati più bravi – ne erano stati concordi entrambi. «torno subito» il tono piatto ed entusiasta di una triglia, Jack Daniels si portò le dita alla fronte in segno di congedo, allontanandosi ma cercando di non perdere di vista né lo zio né il fratello. Voleva evitare di doverli richiamare all’appello alle casse come bambini al supermercato (sì, con Jek capitava spesso e volentieri. Ormai Valeria la Cassiera sapeva i loro nomi). Accettava l’idea di urinare in un luogo pubblico, solamente perché confidava che, essendo di nuova apertura, i bagni fossero ancora agibili e nessuno avesse avuto ancora il tempo di una sveltina. Malgrado il posto fosse in perfetto stato, ed indubbiamente pulito, aprì la porta dei servizi solamente con la punta delle dita, pregando gli antichi dèi aramaici di non interrompere alcun genere di sesso orale: e sì, gli era già successo. «Piacere, Gideon» rimase immobile sulla soglia, gli occhi chiari a guizzare apatici sul ragazzo presente nella stanza. Da quando i bagni erano posto dove fare amicizia? Credeva fosse una cosa che interessava solo quelli delle donne, o i posti dove gli orinatoi erano l’uno di fianco all’altro ed i bro si commentavano i membri da un pisciatoio all’altro. Nel dubbio, arcuò le sopracciglia. «Gideon Lance Parrish; ti servirà quando più tardi vorrai gridare il mio nome» Oh, buon Dio. Dov’era finito. Cosa stava succedendo. Ancora immobile, Hyde attese che il secondo interlocutore si palesasse, giusto per poter dare una faccia a Pessimo Approccio e Sfortunato Abbordato – e poterne sparlare con Jekyll. Quando, un paio di secondi dopo, nessuno rispose al placcaggio, al Crane Winston sorse un dubbio (un dubbio atroooce un dubbio atroooce -cit coro che confido oramai conosciate). «stai…» corrugò debolmente le sopracciglia bionde, la testa a voltarsi prima a destra e poi a sinistra. Si vide riflesso negli specchi dalla parte opposta della stanza: sdruciti jeans neri, maglietta verde bottiglia, ed il timbro sulla mano ben visibile anche da lì. Se non fosse stata per la faccia, chiaramente quella di qualcuno che avrebbe preferito essere al cimitero all’obitorio ovunque eccetto che lì, avrebbe potuto mimetizzarsi alla grande con il range d’età presente all’evento. «parlando con me?» domandò piatto, senza neanche lasciar posto a sorpresa o, che Dio ce ne scampasse, lusinga. Non era stupido, Hyde; era solo…meh, vagamente confuso – ed era già un’emozione più del solito, specialmente considerando fosse un maledetto genio. «Parlo col ragazzo più carino della stanza. E ci siamo solo noi due qui» Ma…era Noah? Hyde ritrasse lentamente il collo come una tartaruga, un cauto passo all’indietro mentre annuiva al Parrish – o era…il mistico gemello? Sì, era una comare, sapeva tutto di tutti: non capiva il trenta percento delle notizie che apprendeva, ma talvolta gli piaceva il brivido dell’ignoto. «sks, non volevo interromperti» alzò una mano in segno di rosa, abortendo la missione pipì nel secondo, e nel terzo, passo all’interno del locale con il quale fuggì dal bagno. Non era una novità assistere a qualcuno che parlasse da solo, anche Hyde spesso e volentieri (sempre.) preferiva ciarlare fra sé piuttosto che ascoltare le lagne altrui, ma era… sempre strano, incontrare qualcuno che lo ammettesse così candidamente. Si scosse nelle spalle, girandosi per – oh, santa madre di Dio.
    «quando siete arrivati» mormorò impassibile, enfatizzando la teoria del bello parlare da soli, rendendosi conto che il locale fosse oramai pieno. Aveva perso ogni punto di riferimento per ritrovare la compagnia dell’anello. Sospirò afflitto, le spalle a curvarsi sotto il peso dei quasi vent’anni portati molto male. Ruotò il capo verso un individuo (dai, vuoi essere tu? ma certo che sì!) poco distante, un cenno con la testa nella sua direzione – dai, era così che nei film si capivano, no? Si avvicinò, mani in tasca ed un sorriso di circostanza a far capolino sulle labbra sottili. «salve,» iniziò cordiale, chinando appena il capo come un uomo d’altri tempi.
    E d’altri tempi, Hyde, lo era davvero. Non quelli della galanteria, ma insomma. «ha per caso visto passare un uomo con la coppola?» domandò, serio ed affatto scherzoso, strascicando lentamente le parole. «o ha sentito ragliare un animale?» beh? Una bestia la era di sicuro. «sarebbe mio fratello. quando ride non gli arriva abbastanza ossigeno al cervello» spiegò, sempre atono e disinteressato, facendo scivolare gli occhi chiari sulla folla.
    Si iniziava una meraviglia.

