Can you hear it coming?

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    bodie - 20/04 H.14:30
    londra - 20/04 H.22:30
    parigi - 20/04 H.23:30
    Do you see something real
    Accade di rado, ma accade.
    Qualcuno le definirebbe coincidenze, un peculiare ed ironico intersecarsi di eventi che nulla hanno realmente a che vedere l'uno con l'altro; slegati come palloncini al vento, e quei qualcuno a riderne quando questi, troppo vicini al sole, fossero infine esplosi con uno scoppio sordo ed asciutto. Casuali: perché la vita era tutta un susseguirsi di casualità, dicevano; perché i legami erano fili impiastricciati di zucchero dalle mani di bambini che volevano si legassero fra loro, che ne sforzavano le traiettorie come strette strade scavate nella sabbia per le biglie.
    Accade di rado che due persone, nel medesimo istante, dicano la stessa identica cosa: probabilità, avrebbero sussurrato i cinici. Coloro che al Caso credevano come in un cuore pulsante, perché il libero arbitrio era l'unica certezza della vita, compagna al tanfo già amaro della morte che perseguitava l'uomo dalla nascita. Non esisteva il Destino - non c'era posto, per il destino.
    Accade di rado che due alberi vengano colpiti da due differenti fulmini nello stesso momento. Accade di rado di sollevare lo sguardo ed incontrarne un altro, strappando un pezzo di vita e la cicatrice di un sorriso dalla vita di un perfetto sconosciuto.
    Accade di rado che due orologi rotti scocchino l'ora esatta in contemporanea, nel placido ma irrequieto incedere di lancette arrugginite. Accade di rado di guardare i numeri rossi sulla sveglia nell'esatto momento in cui scatta il minuto. Accade di rado di alzare la testa al cielo intercettando una stella cadente.
    Eppure quella stella, la possono vedere in centinaia - in migliaia. E può capitare, può capitare, che nello stesso momento vi sia un'altra stella cadente a centinaia di migliaia di chilometri di distanza - che siano gli occhi di un emisfero opposto a vederla.
    Oppure che si alzi la testa al frullare delle ali di un corvo, può capitare anche quello. Per il fischio della lavatrice del vicino al piano superiore.
    Qualcuno guarda il cielo e vede un aereo; qualcuno guarda il cielo e vede una nuvola; qualcuno guarda il cielo solo per domandarsi come possa essere così incredibilmente azzurro. Nello stesso istante in cui lo fate voi, può farlo chiunque altro: perché accade di rado, ma accade.
    Solitamente, si tratta puramente di una coincidenza. Di una casualità. Di statistica e probabilità.
    Ma talvolta, no.

    Nulla pare accumunare i tre, i cento, protagonisti di questa storia. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che il loro solo, miserabile, filo, potesse un giorno qualunque di una vita qualunque di un tempo qualunque trovare la propria via di fuga incastrandosi fra le crepe della realtà; nessuno avrebbe compreso come avessero potuto superare ogni barriera razionale, ogni ostacolo di senso compiuto - od il perché. Era bastato un istante, un quarto di battito di cuore, perché s'annodassero fra loro. Un insieme di coincidenze a costruire fallaci castelli di sabbia che non in quella vita, né in quella dopo, o quella dopo ancora, avrebbe mai avuto basi solide con le quali reggersi.
    Ma era bastato un istante. Una debolezza nel tempo e nello spazio. Accadeva di rado, ma accadeva; fragilità delle barriere colte come brividi, il sentirsi osservati senza alcun motivo apparente. Vi è mai capitato? Di sentirvi osservati, ma essere soli. Di sentirvi sfiorare, toccare - eppure non c'è nessuno. L'avete mai provata quella spiacevole ed inspiegabile sensazione che nel buio della vostra stanza non siate gli unici? O quando chiudete gli occhi, capita anche così. Ci avete mai pensato che, aprendoli, il mondo a dispiegarsi davanti al vostro sguardo potrebbe non essere lo stesso? Vi ha mai sfiorato, l'idea? Anzi, non l'idea.
    La percezione. La consapevolezza di quanto tutto sia fragile e sottile, di quanto poco conosciamo della realtà. Accadono di rado, momenti del genere - ma accadono.
    Il vuoto allo stomaco di un deja vu.
    Il ricordo a cui non lasciavate spazio da troppo tempo.
    Il sorriso al nulla; le lacrime a bruciare gli occhi di un dolore sconosciuto.
    Momenti del genere tendono a scivolare troppo in fretta. Guizzano fra le pieghe di coscienza ed incoscienza, di realtà e sogno, passato e presente. Ma capita, e capita, che qualcuno, per caso o per fede, ci si aggrappi più del dovuto. Che il filo s'inceppi incapace di tornare al proprio gomitolo. C'è bisogno di un insieme di fattori considerevole, senza dubbio; c'è bisogno della giusta emozione, della giusta disperazione, del medesimo vibrante odio a rimbalzare da una corda all'altra. C'è bisogno di una certa luce; di una certa cedevolezza emotiva.
    C'è bisogno di perdere tutta la speranza. C'è bisogno di quel pezzo di sé che non si scambia facilmente al mercato nero.
    C'è bisogno di un segreto.
    Due segreti.
    Tre segreti.
    Ed allora il filo si inceppa, e nodo su nodo crea un ponte.
    Due ponti.
    Tre ponti.
    Sfiorava l'impossibile. L'inconcepibile. Sfiorava un livello di armonia disarmonica che l'essere umano non era progettato per comprendere: ci si impazziva, di perfezione. E forse per questo, funzionò.
    Perché loro non erano perfetti. Perché i loro amici, le loro famiglie, i loro sogni ed i loro incubi, non erano perfetti.
    Perché il loro mondo, non era perfetto.
    Ed allora, un po' di quella perfezione non sua, poteva permettersela. Per poco - per meraviglia, per orrore. Per la sua intrinseca impossibilità d'essere.
    Accade di rado che -
    Il fiato corto. La fronte premuta sullo specchio, il fiato a condensarsi sulle labbra. Il cuore a pizzicare le costole come corde di un violino. E quella domanda, sempre la stessa. L'unica che non vorrebbero porsi, l'unica così patetica da disegnare sulle loro labbra quel che potrebbe essere scambiato per un sorriso:
    Perché
    Perché
    Perché


    Un verso di gola, forse una risata. I pugni a chiudersi, a scivolare sulla superficie dello specchio cercando appigli, cercando un motivo per non andare in pezzi - loro, lo specchio. Quella particolare sfumatura dell'iride che non mostravano mai a nessuno, che del colore - verde, bruno, azzurro - ha perso ogni traccia ed ogni memoria. Quell'odio che solamente loro, potevano capire e capirsi: quello accumulato come polvere ad indurire i propri tessuti rendendoli stopposi ed antichi sotto i denti. Quello che talvolta soffocava, e che a sua volta veniva affogato con altro: alcool, sangue, pelle e carne.

    Il cercare conforto nel contatto freddo sotto i polpastrelli, la guancia. Le preghiere a Dio di fare qualcosa - di toglierglielo, quel senso di apatico torpore; quelle domande a cui nessuno poteva rispondere, così banali da risultare tristi nella loro infima semplicità. Non sanno neanche loro chi stiano pregando; per cosa, stiano pregando. Se ci sia ancora qualcosa che ne valga la pena - se loro siano ancora qualcosa per cui ne valga la pena. Il senso di perdita, era il peggiore. Quelli da raggomitolarcisi, da quanto si facevano sprezzanti della loro astrattezza e rompevano le ossa nel petto: devi toccartelo, lo sterno, per assicurarti sia ancora intero. E poi stringertela, quella mano al busto: per orgoglio, per principio. Perché nessuno dovrebbe avere il potere di rendere il battito cardiaco così scellerato e poco guardingo, così stupido ed insensibile, men che meno
    Io
    Io
    Io


    La rabbia, a sostituire l'odio. L'impotenza. Il riconoscere la debolezza come propria ed il non volerla, il non saperla, accettare: la gola secca, allora. Arida di quel singhiozzo di cui non si sapeva il nome. L'aggrapparsi ad ogni cosa
    La superficie scheggiata dell'armadio
    Il ripiano di marmo
    L'ancora umido lavandino nero
    Pur di cancellare l'inebriante, tossica, sensazione di
    Vuoto
    Vuoto
    Vuoto
    Il rompersi regolare ma non ritmato del respiro in brevi rantoli
    Sbagliato
    Sbagliato
    Sbagliato
    Loro, per una volta. Quando sono da soli, possono permetterselo: possono guardarsi in faccia odiandosi, infuriandosi, agonizzando nel riflesso dei propri miserabili occhi. Possono lasciare le labbra a ricadere severe sul mento; possono serrare le palpebre senza aver paura, perché sanno che di nemico ne hanno solamente uno
    .

    E che i segreti vadano nascosti in bella vista, lo sanno bene. Un altro rantolo, risata o singhiozzo od entrambi. Il primo colpo, esattamente al centro di quel segreto. Quasi a saggiarne la superficie,
    La testa
    Il manico di una spazzola
    Le nocche
    Sfiorano la superficie dello specchio una prima volta, un bisbiglio a farsi opaco
    Fra la polvere
    Nel buio
    Nel fumo
    Ed infinito sulle loro bocche: il segreto, il nemico. L'incubo, il perché. Un secondo colpo, questa volta più necessario della volta precedente; e
    La fronte
    Il manico di una spazzola
    Le nocche
    Preme più forte, più urgente, gonfio e tronfio dal colpo precedente. La bocca continua a muoversi, per vizio o virtù od entrambi. Per rimuoverlo ed esorcizzarlo. Non possono fare a meno di domandarsi
    Perché
    Perché
    Perché
    Il mondo li abbia resi così, loro che così non lo erano; se fossero migliori, peggiori. Se fosse stato proprio d'obbligo. Si chiedono
    Cosa non va in me
    Cosa non va in me
    Cosa non va in me
    Mentre un altro colpo segue il secondo, ed un terzo ed un quarto. Mentre una
    Crepa
    Crepa
    Crepa
    Si apre un varco sibilando minacciosa, ridendo di loro - di loro che non capiscono, sempre loro: quei loro così schifosamente
    Umani
    Umani
    Umani
    Hanno problemi diversi. Hanno vite diverse in tempi e luoghi diversi - ma a loro, non importa. Loro, non lo sanno. Ed allora colpiscono ancora, la voce un riflesso ormai incondizionato. Ci si aggrappano, a quell'unica verità; a quell'unico segreto nascosto in bella vista. Quel segreto che sanno tutti, ma non tutti sanno che di un segreto si tratta.


    Lo ignorano o non gli importa. O forse non ci credono, che un Nome abbia potere. O forse ci credono troppo, perché ogni colpo si fa più
    Ruvido
    Ruvido
    Ruvido
    E la crepa non fa che allungarsi, sinuosa ed affascinante come una menzogna. Lo ripetono ancora, ed ancora; lo ricordano a loro stessi, forse. Si giustificano. Cercano un
    Motivo
    Motivo
    Motivo
    O più semplicemente hanno bisogno di sentirselo dire. Di alleviarsi dal peso dell'essere.
    E lo specchio comincia a frantumarsi - la loro pazienza, il loro controllo. Loro e basta. Lo dicono ancora una volta, ed ancora una volta colpiscono.
    Bisbigli violenti di animali in gabbia, sadici carcerieri di sé stessi - il segreto, il nemico.
    Due lettere.
    Tre lettere.
    Cinque lettere.
    Ancora. E sono al limite, e lo sanno.
    O lo ignorano o non gli importa o entrambe.


    Un ultimo bisbiglio. Un ultimo segreto ed incubo e nemico e condanna e redenzione e tutto quel loro che di lì non uscirà mai.
    Un ultimo -


    Accade di rado, sapete.
    Ma accade.