     
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    Newhaven Cedric Edward George Stephen Hilton IV
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    Fece scivolare l’indice sul ritaglio di giornale di fronte a sé, un sorriso divertito a premere sugli angoli delle labbra mentre, nel ragazzo in ombra dello scatto rubato, individuava se stesso – nudo, chiaramente; malgrado la foto lo prendesse a tre quarti di spalle, il taglio squadrato della mandibola e la risata a bruciare la carta perfino a distanza di obiettivo telescopico lo rendevano perfettamente riconoscibile: immortalato e venerato dai tabloid di tutto il mondo, le grida allo scandalo a mescolarsi con le voci più estasiate dei suoi ammiratori. Twitter era impazzito, quella notte; non riceveva così tante notifiche dall’ultima volta che era apparso come easter egg in uno dei porno di suo fratello. «il mio profilo migliore» commentò, privo d’inflessione, ritirando la mano per intrecciare pigramente le dita sul ventre. Newhaven Cedric Edward George Stephen Hilton IV, meglio conosciuto come Yale, non provava alcuna vergogna per quell’articolo – in linea generale, del pudore conosceva solo la definizione sul dizionario. Fatta eccezione per Paris, la quale negli ultimi anni aveva subito un declino di notevole imbarazzo, Yale era il più conosciuto pubblicamente fra gli Hilton, beniamino dei media e dei suoi followers; perfino gli haters, sempre presenti ed infervorati, faticavano a mantenere a lungo rancore nei suoi confronti: era semplicemente, ed inevitabilmente, adorabile.
    Era Yale Hilton: il minore dei figli di William, primogenito di Barron I che a sua volta fu il secondo erede dell’Hilton Originale - Conrad, colui che aveva iniziato il tesoro della famiglia. Era il fratello di Harvard, magnate della cinematografia osè; era il sex symbol del quale l’azienda di papà, che si occupava di bordelli, linee di lingerie, e giochi erotici, aveva bisogno: si parlava più di Yale che non della società alle sue spalle, il che, malgrado La Madre ed i nonni non apprezzassero, andava tutto a loro favore. Era la Vergogna degli Hilton, ed il Dono del Cielo dei social.
    Era Yale, e non aveva bisogno di altre presentazioni.
    «non è divertente, george» George. Aveva smesso di sospirare a quell’appellativo una decade prima; aveva smesso di irrigidirsi, malgrado sapesse cosa quel George anticipasse. Non provava rabbia, non era nervoso, il cuore batteva quieto dietro le costole rimembrandogli beffardo di esserci ancora – partiva già in resa, Yale, che quella guerra aveva sempre saputo di non poterla vincere. Non ne aveva mai avuto i mezzi, o l’autorità: aveva accettato sedici anni prima che quella fosse la sua vita, ed era oramai troppo stanco per credere di poter avere un’alternativa. Per volerla. «non voleva esserlo» rispose impassibile, sorridendo cortese dietro la sua impeccabile maschera d’oro – quelle di cera, l’aveva imparato a sue spese, si scioglievano troppo in fretta per quelli come lui che amavano più il fuoco dell’aria. Vide le spalle de La Madre irrigidirsi, gli occhi divenire un ostile fessura di pura ardesia; se gli sguardi avessero potuto uccidere, sarebbe stata una serial killer da Prima Pagina. Un vero peccato che il suo Jack Squartatore interiore non avesse più alcun effetto su Yale, inibito e resistente come un batterio di nuova generazione: le sorrise ancora, razionalmente consapevole di quanto quella smorfia bastasse a mandarla su tutte le furie. C’era stato un tempo, una vita prima, in cui aveva cercato di capirne il motivo; in cui si era domandato, più giovane ed ingenuo,perché sua madre non riuscisse a sopportare neanche la sua vista senza sfiorare nervosamente la bacchetta tenuta nella borsa di Prada – perché gli occhi di lei scivolassero sempre su di lui cercando di non vederlo affatto, ammorbidendosi solo nell’incontrare i lineamenti ruvidi di Harvard. «nicholas non avrebbe mai permesso -» non finì la frase, gesticolando vaga verso il giornale ancora aperto. L’Hilton frenò la risata mordendosi la lingua fra i denti, piegando il capo sulla spalla per evitarsi di scuoterlo. Distolse lo sguardo dalla donna per impedirle di leggervi l’ironia grezza e tagliente nelle iridi lapislazzulo: suo fratello girava dei maledetti porno - artistici, va bene, ma pur sempre di porno si trattava – di conseguenza, per quanto la logica non fosse mai stata il suo forte, dubitava che potesse prenderlo ad esempio in un frangente del genere. Non che il raziocinio, quando La Madre aveva a che fare con i suoi due figli, contasse qualcosa: sapevano di essere trattati in maniera diversa l’uno dall’altro – e sapevano di non voler fare a cambio: Yale era la merce difettosa, e come tale veniva maneggiato, ma Harvey era quella con su scritto Fragile che, un giorno, avrebbe dovuto portare l’impero degli Hilton sulla fottuta Luna.
    Buona fortuna, bro. Tante care cose. Salutami le stelle. Negli anni, più malizioso di quanto volesse pubblicamente ammettere, si era convinto che lo scopo della loro genitrice fosse di metterli l’uno contro l’altro – pareva proprio si sforzasse di creare invidie e gelosie, spingendo Yale ad odiare Harvard e viceversa: non ne aveva mai parlato con il fratello, un po’ perché si sentiva paranoico ed un po’ perché temeva di avere ragione; in ogni caso, se quello era stato il suo intento sin dall’inizio, aveva fallito amaramente e disperatamente.
    La Madre attirò l’attenzione di Yale schioccando furiosa le dita di fronte al suo viso. «ti avevo avvertito» sibilò iraconda, abbassando il tono di un’altra ottava. Non capiva perché si sprecasse tanto a mantenere quel tête-à-tête privato, considerando che in quella casa – la propria, a voler essere precisi: il fatto che La Madre non fosse la benvenuta, non la fermava dal presentarsi a sorpresa quando più le aggradava, come aveva dimostrato quel giorno – tutti sapevano esattamente cosa accadesse oltre le porte della Sala: semplicemente, a nessuno importava abbastanza.
    Non l’aveva mai fatto. «non capisco cosa ti turbi tanto» osservò onesto, privo dei filtri con il quale l’essere umano s’impediva di spingersi troppo oltre - o meglio, li aveva: sapeva quando avrebbe dovuto fermarsi, e conosceva perfettamente il peso delle proprie parole.
    Semplicemente, non gliene fregava un cazzo. La Madre poteva non rendersene conto, ma Yale – lo Yale conosciuto dal mondo – era un ragazzo attraente e carismatico; era cresciuto avendo tutto, e con uno schiocco di dita avrebbe potuto avere di più: era un ottimo manipolatore, quando voleva; il fatto che lo volesse di rado, e solo per motivi vanesi, non significava che non potesse. Aveva il terribile vizio di sfidare la sorte e gli annessi, e di vincere ogni gara; aveva il potere, nei limpidi occhi blu ed i sorrisi lampeggiati sotto i flash delle fotocamere, di convincere chiunque riguardo qualunque argomento – e quando non poteva vincere, persuadere l’altro che avessero concluso in pareggio. Abbassava la guardia altrui senza palesarsi, colpendo dove la pelle lasciava scoperta la carne più tenera celando l’arma nel pugno: per cambiare opinioni ed idee, principalmente; per indurre gli adolescenti ad amarsi ed amare, incoerente nell’inneggiare la vita; per far sorridere, talvolta. Spesso per farsi amare un po’ di più. Ma capitava anche che facesse male, e che lo facesse intenzionalmente: giusto perché alla fine della giornata, per quanto su Tumblr lo inneggiassero a nuova divinità, era pur sempre un ricco, presuntuoso, meschino figlio di puttana. «non avevo alcun dubbio: non capisci punto, george» ringhiò La Madre, stritolando i denti fra loro. Non era la prima volta che gli dava dell’idiota; Yale non si sprecò neanche a stringersi nelle spalle. Lei, in piedi, torreggiava su di lui con la mano sollevata minacciosa nella sua direzione; Yale, comodamente seduto poco composto sulla sedia foderata d’azzurro, non battè ciglio. A che pro? Sapeva quel che era per sua madre; non aveva bisogno di conferme, o di sentirsi dire per l’ennesima volta quanto fosse un fallito. Non aveva alcuna necessità di leggere, negli occhi grigi di lei, quanto l’avrebbe preferito morto – ed anni prima. Un mezzo sorriso curvò incessante un angolo della bocca.
    Ad Harvard non l’aveva mai detto che prima di lui, sei anni prima, ad aprire la porta del bagno dove il sangue tingeva il marmo di cremisi era stata lei. E che l’aveva richiusa. Si sforzava troppo di mantenere un rapporto civile con La Madre, Harvey; si stremava eccessivamente nel cercare di mettere a freno l’indole aggressiva della donna nei confronti del fratello minore – per proteggerlo, sempre per proteggerlo. Avrebbe detto di non averne bisogno, ma sarebbe stata una menzogna; però sicuramente, e sinceramente, per quanto apprezzasse l’aiuto di Harvard, non lo voleva: ci aveva preso gusto ad essere il capro espiatorio di mamma, ed irritarla era diventata la sua droga preferita. Più tossica dell’eroina, e dannatamente più letale. Quando sfoderò la bacchetta verso il suo petto, La Madre ebbe anche il coraggio di scuotere mestamente il capo: «lo sai che non mi piace, ma devo farlo» evidentemente qualcosa in comune l’avevano anche loro due, per quanto testardamente ella cercasse di non vederlo.
    Bugiardi.
    Il crucio lo costrinse a premere le labbra fra loro soffocando il sorriso sul nascere. Strinse spasmodico le dita sulla sedia, il corpo scosso da piccole convulsioni involontarie. La Madre utilizzava quella tortura - pardon: metodo d’apprendimento – da quando Yale aveva sette anni: avrebbe dovuto essere preparato, ma non lo era mai. Il dolore soffocava ogni fottuta cosa come la prima volta, invertendo ossa e muscoli finchè dell’ex Wampus non rimaneva che gelatina sanguinolenta ed informe. Negli anni aveva solo imparato a non gridare, perché che figura ci facciamo con la servitù? La gente parla, George; vuoi far loro sapere quanto tu sia stato un bambino cattivo?, gli aveva sussurrato durante la sua infanzia, legandogli la bocca per impedirgli di emettere alcun suono.
    Per un paio di secondi, perse conoscenza; fu grato di quel limbo incolore, sprazzo di cielo fra le nubi. Quando riprese i sensi, e potè mettere nuovamente a fuoco la stanza, si rese conto di essere scivolato dalla sedia. Piegò la testa di lato, la guancia umida di sudore ad assorbire il freddo del marmo. Deglutendo febbrile, il cuore folle nello sterno, si rese conto di essersi morso la lingua a sangue. Arricciò il naso, i passi de La Madre vicino al proprio capo a ricordargli che, per quanto avrebbe preferito, non fosse solo: sapendo di aver fatto vacillare la propria maschera, chiuse dolorosamente gli occhi per impedirle di vedere. Non l’avrebbe lasciata vincere. Si fermò a pochi centimetri dal suo viso; Yale sentì il tessuto della gonna solleticargli appena la pelle. «non mettere mai più in imbarazzo il nome degli Hilton» notò come non avesse avuto cuore di dire la nostra famiglia; apprezzava l’onestà. Troppo stanco per fingere un sorriso, per sforzarsi falso d’annuire: sapevano entrambi che non avrebbe smesso, e che per quanto lo riguardava, avrebbe potuto ucciderlo in quell’esatto momento risparmiando ad ambedue altri mesi, anni, di quei fallaci teatrini. La sua teoria era che non l’avesse ancora fatto perché temeva che, sporcandosi le mani in prima persona, avrebbe perso Harvard. Beh, vaffanculo: sperava proprio sarebbe stato così. Si trattenne dal farle notare che dirigevano un impero basato sul sesso ed il piacere carnale, quindi una foto di Yale semi nudo suscitava scalpore solo perché si trattava di Yale, e qualunque cosa facesse attirava l’attenzione. Non le importava davvero di avere un motivo valido per sfogarsi sul figlio – ogni scusa era buona per ricordargli quanto fosse un peso al buon nome degli Hilton.
    «sono stata chiara?» Cristallina. Tenne per sé il sorriso, abbandonandosi pigro al pavimento. La sentì chinarsi, ed ancora non si mosse. «molto bello il completo, george. ottima scelta» sfiorò la delicata fattura della giacca blu notte sistemando pieghe invisibili; sapeva che se avesse aperto gli occhi, l’avrebbe vista sorridere come se nulla fosse mai successo. La bile gli riempì la bocca unendosi al sangue ed alla poca saliva rimasta, mentre La Madre lasciava la Sala ticchettando autorevole sul marmo bianco.
    Non tornò a respirare neanche quando la porta si richiuse alle sue spalle.
    Disteso al suolo con gli occhi blu puntati sul soffitto, Yale si domandò pigro quale fosse il punto di quell’esistenza monotona e sempre a metà. Una punta di senso di colpa sciacquava sempre le sue lamentele sporcandole con le voci ipocrite e false udite da porte socchiuse o televisori con il volume al minimo: si domandava spesso, il mondo o chi per esso, per quale motivo l’Hilton si comportasse così. Non comprendevano come un ragazzo che avesse avuto tutto, a cui non mancasse nulla, trovasse così difficile sopravvivere alla sua stessa pelle; come, nei grandi occhi color oceano e nel sorriso allegro sulle labbra, ci fosse sempre il retrogusto di vuoto e tristezza antica. Anche lui, se lo domandava. Sapeva di non avere alcuna giustificazione; sapeva di essere un privilegiato, di non avere scusanti per i propri capricci - così li definiva La Madre, liquidando la questione con un cenno della mano. Neanche le diagnosi mediche avevano messo a tacere le voci di corridoio, né l’animo inquieto di Yale. Immaginava che, un giorno, avrebbe semplicemente imparato a convivere con la depressione.
    Oppure sarebbe morto. Gli andavano bene entrambe le alternative.
    Sfilò la bacchetta dalla tasca interna della giacca, acciando il pacchetto di Lucky Strike abbandonato sul tavolo – le sigarette di Grease e di Freddie Mercury, oramai marchio di fabbrica nello starter pack Yale Hilton: Lucky Strike; Zippo; Scotch; Iphone; Ray-ban; bandiere recanti il brand Yale; sorrido-sempre-ciao. Un fottuto clichè. Infilò la cicca fra i denti, permettendosi ancora di chiudere gli occhi mentre il fumo pungeva fastidioso le narici. Non guardò le proprie dita, consapevole che stessero ancora, involontariamente, tremando; ci metteva sempre almeno dieci minuti a prendere nuovamente possesso del proprio corpo, dopo una delle amabili visite della Madre. Si sentiva liquido e stanco, durante e post quelle sessioni. Avrebbe potuto rimanere lì tutta la sera – la notte, o una vita – senza neanche spostarsi sul fianco, osservando apatico il soffitto ed invidiando ingiustificatamente l’immutabilità della stanza. Ma non poteva: quella sera, a cinque ore da New York, avrebbe riaperto i battenti un nuovo Lilum, e Yale rompeva il cazzo ai cugini da una settimana perché riuscissero a liberarsi dai loro impegni (quali.) e passare una serata insieme. Inoltre, aveva bisogno della sua dote di amore dal pubblico inglese – selfie, abbracci, domande indiscrete, biglietti e cartelloni: Yale amava i suoi fan, ed attivo su qualunque social, non lesinava dal farglielo sapere. Quel che non diceva, era quanto stupidamente, meschinamente, avesse bisogno di loro. Non gliene fregava un cazzo che di lui amassero una versione patinata ed illusoria; che il vero Yale fosse lungi dall’essere lo stesso ragazzo che sorrideva dai Poster del Cioè, o da quello che nelle Live di Instagram mostrava dove avesse sistemato, nel proprio loft, i loro doni. Nel loro affetto, e perfino nel loro odio, c’era qualcosa del quale l’Hilton era stato privato da tutta una vita: attenzioni. Non importa che se ne parli bene o male, l'importante è che se ne parli: mero riconoscimento di esistere. Senza di loro, da sé, non era certo di farlo affatto.
    Spense la sigaretta ormai conclusa al suolo, conscio che il tempo impiegato a fumare avrebbe dovuto assicurargli un margine preciso entro il quale La Madre aveva già lasciato la sua dimora da diversi minuti. Non ebbe bisogno di guardare l’orologio al polso, per sapere di essere in ritardo. Dubitava perfino che Harvard gli avesse detto l’ora giusta per l’incontro: Harvey sapeva che il fratello minore fosse una primadonna, e come tale esigesse dai trenta ai quarantacinque minuti accademici prima di palesarsi. Si alzò in piedi mantenendo l’espressione d’impassibile cortesia, spolverando distratto gli abiti da polvere invisibile. Aprì la doppia porta che dava sul corridoio spingendo le ante lateralmente, compiaciuto di come scivolassero morbide nelle insenature del muro: guarda come ci apriamo per te, Yale! Il mondo è tuo! L’universo è tuo! La gioia dell’Hilton era usualmente effimera, ma perlomeno frequente. Arcuò le sopracciglia sollevando gli angoli della bocca in uno degli amabili sorrisi a labbra serrate molto Yale©, gli occhi chiari a guizzare sulla figura in ombra poco distante. Immaginava che, se avesse voluto, Daveth Gallagher avrebbe potuto passare inosservato come qualunque altro membro della security; credeva anche che non gliene potesse fottere di meno. Erano quasi dieci anni che le orme di Yale Hilton erano caparbiamente seguite da guardie del corpo, o come a Yale piaceva definirle, balie. La versione ufficiale era che Yale attirasse troppo l’attenzione del pubblico, ed in famiglia si temesse per la sua incolumità; la versione non ufficiale, era che avessero bisogno di qualcuno a seguirlo per assicurarsi che non si impiccasse con i lacci delle scarpe. Quella onesta, non volevano che Yale parlasse con la Stampa, temendo potesse dire qualcosa che sarebbe ricaduto sull’intera famiglia.
    Timore legittimo.
    Ovviamente, erano quasi dieci anni in cui Yale aveva affinato la propria arte nel portare all’esasperazione chiunque condividesse con lui ossigeno per più di due ore consecutive. Qualcuno avrebbe detto che fosse il suo atto di ribellione passivo nei confronti di una costrizione – ed avrebbe avuto ragione – altri, come il suo terapista, che tendesse irrazionalmente ad allontanare gli altri – ed aveva torto, ma Yale non gliel’aveva mai detto. Personalmente propendeva più per la spiegazione noia, ma erano tutti interessanti punti di vista. «ti ho mai raccontato di quando ho investito george?» domandò, lo sguardo ad illuminarsi di sincero entusiasmo. Parlare era il suo meccanismo di coping: aveva appreso dalla tenera età a riempire i silenzi prima che qualcuno potesse volgergli domande scomode, ed era oramai così parte di lui che a malapena ci faceva caso. Poteva parlare per ore, balzando da un argomento all’altro con naturalezza e semplicità, senza mai ritrovarsi senza nulla da dire – fantasioso, creativo; a suo modo, tutto soggettivo, intelligente. Il fatto poi che gli altri non lo ascoltassero, non lo stupiva né offendeva: era il rumore bianco di se stesso, nonché uno dei pochi motivi che gli ricordavano di dover respirare. Come mettersi lo smalto per non mangiarsi le unghie, capite. Non ebbe bisogno di sentire la risposta (anche perché dubitava ne avrebbe ricevuto una) considerando che Davide, o Agent D a seconda di come l’Hilton si svegliava al mattino, lavorava per lui da poco meno di una settimana. «mio nonno ha un ranch, a Dallas» spiegò privo d’inflessione, dandogli le spalle trafficare nel mobiletto sul lato sinistro del corridoio. Non aveva avuto voce in capitolo sull’arredamento del loft, lasciando passivamente che a mettere becco fossero designer e La Madre, ma certamente il contenuto era tutto Yale: bastava aprire un qualunque armadio, perfino la scarpiera, per trovare un mini bar. «siamo texani» specificò, malgrado fosse di conoscenza comune. Amava sottolineare l’ovvio, enfatizzando sottilmente quanto il proprio interlocutore fosse ignorante – ma senza mai esplicitarlo: era un ragazzo educato, Yale. Prese una bottiglia di Scotch scozzese e riempì pragmatico un tozzo bicchiere di vetro, richiudendo il tappo con il pollice e volgendosi verso l’altro. «avevo otto anni» incrociò le caviglie. E Harvard era in riabilitazione. «gli adulti erano distratti» Riempì la bocca di liquore, reclinò il capo all’indietro e lo gorgogliò in gola come avrebbe fatto con un collutorio. Sentiva ancora il sapore del proprio sangue sulla lingua. Gonfiò le guance e socchiuse gli occhi, sentendo il forte sapore del whisky anestetizzare palato e gengive. Dopo una manciata di secondi, sputò dentro il vaso del Ficus, il dorso della mano ad asciugare il mento. «c’era questo trattore bellissimo, quindi ho portato penn a fare un giro» Penn era sua cugina, ed all’epoca dei fatti non aveva neanche sei anni. Fatta eccezione per Paris e Nicky, insulto al lignaggio degli Hilton, i cugini avevano un ottimo rapporto fra loro, cresciuti insieme fra estati negli Hamptons e inverni a Miami. Neanche i gap d’età avevano ostacolato la loro amicizia. Yale li aveva sempre visti più come fratelli che come cugini, rifiutandosi di accettare che i loro legami dipendessero quasi esclusivamente dall’avere un Nonno in comune. «e non ho visto…» infilò pensoso un dito tra il farfallino blu ed il collo, premendo per allentare il nodo. «george» sorrise. O il muro. Non che portasse cicatrici di quel giorno, o di quelle causate negli anni a venire: La Madre aveva assunto i miglior Guaritori al Mondo per impedire che Yale dovesse convivere con tali, orribili, sfregi anti estetici. «il tacchino, george.» spinse fino a che il nodo del papillon non si sciolse, tenendo il tessuto fra pollice ed indice prima di lanciarlo verso Daveth. Sei libero, Kreacher, mimò con le labbra. Sì, non era la prima volta che gli lanciava indumenti, di solito calzini, per liberarsene come avrebbe (ed aveva.) fatto con un elfo domestico. Non rise. Pubblico difficile. Seguì il movimento della mano di lui abbassando lo sguardo verso l’arma da fuoco appesa pigramente al suo fianco. Un guizzo di papabile divertimento infiammò gli occhi blu, e Yale lampeggiò un sorriso nella sua direzione. Quello, ed il fatto che seppur andasse contro ogni Comandamento delle Buone Guardie del Corpo che La Madre gli aveva fornito, ella non se ne fosse ancora lamentata, diceva molto più di qualunque mera supposizione su chi fosse il Capo del Gallagher. Evidentemente non era stato informato sul fatto che alla security non fosse più permesso avere pistole a portata di mano, dopo quanto successo con Lawrence. Si domandò retorico chi avesse deciso di tenere per sé l’informazione. Fra i vizi dell’Hilton, v’era indubbiamente quello di provocare il genere umano, fosse per fargli dubitare del colore della luna o semplicemente per farli incazzare. C’era qualcosa di catartico nel vedere un essere umano perdere il controllo – qualcosa che Yale, passivamente, invidiava: l’80% del suo tempo non sentiva nulla, ed il restante 20% l’avrebbe preferito. Ma, soprattutto, la vera dissolutezza di Yale risiedeva nel spingere le persone oltre il proprio limite: chi aveva paura delle altezze, con Yale, finiva sempre per dover saltare; chi aveva timore del pubblico, si ritrovava sfidato a tenere un monologo a Broadway. Ad Ilvermorny, l’unica volta in cui avevano iniziato le procedure per espellerlo (fermati dalla nuova Ala della Biblioteca finanziata da William Jr), era stato perché aveva iniziato quello che i docenti avevano definito culto: non era stato intenzionale, davvero; i ragazzi avevano semplicemente iniziato a seguirlo, ammaliati dal sorriso e dalla facilità con cui sollevava le braccia al cielo come se potesse toccarlo. Seguendo uno come Yale, era naturale che i loro passatempi non fossero sani. Quando un ragazzo era morto, avevano deciso di prendere provvedimenti. Crescendo, l’indole del mago non era migliorata affatto – anzi. Perché al vizio, seguiva sempre il suo difetto mortale: mai, Yale Hilton, avrebbe domandato a qualcuno di fare qualcosa ch’egli stesso non fosse disposto a fare. Non era colpa sua se, rispetto a loro, avesse meno da perdere.
    O meno voglia di vivere, per dirne una. I più reattivi credevano sempre che Yale Hilton stesse bluffando - che neanche lui si sarebbe spinto a tanto. Qualcuno gli teneva corda per smascherare quel che credevano fosse il suo spropositato ego. Lawrence, la sua guardia del corpo precedente, rientrava in categoria. Non aveva creduto davvero che l’erede degli Hilton fosse disposto a giocare alla Roulette Russa; che il proiettile, nel tamburo del Revolver, ci fosse davvero. Giochiamo, gli aveva detto. Se non fosse stato seccato dal fatto che Yale gli avesse fottuto la pistola, probabilmente non avrebbe rischiato di poter aver torto – ma la rabbia rendeva l’uomo cieco. Quando né Yale né Lawrence avevano risposto al telefono per più di ventiquattro ore, Harvard Hilton si era presentato al Loft, trovando il minore semi coricato sul divano in salotto. Non si era mai mosso, Yale; aveva ancora i vestiti ed il viso imbrattato di sangue, sigarette spente al suo fianco ed una accesa fra i denti, il cadavere ormai freddo della Guardia riverso al suo fianco. L’avevo avvisato, si era blandamente giustificato, senza distogliere lo sguardo dal foro dietro la nuca di Lawrence. Harvard non aveva avuto bisogno di spiegazioni in merito per capire cosa fosse successo. Ricordava ancora il peso degli occhi chiari di lui su di sé, una patina opaca di sofferta e malcelata rabbia – impotenza. Mi avevi promesso non lo avresti più fatto, gli ricordò in tono incolore. Ed allora Yale aveva sollevato i lucidi occhi blu sul fratello maggiore, una risata un po’ perversa a rendere sporca meraviglia le labbra morbide curvate verso l’altro. Sì, beh, ho mentito - quanta onesta naturalezza. Yale Hilton era inaffidabile, un bugiardo. La sua parola valeva quanto quella di un venditore porta a porta. «nonno chiama tutti i suoi animali con i nostri nomi» continuò imperterrito, una pigra occhiata all’orologio, muovendo vago la mano nell’aria. «newhaven la gallina, george il tacchino, cedric il pony» slacciò distrattamente i primi due bottoni della camicia, stringendosi nelle spalle e girandosi per recuperare qualche cubetto di ghiaccio con cui riempì il bicchiere. «la scrofa paris è la mia preferita» ammise, sorridendo lieto fra sé ed arcuando le sopracciglia, riempiendo nel mentre il bicchiere a metà di whisky e facendolo scivolare verso il Gallagher. Era stupido servire gli Hilton e seguire il dogma del non bere sul posto di lavoro – impossibile. «newhaven è famosa. Mai visto il vine?» domandò, affatto interessato alla risposta, svitando il tappo delle pasticche nel contenitore arancio. Era la sua tattica base, quella: prendere tempo, distrarre – gli altri, se stesso. Fingere di non dare importanza a nulla così che passasse come naturale sotto occhi di tutti. Fece cadere qualche pastiglia sul palmo, piuttosto certo che la prescrizione non fosse chiara in merito – in ogni caso era una pippa in matematica; la usava spesso come scusa - tirando verso di sé la bottiglia di Scotch per ingurgitare gli anti depressivi. «in Afghanistan non prendeva il wifi?» il tono serio diede maggior spessore al sorriso presuntuoso e seccante, ma mai sgradevole, di Yale. «beh comunque. nonno hilton è un tipo interessante» osservò la bottiglia fra le proprie mani, un sorriso storto sulle labbra. Interessante, nel suo vocabolario e con quel sorriso, era il modo di Yale per dire un po’ fottuto nel cervello. Yale odiava il ranch, odiava il Texas, ed odiava lo stupido festival al quale erano costretti a partecipare ogni anno - dove il Nonno, per inciso, cercava sempre di accasarlo con qualche country girl del posto, malgrado l’Hilton avesse cercato di spiegargli più volte che non fosse particolarmente interessato alla mercanzia. Nulla di personale contro Phoebe Lynn Montana o Rosie Gayle, bellissime fanciulle, ma pur sempre fanciulle. Gli Hilton della vecchia scuola fingevano semplicemente di non sapere che Yale fosse gay, convinti di poter trovare la donna adatta alle sue esigenze – come una Tachipirina per il mal di testa, esatto. Aveva smesso di insistere, rimanendo però coerente con se stesso con la stampa. Il fatto che La Madre, era certo fosse lei, continuasse a far trapelare presunte relazioni di Newhaven, non aiutava la causa di Yale. In ogni caso, i tabloid e i magazine gli affibbiavano l’etichetta che preferivano, elogiandolo icona bisessuale, pansessuale, addirittura asessuale; non era una guerra che era intenzionato a combattere, a suo agio nell’essere visto sotto la luce che ciascuno trovava più confortante: avevano bisogno di un idolo che li rappresentasse, e zaac ecco il multitasking Yale Hilton.
    Come avrebbe detto sua cugina, that’s hot. «la sua parola preferita è yeehaaw» e con tutta la naturalezza del mondo, quasi fosse un gesto del tutto consueto e legittimo, sollevò il braccio con la bottiglia svuotandola sulla propria testa. Scrollò il capo zuppo d’alcool in una pioggia degna di Step Up, schioccando incantato la lingua sul palato mentre il liquido impregnava gli abiti scivolando lungo la schiena e sul collo. Guardò ancora l’ora, e fece cenno all’altro di seguirlo. Avrebbe potuto smaterializzarsi a casa di Harvard, ma perché quando poteva usare la Limo? Amava la sua Limousine, ed amava Adam l’autista: non faceva mai domande scomode, e conosceva perfettamente i gusti musicali di Yale, alzando il volume della radio ogni volta che passavano qualche pezzo di suo gradimento. Percorrendo il corridoio, continuò a parlare come se gocciolare Scotch sul parquet, per lui, fosse del tutto normale. Con altrettanta disinvoltura, sinceramente poco interessato al fatto che avrebbe dovuto percorrere il vialetto per arrivare alla macchina, iniziò a spogliarsi. Letteralmente. «anche quella di Prince, ma non lo ammetterebbe mai» più cauto del solito nel misurare i movimenti, inspirando apatico ed impedendo al dispetto di farlo apparire un dodicenne rivoltoso – malgrado, in cuor suo, lo fosse – si tolse la giacca. «columbia dice che quand’erano adolescenti, l’ha sentito chiaramente esultare al grido di yeehaaw durante un amplesso sessuale» sorrise fra sé, sbottonando camicia e pantaloni ormai quasi alla porta. «poi ci chiediamo perché sia un padre single» inarcò le sopracciglia senza mai voltarsi a controllare che Daveth lo stesse, effettivamente, seguendo. Poteva essere sparito dieci minuti prima, e Yale non se ne sarebbe accorto. Non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta che parlava da solo. Meglio di niente, uh. Si tolse gli indumenti rimasti quand’era ormai sulla soglia del Loft, a suo agio come avrebbe potuto esserlo in un completo di Hugo Boss: era stato anche un modello, nella sua vita – ed era assai raro che, in qualunque frangente, si sentisse in imbarazzo. Sapete, per provare simili sentimenti, avrebbe dovuto sbattersene un cazzo di qualcosa.
    Non lo faceva. Osservò il porta ombrelli in ottone, prima di abbandonarvi all’interno i vestiti pregni di scotch. «lo amiamo così. non dirgli che te l’ho detto» aprì lo zippo, guardò affascinato la fiamma come se mai in vita sua avesse visto del fuoco, e lo lanciò nel porta ombrelli.
    Molto bello il completo, George. Sospirò in un sorriso leggero e di circostanza, le dita a scivolare fra le brune ciocche fradice. «che gente, gli hilton.»
    Perfino i bugiardi patologici avevano i loro momenti di sante verità.