    Se c'era una cosa che Jamie aveva imparato nei suoi ventitré anni di vita, era che nessuno ti prendeva sul serio finché non gli ficcavi qualcosa in bocca. Per quanto le alternative fossero normalmente più affascinanti agli occhi chiari del cronocineta, era stato consapevole fin dal primo momento in cui aveva messo piede in quell'hangar del cazzo, dimenticato da Dio o chi per esso, che quella volta il lavoro sporco sarebbe toccato alla sua Glock - vecchia amica bastarda, sempre a godersela. Ma quell'ancora falsamente sorridente Jamie Hamilton, gli scarponcini a calpestare pesanti gli scalini in ferro, non sapeva - Dio, come avrebbe potuto? - che ne sarebbe uscito in quelle condizioni.
    Che meno di un'ora dopo si sarebbe ritrovato a gocciolare sangue sullo zerbino del suo appartamento, il braccio pesante e le palpebre stanche. Il cuore piatto dentro al petto. Eppure era consapevole, del prezzo delle proprie promesse; eppure erano consapevoli, del prezzo delle sue parole. Non era difficile, no? Cristo Santo, non era difficile. Dovevano solo - solo - fare il cazzo che Jamie diceva loro di fare, nulla più e nulla meno. Forse troppo ottimista, lui, nel credere che potesse bastare; forse troppo ottimisti, loro, nel credere non lo facesse. Rimase in silenzio per minuti che parvero ore, od ore che parvero minuti - il tempo, certamente, non era problema suo - con la sola compagnia del lento gocciolare sul pianerottolo. Plic. Plic. Una muta risata sulle labbra morbide: Hernando, l'uomo delle pulizie, probabilmente non avrebbe apprezzato quel macabro spettacolo. Bofonchiava imprecazioni in spagnolo alle macchie d'alcool sui tappeti, alle chiazze più scure dei liquidi corporei sulle lenzuola; una volta l'aveva trovato, allibito e rosso in volto, a fissare con rammarico e pentimento un perizoma pendere dal lucernario: non era servito tranquillizzarlo dicendo che non fosse suo. Un buon uomo, Hernando. Jamie si appuntò mentalmente di dare una pulita prima che l'altro arrivasse: gli piaceva, Hernando. Gli piaceva vivo, un lusso che tanti suoi predecessori non potevano più permettersi.
    A Jamie Hamilton, i testimoni, stavano scomodi. Quel sangue - tutto quel sangue - non era parte di quella vita. Non era quel Jamie quello a prendere l'ascensore ogni giorno con una ragazza diversa, l'ennesima perfetta sconosciuta a cui avrebbe fatto credere di essere speciale per l'infantile capriccio di sbattersela fingendo fosse realmente quello di cui aveva bisogno. Non era quel Jamie quello che sorrideva al portiere portando sotto braccio quadri, busti di marmo, pesanti broccati scarlatti o mobili dall'aria antica screziati di vetro. Non era quel Jamie quello che, con la Sciura parcheggiata sempre sotto casa, intavolava conversazioni filosofiche sulla vita o su quanto i tempi fossero cambiati. Quel Jamie, dove la pelle tatuata era appena visibile sotto le croste cremisi, non faceva parte di quel mondo: c'era, come dimostravano la strana assenza di vicini di casa ed il continuo cambio di imprese di pulizie, ma non era il suo territorio. Non avrebbe dovuto -
    «jamie?»
    Nessuno sapeva tutto quel che c'era da sapere su Jamie. Nessuno poteva dire, e giurare sulla tomba della propria madre, di conoscerlo: c'erano troppi pezzi, troppi Jamie. Il Ricco Ragazzo Viziato; la Guardia; il Ricettatore; il Ladro; il Sicario; il Mercenario; l'Imprenditore; il Benefattore ed il Boia. Il Sorriso; il Dito Sul Grilletto. Il Figlio, l'Amico, l'Amante.
    Briciole. Jamie Hamilton era tutto quel di cui avevi bisogno, come ne avevi bisogno, ma solo quando ne avevi bisogno.
    Sempre che fossi disposto a pagarne il prezzo.
    Girò la chiave nella toppa, gli occhi ancora chiusi. «no» aprí la porta, palmi verso l'esterno a mostrarsi disarmato. La richiuse alle proprie spalle senza ricambiare l'occhiata smeraldo della ragazzina in piedi al centro del proprio appartamento, il capo chino sulla punta delle proprie scarpe. Non provava vergogna, figurarsi: non aveva semplicemente voglia di parlare, Jamie. Le sorrise senza guardarla, preferendo invece proseguire nel corridoio scarsamente illuminato fino a giungere alla cucina; posò le armi sul tavolo, le valutò a palpebre socchiuse, quindi le reinserì nelle fondine ai propri fianchi - ancora sporche di sangue. Si sentiva addosso l'olezzo di macelleria, non del tutto spiacevole a dire il vero: la morte aveva sempre un certo fascino. «credo che andrò a fare una doccia» la bocca ancora curvata in un debole sorriso reso più affilato dall'ironia della situazione, un vibrare incredulo di ilarità fra lingua e palato. Anche se avesse voluto, e non voleva, non sarebbe stato in grado di reggere lo sguardo gonfio di lacrime di Sally: passato l'iniziale stato di incredulità, il passo alla rabbia era stato fin troppo breve - e finita quella, in Jamie c'era spazio solo per il vuoto.
    Così vuoto.
    Se lei non fosse stata così - Dio! - così stupida, nessuno di loro si sarebbe trovato in quella situazione; se lui non fosse stato così - Dio! - così umano nel riconoscersi d'avere un cuore, Melvin Diesel, in arte Sally, non sarebbe stata un suo problema. Alle gambe violacee di sangue raffermo ed il trucco colato sulle guance di un allora tredicenne, non aveva saputo cos'altro dire; nel ritrovarsela acciambellata sul proprio pianerottolo, il mento infossato nelle ginocchia ed i verdi occhi sporchi di polvere e vecchiume, gli era parso naturale accovacciarsele a fianco: sei sotto la mia protezione, ora.
    Però, che cazzo, lei neanche ci provava ad andargli incontro. Non sembrava progettata per dire no quasi quanto era incapace di accettarlo come risposta, un no: era un fottuto ossimoro vivente. «non preoccuparti» tranquillizzò apatico, sfilandosi la maglia pregna di sangue con un suono umido e poco piacevole. Non ritenne opportuno informarla sul comeb avesse risolto la questione: meno ne sapeva, meglio era.
    Per entrambi. Vin sapeva già troppo di un po' troppi Jamie. Si fermò sull'uscio del bagno, la mano sullo stipite mentre scalciava via gli scarponcini; rifletté fra sé su quanto fosse un peccato buttarli, ma c'era ormai ben poco di salvabile nella striata pelle scura. «ho tutto sotto controllo.» mentí incrociando lo sguardo di lei da sopra la spalla, prima di chiudere la porta alle proprie spalle. Sorrise perfino, Jamie Hamilton: ventitré anni, e non sapeva già più che sapore avesse la verità.
    Sotto la doccia, si permise di pensarlo - osò, l'Hamilton, lasciare che l'acqua gli scivolasse in bocca cancellando il sapore di morte e menta sulla lingua: "ho perso il controllo". Lo sapeva, Jamie. L'aveva saputo quando, scendendo nell'hangar, aveva incontrato il sorriso sfrontato di Nikolaj, figlio di Ivanov - alto esponente della mafia russa specializzato nel traffico di donne ed eroina. L'aveva saputo quando l'uomo aveva riso di lui, accusandolo di essere un inguaribile ottimista a presentarsi lì da solo; quando il russo aveva puntato il dito contro il suo petto, ed i suoi uomini avevano occupato le uscite del sotterraneo. Quando
    Rischiare un'alleanza per una puttanella qualunque.
    Quando
    Sei un debole, Hamilton.
    E quando il turno di sorridere era stato di Jamie, caldo e torrido come un pomeriggio di luglio; quando aveva pronunciato un distratto
    «lasciateci soli»
    e gli uomini di Ivanov Jr avevano eseguito diligenti gli ordini, volgendo le spalle ai due protagonisti della scena.
    Quando Nikolaj aveva capito che l'unico inguaribile ottimista era stato lui: Jamie avrebbe potuto limitarsi a quella banale dimostrazione di potere ammonendolo come un padre avrebbe redarguito il proprio, scapestrato, primogenito. Sarebbe bastato.
    Ma aveva perso il controllo.
    L'aveva fatto inginocchiare al centro dell'hangar, lo ricordava bene. Aveva atteso paziente che le suppliche si trasformassero in lacrime, ed allora ne aveva asciugato dolcemente il pianto con la canna della Glock:
    «su, non fare così. Sei ancora vivo, no?»
    e come ipnotizzato aveva fatto scivolare l'arma ad accarezzare la bocca dell'Ivanov, intimandogli di tacere con delicati bisbigli e lingua a schioccare sul palato. S'era aiutato con il pollice a farsi spazio fra i denti, Jamie, sordo e cieco all'ambiente circostante mentre spingeva la pistola all'interno della cavità orale. Freud avrebbe avuto molto da dire sul suo modus operandi. A tal proposito, Sigmund e Nikolaj avevano una cosa in comune: «no.»
    Erano entrambi morti.
    Non aveva vacillato né aveva chiuso gli occhi quando il colpo aveva fatto esplodere la parte inferiore della calotta cranica del russo. Solamente un sospiro, grezzo e sincero, nel sorriso con cui accolse su di sé gli occhi vuoti dei Mercenari assoldati prima da Ivanov, e poi da Jamie stesso. Aveva saldato il loro conto. Li aveva congedati arrampicandosi sulla scaletta che l'avrebbe riportato all'esterno.
    «ah, quasi dimenticavo» e prima che avessero modo di reagire, aveva impugnato anche la seconda Glock e li aveva crivellati di colpi. Una, due, tre - ed aveva ricaricato i tamburi - quattro, cinque volte, e sinceramente se n'era fottuto che avessero smesso di muoversi quattro pallottole prima.
    Aveva sfondato le ossa e spaccato la carne riprendendosi i bossoli ed i proiettili - e l'aveva fatto fischiettando Cotton Eye Joe, Jamie, passandosi distratto le dita sulle guance e sulla maglia prima di rimembrare a sé stesso le condizioni in cui versava.
    Dei russi non era rimasto abbastanza sul quale piangere, quando l'Hamilton aveva finito con loro ed aveva abbandonato l'hangar. Non c'era nulla che potesse legare l'incidente a Jamie, nessuno dei Jamie, eppure chi avesse voluto intendere, avrebbe compreso che fosse stato lui l'artefice di quel mattatoio.
    Un messaggio. Quella carneficina, era un maledetto messaggio. Era concesso fottere Sally, ma non era permesso fottere Jamie Hamilton: finché compravano sesso e Vin era disposta a venderglielo, non era affar suo; quando calcavano la mano e diventavano bestie aggressive, era dovere civico del cronocineta quello di abbatterli.
    Affari puri e semplici. Il rispetto se l'era guadagnato non bluffando mai. Jameson Black Barrel Hamilton conosceva un solo mondo, ed aveva una sola regola: obbedienza; non disubbidire.
    Chiuse il getto dell'acqua, respirò fiato caldo sulle mattonelle blu. Jamie continuava a ripetersi, avvolgendo distratto un asciugamano in vita. Jamie Hamilton. Cercava di aggrapparsi a quel nome ed a fuggirgli, riconoscendogli di essere chiave e lucchetto di quella prigione. Era l'unica cosa che lo tenesse insieme, Jamie Hamilton; l'insieme di tutto ciò che era e non era, di quel che nascondeva e di quel che piazzava sotto i riflettori.
    23:26
    La fronte contro lo specchio. Jamie
    23:27
    La gola secca, le palpebre serrate. Jamie
    23:28
    Le nocche sullo specchio a percorrere il proprio profilo, il pollice ad indugiare sul riflesso delle proprie labbra. «jamie»
    23:29
    Un pugno misurato, quasi a saggiarne la resistenza. Ho tutto sotto controllo.
    23:30
    «hamilton» Lo specchio si era frantumato sotto il suo pugno, le schegge a perforargli la tenera carne dell'avambraccio - una lunga, elegante, frattura rossa.

    Un movimento colto con la coda dell'occhio, ed aveva reagito prima ancora di poter vedere: aveva recuperato una delle pistole - l'altra era ancora nel vano della doccia - e l'aveva sollevata di fronte a sé, rapido ed istintivo quanto un singhiozzo. Nulla - nessuno - si mosse per un minuto intero, i petti a sollevarsi spasmodici e gli occhi a studiarsi affamati.
    Animali in gabbia che non conoscevano libertà.
    Jamie piegò il capo sulla propria spalla, lo sguardo a saettare incuriosito dall'uno all'altro. Era abbastanza (abbastanza.) certo di non essersi avvicinato a Biancaneve quella sera, ma ehi, il cervello umano aveva un efficiente metodo di proteggersi da sé stesso chiamato rimozione dei fatti spiacevoli, quindi tutto poteva essere. «vi conosco» commentó, l'aspro sorriso alla Jamie a far brillare le iridi turchesi di morbida cortesia. Era un galantuomo, Jameson. Finse che la situazione non fosse esageratamente assurda; che nella sua vita fosse perfettamente normale battere le palpebre e ritrovare, laddove v'era stata una parete, un ampliamento che poco aveva a che vedere con l'architettonica: lo sentiva sulla punta della lingua, il cronocineta, che qualcosa non maledettamente andava, che non era un allucinazione né lo scherzo di qualche buontempone con un perverso senso dell'umorismo. La donna ed il ragazzo di fronte a lui, erano reali - e, soprattutto, quel che aveva loro detto era vero: li conosceva. Il fatto che non capisse come potessero essere lì, era un altro paio di maniche.
    Ma non bisognava mai far sapere a potenziali nemici che non si aveva la più pallida idea di cosa cazzo stesse succedendo. Quindi mantenne saldo il sorriso e la presa sull'arma, facendo scivolare la canna di questa dall'uno all'altro. Ruotò il polso, il muscolo a dolere ed il sangue a scivolare lungo il fianco dal taglio all'avambraccio - non ci fece caso, Jamie. Neanche quando si raccolse sul bordo superiore dell'asciugamano legato in vita fece segno di prestarci attenzione. Abbassò il capo incrociando gli occhi verdi del ragazzino, un opaco senso di déjà-vu nell'appiccicoso ghigno incollato alla bocca. «tu sei -»