    «senti questa -» umettò le labbra, le gambe distese sulla spalliera del sedile e la schiena sulla seduta, la testa a ciondoloni sul pavimento del Jet. I capelli erano ancora umidi della breve doccia a casa di Harvey, perfettamente in piega anche quando non lo erano; indossava una semplice camicia bianca, pantaloni neri, scarpe più lucide e scure dell’anima de La Madre, ed un paio di bretelle del medesimo colore. Il telefono sollevato di fronte agli occhi, corrugò lievemente le sopracciglia entrando nel personaggio. «“Sapevano che quell’amore fosse proibito, ma non potevano fare a meno di volersi”» Pausa drammatica, mano a scendere sul cuore. «“desiderarsi. amarsi” – in corsivo, eh» Non solo Yale era il più presente sui social, ma era anche il più sinceramente interessato a quello che i loro ammiratori facevano di loro: aveva un’intera, egocentrica, cartella con i multifandom degli Hilton; seguiva i giochi di ruolo dove li usavano come face claim; rebloggava tutti i gifset.
    E, chiaramente, leggeva tutte le fanfiction. « “Non attesero che la porta della stanza di Nashville fosse chiusa” – ew, rude? – “Prima di rincorrersi con mani fameliche, dita ad artigliare le carne e strappare i vestiti” – eau la Madonna, Hulk» Aggrottò le sopracciglia seguendo con lo sguardo le linee successive. « “- k-k-kkim, ansimò Princeton” – ehi, lo sapete che pare le balbuzie nelle fanfiction arrivino da un certo barnaby jagger? Un tipo di, boh, tipo cent’anni fa» sì, le curiosità di quel genere le sapeva tutte, e poi magari non conosceva i pianeti nel sistema solare. « “- f-f-fai piano con i d-dent - Ahh”» Si, recitò anche l’ansimo, ruotando perfino gli occhi verso il pavimento. Sorrise, lo sguardo blu a cercare, nella contorta posizione al contrario, quelli chiari del fratello: Harvard poteva dire quello che voleva, ma era meglio come regista che come attore; l’oscar in quel campo, come affermato dal sondaggio su twitter, andava a Yale. «kim pare proprio molto entusiasta. mi chiedo se kanye preferisca lei o jay z» Yale era rimasto neutro nella vicenda fra i kay-z, amava troppo entrambi per schierarsi, così come non aveva preso posizione dopo il divorzio di Prince da Khloe: c’era un motivo, se Yale piaceva a tutti. Continuò a leggere fra sé, evitando di narrare ad alta voce dello strabiliante pompino interrotto dal grido offeso di Khloe. C’era ancora tempo per il drama, ma non era quello il momento. Sospirò, uscendo dalla sezione Princeton Kardashian Hilton per entrare nella propria. Arricciò il naso leggendo i titoli – ma soprattutto, i membri coinvolti. «ma perché» si lamentò ad alta voce, chiedendosi per quale fottuto motivo la gente lo shippasse con suo fratello. Brividi. «incesto, incesto – aw, con penn! Ed è incesto anche questa – NOOOOOO con paris?» spalancò gli occhi, labbra piegate verso il basso. Offeso, chiuse l’applicazione incrociando le braccia sul petto.
    Quello non poteva accettarlo.
    Rimase in oltraggiato silenzio, riflettendo sul senso della vita mentre l’oceano scivolava liquido sotto di loro, per almeno tre minuti pieni. Poi, incapace di reggere il silenzio, si spinse lateralmente in modo da poggiare solo il fianco sul sedile, lo sguardo a cercare distratto quello di Harvard. «credi che ci sarà @jklowell? voglio un selfie da mettere su ig» beh? Credevate forse che si fosse perso la nuova tendenza su twitter? Giammai. Quell’odio gratuito lo faceva sempre sorridere; aveva anche comprato una delle sue magliette con su scritto Fuck off. «e quello del video virale di qualche mese fa? credo sia inglese» un’intera playlist del medesimo, biondo, ragazzo lanciato fuori dai locali, e direttamente all’interno dei bidoni. «è un peccato che harry e willy siano babbani. avrebbero apprezzato» ma soprattutto, Betty avrebbe apprezzato: ah, quanto amava quella vecchina. Fece scivolare la lingua fra i denti, le dita a sollevare le bretelle per poi lasciare schioccare sul petto. «siamo arrivati?» chiese, i brillanti occhi cobalto fissi sul soffitto. Non attese neanche quattro (4) minuti prima di ripetere la domanda, incapace di rimanere fermo troppo a lungo – non che fosse normalmente iperattivo, ma aveva già mescolato troppi alcolici e droghe per potersi permettere quello stato di quiete. «e ora?» modi come altri, per giunta, per evitare che l’attenzione ricadesse su di sé per le questioni sbagliate: non voleva parlare dell’articolo, non voleva parlare della Madre, e non voleva ricevere la solita, stupida domanda su come stesse: stava sempre una merda, Yale, ma sorrideva nella favola bisbigliato a sopracciglia arcuate. Al diciassettesimo, contato, siamo arrivati?, la risposta fu sì.
    Sia lodato il Signore.

    «yale! YALE, qUi!» Sistemò la camicia e si tolse i poco necessari occhiali da sole, volgendo alle fotocamere il migliore dei suoi sorrisi mozzafiato – ossia, uno qualunque. Passò la mano fra i capelli lasciando che cogliessero nel loro obiettivo anche quel gesto distratto, ammiccando ai giovani ammiratori che, quella notte come le altre, non potevano superare il cordone d’entrata del Lilum. Ciò non li aveva fermati, chiaramente, dal presentarsi al locale con cartelloni (WE ♥ YALE) e richieste di autografi o selfie, che Yale accettò di buon grado. La maggior parte dei suoi ammiratori erano teenager, non ancora in grado di apprezzare i…talenti di altri Hilton come Harvard. Era come Justin Bieber, ma più kool. Soffiò un bacio ai paparazzi mandando in estasi i flash delle fotocamere. «yAlE, è vero che entrerai nel business di famiglia?» No. «yale, confermi di aver avuto una relazione con kendall jenner?» Cristo Santo, se uno degli Hilton entrava nel mondo Kardashian, automaticamente tutti loro erano coinvolti. «yale, vuoi dire qualcosa sull’ultima dichiarazione di miley cyrus?» Non sapeva di quale dichiarazione stesse parlando, ma probabilmente la risposta era no. Nel dubbio, amabile ed approcciabile, circondato da Stampa locale e straniera, aprì la bocca per rispondere ad ogni loro quesito. «innanzitutto, dovete essere più specifici» rivolse ai giornalisti un ghigno malizioso e piacevole, l’indice a sfiorare distratto il labbro superiore. «con entrare nel business di famiglia, considerando il campo impegnato da papi, intendete anche usare l’Hilton endurance Jack A-» corrugò le sopracciglia quando una mano lo mise a tacere, il palmo sbattuto poco delicatamente sulla bocca e le dita piantate nel braccio per tirarlo indietro. Rivolse un’occhiata di scuse ai suoi fan, sventolando il braccio e senza ribellarsi alla rudezza di Agent D – almeno non se l’era caricato in spalla; sì, era successo anche quello. In ogni caso, «non era necessario» precisò nell’atrio del locale, un’occhiata seccata ed in tralice a Daveth. Spolverò le spalle porgendo regale la bacchetta alla ragazza all’entrata, sorridendo e ringraziando educatamente quando questa appose il timbro sulla mano – con tanto di occhiolino, chiaramente. In realtà sì, era necessario, ma il fatto che l’altro avesse ragione (come chiunque nel mondo.) non avrebbe mai impedito a Yale di ribattere. «non hai delle bombe da disinnescare?» si strinse nelle spalle allungando il braccio di fronte a sé, indicandogli il suggestivo interno del Lilum. Cercava sempre di liberarsi delle sue baby sitter, nulla di personale. Questione di principio. «dai soldato ryan, non lo dirò a nessuno. parola di lupetto» baciò indice e medio e sollevò la mano verso il soffitto, facendo più riferimento a Katniss Everdeen che non ad un boy scout. «hai la serata libera» si baciò il palmo sinistro e lo strofinò con le dita della mano destra distribuendolo nell’aria come avrebbe fatto (e faceva, spesso.) con le banconote, strizzando affettuosamente gli occhi in un non preoccuparti, i got this.
    Non che avesse davvero qualcosa sotto controllo. Ad esempio, dov’erano i suoi familiari? Li aveva persi all’entrata del Lilum, ed all’interno era drammaticamente più difficile notarli. Socchiuse le palpebre, lo sguardo blu a posarsi e scivolare sugli inservienti del locale soffermandosi più sulle maschere che non sulle zone di pelle scoperta ed esposta al pubblico. Ricambiò debolmente qualche sorriso, slittando fra i corpi con eleganza e classe. Afferrò al volo un flute di champagne, chinando rispettosamente il capo verso la ragazza dagli occhi ambrati celata dietro il travestimento. Sorseggiò le bollicine percependo sul proprio polso il denso alone dello scotch. Senza farci realmente caso, portò il braccio – prima scoperto – verso la bocca, e lo leccò brevemente: mh, sapeva anche di scotch. Sorrise entusiasta, la schiena dritta e lo sguardo curioso sul pubblico. Sapeva come trovare perlomeno suo fratello. Avete presente il gioco Marco Polo? I partecipanti devono gridare, rispettivamente, Marco e Polo per ritrovarsi. Ecco, diciamo che la loro era una versione più…personale. Riguardava una canzone, e l’obbligo morale e fisico di continuarla indipendentemente da dove si trovassero: se uno dei due Hilton iniziava a cantare, l’altro era tenuto a seguirlo che si fosse trovato in riunione o sulla cima dell’Everest. «I looked out this morning and the sun was gone» avanzò nella folla con le mani a coppa attorno alla bocca. «Turned on some music to start my day» si sollevò perfino sulle punte dei piedi, malgrado fosse più alto di Harvey. Piegò il capo e la bocca verso qualcuno al proprio fianco, un sopracciglio maliziosamente sollevato in direzione delle postazioni con le ballerine. «chissà se i cubi sono aperti al pubblico» aka: chissà quanto tempo passerà prima che io decida di unirmi.
    Poco, probabilmente.
    Che gente, gli Hilton.
    mudblood | 22 y.o. | former wampus
    classhole | family failure
    feel like my life is 'bout to fall apart
    I'm tryna fix it right up,
    don't know where to start.
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    dressed to kill

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    jericho karma lowell
    @jklowell
    «tutte» Jericho Karma Lowell rimase impassibile, lasciando che la rabbia e l’oltraggio provato filtrassero solamente dalle iridi zaffiro. Non poteva accontentarsi di quei due coltellini? Erano già più di quanto non fosse solita offrire a chiunque le enunciasse di privarsi delle sue armi, avrebbe dovuto farle una fottuta standing ovation – non fissarla come se fosse stata ritardata. Già il fatto che le avessero chiesto i documenti, l’aveva mandata su tutte le furie: ora, ditemi, non si poteva avere diciannove anni ed essere alti sei mesi dell’anno? Andava contro qualche legge cosmica della quale non era stata informata? E , il viso era ancora giovane e morbido come quello di un’adolescente, ma bastava osservare la linea serrata delle labbra e i furenti occhi fiordaliso per evitare di porle domande stupide. Già odiava ogni genere di quesito che non fosse pugnale o pistola?, figurarsi quelli non necessari. Inspirò seccata dalle narici, la lunga coda alta a sfiorarle ritmica le spalle ad ogni fiato. Vattene, Jericho. Il suo istinto primario continuava a suggerirglielo, e solo il cielo poteva sapere quanto fosse tentata di seguire il suo stesso consiglio: porta via le ovaie. Non fa per te. SCAPPA! Troppo testarda per tornare sui propri passi, ed esageratamente cocciuta nel non voler proseguire
    What a time to be alive. Con la lentezza misurata di un cecchino, senza distogliere lo sguardo dal ragazzo all’entrata, infilò una mano nella scollatura della maglia ed estrasse uno degli shuriken nel reggiseno. Lui inarcò un sopracciglio. MmMmMmMh. Prima che potesse cambiare idea, scavò ancora nelle coppe cercando anche il secondo, che scagliò pericolosamente vicino alle dita dell’impiegato. Non poteva semplicemente apprezzare che lei, un sicario con manie killer verso chiunque aprisse bocca, fosse presente a quell’evento? Doveva pur significare qualcosa. Scommetteva che la proprietaria avrebbe capito le esigenze di una signorina di uscire di casa con almeno tre stiletti nelle calze. Si era perfino, perfino!, quasi vestita per l’occasione – e conoscendo un minimo la Lowell, potrete immaginare quale sforzo titanico le fosse costato non indossare l’usuale pigiama social. Nei corti pantaloncini di jeans, le gambe parevano ancor più lunghe di quanto realmente non fossero; i tacchi, se perdonate il francesismo, manco per il cazzo, ma per l’occasione aveva deciso di cambiare il colore dei propri scarponcini da nero opaco a nero lucido. Per una come Jericho Lowell, era come indossare delle decolletè rosso fuoco. Inoltre, indossava una delle maglie della sua collezione – tagliata all’ombelico, letteralmente, con un coltellino a serramanico; la scritta a caratteri cubitali ricordava al mondo che sooner or later we all gonna die, caso mai fossero troppo entusiasti della vita da dimenticarsene. Il rossetto viola spiccava sul viso di porcellana, dove aveva perfino (p e r f i n o) applicato del trucco sugli occhi, rendendoli più magnetici di quanto già di loro non fossero.
    Sì, ho detto la sua linea. Sì, ancora non capiva quando, come, fosse successo, ma era diventata popolare. Popolare, come le cheerleader nelle scuole americane. Capite? Lei! Il mondo la conosceva; la apprezzava; quel maledetto telefono di merda che si ritrovava aveva deciso di funzionare a New Hovel proprio in tempo per farle giungere le centinaia di notifiche giornaliere dei suoi followers. I suoi. Followers. Dopo mesi, ancora non capiva cosa volessero da lei – cosa…cosa non avessero capito. I suoi tweet auguravano la morte al 98% della popolazione mondiale, e loro che facevano? Lo retwittavano. Pubblicava selfie con il morto, e loro ridevano. Insultava chiunque le capitasse a tiro, dai VIPS sfigati alle star di disney channel che già abusavano di eroina nei bagni della Micky House, giungendo infine a perfetti sconosciuti che, a dire della Lowell, se la credevano un po’ troppo, e loro? La seguivano ancora più numerosi? LE FACEVANO I COMPLIMENTI? La prendevano - giuro. - come modello per dimostrare che le donne fossero in grado di spaccare culi esattamente come gli uomini? Era stata (!!!) contattata per fare delle pubblicità.
    Per
    Tenere
    Dei
    Seminari
    Nelle
    SCUOLE.
    Meno rispondeva a quelle chiamate, e più ne riceveva. Pensavano facesse la preziosa, e non comprendevano che stesse loro facendo solo un favore: non voleva iniziare la moda delle sparatorie nelle scuole anche in Gran Bretagna. No, non aveva improvvisamente sviluppato una morale, semplicemente preferiva essere lei a sporcarsi le mani in prima persona, piuttosto che ispirare nuove generazioni di serial killer. Non c’era gusto, così – e non aveva la pazienza di essere il Maestro Kesuke Miyagi di nessuno.
    «tutte, per piacere. altrimenti non posso farla entrare» per – per piacere! A lei! Gli sembrava forse il tipo che facesse qualcosa per maledetto piacere? Drizzò la schiena ribollendo di rabbia come una teiera sul fuoco, vibrando come un diapason al primo rintocco di bacchetta. Respira, Jericho. Non hai bisogno delle armi. Ma erano il suo accessorio, capite? La sua maledetta coperta di Linus in un luogo dove si sentiva a suo agio quanto un cucciolo di alligatore in un ristorante messicano. Umettò nervosamente le labbra, le dita a fremere dal bisogno di prendere una delle lame e conficcarla nella giugulare del giovane mascherato. Con un respiro più profondo degli altri, si chinò verso i propri scarponcini estraendo altri tre (3) coltellini da lancio. Lui non battè ciglio. «OKAY» ringhiò a denti stretti, sollevando la maglia per togliere anche il mini machete, rivoltando le tasche per i coltelli a serramanico e – sì, era un cacciavite. «contento?» sibilò stringendo la mandibola. Lui le rivolse un’intensa occhiata di sottecchi. No, dai. Come… come faceva a saperlo.
    Doveva avere qualche fottuto super potere tipo la visione termica. Bagnando il labbro inferiore con la punta della lingua, sollevò le braccia sfilando il Kriss dai capelli. Si preoccupò di conficcarlo sul legno, la mano sull’impugnatura così che il ragazzo potesse lasciarle il marchio che le avrebbe permesso di accedere al locale. «era l’ultimo» chiarì, sentendo già il dolore all’anima nel dover abbandonare tutte le sue bambine alla mercè di chiunque. Entrò all’interno del Lilum con il passo di un soldato che affrontasse la Terza Fottuta Guerra Mondiale. Aveva legato i capelli per un motivo ben preciso, oltre al nascondiglio per il coltello: poteva schiaffeggiare la gente. Almeno quello non avrebbero potuto toglierglielo. Solo quando fu al centro del posto, iniziò a guardarsi attorno. Sentiva la gola asciutta ed il cuore sulla lingua, i palmi umidi di sudore a concludere il siparietto dell’ansia sociale. E tutta quella…pelle. Come un serpente di fronte all’incantatrice (hail h y d r a #quest07) rimase ad osservare i corpi scivolare morbidi fra la folla, sollevando il capo per incontrare i movimenti sinuosi delle ballerine sulle zone sopra elevate. Un afflusso di sangue alle guance la costrinse ad imprecare ed abbassare lo sguardo sul pavimento. Cristo Santo, ma perché l’aveva fatto? Non aveva davvero mezza (mezza!) giustificazione per essere lì, se non…beh, curiosità. Perfino la carne di Jericho Karma Lowell chiamava, e la ragazza era ancora… confusa. Si era detta che una serata al Lilum avrebbe potuto aiutarla, e quale migliore per mimetizzarsi se non l’inaugurazione, dove sarebbe passata inosservata?
    Aveva evidentemente sbagliato i calcoli. C’era un motivo se era stata smistata fra i Grifondoro piuttosto che nei Corvonero. Non fece caso al ragazzo canterino al proprio fianco, né seguì lo scambio di battute successivo – perché avrebbe dovuto? Ma non potè ignorare…quello. S’irrigidì quando una mano le si strinse sulla spalla, e reagì per puro istinto: tenendo ferma la mano, si chinò quanto bastava (poco.) per fare lo sgambetto all’idiota di turno, ruotando nel mentre il braccio avversario per tenerlo piegato all’indietro – ed il tutto senza il minimo sforzo. «sei davvero tu.» Cosa? «cosa?» non era…non era la risposta che si era immaginata, e quell’attimo di distrazione bastò al suo nemico per arretrare e sollevare il viso nella sua direzione. Le sorrise.
    Oh
    Mio
    Dio.
    Aveva appena - «fai una foto con me?» - attaccato YALE HILTON? E le aveva appena – non era possibile. Si guardò intorno con un principio di attacco di panico a stringerle la gola, incapace di reagire abbastanza da mollare la presa. «inchesenso» biascicò, sentendo la vista appannarsi e le guance in fiamme. No, vabbè. La dodicenne Jericho Lowell aveva i suoi poster, in camera. C’era stato un periodo in cui aveva creduto fosse amore. Battè lentamente le ciglia, mostrandosi più ritardata ed autistica del solito. «sono un tuo fan» malgrado la posizione indubbiamente scomoda, le sorrise come fossero stati seduti al bar a chiacchierare di Monet e Van Gogh. Un verso non meglio identificato scivolò dalle labbra dischiuse di Jericho, il sangue ad abbandonarla lasciandole il viso più pallido del solido. «unmiofan» ripetè atona, cercando di riordinare il cervello. «jklowell? ti seguo su twitter» ?????? E DA QUANDO? Doveva davvero smetterla di ignorare le notifiche. Strabuzzò leggermente gli occhi, ma tentò di darsi un contegno annuendo rigida un paio di volte. «meh» fu il suo unico commento, aka l’unico suono che al momento potè permettersi. Lui parve ancora più entusiasta dalla sua mancanza di entusiasmo. Cosa stava succedendo. Cercò di abbozzare un sorriso quando lui sollevò il telefono di fronte a loro, ma era innegabile (fonte) la sua voglia di morire sul posto. Non attese un secondo scatto prima di fuggire, ancora confusa da cosa fosse appena accaduto.
    Non… non era possibile. Camminò per inerzia fino al bancone, abbandonandosi sul primo sgabello disponibile. Sfoderò il marchio sulla mano come faceva (un tempo.) con il distintivo da Pavor. «quello che vuoi» mugolò. Dall’espressione del barman, dedusse di non essere stata particolarmente amichevole. Oh, beh, meglio: se pensava potesse ucciderlo, ci si sarebbe impegnato di più. Per far scemare la tensione, decise di far quello che le veniva meglio.
    «parrish» con tanto di coppino alla nuca del ragazzo. Sapeva della storia di Lisa e Seya, considerando che era una telepata? Lo scopriremo nella prossima puntata: nel dubbio, Parrish andava più che bene. «sono famosa.» asserì incolore, battendo lentamente le ciglia.
    Il mondo era strano forte.