    «- uno di loro» completò asettica la Hamilton, senza mai distogliere lo sguardo dal ragazzino. Non c'era nota di dubbio nel tono piatto di Rea, non incertezza nella morsa ferrea delle dita attorno allo spillone - arma improvvisata: in una situazione di emergenza, tutto poteva essere usato come corpo contundente. Uno di loro. Corrugò le sopracciglia e deglutí cercando di trovare... Qualcosa, Rea. Se proprio non un senso, almeno un quarto di risposta sul perché la sua stanza paresse improvvisamente essere diventata un maledetto auditorium. Era accaduto senza che se ne rendesse conto, in un mezzo battito di cuore: prima c'era solo lei, la sua rabbia ed il suo odio a consumarla come un sassolino sulla spiaggia; e poi c'erano stati loro. Non c'era stato alcun preavviso, nessun rumore. Un cupo accumularsi di tensione non dissimile alle orecchie tappate in un viaggio ad alta velocità dentro le gallerie, nulla più - ma poteva anche non avere nulla a che fare con il fatto che le dannate pareti si fossero dilatate. Dilatate? Non era certa che fosse il termine adatto, ma era il primo che la sua mente fosse stata in grado di elaborare. Finestre, si corresse senza battere ciglio. Sono finestre. Li vedeva chiaramente, così com’era consapevole dell’ambiente che li circondava: vedeva le assi di legno della stanza nel quale si trovava il ragazzino, il marmo alle spalle del giovane con l’asciugamano bianco a coprirgli il ventre; poteva quasi sentirne il profumo, muffa e bagnoschiuma al pino. Sangue. Le davano la sensazione che se avesse allungato la mano, avrebbe potuto toccarli. Ma non farlo! Le gridò la sua mente, nella consapevolezza atavica che non dovesse toccarli. Indietreggiò istintivamente di un passo, gli occhi scuri a studiare i tratti taglienti di
    «christopher» le lunghe ciglia scure sfiorarono pesanti le guance, la confusione ed il dubbio a distorcere le labbra in un broncio. Uno di loro. «dovresti essere morto» una deduzione ovvia quanto poco credibile, perfino alle sue stesse orecchie: non aveva mai realmente creduto alle storie apparse sul Morsmordre, poco importava che fossero passati quasi cinque mesi da quando erano spariti. Lui non le rispose, limitandosi ad osservarla scettico a palpebre dischiuse. Rivolse allora lo sguardo sull’altro, e percorse pigramente il profilo scuro dell’arma stretta nel pugno. Si costrinse a sospirare, Rea Hamilton – poteva ancora avere un senso, quella situazione. Umettò le labbra ed aprì il palmo per rilasciare lo spillone, mostrandosi disarmata ed inoffensiva. «rea,» scandì lentamente, gonfiando il petto di un respiro antico. Le parve che la sua voce giungesse da molto distante, rimbombando opaca dalle costole ai denti. Perfino il cuore sembrava aver rallentato la propria andatura, vibrando letargico nel petto. Aprì la bocca e la richiuse, serrò le palpebre e chiuse i pugni lungo i fianchi. «rea hamilton.»