    telepathy | 19 y.o. | former gryff
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    Means nothing to me
    If you're on the other side
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    rea goddamn hamilton
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    Rea Hamilton era quel genere di donna che viveva sulle certezze, ed il tipo di persona che sapeva quando evitarne una scomoda. I casta, indubbiamente, rientravano nella seconda categoria. Cercava di pensare il meno possibile a come, un individuo come lei, fosse venuta in contatto con entità di tale bassezza morale ed etica – perlomeno secondo i suoi standard – ed era certa che si trattasse di mera tempistica: se non li avesse visti crescere, e se non fosse cresciuta con loro, non avrebbe mai ritagliato posto nella sua vita per individui del genere. Con il senno di poi, se qualcuno avesse chiesto il suo parere, Rea avrebbe caldamente sconsigliato la frequentazione di uno di questi – suggerimento che la sua sorellina non le aveva domandato, e del quale le era (tacitamente.) grata ogni volta che vedeva quella pallina di carne di Uran: se avesse chiesto un indicazione alla Hamilton, Eugene Jackson sarebbe stato castrato e spedito in Venezuela molto prima di andare a convivere con Jade e Run – evitando vite di tormenti e di imbarazzi a generazioni e generazioni di ragazze e ragazzi. Se una Rea Hamilton ventisettenne avesse conosciuto in quel momento Nathaniel Henderson, e se tal Nathaniel Henderson si fosse mostrato per quel che l’attuale Rea conosceva (e, tristemente da ammettere, amava come un fratello con gravi problemi cerebrali), non aveva dubbi su come sarebbe finita: male.
    Ecco perché quel «sono famosa» di Jericho Lowell le fece gelare il sangue nelle vene, la schiena a drizzarsi contro il bancone del bar mentre gli occhi, sfidando ogni legge della fisica, ruotavano verso l’alto cercando una via di fuga verso la galassia più vicina. Le piaceva, Jericho – la Jericho che piombava senza invito al Quinto Livello per domandare, con una scrollata di spalle, se qualcuno volesse fare a gara di lancio di coltellini su soggetti mobili; la Jericho che lanciava occhiate che avrebbero potuto incendiare l’Antartide e rendere gli igloo delle pozzanghere; la Jericho che prima sparava, e poi chiedeva perché la stessi fissando. Non sono-famosa-jericho-karma-lowell - quello assomigliava molto di più a nel-mio-cuore-sono-famoso-nathaniel-henderson-lowell. Si sentiva tradita, Rea. Con tutti i propri, ed altrui, cambiamenti, con tutta la questione del passato ed il futuro, aveva sperato che almeno le sue poche convinzioni rimanessero inalterate: evidentemente la sua carta astrologica prevedeva di essere delusa ancora ed ancora in un ciclo senza fine. Scosse il capo seca, un sospiro antico a piegare le labbra dipinte di rosso verso il basso. Spostò distrattamente gli occhi scuri sul sottile bracciale d’argento al polso, uno sguardo languido ed apparentemente vanesio: per quanto le costasse ammetterlo, non lo era. Tirò un flebile sospiro di sollievo solo notando che la perla al centro del gioiello fosse ancora bianca.
    Può sembrarvi assurdo, a lei di certo lo sembrava, ma era la prima volta dopo sette mesi che lasciava River Crane a casa con qualcuno che non fosse parte della sua famiglia – chi più, chi meno. Non si fidava, e non era certo una novità. Le era stato dato un compito, e per quanto quella mansione era stata destinata a durare solo un paio d’ore, il fatto che il tempo si fosse dannatamente prolungato non significava che avesse perso di vista il proprio obiettivo: e Rea Hamilton non falliva mai. Inoltre, per quanto le scocciasse ammetterlo, pur pubblicamente mantenendo la facciata seccata ed annoiata nei confronti del nano biondo, era pur sempre a) il figlio di Al, ed Al non c’era b) il suo snervante nano biondo. Laccando in simpatia ed affetto come il resto dei suoi avversari, doveva pur conquistarsi in qualche modo la nomea di zia dell’anno-e-di-tutta-la-vita - se lo stava guadagnando con più sudore di quanto mai sarebbe stata disposta ad ammettere, liquidando la questione con scrollate di spalle che silentemente sottolineavano quanto nulla, per lei, fosse difficile.
    Lo era. Costantemente. Non era fatta per fare da balia, fatele causa. I bambini erano un mondo troppo delicato su tanti fronti. Ci stava provando solamente perché il figlio bello di Aladino; perfino l’affetto non sarebbe stata una motivazione sufficiente, vedi Cash. Al suo nipotino voleva bene, ma non si era offerta di tenerlo con sé quando Amos aveva dovuto trasferirsi a New Hovel. Non voleva quel genere di responsabilità, se poteva evitarlo. Non temeva che si facessero male sotto la sua custodia, quando mai, né di non essere in grado di badare fisicamente a loro: era il piano emotivo, a lasciarla interdetta.
    Per quanto amasse e venerasse se stessa, non aveva alcun desiderio di vedere un mini umano diventare come lei. Cristo, non l’avrebbe augurato a nessuno.
    Prima di scegliere la baby sitter per quella serata, aveva (fatto colloqui) terrorizzato psicologicamente almeno metà della popolazione magica londinese. Non aveva cercato di creare un ambiente confortante, quando avevano bussato alla sua porta: le aveva fatte sedere su una sedia al centro della sala, giudicate come manzi dal macellaio da Giudice #1 (lei, chiaramente); Giudice #2 (Elijah; qualcuno doveva pur comprendere quando il soggetto sotto esame peccava di emozioni, e Rea non era la più adatta); Giudice #3 (Nathaniel; se riusciva a sopportare l’Henderson, non avrebbe avuto difficoltà con River); Giudice #4e5 (River e Nein; River indicava quelle che gli piacevano, poche perché lo stava crescendo con giudizio – mi ringrazierai, Al – e Nein mostrava i denti a quelle che venivano bocciate dai Giudici – tanto loro non sapevano che a malapena mordeva i suoi pupazzi di peluche).
    Xander aveva passato tutte le (numerose.) selezioni della Hamilton & affini, e quella era la sua prima sera da balia in solitaria. In solitaria era una parola molto grossa: aveva chiesto ad Amos e Detective Cash di spiarli, ma non era un dettaglio di rilevanza per Xander. La Hamilton gli aveva inoltre affidato una perla da strofinare in caso di bisogno – avrebbe automaticamente fatto virare il colore di quella contenuta nel proprio bracciale in rosso. I telefoni non prendevano così bene nel Mondo Magico da affidare la vita di River a quello, e non si fidava della capacità di Xander di creare Sicarius in casi di estremo bisogno. Se qualcosa fosse andato storto, e Rea l’aveva ribadito al ragazzo anche poco prima di uscire, avrebbe scuoiato le gambe di Xander e l’avrebbe schiaffeggiato con i lembi di pelle sanguinolenti ancora attaccati alle cosce.
    Lui aveva annuito. Molto bene.
    «qualcosa di forte» ordinò al bar, volgendosi a mezzo busto verso il barman. «senza frutta» scandì senza sorridere; da come il giovane mascherato si adoperò dietro il cocktail, Rea dedusse di aver indossato il suo miglior fallisci e do fuoco alla tua casa con te all’interno sguardo. Un tempo era più cortese – almeno esteriormente; troppo calcolatrice per lasciare che le emozioni prendessero il sopravvento, rabbia compresa, filtrando dagli occhi come stelle filanti a Carnevale. Non sapeva se incolpare la teatralità di Nate, l’onestà di Elijah, o la propria stanchezza.
    Probabilmente tutte e tre. Incrociò le gambe intrecciando le dita sul ginocchio scoperto, il vestito nero e semplice a seguire ogni suo movimento come notte liquida. Aveva legato i capelli in un elegante chignon alto, scoprendo il viso ovale così che nulla potesse distrarre dai tratti morbidi e piacenti del volto. Sedeva regale e perfettamente a proprio agio, appropriandosi di quell’aria come fuoco a consumare l’ossigeno nella stanza. «essere celebri non significa niente» chiarì infine, alzando il tono di voce, spostando lo sguardo sulla Lowell. Sapeva che non fosse suo dovere farle la predica, ma era pur sempre la miglior alternativa che il mondo potesse offrire alla giovane telepata – le stava facendo un favore. Poteva essere la sua sorellina; in parte, un po’, lo era.
    No, non perché le sis dei miei bruh sono le mie sis, semplicemente per un dato di fatto: Rea e Nate erano legati, di conseguenza sentiva Jericho (come anche Arabells) anche una sua responsabilità. «la fama non ha alcuna importanza, se non hai il potere» spiegò incolore, sollevando con coscienziosa presunzione gli angoli delle labbra verso l’alto. Alzò il bicchiere nella direzione della ragazzina ed il Parrish alla seconda, sporcando appena la bocca del liquore dolce. Dove fosse il resto della sua squad, era per la Hamilton un mistero – uno che non era ancora disposta a risolvere.
    Troppo sobria per il pack al completo.

    Illusion Manipulation | 27 y.o.
    mercenary | former slytherin
    Stars in her eyes
    She fights for the power,
    keeping time
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    andrew stilinski & shanghai bond
    stiles+soho
    «sai,» No, probabilmente no, e Stiles stava bene anche così. «ero solo un ragazzo con un sogno» come non detto: stranamente lo sapeva, e per la sua immensa gioia riconobbe l’inizio della solita storia già ascoltata, e commentata, almeno una dozzina di volte. Nel dubbio finse di non sentirlo, le mani immerse nel lavandino a sfregare la stoffa; in seguito, avrebbe potuto usare come giustificazione il fatto che la musica proveniente dal locale e l’acqua corrente ovattassero la sua voce, non sarebbe neanche stato eccessivamente rude. «un giovane come tanti nell’affollata new york. Un fattorino» squittì Soho, quasi che il solo menzionare quel lavoro gli facesse venire le vertigini. Conoscendolo, probabilmente era così: troppo melodrammatico per non essere influenzato fisicamente dal suo stato emotivo. «con nel cuore il sogno americano. ma non mi sono mai arreso, non mi sono fermato di fronte a nessuna, nessuna!, avversità – e con avversità intendo giapponesi killer che bussavano alla porta di casa mia portando doni come teste mozzate» cosa? «eEH?» Irrigidì le spalle fermando le dita, il naso arricciato ed il capo in procinto di voltarsi. Bassi shh, troppo vicini per i suoi gusti, lo misero a tacere. Quando le mani della copia di Shanghai si posarono sulle sue spalle per quello che il Bond riteneva un massaggio rilassante, e Stiles definiva invasione della mia privacy SMETTILA DI TOCCARMI, si scrollò come un cane sotto la pioggia e si appicciò maggiormente al lavandino. «irrilevante, stavo parlando di me. dicevo si schiarì la voce eliminando il tono seccato, tornando al suo preferito: quello teatrale, neanche gli stesse recitando l’Odissea. «non ero nessuno, solo un fanciullo di periferia con un’ambizione denigrata da tutti i suoi (troppi.) fratelli ninja» «?? ninj-» «MA GUARDAMI ORA» lo zittì, alzando il tono di voce di diverse ottave. Stiles fece come richiesto, non senza prima aver sollevato gli occhi al soffitto.
    Un sorriso ironico curvò metà della bocca del Tassorosso verso l’alto. Shanghai Bond, il famoso Soho, con indosso solamente la giacca color oro e gli slip dello stesso colore (non guardò abbastanza da sapere se anche lì ci fossero i glitter, ma conoscendolo la risposta era sì), stava osservando un punto indefinito con l’orgoglio di un comandate dell’esercito alla sua ultima battaglia, il piede sollevato sul bidone ed un braccio poggiato trionfante sul ginocchio piegato. «nudo in un bagno pubblico» annuì tornando alla propria opera di lavanderina, ghignando fra sé a sopracciglia arcuate. «grandi progressi, amico.» Sentì il sospiro di lui logorare l’ossigeno nella stanza, e poté dedurne l’espressione insultata dal piccato tono di voce con cui ribattè: «non per CoLpA MIA». Sticazzi – non suo figlio. Strofinò i lembi della camicia con più vigore, la lingua a umettare nervosamente le labbra. «se avessi tenuto la bocca chiusa, non dovrei maledettamente lavare il mio cocktail dai tuoi vestiti» «se tu guardassi dove metti i piedi, neanche» rimbeccò lui, dimostrando per l’ennesima volta che la sua età mentale non avesse nulla a che fare con quella anagrafica. «rea mi ha fatto lo sgambetto!» ecco, ora aveva raggiunto il suo livello da dodicenne.
    Bravo, Stiles. «ecco. Allora è colpa di rea» represse il brivido lungo la spina dorsale affondando il mento sul petto. Certe cose non bisognava né dirle né nominarle; Stiles era convinto che gli Hamilton avessero più orecchie che mutande nei cassetti, e ne era (legittimamente.) terrorizzato. «se tu non avessi specificato che “la fama è tutto, ma tu non puoi saperlo xk nex1 ti ama!” NON - » «ti sento parlare, ma non sento l’acqua scorrere.»
    Che…bestia. Morse l’interno della guancia, inspirando dalle narici e cercando così di soffocare l’istinto omicida che lo vedeva stringere le dita attorno alla gola di Soho finchè non avesse perso l’uso delle corde vocali. «lo sto facendo solo per gentilezza» specificò in un primo tic isterico che gli fece scattare il sopracciglio sinistro verso l’attaccatura dei capelli, continuando a sfregare gli abiti imbevuti d’alcool del Bond nel rubinetto del Lilum.
    «sì sì, quello che ti fa dormire la notte» lo odiava.
    Rimase testardamente a fare la lavanderina solamente perché non voleva rientrare nella società. Aveva sinceramente creduto che sarebbe stato più facile circondato da persone che conosceva, ed invece l’atmosfera del Lilum lo metteva, se umanamente possibile, ancor più a disagio sapendo di avere nei dintorni amici e famiglia. Quando qualcuno entrò nel bagno, udì solo strilli acuti e non meglio identificati: dedusse che Soho avesse appena trovato un fan. Non si preoccupò di voltarsi, continuando imperterrito la propria, fallimentare in partenza, opera di pulizia. Per il proseguimento della serata non sarebbero comunque più stati utilizzabili, ma preferiva fingere di avere qualcosa da fare piuttosto che tornare alla festa e scattare sull’attenti ad ogni persona che accidentalmente lo sfiorava.
    Benvenuti nella triste vita di Andrew Stilinski.
    Tagliò il discorso alle proprie spalle schiarendosi la voce per attirare l’attenzione dell’americano. «posso fare un gemino sui miei vestiti, almeno hai qualcosa da indossare.» avevano all’incirca la stessa taglia, non avrebbe dovuto essere un problema.
    Certo, nell’equazione non aveva considerato - «cooooooosa? Io quella roba da povery non la metto» - Shanghai Bond. Andrew Stilinski abbassò offeso gli occhi scuri sul proprio outfit: scarpe di tela, ma lucide e pulite!, il miglior paio di jeans che aveva, ossia l’unico non usurato, ed una semplicissima maglietta bianca. Aveva vagamente sperato che all’entrata non lo facessero passare, qualche buttafuori zelante a incrociare le braccia impedendogli di varcare la soglia del Lilum, ma la nuova proprietaria doveva essere più tollerante riguardo i suoi clienti rispetto il predecessore, dato che nessuno gli aveva fatto storie. Sad. «s o h o» ringhiò fra i denti, chiudendo gli occhi. «smettila di fARE IL BAMBINO» e dire che aveva evitato di portare Stich proprio per sottrarsi a quel genere di situazioni. «puoi mettere i miei se vuoi» sentì dire, con voce pacata e dallo spiccato accento americano. «e io prendo i suoi» Oh, una voce della ragione. Sospirò riaprendo gli occhi, voltandosi con le mani ancora gocciolanti giusto per cogliere Soho con le mani premute sulle guance. «LO FARESTI? PER ME?» Quando mai Shanghai Bond non dava per scontato che qualcuno facesse qualcosa per lui? Corrugò le sopracciglia spostando l’attenzione sul terzo membro di quel ridicolo teatrino.
    E la mascella per poco non spolverò il pavimento. Yale Hilton si strinse nelle spalle, un sorriso morbido sulle labbra piene. «sicuro» diede un buffetto alla testa di Soho, prima di volgere gli occhi blu su di lui - che, nel mentre, non si era più mosso. Non si era neanche accorto di aver lasciato l’acqua scorrere nel lavandino, né che gli abiti stessero facendo da tappo riempiendo la conca fino a farla strabordare. «l’acqua» l’Hilton allungò pigramente un braccio verso Stiles.
    Stiles non capì. «sta uscendo» continuò l’alto, arcuando un sopracciglio.
    Cosa stava succedendo. «STILES CHIUDI IL RUBINETTO» cosa? Distolse forzatamente lo sguardo da Yale per portarlo su Shanghai, il ragazzo a gesticolare forsennato indicando qualcosa alle sue spalle.
    Ah. «ah.» deglutendo ossigeno e bile, le guance pallide, cercò a tentoni il rubinetto per chiuderlo; quando riuscì nella sua missione, ricevette come compenso un sorriso allegro da Yale, ed un sospiro seccato da Soho: «chi è il bambino ora?» bastò quel commento a riportare Andrew con i piedi per terra, la testa reclinata in direzione del cantante. Scosse le spalle con ovvietà, facendo scivolare allusivamente lo sguardo sui pochi, trash, abiti indossati dal rapper. «sempre tu?» colpito e affondato. Fece schioccare la lingua sul palato cercando di darsi un contegno, fallendo miseramente quando vide il ventiduenne sfilarsi le bretelle ed iniziare a sbottonare la camicia. Alzò le mani mostrando i palmi, bofonchiando un «ASPETTA, NON HO LA BACCHETTA» che suonò più come un tetta, nonno lo accetta, cui ribatterono occhiate dubbiose e confuse. Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente. «devo andare alla…reception? E chiedere se possono ridarmi un attimo la bacchetta, così posso darti i miei vestiti. Cioè, non davvero i miei, i miei mi servono. Le copie. Sono tue, poi.» cosastavadicendo. Socchiuse le palpebre allargando le braccia lungo i fianchi. Yale Hilton si strinse nelle spalle continuando a denudarsi come se avesse tutto il tempo del mondo, e non fosse la prima volta che si privava degli indumenti in un bagno pubblico. «non ho fretta»
    Dedusse che fosse effettivamente così.
    Si accorse di star fissando l’Hilton (che ci stava mettendo davvero più tempo del necessario a far scivolare la camicia oltre le spalle: lo stava facendo apposta?) solo quando Shanghai finse un roco colpo di tosse.
    Oh dei. «vado» con la bocca secca, sprintò fuori dal bagno come se ne andasse della sua vita. Ebbe un breve, ma intenso, blackout su come effettivamente raggiunse l’entrata e riuscì a duplicare i propri vestiti; si ritrovò con le copie fra le braccia, la bacchetta nuovamente fra le mani del dipendente del Lilum. Si diresse verso il bagno, ma si fermò a metà locale.
    Non poteva rientrare. Non l’avrebbe fatto.
    Smollò i vestiti a qualcuno (chi? Vuoi essere tu? DAI SO CHE VUOI ESSERE TU!) indicandogli casualmente il bagno, mormorando poche parole che si sforzarono di avere un senso compiuto, ma si rivelarono chiaramente per quel che erano: parole a caso. «anastasia, anastacia, don’t funk with my heart, ma le best erano le pussycat»
    Fu in quel momento che udì la sua vera ancora di salvezza: «ha per caso visto passare un uomo con la coppola?» Seguì la fonte fino a stringersi, non metaforicamente, al fianco del ragazzo creepy del corso d’arte. «SIN?»
    DOVE.
    psychowizard | 21 y.o.
    moltiplication | 27 y.o.
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    It's your chance,
    yeah boy, shake that ass
    Whoops, I mean girl… girl, girl, girl
     
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    niamh lynch-barrow
    WE LIVED LIKE WE WOULD LIVE FOREVER
    RAISE A GLASS UP TO EACH OTHER

    Niamh si era resa conto di avere un problema qualche mese prima, quando aveva recuperato sei film nei tre giorni prima che uscisse Infinity War. Non pensava fosse così grave fino a quando Mitchell non le aveva fatto notare che non si fosse mossa dal divano per almeno sei ore, pause bagno escluse – beh, non era colpa sua se era difficile scollare gli occhi dagli addominali di Chris Hemsworth. «lo stai facendo di nuovo» non poteva vedere Mitchell, ma era sicura che avesse addosso quella sua odiosa espressione da so-tutto-io, come la metà del tempo. «e trovo che sia una serie stupida» sì, stava decisamente facendo quella faccia. Beh, sapete cosa? Non le interessava, lo sapeva che l’unico motivo per cui il Winston stava violando jAnE tHe VIRgIn era perché non l’aveva ancora visto. «perché non la vedi con me? dAAAii mitchy drogati con me» si voltò verso il ragazzo, trovandolo a braccia conserte dietro il divano, e sfoderò la sua arma (poco) efficace: occhi da cerbiatto e labbro sporto all’infuori. Ora, si rendeva conto che non avrebbe funzionato ma almeno aveva tentato. «dovresti davvero fare qualcosa» gngn, non era mica sia madre. Alzò lo sguardo al soffitto, come se qualcuno potesse vedere la sua sofferenza e compatirla, o come se fosse in un episodio di B99 e qualcuno zoommasse sulla sua faccia. «vuoi dirmi che il binge watching non vale?» insomma, tra quello e gestire un negozio, Niamh poteva dire di avere una vita piuttosto piena. Più riempiva la giornata di attività inutili e meno aveva tempo per pensare, o soffermarsi a contare i giorni da quanto erano morti. Morti, spariti, dipendeva a chi lo si chiedeva – secondo lei erano finiti in un universo alternativo, come i video sui complotti le avevano insegnato. Infatti, dopo la comparsa degli Altri, la Barrow si era infognata piuttosto male sui video di YouTube e teorie mistiche per cercare una qualsiasi spiegazione secondo la quale potessero ancora essere vivi. Era l’unica cosa che le era rimasta per tenere la sua sanità, sapete? «intendevo all’aria aperta, e roof-ball non vale» in che senso non valeva? Immaginava che Mitchy fosse troppo vecchio per considerarla un’attività valida, lui che il sabato sera insisteva per andare a ballare la salsa alla bocciofila. «lo sai che non mi piace uscire» si strinse nelle spalle, ritornando con il capo rivolto al pc. Sette mesi prima non avrebbe detto così, non la ragazza che coglieva ogni occasione buona per precipitarsi fuori dalla porta – poi, la sua famiglia era scomparsa, e il solo pensiero di vedere gli altri vivere la loro vita come se niente fosse la faceva infuriare. Razionalmente si rendeva conto di quanto fosse stupido, ma non poteva fare a meno di dare detta all’altra parte di sé, quella istintiva e idiota «fai come vuoi, in ogni caso le feste non fanno più per te» chi aveva mai parlato di feste si voltò di scatto estremamente triggered, gli occhi rossi ad assottigliarsi nella sua direzione e un’espressione sbalordita sul viso: le stava dando della vecchia? Maledetto, la psicologia inversa funzionava sempre su di lei, e lo sapeva. «per favore, winston, andavo alle feste da prima che tu nascessi» «veram-» cosa, era più vecchio di lei? Era il principio che importava, non la matematica. «te lo faccio vedere io, se sono troppo vecchia» spostò il pc sul divano, alzandosi poi in piedi per dirigersi nella sua camera. Se fosse restata ancora qualche secondo, avrebbe sentito Mitchell ritrattare quel vecchia con morta dentro, non che cambiasse qualcosa.

    Se a Niamh fosse mancato il Lilum? Per niente, quello che le era mancato era il fidanzato di Maeve, l’unica ragione per cui aveva mai frequentato quel posto. Si diede un’occhiata intorno per ammirare la nuova sistemazione del locale, per soffermarsi qualche secondo in più sulle figure femminili, ammirandone le…….uniformi, avevano davvero delle belle uniformi. Com’era che fino a quel momento non aveva prestato attenzione a quel genere di cose? E questa non era affatto una metafora per la sua bisessualità, ma figurarsi. «xav? ehi, xav!» non poteva crederci, quello che aveva visto non era forse lo Stevens? Notò come le spalle del ragazzo si irrigidirono, iniziando ad aumentare il passo nella direzione opposta «ehi, sei davvero difficile da fermare» si passò una mano tra i capelli scompigliati, aggiustando soprappensiero le ciocche «avevo visto qualcuno che conoscevo» la ragazza annuì piano, evitando di fargli osservare che conosceva anche lei, s si meritava le stesse attenzioni di chiunque fossero gli altri suoi amici «quindi, come va con le gemelle?» odiava le small talks, ma Elisa aveva un piano più grande in mente, e la Barrow si stava prestando come cavia da laboratorio.
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    Edited by cocaine/doll - 27/7/2018, 09:58
     
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    xavier stevens
    WE GON' BURN THE WHOLE HOUSE DOWN
    WATCH ME STAND IN THE LINE

    Dopo l’omicidio di Jack Hades, Xavier aveva scoperto una certa propensione per disfarsi di persone indesiderate, un talento che fino a quel momento era stato seppellito dal cambiare pannolini. Da quando il Ministero aveva smesso di erogare i contributi mensili agli special, Xavier aveva incontrato una vaga difficoltà a supportare due bambine e quella bestia di Giuliano. Se fosse dipeso da lui, avrebbe continuato a fare il mantenuto, ma purtroppo non poteva più vivere sulle spalle di Rea. Stiles, come la Hamilton, non era molto d’aiuto – sembrava addirittura più instabile di lui, ed era tutto dire. Almeno Jericho lo intratteneva con le foto delle sue vittime, una più bella e poetica dell’altra, scommetteva che sarebbe diventata famosa un giorno. E allora, avrebbe mantenuto tutti e quattro out of la bontà del suo cuore. Intanto, persino lo Stevens doveva sporcarsi le mani con qualche nuovo lavoretto, e grazie al macabro corpo dell’Hades aveva capito la sua strada nella vita: Daisy e Atlas sarebbero state così fiere di avere un padre killer. «fate le brave, papà torna presto» strinse le guance delle proprie figlie, curvando le labbra in un raro sorriso dedicato solo a loro. Salutò con un cenno del capo suo fratello, avviandosi poi verso la porta.
    Xavier ci aveva messo la personalità, e Marcus tutto il resto. Era diventato il suo kinda maestro, lo Yoda a guidarlo nell’affascinante mondo delle armi e degli omicidi – sì, ormai citava persino Star Wars a causa delle maratone di Stiles. Almeno non aveva ancora cominciato con quelle Disney, ne andava della sua dignità. Aspettò di scivolare nell’ombra prima di togliersi il cappuccio, mentre con gli occhi andava a scandagliare una zona già fin troppo vista. Aveva speso l’ultima settimana della propria vita a seguire ogni movimento di Georgette Michelle – sì, purtroppo era il suo vero nome – annotando i pochi momenti in cui si trovava da sola, dalla breve pausa pranzo al tragitto verso la metropolitana. Nel weekend era più difficile trovare un momento in cui si separasse dal marito, quindi se doveva agire, occorreva che fosse in settimana. Se fosse stata una persona con uno straccio di cuore, il fatto di uccidere qualcuno di così importante per un altro gli sarebbe pesato sulla coscienza, peccato che fosse uno Xavier e non avesse spazio per quei dettagli insignificanti: tutti, in fondo, avevano una famiglia e lui non poteva farci niente.
    Erano le 19:13 di un mercoledì qualsiasi, quando la vittima entrò nel raggio visivo del ragazzo, come al solito con passo frettoloso e gli occhi puntati sul cellulare. Male, non era un bene isolarsi dal mondo quando si aveva un bersaglio sulla schiena. Il pirocineta estrasse dall’elastico dei pantaloni la semiautomatica e inserì rapido il silenziatore come Marcus gli aveva insegnato, braccia tese e occhi socchiusi a osservare la donna entrare nel suo mirino «boom» premette finalmente il grilletto, osservando Georgette Michelle accasciarsi a terra pochi secondi dopo. Aveva davvero fatto la combo centrandole la testa? Sollevò leggermente le labbra, quello era stato un bel colpo. Prima che qualche passante potesse accorrere verso la donna, Xavier approfittò nella copertura che gli consentiva il buio per sgusciare via di lì, come se niente fosse successo.

    Aumentò il passo, non preoccupandosi di dare retta alla voce che lo chiamava alle sue spalle, ne aveva abbastanza di Niamh. Era stata la migliore amica del suo migliore amico, fine della storia, non vedeva perché loro dovessero replicare «xav? ehi, xav!» fece finta di non aver sentito, dopotutto la musica era piuttosto alta in quel posto. Fu convinto di essersela levata di dosso, finché non sentì delle dita artigliarsi alla sua spalla. Cazzo. «ehi, sei davvero difficile da fermare» il ragazzo arcuò le sopracciglia, osservandola come se fosse uno scarafaggio da schiacciare – questa, la gioia dello Stevens nell’uscire e affrontare il mondo, nulla di personale (non troppo) nei confronti della Lynch. «avevo visto qualcuno che conoscevo» si strinse nelle spalle, quasi fosse davvero dispiaciuto per averla ignorata. Spoiler: non lo era. La verità era che non era lì per fare due chiacchiere con Niamh, era più per distrarsi dalle– «quindi, come va con le gemelle?» beh, lui ci aveva provato. Non sapeva quanto la ragazza sapeva di Daisy e Atlas, e di certo non si sarebbe umiliato raccontandole di come Elsa avesse abbandonato i tre pochi giorni dopo il parto, quindi decise di rimanere sul vago «stanno bene» era davvero una persona deliziosa con cui conversare, ne era consapevole, ed era per questo che la sua (quasi) unica amica era Jericho. A quel punto, stava già pensando di rifilare alla grifondoro una scusa qualsiasi per defilarsi dalla situazione, quando un treno biondo si schiantò contro di loro.
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    Edited by cocaine/doll - 27/7/2018, 09:59
     
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    siobhan o'hara
    I FEEL THE SUNLIGHT ON MY HEAD
    THE SCENT OF SUMMER IN MY BED

    Fawn, ossia il suo nome da artista, continuava a cambiare posizione sulla sedia di plastica, senza che ottenesse niente coi suoi disegni. Si sentiva ispirata, ma c’era qualcosa che la bloccava, e per quanto le sarebbe piaciuto sapere cosa neanche lei lo sapeva. Era la troppa luce del sole? Aveva provato a chiudere le tapparelle, a meditare con l’incenso e a farsi una tazza di tè, ma niente sembrava funzionare. Forse era un problema di base, qualcosa che risaliva più ai disegni che alla storia – in effetti, quelle tette non la convincevano più di tanto, era decisamente troppo grandi e capaci di cose soprannaturali. Fawn voleva del realismo nei suoi porno, e sapeva che quello non era il modo di ottenerlo. Vedete, la ragazza aveva una teoria: la dinamica di potere negli hentai era sbagliata ed era convinta che quella /sottomissione/ delle donne portasse a rinforzare l’idiota mentalità degli uomini che siano autorizzati a fare tutti ciò che vogliono. Bene, non era così e Fawn aveva deciso di cambiare il modo in cui i suoi fumetti erano visti; piuttosto, si sarebbe messa a disegnare porno di nicchia (cosa).
    Assottigliò lo sguardo, la testa a inclinarsi nel cercare di osservare il disegno da un’altra prospettiva, giusto per vedere se era orribile da tutti gli angoli «sembrano due budini» beh…in effetti. Josie, lo spirito che viveva con lei, non aveva tutti i torti e ormai si fidava ciecamente di lei su quelle questioni – insomma, era stata pur sempre una prostituta in un bordello. «cosa dovrei fare secondo te?» si rifituava di prendere spunto dai suoi colleghi e cercare su google si era già rivelata una pessima idea. Tipo, davvero pessima. «beh, vederne qualcuna dal vivo potrebbe aiutare» non le piaceva il modo con cui la stava guardando, né gli occhi ammiccanti; sapeva cosa voleva fare, e non voleva più riviverlo «no nope nein, non frugherò tra le tue memorie» le memorie di una prostituta? Le si era già bloccata la crescita una volta, non voleva ripetere l’incidente. Dovete sapere che Siobhan era una creatura sensibile e delicata, che alla sola menzione nel sesso arrossiva come un pomodoro – piuttosto bizzarro per qualcuno che ci aveva a che fare tutti i giorni, mh? Eppure, per lei un disegno e l’atto vero e proprio erano diverse questioni, a ognuno le proprie opinioni. Lo sguardo le scivolò sul volantino sotto la scrivania, e quando si chinò a raccoglierlo gli occhi chiari si illuminarono «mmh pensi che…..nel senso…le fanno ste cose al lilum?» sentiva già la guance calde, gesù, come si faceva a vivere. «ti sembro qualcuno che ci sia mai stato?» certe volte la intimidiva il tono duro della donna, un po’ come con ogni persona che avesse un minimo di polso fermo. Beh, poteva anche essere vagamente in soggezione, ma non era una persona che si faceva mettere i piedi in testa tanto facilmente «vuoi dirmi che non esisteva niente del genere nel seicento? e comunque penso che ci andrò, magari mi faccio una cultura» su cosa non lo sapeva, ma non l’avrebbe mai ammesso a Josie. Posò il volantino sulla scrivania e si alzò in piedi, un nodo allo stomaco al solo pensiero di dover andare in un posto così affollato.