    Non aveva alcun senso. Doveva aver picchiato la testa più forte di quanto non gli fosse sembrato, perché quel che stava guardando, quel che stava sentendo, non era possibile. Aveva il timore che un minimo movimento potesse rompere l’incantesimo, CJ, quindi non si mosse di un millimetro: li osservò e basta, spingendo appena la lingua verso l’angolo delle labbra per raccogliere il sangue scivolato dal sopracciglio spaccato. Non conosceva Rea Hamilton, ma sapeva della sua esistenza.
    Semplicemente, non in quel mondo. In quel tempo. L’irrealtà della situazione l’aveva costretto ad un tale mutismo che non s’era neanche sprecato a correggerla quando l’aveva chiamato Christopher, pur vibrando nell’intimo di un ironico è charlie, ora. L’attenzione riservata unicamente alla donna nella cornice su una stanza che non conosceva, non vacillò neanche quando una risata, sembrava così vicina e concreta, giunse dall’altro interlocutore. Qualcosa in quella risata gli fece contorcere le budella e stringere maggiormente denti e pugni, le unghie già conficcate nei palmi. «jamie» e quindi? Nessuno gliel’aveva chiesto. «jamie hamilton» sia CJ che Rea si volsero nella sua direzione, incrociando il sorriso sbilenco e sfacciato del ragazzo. Si irrigidì per puro istinto, il Tassorosso, sforzandosi di ignorare come il cuore avesse cominciato a pompare nel petto invitandolo ad uscire maledettamente da quella stanza, da quella vita, da quel CJ. Si rese conto che lo stavano guardando quasi per caso; ricambiò la loro occhiata piegando la bocca verso il basso, sopracciglia arcuate ad enfatizzare i sottili occhi verdi. Beh? Credevano forse che si trattasse di un sito di incontri? Cos’era, poi, quella cazzo di moda di presentarsi a pezzi? «cj» rispose sbrigativo per levarsi dall’impiccio di quegli occhi, tentando un cauto ma azzardato passo laterale per avvicinarsi alle finestre: nessun calendario, nessun orologio. «cj e basta» fu un ringhio basso, il capo alzato repentino per sfidare uno qualsiasi dei due a continuare a guardarlo: non c’avevano cazzi loro da fare? Volevano forse una conferma della sua identità? Cristo Santo, era sparito insieme ad una trentina di persone, dubitava che i giornali non ne avessero parlato. Giusto? «che giorno è?» non sarebbe stato il primo a sbottonarsi, CJ: non li conosceva, il che li etichettava automaticamente come pericolo - e non voleva realmente credere che fossero lì, di chiunque si trattasse.
    Perché significava che
    Che qualcosa stava cambiando: non era certo di voler essere lì, quando fosse accaduto.
    «il venti aprile» attese, la vista offuscata. Il cuore batteva così forte da fargli a malapena udire il suo stesso respiro. «duemilacentodiciotto»

    «non è divertente» Jamie non aveva mai immaginato che il suo primo incontro con la sua prozia, sarebbe avvenuto così – anzi, a dire il vero, non credeva sarebbe mai avvenuto punto. Le sorrise cordiale, bello e piatto quanto un dipinto. L’Hamilton la ignorò, perché di lei sapeva: gli Eroi arrivavano tutti dallo stesso anno, il 2018; se l’apparenza e le maschere anti età non lo tradivano, la Rea Hamilton incorniciata dalla camera in pareti di finto legno, doveva avere meno di trent’anni. Anno più anno meno, era plausibile facesse parte della medesima epoca, e tanto bastava a Jamie per ritenersi soddisfatto.
    Era CJ-e-basta, ad incuriosirlo: perché non aveva risposto, non era trasalito. Lo osservava e basta, gli occhi acquamarina a pulsare di un già visto che spingeva i denti dell’Hamilton a scoprirsi in un sorriso del quale era solo vagamente consapevole. «da te?» domandò, zucchero e miele, nel tono basso dei sicari e degli amanti e dei Jamie; il tono figlio di quei discorsi a cui non credeva nessuno finchè non era troppo tardi per fare marcia indietro. Quelli che condividevano un segreto. Subito, CJ non rispose. Lo vide frugare all’interno della bettola nel quale si trovava sollevando nuvole di polvere, assi del pavimento prese a calci fino a rivelare un vano sottostante. Sentendo gli occhi di Rea su di sé, si limitò a stringersi nelle spalle, i pollici infilati fra i fianchi e l’asciugamano; la pistola l’aveva già riposta da un pezzo, ritenendola accessorio superfluo. CJ-e-basta riemerse tenendo una mitraglietta - una mitraglietta - fra le braccia. Anzichè puntare l’arma contro di loro, come Jamie aveva creduto più che plausibile, volse la canna verso l’esterno: «millenovecentodiciotto» e cominciò a far fuoco.

    Rea udì le detonazioni come se giungessero dalla camera affianco. Dovette sforzarsi più del dovuto per non portare le mani alle orecchie, ma non trattenne l’occhiata inviperita verso Christopher. L’iniziale sorpresa aveva da un pezzo lasciato alle proprie spalle la confusione, preferendo il più familiare terreno della rabbia. Il non sapere cosa stesse succedendo stava iniziando a mandarla fuori di testa, ed era a tanto così dal lasciare la camera, ed i suoi poco graditi ospiti, per un più piacevole bicchiere di vino in cucina. «cosa diavolo stai facendo?» latrò, inspirando dalle narici. Con la canna dell’arma incastrata nella cornice di quella che, in tempi migliori, era stata una finestra, CJ le rivolse un’occhiata da sopra la spalla: «scusa, principessa, se nel fottuto far west non funzionano i telefoni» e non le piacque affatto il tono d’ironica sufficienza quasi quanto non le piacque il riflesso di una quasi eguale ira negli occhi chiari. «chiamo gli altri» risposta che le giunse ovattata, dato che lui aveva già distolto bocca ed attenzione dalla sua direzione. Gli altri? «gli altri chi?» si sentì domandare, immobile al centro della propria camera da letto. CJ la guardò di nuovo, gli occhi chiari a saettare da lei all’altro Hamilton - l’altro Hamilton, quello che diceva di essere nel 2118. Una risata isterica scivolò dalla bocca dischiusa di Rea, le mani a stringersi incredule sulle guance. «affascinante» Puntò lo sguardo color cioccolato sul ragazzo ancora mezzo nudo, un imprecazione soffocata fra i denti. Lui le rispose con un sorriso caldo ed affettuoso, alzando un indice nella sua direzione per - per intimarle di tacere? Stava scherzando. Prese un cellulare - ma ne esistevano, di così sottili? - e digitò una serie di numeri, prima di premerselo sulla guancia glabra. «ehi, pà. indovina chi è passato a trovarci» strascicò pigro, lui, voltando poi il cellulare nella sua direzione. Nel dubbio, la Hamilton incenerì con un’occhiata anche l’apparecchio. «sì, sono a casa mia. A quanto pare c’è una falla nel tempo. Chiami te gli altri? bella lì. Sì, te la saluto. cià» chiuse la chiamata, le sorrise - bello e familiare. «ti saluta mio padre,» mh, okay? «tuo nipote»