    Durante il tragitto si era ripetuta che in fondo non poteva essere così affollato, insomma, lo sapeva che era la prima serata della riapertura ma la gente aveva anche da fare, no? No, a quanto pare. Eppure la convinzione che non sarebbe stato così pieno l’aveva aiutata a tenere la sua agitazione sotto controllo, quello che bastava a non scappare dalla metro e tornare a casa. Neanche a dirlo, non era servito a niente: si trovava davanti al Lilum e aveva una voglia matta di filarsela. Si odiava così tanto per essere così stupida, perché razionalmente lo sapeva che non aveva niente da temere, che la cosa peggiore che le sarebbe potuta succedere sarebbe stato sorprendere una coppia a copulare nei bagni. Non importava cosa si ripetesse prima di un qualsiasi evento, perché quando arrivava lì il suo cervello si trasformava in gelatina e tutto attorno a lei sembrava così ovattato, tutto più lento; non riusciva più a pensare, la sua mente affollata da mille voci diversi che bombardavano la sua ragione. E lo sapeva che l’unica cosa che l’avrebbe fatta stare meglio era anche il suo peggior fallimento, non voleva perdere quella sfida ancora un’altra volta, non voleva che i suoi problemi dominassero la sua vita. Voleva solo essere normale per una volta, e quando si rendeva conto che non lo sarebbe mai più stata il petto le scoppiava per l’ennesima volta. Abbassò lo sguardo sulla mano tremante, cacciando entrambe nelle tasche per nasconderle, non voleva che qualcuno la considerasse strana. O una tossica in astinenza. «ce la posso fare» prese un respiro profondo e lo trattenne nel petto per qualche secondo, nella speranza di sollevare quel peso che lo schiacciava. Non funzionava mai, ma almeno non si sentiva come se stesse per esplodere. Trovò finalmente il coraggio di entrare nel locale, e quando adocchiò il numero di persone presenti, quasi non si sentì male.
    Erano davvero troppe. Non voleva più stare lì.
    Si voltò per cercare con lo sguardo la porta, assicurandosi di essere abbastanza vicino per poter scappare in qualsiasi momento. Sapendo di avere una via di fuga vicino poteva farcela, o almeno calmarsi quello che bastava per poter fare un passo avanti.
    Ci vollero quindici minuti pieni perché smettesse di tremare, e sebbene si sentiva ancora un po’ in preda alle vertigini, era convinta di poter gestire la situazione. Lo sapeva, che per smettere di pensarci doveva distrarsi. Tipo bere, parlare.
    Era brava a parlare e lo faceva anche troppo, anche se non era colpa sua. Era un modo per scaricare l’agitazione, e quando prendeva il ritmo era difficile farla stare zitta.
    Si diresse verso quelli che sembravano essere suoi ex colleghi ad Hogwarts, quando un ragazzo la placcò brutalmente. «scuhsa?» era vagamente offesa dal fatto che non si fosse neanche scusato, o che le avesse detto qualcosa di incomprensibile. Aveva capito bagno, per il resto erano parole a caso. Abbassò lo sguardo sui vestiti che le buttò in mano per un nANosECOndO e quello dopo non lo vide più, inghiottito dalla folla e senza che riuscisse a inseguirlo. Si alzò sulle punte dei piedi per vedere se magari riusciva a scorgerlo, quando i suoi occhi si soffermarono su qualcosa di più interessante. Il cuore le si strinse al petto nel vedere la sua prozia pochi metri più in là, sentendo un bisogno di avvicinarsi a lei. Sì, come i maniaci ma che ci poteva fare?? Non era colpa sua se l’avevano spedita del passato, dai. «ciiiaaao SCuSAAAteee» si era precipitata come un treno su Niamh prima che il coraggio le venisse meno, voleva vedere com’era da vicino. Almeno lei, quel poco della sua famiglia che le rimaneva. «sapete mica dov’è il bagno?» sollevò le sopracciglia, un sorriso incoraggiante rivolto ai due – aspettate, ma non era il ragazzo che le era andato a sbattere contro prima? Era……confusa, anche perché quella volta indossava degli abiti diversi. Fece per aprire la bocca, quando la Lynch-Barrow alzò una mano in aria per indicarle la toilette. Strinse le labbra tra loro per impedirsi di insultare il ragazzo, non voleva fare una brutta figura davanti alla zia, non poteva pensare che fosse pazza! «uh grazie, trpp gentile eh» ok, forse sembrava un po’ pazza.
    Voleva morire. Era l’unica cosa che riusciva a pensare in quel momento.
    All’inizio aveva pensato che andare a rifugiarsi in bagno per qualche minuto non sarebbe stato male, finché non era capitata in un bagno con due uomini mezzi nudi.
    Ok, va bene. Cosa doveva fare? Pensa pensa pensa pensa
    Come si pensava
    Ah sì, forse avrebbe dovuto dire qualcosa. «i….vestiti» i vestiti cosa? Deglutì, radunando tutta la sua dignità rimasta to get a grip. Non aveva dodici anni, suvvia, e quello era il suo campo. Disegnava corpi nudi tutto il giorno, e quella era la perfetta occasione per prendere spunto. «….vi servono o vi piace girare nudi?» oh, so’ gusti. Spostò lo sguardo dal tipo con la giacca dorata all’altro ragazzo, non potendo fare a meno di soffermarsi per qualche secondo di più sul suo viso. O forse quelli erano i suoi addominali, eh quando cadeva l’occhio cosa ci potevi fare. E ringraziava ancora che avesse la maggior parte dei vestiti addosso. «sono uguali, quindi non so cosa sia di chi» fece un paio di passi avanti per porgere loro i vestiti, stando attenta a non avvicinarsi troppo (eh, il passo da realtà ad hentai di fawn era breve). Non vedeva l'ora di uscire da quel bagno, era venuta lì per le tette, non per.....quello.
    cat lover - adhd
    1994’s - hentai cartoonist
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    traveller - agoraphobia

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    Edited by cocaine/doll - 27/7/2018, 12:19
     
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    sinclair hansen
    Oh don't you wonder when the light begins to fade?
    And the clock just makes the colors turn to grey

    Hyde gliel’aveva chiesto così gentilmente che non aveva potuto dirgli di no, tutta colpa dei suoi grandi occhi da tossicomane e della sua pelle bianca come coccoina. Sinclair aveva sempre avuto un soft spot per Biancaneve, era giusto che ne avesse uno anche per la sua controparte maschile. Inoltre, negli ultimi mesi avevano visitato diverse volte il cantiere del Lilum, quindi era solo giusto che ora ne vedessero i risultati – certo, loro avrebbero potuto fare di meglio, ma non tutti potevano avere la stessa manualità.
    Abbassò la visiera della coppola, ammirando il tessuto avvolgere la sua testa alla perfezione: doveva ammettere che gli stava bene «come mi sta?» spostò lo sguardo sugli Eubeech dietro di lui, chiedendo loro una sincera opinione. Non poteva uscire di casa sembrando ridicolo, aveva ancora una dignità da mantenere. «come al solito?» molto utile, Jade. L’Hansen inarcò un sopracciglio, scrollando poi le spalle «lo prenderò come un complimento» lo sapeva di non potersi fidare di loro, era sempre stata un’altra la sua stylist. Comunque, non era andato lì per chiedere loro anche cosa ne pensassero della coppola fosforescente, aveva un affare ancora più importante per loro «conoscete per caso qualcuno che voglia dei piccioni?» finì di sistemare il cappello, per poi voltarsi verso di loro ad osservare le loro espressioni. Sì, voleva vedere se fossero sollevati. E al contrario delle sue aspettative, sembravano più sconvolti, come se gli avesse appena detto che avrebbe spedito Elijah Jr. in Mozambico. «non amavi quei piccioni?» tru, Eugenio, you may have a good point there. Che carini, erano così biondi insieme che quasi gli ricordavano Murphy – pensiero che cercò di scacciare dalla sua testa, o avrebbe cominciato nuovamente a dondolarsi sul pavimento. «penso che amassi più l’idea piuttosto che averli davvero, voglio dire, su Intagram non lo facevano sembrare così schifoso» e in qualità di qualcuno che ha avuto un pappagallo, gli uccelli tendono a sporcare più del previsto. Sinclair si ricordava bene le multiple feci che lasciavano nella stanza e sui suoi vestiti, o i semi e le piume che spargevano ovunque – aveva già accennato alle feci? Pomelo era un angelo, in confronto, e stiamo parlando di una freakin’ pecora. «starò meglio senza, davvero» alzò le mani al petto, rabbrividendo alla sola memoria di quei pennuti: ne aveva avuto davvero abbastanza, d’ora in poi si sarebbe limitato allo shipping e ai cantieri. «prova a vivere con t-jade, e poi ne riparliamo» era arrivato il momento per Eugene di rabbrividire, i war flashbacks a passargli davanti agli occhi come un film in bianco e nero. Forse doveva dargli una bambola e chiedergli dove l’avesse toccato l’animale. «non voglio essere molestato, sto bene così» sollevò un pollice in aria, come aveva visto fare tante volte dai giovani: era così che esprimevano i loro sentimenti, un po’ come le finger guns. «e grazie di badare a eli, idem era troppo impegnata con il……..trap?» non aveva neanche idea di cosa fosse, detto francamente. La Withpotatoes gli aveva spiegato che doveva aiutare Amos con un beat, e da lì Sinclair non aveva voluto indagare oltre: aveva paura delle idee dei giovani. Bastava guardare Kylie Jenner quasi miliardaria, o la serie sulla DPG. Potrei rimanere a narrare la spiegazione di Jade sul trap, ma non penso nessuno di noi sia abbastanza forte di cuore per queste faccende da gen z.

    Ora capiva perché Hyde l’aveva trascinato lì, neanche lui avrebbe voluto essere lasciato solo (con Jekyll). Da quando avevano varcato l’entrata si era appiccicato al braccio dei suoi fave fratelli, lasciando che questi lo guidassero per il locale visto che, voglio dire, non era facile orientarsi con la visiera a coprirgli lo sguardo. Non voleva davvero guardare, le cameriere e ballerine dovevano avere l’età di sua figlia, e il solo pensiero gli faceva venir il voltastomaco. E poi era un uomo fedele, cosa che non poteva dire di Belladonna. «comunque io l’avrei fatto meglio» frase standard quando si trattava di costruzioni, l’Hansen avrebbe potuto costruire qualsiasi cosa meglio di quei sempliciotti dei muratori, i quali non avevano chiaramente idea di come fare il proprio lavoro. Al giorno d’oggi i giovani non avevano idea di cosa voleva dire dover andare a cacciare la cena a mani nude e decorare la caverna, era proprio vero. «torno subito» il giovane gli sollevò la coppola quanto bastava per incontrare il suo sguardo, per poi defilarsi tra la gente «hyyy/deeee non mi lasciare» non voleva fare da babysitter a suo fratello, dai. Perché gli faceva questo. Sistemò la coppola sopra alla testa, stando ben attento a tenere lo sguardo fisso su Jek e nessun altro – sembrava un po’ creepy, ma non gli importava «andiamo a prendere qualcosa? E dimmelo se vedi qualcuno mezzo nudo» le cose importanti, insomma. Per fortuna Sinclair si risparmiò di vedere il corpo ignudo (dove) di qualche giovane e giunse al bancone senza nessun trauma, dove chiese al barista di servirgli un daiquiri, in memoria di Daisy Calloway e del suo viaggio a Cancun. E poi successe, trovò la sua salvezza in una marea di tentazioni e frustini (cosa) «SIN?» conosceva bene quella voce, era quella del suo psicologo preferito nonché figlio adottivo (certo che lo era, che domande) «STILES SEI TU????» si aggrappò a quella voce come a una boa nel bel mezzo di una tempesta (???), nella speranza di trovarlo tra le moltitudini di facce. C’era davvero troppa gente, come avrebbe fatto a scovarlo? «STILES MUOVI LE BRACCIA» quelli che lo sentivano urlare dovevano pensare che fosse pazzo, e in effetti lo era, ma in quel momento gli interessava solo di trovare lo Stiinski. Almeno lui non l’avrebbe abbandonato. Sperava.
    coppola lover
    ex extremist doctor
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    Edited by cocaine/doll - 27/7/2018, 10:57
     
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    princeton kardashian hilton
    You can't feel the heat until you hold your hand over the flame
    You have to cross the line just to remember where it lays

    «E’ così sopravvalutata, Arnold, non comprendo cosa ci trovi la gente» si passò una mano tra i capelli biondi, mentre faceva segno alle cameriere di spostare i delfini di cristallo più a destra, osservando per la quindicesima volta le due statue. C’era qualcosa che non lo convinceva, forse era il fatto che fossero troppo vicine alla ruota panoramica, o doveva essere il blu della piscina che dava loro una colorazione eccentrica – non ne aveva idea, di solito lasciava quella merda ad Arnold, ma quella volta si trattava di sua figlia: non poteva mandare la festa a puttane «quindi dì a Beyoncé di trovarsi qualcos’altro da fare» ora che le avevano rifiutato il Colosseo iniziava a prendere soldi dagli Hilton? Col cazzo, non dopo tutto quel trambusto con il Louvre. C’era gente che conduceva particolari business che non poteva aspettare che la Regina facesse i suoi comodi con il suo video, come se Prince avesse voluto davvero passare la sua giornata ad amministrare quella ridicolo network. Princeton, difatti, si interessava a davvero poche cose nella vita: sua figlia, l’arte e la propria immagine. Non tutti volevano diventare delle Paris e perdere la maggior parte del capitale, o una Lindsey Lohan e aprire fottuti strip clubs a Mykonos. «chiamami Rihanna, mi deve un favore dal matrimonio e no, cristo santo, non voglio Kanye alla festa» fece segno alle cameriere di fermarsi lì dov’erano, finalmente soddisfatto con la disposizione dei delfini, «sparite» un’espressione annoiata accompagnava il gesto secco della mano, l’aveva sempre detto che la servitù avrebbe dovuto imparare a volatilizzarsi più in fretta, non era come se volesse averla sempre davanti. Ecco perché amava Arnold, neanche esisteva accanto a lui. «dopo le sue dichiarazioni su Trump? Lascialo a twittare cazzate» e anche Kimberly, possibilmente. Gesù, non voleva neanche pensare a dove le mani di quella donna sposata fossero state, doveva ammettere che le fan fiction scritte su di loro ci erano andate piuttosto vicine con i particolari. Non che qualcuno lo sapesse, si era accertato che l’affair rimanesse sepolto lì dov’era – non era certo Jay-Z, così idiota da non prendere le misure necessarie, o da frequentare ragazzine. Rita Ora, sul serio? «hai solo più una settimana, non fare cazzate» chiuse la chiamata, non interessato alla risposta (inutile) del suo assistente per poi dirigersi verso l’interno della casa. Aveva una festa a cui partecipare, non come sua cugina Paris che andava per le sfilate di intimo a fingere di avere uno straccio di popolarità.

    Osservò scettico il locale, trovandolo quantomeno meglio della “beach house” della Lohan, e per i suoi standard era decente. Nulla a che vedere con la catena Hilton, ma non tutti potevano avere i loro stessi soldi o gusti. A giudicare dalla quantità di paparazzi fuori immaginava che i suoi cugini fossero già arrivati, o forse quella era la striscia di cocaina che Yale si trascinava dietro. Cristo, e poi dicevano che era Paris il fuck up della famiglia. Non era (ancora) interessato a quello che il Lilum aveva da offrirgli, almeno non prima di aver avuto un drink e trovato il suo potenziale compratore. Princeton non si trovava lì per una visita di piacere, dato che faceva davvero poche cose per pura soddisfazione, e in ogni caso non si sarebbe mai presentato all’apertura di un locale senza pagamento dietro. Come disse una volta quella bruciata di sua cugina, I get half a million just to show up at parties. My life is, like, really, really fun. Chissà cosa di provava ad essere così inutili, avrebbe davvero dovuto chiederglielo. Si sedette sullo sgabello e poggiò i gomiti al banonce, le dita a strofinare la barba nel pensare a cosa ordinare – anzi, non gli importava, era sicuro che l’alcool lì non era alla sua altezza in ogni caso «prenderò lo scotch più costoso che hai» caro non significava di qualità, ma quella sera si sentiva in vena di buttare un po’ di soldi al vento. Visto che li aveva, tanto valeva spenderli. «essere celebri non significa niente» voltò lentamente il capo, gli occhi celesti a posarsi sul viso di una donna poco distante da lui «la fama non ha alcuna importanza, se non hai il potere» non la conosceva neanche, eppure poteva già dire di essere intrigato dal suo modo di pensare. Che gusto c’era ad essere una bella bambolina per i riflettori, se poi non eri colui che muoveva tutti i fili dietro le quinte? «è la prima cosa sensata che ho sentito da stamattina» non nascose l’interesse nel suo sguardo, deciso a capire se la ragazza stesse bluffando o meno. Portò il bicchiere alle labbra, sorseggiando il liquido ambrato «e te come lo useresti questo potere, se ne avessi la possibilità?» magari avrebbe potuto dargli qualche spunto, chi poteva dirlo.
    hilton clan
    stolen art dealer
    1985's - muggle born
    ocpd - reality star

    tumblr_m7w2o3N94I1r6o8v2
    made in china — I'm here at the beginning of the end


    Edited by cocaine/doll - 27/7/2018, 11:36
     
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    you-genius & baby beech
    «come mi sta?»
    quel lurido.
    compresse le labbra una contro l'altra, il jackson, impedendosi di proferir parola, perché glielo intimava l'orgoglio. ma il pensiero, quello che gli passò fulmineo nella mente rapido quanto un battito di ciglia fu: come ad un traditore. perché questo era sinclair, almeno ai suoi occhi. stava davvero, /davvero/ pensando di andare alla festa di riapertura del lilum senza trascinarsi dietro anche lui?
    quell'infame.
    Quando gli aveva aperto la porta, iridi grigio azzurre immediatamente attratte dalla coppola catarifrangente, euge aveva fatto un bel respiro, pronto ad accogliere la proposta dell'idrocineta con un gridolino di gioia e una bacio sulla guancia ispida; certo non si aspettava di sentirsi paventare una serata da baby sitter, quando era ovvio che ne servisse una a lui. Hyde faceva del suo meglio per badare a uran quando gli eubeech erano occupati, ma non aveva la forza, né la voglia di vivere necessari a prendersi cura anche del jackson maggiore. aidan dove cazzo stai basta cincischiare nel far west dai torna a casa. Avendo lavorato anche al lilum, in quei tempi di magra, euge era al corrente della riapertura del locale e del conseguente party in grande stile organizzato dalla proprietaria, gli serviva soltanto un accompagnatore non eccessivamente pudico (elijah) o che finisse per shippare le ballerine tra di loro (nate): ci aveva davvero creduto, nell'Hensen. E lui lo tradiva così, pavoneggiandosi in casa sua con quel meraviglioso cappello ostentando fascino e sicurezza.
    [ari's voice in the background] ingannooo, slealtááh!
    «conoscete per caso qualcuno che voglia dei piccioni?» pensava davvero di poter canbiare argomento così, come se nulla fosse? probabilmente sapeva di avere a che fare con un biondo dentro, perché eugene abboccó prontamente all'amo, l'espressione di astio tramutata in sincera preoccupazione. «non amavi quei piccioni?» insomma, a quanto aveva capito erano la sua vita. dopo murphy, ovviamente, ma murphy non c'era. capiva bene, il jackson, cosa volesse dire sentire la mancanza di qualcuno al punto da non riuscire piu a respirare, una sensazione orribile che non svaniva nemmeno nel sapere che quella persona era ancora viva; pensava spesso a run, l'ex pavor, a gemes, arci e aidan, alla probabile depressione di jayson. passava ore (si vede che ha del tempo libero) ad immaginare cosa facessero quegli stronzetti, se al e maeve avessero bombato, quante case fossero già riusciti a bruciare i freaks, ma quando la malinconia gli piombava addosso come una calda coperta in agosto, si sforzava prontamente di concentrare le proprie energie su altro. che ne so, soddisfare jade sessualmente, o fare video di suo figlio a cavallo di tjade (le due azioni non sono da confondere a causa dei nomi simili, grazie.) Qualunque cosa lo tenesse occupato, insomma. «penso che amassi più l’idea piuttosto che averli davvero, voglio dire, su Intagram non lo facevano sembrare così schifoso» in effetti un po' schifo faceva.
    ma chi era lui per giudicare l'amore di un uomo nei confronti dei suoi piccioni? proprio eugene, che passava la sua vita destreggiandosi tra un tricheco maniaco e un bradipo psicopatico.
    «prova a vivere con t-jade, e poi ne riparliamo» gli sfuggì un sospiro dalle labbra, sentendosi già lo sguardo delle bestie addosso - quello di tjade rivolto alle sue chiappe, mentre breuge osservava lo spazio sconfinato del cazzo che gli fregava - e per puro istinto strinse maggiormente a sé il bambino che aveva in braccio, comodamente riposto in un bellissimo marsupio. Cominciava a pesare, quel fagiolo di uran, ma al jackson sembrava quasi di sollevare una piuma; non poteva credere che suo figlio avesse già compiuto un anno, quando gli sembrava passata al massimo una settimana dalla sua nascita. crescono fottutamente in fretta, 'sti gen z «e grazie di badare a eli, idem era troppo impegnata con il……..trap?» e rieccolo. grazie alla sua memoria inesiste te e all'incapacità di mantenere l'attenzione sulla stessa cosa per più di qualche secondo, eugene si era già scordato l'affronto con cui sin aveva osato sfidarlo solo dieci minuti prima, ma bastò quell'accenno diabolico a riaccendere il fuoco del bad blood.
    strinse il pugno destro tenendolo premuto contro la coscia, in una rappresentazione stilistica (?) del meme di arthur di cui stiles sarebbe andato molto fiero: esprimevano tutto, quelle nocche chiuse ed impercettibilmente vibranti; racchiudevano risentimento e dispiacere, frustrazione e rancore. proprio come una fidanzata lasciata a casa il sabato sera per uscire con gli amici, ecco come si sentiva eugene jackson in quel preciso momento. mormorò un grazie al cazzo molto sentito, mentre jade partiva per la tangente del trap cercando di spiegare all'idrocineta l'origine e le varie conformazioni del /genere musicale/; le ci volle almeno mezz'ora, ma quando sin lasciò casa eubeech la rabbia dell'ex pavor non si era ancora del tutto placata.
    Esigeva vendetta, quella vera.
    Non voleva più essere data per scontata dal suo uomo #wat.
    «ci andiamo anche noi.» fece lui, risoluto. «non dire cazzate» rispose lei, premendo entrambi i palmi delle mani sulle orecchie del figlio unenne (?), per mantenerlo candido di fronte al turpiloquio. «aaaaahhh eddai jade, EDDAI!» età mentale dieci anni, eugene jackson non aveva alcuna intenzione di scoraggiarsi di fronte al primo ostacolo: non lo aveva mai fatto, proseguendo nei suoi intenti a testa bassa fregandosene altamente della possibilità di andare a sbattere contro un muro apparentemente invalicabile. se stava UFFICIALMENTE con la beech un motivo c'era. «scordatelo, abbiamo anche eli jr.» ah! cos'era quella, una ruga di cedimento??? doveva approfittarne subito, il serpeverde, afferrare l'occasione a due mani e battere il ferro finché era caldo. «possiamo chiamare amos! eli con il beat boxing se la cava alla grande!» le sorrise, ciglia scure sbattute più volte per accentuare l'espressione carina e coccolosa, stranamemte in perfetta sintonia con il resto del corpo: poteva anche essere alto e massiccio, il jackson, ma dava quasi sempre l'impressione di essere un orsacchiottone. «ma uran..» «VIENE CON NOI! DAI JADE DAI TI PREGO TI PREGO TI PREGO!»
    doveva amarlo davvero tanto, jaden beecha beech. che sopportare euge non era cosa facile, se si era appena appena una persona normale, chiedere a rea per conferma. E la bionda di occasioni per farla finita ne aveva avute a bizzeffe, in senso letterale: con il sonno pesante dell'ex pavor ucciderlo premendogli un cuscino sulla faccia sarebbe stato semplice quanto bere un bicchier d'acqua. Ma anche da sveglio, diciamoci la verità: gliel'avrebbe lasciato fare senza batter ciglio.

    * * *



    «rea!» (rearearea) figurati se la prima persona che doveva importunare per forza di cose non dovesse essere lei. Era così da sempre, nonostante le sempre originali conseguenze, e su quella routine si basava quasi tutta la loro vita. La parte passata insieme, quanto meno. Le si avvicinò trotterellando, stringendosi e torcendo il busto come un ballerino di lap dance - bei tempi - per passare tra le persone accalcate senza che queste potessero sbattere contro uran, comodamente infilato nel marsupio: si guardava attorno incuriosito, le luci soffuse a riflettersi sul visetto tondo, l'espressione appagata di chi ha appena fatto un pranzo da re e si gode lo spettacolo. Quando vide la Hamilton, il nanetto biondo le rivolse un luminoso sorriso sdentato, le manine allungate in avanti nel tentativo di afferrarle i capelli; o il bicchiere di fronte a lei, dopotutto buon sangue non mente. «bravo uran dí ciao a zia rea» awww. salutò con un sorriso smagliante alla eugene jackson anche l'affascinante giovane - mlmlml - accanto all'amica, con un «wuossapp» che riservava a pochi eletti, senza riconoscerlo. non passava troppo tempo sui social, l'ex pavor, temendo da sempre di poter essere contattato da taylor o dai suoi milioni di fan incazzosi e carichi di odio verso chiunque se la fosse spupazzata un po' mollandola poi il giorno del suo compleanno. se la prendevano davvero con poco, ecco.
    «sai se sono venuti anche-- NHHG!!!» un infarto. un aneurisma. un ictus. niente di tutto questo, anche se a vederlo non si sarebbe detto. portò rapidamente una mano al petto, stringendo con l'altro braccio il corpicino di uran, la bocca dischiusa in una piccola o di sorpresa ed incredulità: un fedele di fronte alla madonnina di lourdes. «ma quello è..» lo aveva visto. poco lontano, tra la folla, il volto di un uomo che per euge aveva significato molto, negli ultimi sei o sette anni, lo aveva sostenuto nei momenti più bui e intrattenuto quando il tempo sembrava non passare mai. Gli doveva tutto, a «HARVARD HILTON. QUELLO È HARD-VARD HILTON, CAZZO! piangeva, letteralmente.
    un uomo e i suoi guru.

    euge | 27 yo | slytherin
    former pavor | barman & stripper
    Wake up in the morning feeling like P Diddy
    Grab my glasses, I'm out the door; I'm gonna hit this city
    'Cause when I leave for the night, I ain't coming back


    Edited by j e r k . - 7/10/2018, 18:00
     
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    chiedo venia, non mi ero accorta che il post di siobhan fosse stato modificato dopo essere stato postato, non avrei mai ignorato mia figlia SIOBHAN GIURO CHE TI AMO!!&&&
    arabells dallaire & NEWHAVEN CEDRIC EDWARD GEORGE STEPHEN HILTON IV
    yale+lies
    Logicamente sapeva che oramai avrebbe dovuto essere abituata alla stravaganza di Andrew Stilinski, ma neanche il raziocinio più fervente potè impedire al sopracciglio scuro di Arabells Dallaire di inarcarsi titubante alle parole del ragazzo: «anastasia, anastacia, don’t funk with my heart, ma le best erano le pussycat» Così confusa da allungare istintivamente le braccia stringendo al petto i …vestiti?, e non riuscire a replicare mentre l’altro scattava all’interno della folla perdendosi nel marasma di clienti del Lilum.
    Aveva un dono, l’ex Tassorosso. Bisognava dargliene atto. Abbassò il capo sugli indumenti, sollevando poi le iridi grigio verdi sulla socchiusa porta dei servizi poco distante. Come ogni blu bronzo che ricadesse nei clichè, Bells fu troppo curiosa per combattere l'orgoglio la quale le suggeriva, di principio, di mollare la stoffa per terra e continuare imperterrita la sua walk of fame verso il bancone del locale. Aiutava il fatto che nei tre (3) minuti in cui aveva messo piede lì dentro, avesse già perso tutti i suoi accompagnatori: non aveva nulla di meglio da fare. Si strinse nelle spalle adocchiandosi pigramente attorno, le scarpe da ginnastica a scivolare morbide e silenziose sul pavimento del Lilum. Nessuno avrebbe potuto accusare Arabells di non essere vestita per l’occasione, ma in molti avrebbero potuto farle notare che non fosse vestita punto: a tutti loro, con l’usuale sorriso mordace e sguardo amorevole, la Corvonero avrebbe alzato un sempre eterno dito medio. Nessuno aveva potere decisionale sullo stile libero e aperto della diciottenne, tutti coloro che la conoscevano abbastanza da definirla almeno conoscente sapevano che nulla del suo vestiario avesse a che fare con gli altri, e tutto con se stessa: se quella sera aveva deciso di indossare corti pantaloncini neri in pizzo, ed un top azzurro stringato sulla schiena che lasciava scoperta buona parte del ventre, non l’aveva fatto per piacere, né per abbordare. L’aveva fatto perché le piaceva punto, e se qualcuno avesse avuto da dire qualcosa al riguardo, gli avrebbe ficcato senza problemi un gomito nella trachea. Pur avendo poca stoffa addosso, la Dallaire non era volgare – non avrebbe mai potuto esserlo, con le forme morbide ed appena accennate di una ballerina di danza classica ed il viso pulito e privo di trucco; aveva il brutto vizio di apparire arrogante e troppo sicura di sé, ma certamente non era mai stato un problema per la mora. Non avrebbe cominciato quella sera. Non capiva perché le fanciulle del Regno volessero forzatamente entrare nel ruolo di Queen Bee, quando quello della Vespa era indubbiamente più appagante: potevano pungere chi volevano senza lasciarci l’intestino e morire, non dovevano produrre miele né offrire supporto ad alcuno, ed avevano una media di vita più lunga.
    Contente loro.
    Ormai a pochi metri dalla porta del bagno, riuscì ad udire due voci distinte. «[…] i tuoi vestiti. sempre IL MIGLIORE» «a questo servono gli amici, no?» spalancò l’uscio poggiando una spalla alla cornice. Fece arrampicare lo sguardo dalla punta delle scarpe dell’individuo di fronte a sé ai corti capelli color sabbia bruciata, senza mostrare alcun imbarazzo (né stupore, a quel punto) nel constatare che le scarpe e le mutande fossero gli unici indumenti indossati dal ragazzo. Bells era cresciuta fra ragazzi e con ragazzi, ci voleva decisamente più impegno per suscitare fischi di ammirazione o mezzo sopracciglio sollevato in sorpresa: aveva visto cose più strane. Il sorriso caldo di Yale Hilton, perfettamente a suo agio nella propria nudità e nei gomiti poggiati casualmente contro il muro, non variava di una virgola da quello visto e rivisto in qualunque magazine di varietà, il che le fece a sua volta curvare la bocca verso l’alto: falso.
    Falso, ma ammirevole. «cercavi questi?» fece guizzare gli occhi verso il Bond, dissimulando una risata di scherno in un colpo di tosse: la camicia cadeva troppo larga sulle spalle, i pantaloni decisamente lunghi per le corte gambette di Shanghai. «merci» sentì il sorriso dell’altro senza aver bisogno di vederlo, ampliando il proprio nell’udire la sua seconda lingua in un luogo così inaspettato. Non ebbe bisogno di fare domande per comprendere a grandi linee cosa fosse successo, quindi non indagò oltre. Si sedette sul lavandino del Lilum dando le spalle allo specchio, gli occhi a posarsi disinteressati sul ragazzo mentre si vestiva. Il suo sguardo diceva chiaramente so chi siete, e non me ne frega un accidente - quando non si trattava di giocatori di quidditch, la questione non la toccava – un’occhiata che era stata difficile da digerire per Soho nei mesi precedenti, e che invece pareva, se possibile, sollevare maggiormente gli angoli della bocca dell’Hilton ogni volta che ne incrociava un frammento. VIPZ, valli a capire. Soho fece scivolare eccitato le dita sulla camicia indossata, gli occhi gonfi di commozione nel volgersi verso l’altro. «sei sicuro non sia un problema? non te li ridarei più, per inciso. Un patto è un patto» indicò lo scambio di abiti arcuando le sopracciglia corvine, la fronte troppo alta a riempirsi di rughe preoccupate. Bells sollevò un sopracciglio spostando l’attenzione su Yale, notando come i vestiti di Stiles gli stessero (prevedibilmente) troppo stretti e (chiaramente) meglio che al ragazzo sopracitato, caso mai qualcuno avesse avuto dei dubbi. L’Hilton fece schioccare le bretelle sulla maglia bianca; Bells, che di bugiardi se ne intendeva abbastanza, notò come la smorfia morbida e gentile non lasciasse mai la bocca del ventiduenne: falso, le trillò ancora nel cervello, mentre assottigliava le palpebre allo scambio di battute. Quando lui passò una mano fra i capelli con lentezza intenzionale, spettinandoli più di quanto già non fossero di natura, scattò un silente clic che diede un altro significato al ghigno divertito di Yale ed ai foschi occhi blu. «cosa ci hai guadagnato?» perché le era ormai chiaro che quello non fosse un favore a sentimento. Arabells Dallaire aveva appena trovato l’intrattenimento della propria serata: chi l’avrebbe mai detto che sarebbe successo in un bagno tutti. Bugiardo intenzionale, si portò offeso una mano al petto, gli occhi a brillare flebilmente di smaliziato divertimento. «ho reso felice un amico»
    Non le riconosceva neanche più come menzogne, Yale – e ne sorrideva allegro come un bambino. Il mondo credeva che la sua vita privata fosse esposta al pubblico come quadri ai musei d’arte, ma l’Hilton era probabilmente il più discreto degli influencer: più ostentava qualcosa, meno avrebbero indagato oltre. Il suo essere apertamente libertino e sfacciatamente amichevole agli eventi mondani, fingere di non vedere i paparazzi anche quando la loro presenza era palese, aveva salvaguardato tutte le sue pseudo relazioni dal mirino dei media. Amava essere quello chiacchierato, semplicemente preferiva non fosse per le cause giuste.
    Entrare in un locale di spogliarelli in un modo ed uscirne in un altro avrebbe tenuto calde le rubriche di pettegolezzi per almeno una settimana, ed alle spalle di quella diceria non si sarebbe celato alcun scheletro nell’armadio: un sogno. La ragazzina si strinse nelle spalle battendo pigra le palpebre, chiudendo il discorso ma senza concluderlo. Non amava particolarmente chi non fosse in grado di farsi i maledetti fatti propri, ma c’era qualcosa di sempre platonicamente attraente nelle persone che non si mostravano impressionati dalla sua magnifica persona. Allargare la Yale Army rientrava nella top five dei suoi passatempi preferiti. Ecco perché al «avete visto un ragazzo biondo, quasi bello quanto me, alto, con un po’ di barba e lo sguardo da cucciolo smarrito?» ribattè risoluto con un «certo.»
    Ed era vero. Lei arcuò un sopracciglio, sottile ed affilata come la punta di una freccia. «mio fratello?» cercò il supporto di Soho - di Soho. Doveva davvero crederlo inaffidabile.
    Come darle torto. Le donò uno dei sorrisi più caldi ed affettuosi del proprio repertorio, le dita nuovamente a scorrere fra i corti capelli bruni. «non posso saperlo» galante, le porse la mano. «ma posso accompagnarti» Supponeva. Non ne era certo, ma mai l’Hilton avrebbe fatto insinuare il dubbio nel proprio tono di voce. «e cosa ci guadagni?» davvero? «una buona azione» non perse battito, il pollice infilato fra le bretelle e lo stomaco. Lo studiò per qualche istante prima di aprirsi in un sorriso sottile e falso, ma non meno divertito del proprio. Le voleva già bene, anche se preferiva di gran lunga le schiere di fan adoranti – priorità. Uno dei grandi, immensi talenti di Yale Hilton, era il non fare nulla per nulla ma farlo sempre apparire come un piacere personale al mondo, rendendosi nel mentre effettivamente utile a una qualsivoglia causa. Aveva la capacità di incanalare i momenti ed i luoghi giusti, cavalcando l’onda con classe ed eleganza – o come dicevano i Texani, cavalcando il toro. Non era altrettanto poetico, a suo dire.
    Non che in Texas fossero famosi per le loro auliche prose.
    Cosa ci guadagni? La ragazzina, che ad occhio e croce confidava fosse maggiorenne, sarebbe stata un indiscrezione come un’altra, fallace ed illusoria come piaceva al poco più che ventenne, ed avrebbe distratto i più curiosi dandogli un certo margine di libertà personale. Non sembrava sveglio, Yale; contava su quello l’80% delle volte. Quando l’altra saltellò dal lavabo per raggiungerlo, congedò Soho portandosi le dita alla fronte, soffiando poi un bacio nella sua direzione. Cosa avrebbe fatto il nostro eroe per il resto della serata, eccetto cercare di sniffare la riccanza dai vestiti dell’Hilton, lo scopriremo nei prossimi post solo vivendo. Usciti dal bagno si ritrovarono immersi nel, familiare e gradito, bagno di folla: il Lilum aveva iniziato a riempirsi. Strizzò le labbra in un sorriso soddisfatto, adocchiando diversi centimetri più in basso l’espressione seccata della giovane. «bella visuale» commentò lei, soffocando un sospiro nei denti. Non fu affatto interessato ad approfondire la questione del lampo di tristezza nella bocca di lei: se poteva evitare una pioggia emotiva, di norma, lo faceva. Piegò le dita indicando lo spazio fra loro. «posso darti venti centimetri» lei gli lanciò un’occhiata di traverso portando la mano alla bocca, ansimando drammatica un «senza neanche un primo appuntamento?» che, poteva ammettere candidamente, si era meritato. «sopravvalutati» liquidò la questione con un sorriso sghembo. Amava suonare ambiguo, difficilmente trovava qualcuno che mantenesse il gioco senza aspettarsi nulla in cambio: se volete avere a che fare con Yale Hilton, dovrete abituarvi alle sue partite sporche ed ai colpi bassi, perché viveva di fraintendimenti e volute incomprensioni. Come fosse la cosa più naturale del mondo, Yale lasciò che una perfetta sconosciuta gli salisse sulle spalle. Il discorso del non parlare con gli sconosciuti non aveva mai attecchito, ed il fatto che ella potesse segretamente essere un serial killer non faceva che rendere più spassoso tagliare la folla alla ricerca del fratello di lei.
    Dai. Biondo, quasi-bello-quanto-me, barbetta incolta e occhi da cucciolo.
    Lo adocchiò al bancone, e con la ragazza ancora sulle spalle, dall’alto del suo metro e ottantacinque, alzò il braccio per attirare l’attenzione di Princeton. Si fermò solo nel vedere un uomo con un - «URAN?» - Uran nel marsupio, perdere il colorito al volto e portarsi una mano al petto in nome di suo fratello. Sì, Harvard faceva quell’effetto. Sorrise spontaneo scivolando al fianco del malato, un braccio attorno alle sue spalle ed una mano al cuore. «non ti preoccupare, sono un dottore» beh, medicina l’aveva iniziata. E abbandonata, ma valeva comunque. «questo è tuo fratello?» allungò le dita per pizzicare la guancia di Princeton fra pollice ed indice, reclinando il capo all’indietro per incrociare lo sguardo della mora.
    Arabells Dallaire, interdetta dalla presenza di un infante al Lilum, posò lo sguardo su Rea Hamilton. «magari» rispose distrattamente all’Hilton, non pensandolo sul serio – non avrebbe cambiato Elijah con quasi nessuno al mondo. Salutò la Hamilton con un cenno del capo, e lei rispose inarcando un sopracciglio: progressi. «ma suppongo quello vero stia arrivando» figurarsi se si fidava a lasciare un Jackson + Uran al Lilum senza supervisione – soprattutto nel momento in cui una Jade Beech, ancora non nei dintorni, non stava cazziando l’ex Serpeverde. «o lo riporteranno» portò i pollici ad indicare la scritta, fatta con pezzi di scotch fluo, sulle proprie spalle: Quella Bella. Sul braccio del fratello, come prevedibile, c’era In caso di smarrimento, portare a Quella Bella.
    E sì, intendeva se stessa, non certo la Hamilton. Quando qualcuno le aveva fatto notare che fosse stato un pensiero adorabile, Rea non aveva neanche avuto bisogno di mettersi sulla difensiva per commentare caustica un se fossi stata io, avrei scritto di lasciarlo dove lo trovavano. O di calpestarlo - ma aveva sorriso, quindi Bells aveva dedotto fosse un segno d’affetto.
    «forse.»
    Forse. Di quei tempi, con viaggi dimensionali e temporali, diffidava perfino del proprio armadio: Narnia, ti temo.
    former wampus | 22 y.o.
    former ravenclaw | 18 y.o.
    So put your arms around me tonight
    Let the music lift you up
    Like you've never been so high
    Ain't no crying in the club