    La situazione stava precipitando troppo in fretta. Volse una curiosa occhiata ai due Hamilton, ignorando il ghigno di lui e l’occhiata di lei per porre un quesito decisamente più rilevante: «quel cazzone di barry è con te?» doveva saperlo, CJ. Jamie si strinse nelle spalle, un cenno con il mento. « tu chi hai?» il Knowles sorrise sghembo, il peso poggiato sulla gamba sinistra e la mitraglietta adoperata per attirare l’attenzione dei Bodiotti usata come stampella improvvisata. Aveva tutto così poco senso che quasi rise, il buon Jebediah; dovette mordersi il labbro inferiore, la mano alzata di fronte a sé: era il momento dello scambio di figurine. Probabilmente se non si fosse trovato in un’epoca quasi contemporanea al Titanic ed al Grande Gatsby, non avrebbe preso così bene la faccenda del ritrovarsi di fronte due differenti linee temporali fantasma – duecento cazzo di anni avanti rispetto a lui. Ma tant’era. «shia» un’occhiata veloce a Rea. «jayson, aidan» si strinse nelle spalle ricevendo un sibilo di ammirazione da parte di Jamie, la lingua di lui a schioccare sonoramente sul palato. «shia! e io ho un alvaro. Che ingiustizia» sospirò e scosse il capo, il ragazzo del futuro con ancora indosso solo l’asciugamano. «aloysius?» «e io che ho detto?» Hamilton, cambiano il nome di battesimo di Aloysius Crane su ogni linea temporale. Ne seguì un lungo silenzio d’attesa interrotto solamente dal nervoso ticchettare dei tacchi di Rea sul pavimento, le braccia di lei conserte; talvolta si fermava e lanciava loro un’occhiata, trovando un CJ a guardare assorto l’esterno della casa, e Jamie con la schiena poggiata alle porte della doccia ed il telefono fra le mani. Nessuno di loro, a quanto pareva, si sentiva abbastanza coraggioso - o codardo, punti di vista – da lasciare il luogo d’incontro. Il Knowles abbandonò il sorriso, invaso ad ondate da una tristezza del quale non s’era accorto; una tristezza che, sinceramente, non sentiva fosse sua. Sollevò lo sguardo sentendosi osservato, ed a ricambiare la sua occhiata trovò le sottili iridi scure di Rea. «è vero? avete -» «viaggiato nel tempo» CJ non sorrideva più. Il sangue colato dal sopracciglio s’era ormai seccato sulla guancia tirando la pelle, l’adrenalina della corsa e dell’incontro iniziava a scemare facendo pulsare dolorosamente la spalla – ed i muscoli, e la milza, e CJ. Per liberarsi di quel senso d’oppressione al petto, si sporse fuori dalla finestra aprendo ancora il fuoco: qualcuno sarebbe arrivato. Qualcuno doveva arrivare. Voleva domandarle cosa fosse successo; cosa dicessero di loro. Ma non voleva saperlo, il Knowles, così si ritrovò a grattare le pellicine in prossimità delle unghie pensando a quanto Barrow Cazzone Cooper, il segui fregna per eccellenza, fosse stato fortunato ad avere le fottute macchine volanti piuttosto che un padre prete.
    Nessuno di loro sapeva quanto sarebbe durato quell’estato momento di stati, né se sarebbe durato. Se fosse vero, o se fosse un’allucinazione. O il perché fosse stato possibile. O il come.
    CJ non era neanche certo gli importasse di saperlo, a quel punto.
    «devo fare qualche chiamata.»
    or just some kind of mirror?