    Edited by #epicWin - 30/7/2018, 17:54
     
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    both honey and wildfire
    are the color of gold
    «e le galline come stanno? » La ragazza teneva il cellulare in equilibrio precario tra la spalla e l'orecchio, guardandosi bene dal toccarlo con le mani piene di borotalco e chissà nonvoglionemmenopensarci che cos'altro: erano passato un mese dalla nascita di suo figlio, e cambiargli il pannolino era ancora un trauma come la prima volta. Ma non era ancora disposta a cedere, ed aveva intenzione di dimostrare a tutti di potercela fare da sola, anche se c'erano momenti in cui quasi cedeva alla tentazione di assumere una baby sitter. «la zampa di Cedric invece é guarita? » Aveva a cuore ogni singolo animale del ranch a Dallas. Ed anche se sapeva non esserci modo migliore di informarsi sugli animali per iniziare una telefonata con nonno Hilton, quello di Penn era sincero interesse, e mai nessuno l'aveva messo in dubbio: forse, in un'altra famiglia, il rapporto che condividevano lei e suo nonno avrebbe potuto esser visto di cattivo occhio, ma era impossibile anche solo pensare per un attimo che Penn facesse qualcosa soltanto in vista di uno scopo personale. Quindi no, le sue chiamate settimanali al nonno non avevano nulla a che fare con la speranza di ricevere un trattamento di favore nel suo testamento (che tutti bramavano di conoscere) o con il desiderio di ottenere la villa al mare ad Ibiza: se Pennsylvania si informava sulla salute delle galline o sulla guarigione di uno dei loro cavalli era perché le importava sinceramente e nessuno aveva mai avuto motivo di dubitare del buon cuore della ragazza, o del suo autentico amore per gli animali. Sicuramente, non da quando all'età di sei anni aveva passato più tempo in terapia che a scuola, dopo esser rimasta traumatizzata dall'incidente col trattore: ancora oggi, a distanza di anni, le era impossibile ricordare quel momento con distacco. E, più volte di quante volesse ammetterne, l'immagine del povero tacchino george tornava a tormentare i suoi sogni. Forse, in un'altra vita, un'altra Penn, avrebbe intrapreso quello stile di vita molto volentieri: vivere nella quiete della campagna, lontana dalla città e da tutti i problemi che portava con sé. Lontana dai giornalisti, le macchine fotografiche e le prime pagine delle riviste di gossip: un mondo in cui poteva semplicemente essere Penn, senza tutto il bagaglio che inevitabilmente il suo cognome comportava, in cui avrebbe potuto metter in mostra la sua intelligenza piuttosto che metterla brutalmente da parte. Ogni tanto si fermava a fantasticare sulla possibilità di continuare gli studi, e dei lavori che avrebbe potuto intraprendere una volta laureata: ce n'erano così tanti che le sarebbero piaciuti che anche solo pensare più di qualche minuto ad un ipotetico futuro in cui faceva la scienziata o l'astrofisica era doloroso, così come lo era quando fantasticava sul ritirarsi a vita privata, magari comprandosi un ranch tutto suo.
    Ogni volta si perdeva nella sua immaginazione, ma alla fine la realtà arrivava a strattonarla via, riportandola con i piedi per terra.
    Era una top model.
    Era già sparita dalla scena per otto mesi, ed i giornali avevano speculato di tutto e di più, ed era consapevole del fatto che, se non si fosse fatta vedere in pubblico per un altra settimana, tutto il mondo l'avrebbe probabilmente data per morta. Alcune riviste l'avevano già fatto.
    E, soprattutto, era diventata madre: nel momento stesso in cui aveva deciso di portare avanti la gravidanza aveva inevitabilmente messo da parte ogni speranza rimasta di continuare con gli studi. Bangkok era la sua priorità, anche perché quel bambino aveva solo lei: a dividerlo dal padre c'erano pagine e pagine di un contratto firmato consensualmente da entrambi i genitori.
    Per sempre Hilton, mai DiCaprio
    Ed alla ragazza andava più che bene così.

    Si fece strada a passo spedito tra le persone che riempivano il locale, odiando ed amando allo stesso tempo le sue décolleté rosse: se da un lato le facevano un male assurdo, non avendo più il piede abituato ad indossarle dopo mesi in cui era andata in giro in infradito ed espadrillas, dall'altro i venti centimetri guadagnati grazie ad esse le davano una visuale più completa della stanza. E le consentirono finalmente di adocchiare Yale e Prince vicino al bancone: molto rude, da parte loro, abbandonarla durante la sua prima (1!) uscita ufficiale dopo quello che l'addetto stampa della famiglia Hilton aveva spacciato ai giornali come ritiro spirituale in Thailandia. Avrebbe tanto voluto avere Col lì con lei: sicuramente non l'avrebbe lasciata sola in un momento così delicato, quando tutti (tutti!) le si erano buttati addosso all'uscita dalla limousine per riempirla di domande, a cui la ragazza si era limitata a rispondere con un sorriso tirato e spintonando per entrare nel locale. Lì dove qualcuno le aveva lanciato occhiate indiscrete, ma alla fine solo due ragazzi si erano avvicinati a parlarle e, per liberarsi di loro, aveva promesso alla ragazza di presentarle Yale durante il corso della serata: aveva sempre amato i suoi fanz, lei, ed anche quelli dei suoi cugini (tranne che di Paris e Nicky, ovviamente) ma quella sera aveva paura a star loro troppo vicino, o a stare tra le persone in generale. Se qualcuno si fosse accorto della sua pancia? Aveva appena partorito, e di conseguenza aveva temporaneamente perso il fisico impeccabile che rispecchiava gli standard di qualunque casa di alta moda: aveva cercato di mascherare il tutto come meglio poteva, ma ad un occhio attento l'aumento di peso della ragazza non sarebbe passato inosservato. Soprattutto visto che in gravidanza Penn si era data a torte e ciambelle come mai nella sua vita. E nessuno poteva conoscere il suo segreto: nemmeno tutto il clan Hilton ne era al corrente. A Barron Hilton sarebbe probabilmente venuto un infarto: ne aveva accettate di tutti i colori da una come Paris, ma Penn? Era la bambina di casa, ancora troppo giovane per mettere al mondo un figlio. E soprattutto, non così.
    «traditori, mi avete lasciata da sola» lanciò un occhiata gelida a Yale e Prince, consapevole del fatto che ai loro occhi non dovesse apparire poi così minacciosa: era difficile prenderla sul serio, come per lei lo era arrabbiarsi realmente con i cugini. Poi però spostò lo sguardo sulla ragazza sulle spalle del cugino, e lì diventò più seria. «davvero, NEWHAVEN?» non ce l'aveva con la mora in sé, quanto più sul posto che Yale le aveva lasciato prendere: doveva essere il suo, come sempre. Era lei quella che sobbalzava per ogni click di fotocamera o ogni occhiata che durava un po' troppo per i suoi gusti. Era cresciuta abituata a tutte quelle attenzioni, considerandole come normalità, ma dal parto aveva iniziato ad avere una paura assurda: non voleva buttare un tale scandalo sulla sua famiglia e rischiare di far prender un colpo al nonno. E l'idea di nascondere la sua pancia agli occhi di tutti schiacciandola contro la schiena di suo cugino sarebbe stato rassicurante «e io che ero venuta qui per raccontarvi di come nonno avesse acconsentito a far stare da me Soledad per qualche giorno» Soledad, Soly per gli amici quali era il coniglio bianco del ranch Hilton, quello più paffuto e grasso e Penn aveva cercato per giorni il modo di chiederlo al nonno senza destare sospetti: voleva che Bangkok si divertisse in compagnia di un animale vero, e non di un peluche, ma non poteva di certo giustificare così a Barron la sua richiesta visto che l'anziano era all'oscuro dell'esistenza del neonato. «adesso sono proprio trist...UH un bambino!» notò in quel momento il bimbo nel marsupio di uno dei tipi lì con i suoi cugini. «dove si comprano questi cosi?» allungò una mano per valutare il materiale con cui era fatto: stava prendendo in considerazione l'idea di portarsi dietro suo figlio così, un giorno, e voleva testarne l'affidabilità. Poi però si ricordò che nessuno, oltre a suo fratello, suo padre, quattro cugini su sei ed un paio di monaci thailandesi era a conoscenza dell'esistenza di Bangkok. «lo vorrei per avere una ciotola di pop corn sempre con me» Perché? Beh, perché no. Tirò fuori il telefono dalla sua clutch paiettata per controllare eventuali messaggi di suo padre: era la prima volta che lo lasciava a fare il baby sitter, ma confidava nella sua bravura, visto che più o meno lei e dart erano stati cresciuti bene. Non avendo aggiornamenti, entrò velocemente su twitter e..«la foto con jk lowell???!» suo cugino l'aveva seriamente battuta sul tempo?? Voleva esser lei la prima a scattare un selfie con lei e mostrarlo al mondo. Così, giusto per salvare le apparenze e combattere tutti quei rumors che giustificavano la sua scomparsa dalle scene come una conseguenza di una litigata con Taylor Swift e Kylie Jenner: metà della popolazione mondiale inspiegabilmente credeva che si fosse messa contro l'intero mondo delle star, e lei di conseguenza necessitava della foto perfetta per annunciare il suo ritorno. «traditore» pt.2
    Ma perché se la stava prendendo così tanto? Eh, probabilmente gli ormoni #cos Ma lei era Philadelphia Sutton Mariel Soledad Hilton: non aveva bisogno di esser circondata da persone famose. Era lei, quella che rendeva gli altri conosciuti. Ed in quel momento sentiva il bisogno di dimostrarlo al mondo, ma soprattutto a sé stessa: provava a convincersi del contrario, che non fosse cambiato nulla, ma al suo ritorno dal ritiro si era sentita stranamente fuori posto, ferma mentre il resto della sua famiglia e dei suoi amici era andato avanti con la propria vita. «sto per fare un atto di beneficienza» si guardò intorno, ed alla fine puntò un ragazzo che doveva avere all'incirca la sua età. Si avvicinò a lui, e senza nemmeno chiedere il permesso si posizionò al suo fianco ed esclamò uno «scatta!» a Tudor, la sua guardia del corpo, a cui un attimo prima aveva rifilato il suo cellulare. Lo riprese ed osservò la foto[©] modificandone la luminosità per rendere più visibili i loro volti, per poi prepararsi a pubblicarla «come ti chiami su twitter? stasera diventerai famoso» E non era solamente un atto gentile, il suo: una volta caricata in rete, siti su siti di gossip si sarebbero messi a speculare sul misterioso ragazzo in sua compagnia, e Penn sperava così di dirottare tutta l'attenzione dei giornalisti su quel singolo scatto.
    Era l'unico modo che le era venuto in mente per avere la certezza di spostare l'attenzione dal suo corpo: preferiva di gran lunga che la stampa si soffermasse a inventare storie e costruire racconti su una sua ipotetica fiamma estiva piuttosto che commentare il perché, quella sera, avesse optato per un vestito nero che le stringeva poco sotto al seno e poi ricadeva morbido fino alle ginocchia. Decisamente non il suo stile abituale
    PHILADELPHIA SUTTON MARIBEL SOLEDAD PENN HILTON
    1997'S - 20 Y.O.
    MODEL - HILTON CLAN
    HOT MAMA - SMART AF
     
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