    Grazie oblivion per questi cinque anni insieme. ♥
     
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    Helianta Moonarie
    Aveva sempre creduto, forse sperato, che lo avrebbe sentito. Qualcosa le diceva che sarebbe stata la prima a saperlo, come se fosse una cosa che le appartenesse, come se in parte fosse legata a lei tutta quella situazione. Non voleva il merito di una scoperta del genere, aveva solo bisogno di sentirsi meno in colpa, aveva bisogno di sentire la mancanza di casa. Aveva bisogno di star male per star così bene tra quelle coperte, aveva bisogno di quella nostalgia che vedeva nei sorrisi tristi degli latri, quegli sguardi opachi di chi veniva investito da un ricordo che mai prima d'ora era stato lontano. Lo aveva visto con Will quella sera in piscina, lo aveva percepito con Kieran e Barrow quando si era fatta aiutare a nascondere le uova di Pasqua a casa di Will II, lo aveva notato parlando con Ashley, con Murphy... persino quando Shot e Al discutevano su quale fosse il modo migliore per perdere coscienza in un bar era facile capire cosa alimentasse le loro motivazioni.
    Erano fatti di ricordi, tutti loro, ma era più difficile andare avanti quando quelle cose che fino a poco tempo prima erano state al loro fianco si trovavano anni indietro, e lo aveva sentito, Heli, l'odio e la disperazione che aveva pervaso quelli lasciati a vivere il loro mondo, aveva ricevuto ogni singolo sguardo e ogni lacrima pianta davanti a quella che era diventata la loro tomba. Aveva sfiorato appenala superficie di quelle pareti di marmo, visitando più volte quel luogo e incontrandovici ogni volta un altro Prescelto. Era ovvio il legame che li conduceva spesso ad arrivare fin lì, in quella sorta di mausoleo.
    Tutti cercavano un indizio, una speranza, una crepa in quell'impenetrabile muro di mattoni che Jeanine aveva creato sparendo dopo aver pronunciato uno sconsolato e rammaricato "troverò un modo per riportarci indietro", che tutto aveva fornito loro meno che la fede di cui avevano bisogno. Scomparsa nel nulla, dio solo sapeva cosa era successo a quella donna che Helianta aveva pensato addirittura di ammirare, con quegli ideali che sperava avesse seguito, a differenza di tutti i falsi leader che aveva visto susseguirsi in questa o quella vita.
    Tutti cercavano quel qualcosa a cui aggrapparsi, quel dettaglio attorno al quale arrovellarsi, come un'ostrica con un granello di sabbia, per non lasciarsi andare, per non perdersi. Non c'era posto per loro in quel futuro... ma per Helianta non sembrava essere un problema.
    Non aveva mai riuscito a trovare il proprio posto nel mondo, in nessun mondo, e aveva continuato a cercarlo, tentando di imporsi pur dovendo adattarsi, che quel mondo non le doveva nulla nonostante tutto quello che le avesse rubato, e aveva perso troppo per poter additare un unico colpevole. Non riusciva a calzare in nessun ruolo: figlia, amica, amante, libraia. Era riuscita a fallire in tutto, con un piccolo aiuto da parte dell'universo, ovviamente.
    Doversi ritrovare ancora una volta come un pesce fuor d'acqua non le faceva nè caldo ne freddo, che quel pesce ormai aveva più polmoni che branchie. Capiva quello che stavano vivendo gli altri, comprendeva il dolore e l'impossibilità di rassegnarsi ad un destino talmente crudele. Eppure lei lo aveva fatto, si era rassegnata e si era rasserenata. Non doveva preoccuparsi di nulla nel 2118, dove i problemi li avevano risolti gli altri, dove non si era dovuta far carico volente o nolente delle sorti di una guerra che non aveva voluto, una guerra della quale non poteva importagliene di meno. Preferiva di gran lunga la pace, forse finta e pronta a nascondere i difetti di quella società, ma non era un suo problema.
    Non lo era mai stato, eppure ce l'avevano sempre coinvolta, anche quando (raramente) decideva di restarsene al suo posto, riusciva inevitabilmente a farsi trascinare in situazioni che non avevano nè capo nè coda, loop infiniti dove ogni soluzione comportava delle conseguenze che non erano mai pronti ad affrontare.
    Aveva gettato la spugna, sperando che per la prima ed ultima volta un "per sempre" potesse davvero durare per sempre, perchè non ne poteva più.
    Perchè, allora, credeva di dover essere lei a percepire quell'istante per prima? Perchè era una cronocineta? Perchè il tempo era la sua specialità?
    No, perchè in fondo credeva di poter ancora trovare un motivo per non buttarsi giù, perchè le sembrava di deludere tutti anche se per lei quella pareva la vittoria più vera e soddisfacente di sempre. Era bloccata tra ciò che voleva fare e ciò che ci si aspettava che facesse.
    Osservò ancora una volta il termometro ricevuto al suo arrivo, la lancetta che si inclinava ogni giorno di più in una posizione affatto incoraggiante, monitorando il sommesso dolore che ogni tanto le faceva mordere la lingua. Era uscita dalla doccia proprio quando l'acqua sul pavimento aveva assunto quelle sfumature rosate che il sangue le donava, facendola gemere appena e lasciandola spaventata da quella vista.
    Si diceva che non era nulla di serio, che sarebbe passato e che sarebbe andato tutto bene, si diceva che la causa era sconosciuta, sebbene avesse compreso a pieno il significato di quelle ferite quando anche Al lo aveva confessato, attorno al solito bicchiere che pareva legare Helianta a più persone di quante potesse immaginarne. Che drunk!Heli fosse una persona più facile da approcciare a apprezzare? Che la Moonarie di tutti giorni fosse troppo rigida e sempre sul piede di guerra per poter trovare le persone giuste a farle compagnia? Non fraintendetela, amava i suoi amici più di ogni altra cosa... il vero problema era quando si sentiva di troppo, come se quei sorrisi fossero una cortesia o una carità per la povera babbana che altrimenti sarebbe rimasta sola.
    E avevano fottutamente ragione, o qualcuno avrebbe bussato alla sua porta dopo tutto quel tempo passato in bagno. E qualcun altro si sarebbe fatto più domande riguardo alla sua morte, che se l'avessero conosciuta davvero non avrebbero preso quelle blande e confuse notizie per vere. E qualcuno l'avrebbe aspettata a casa mente qualcun altro dava la caccia ai babbani più razzisti seguendo una pista sbagliata e pericolosa, ma incapace di arrendersi.
    Non pianse, si disse con convinzione, lasciando che le ultime gocce cadenti dal soffione della doccia lavassero via il sale delle lacrime, o se lo aveva fatto era stata colpa della schiuma dei capelli e non del sangue ai suoi piedi.
    Era ancora un burrito di asciugamani quando vide lo schermo del nuovo iPhone82 illuminarsi squillando per quella che sembrava una videochiamata. Decise che tra lei e la Winston, che la stava contattando, c'era abbastanza confidenza per poter accettare un facetime(travel) appena uscita dalla doccia, certo non si aspettava che la bionda avesse talmente tanta confidenza da regalarle un primo piano delle sue tette «HELIANTA» la cronocineta osservò perplessa la strega, cercando di capire come e perché le fosse stata concessa la vista di cotanta abbondanza (ma dove). «Jamie ci è riuscito!» ci mise qualche secondo a realizzare che Jamie era il ragazzo che aveva accolto gli ultimi Prescelti arrivati ad armi spianate in pieno pubblico, facendoli sembrare dei terroristi. «cosa ha combinato?» non era esattamente la persona più simpatica del pianeta, sebbene non avesse avuto modo di conoscerlo, ma se quello che stava pensando era vero... be, in realtà non avrebbe influito affatto, era sicura che qualunque cosa fosse non potesse essere così importante. «una via di ritorno» finalmente la bionda sollevò il telefono guardandolo confusa (come tutti loro matusa abituati alla tecnologia del secolo passato) «ti mando l'indirizzo! Finalmente torniamo a casa» un ultimo sorriso della professoressa prima che la chiamata si interrompesse, mentre un messaggio della stessa riportava un indirizzo.
    Rimase seduta, il letto a inumidirsi e un'espressione apatica a riflettersi per sbaglio in uno degli specchi della toletta. Incontrò per caso il suo sguardo, osservando poi le curve disegnate dall'asciugamano sul suo corpo ancora bagnato.
    Niente.
    Non aveva sentito nulla, né un presentimento o la falsa illusione di aver captato dei presagi. Voleva essere la prima a venirlo a sapere, ma la verità era che non avrebbe mai voluto che succedesse. Fu quando si accorse di quanto era difficile pensare a casa che arrivarono i veri sensi di colpa, quegli stessi che la mossero a spostare lo sguardo sui vestiti puliti e a infilarseli di fretta.

    Aveva scoperto di essere già stata nei pressi di quel palazzo, passando più volte per un negozio di tè e erbe che aveva lo speciale aroma al quale non sapeva rinunciare alle cinque del pomeriggio. Teletrasportarsi dopo i dolori delle ferite non fu la sua idea migliore, ma doveva arrivare lì per prima, doveva essere pronta a consolare chiunque fosse arrivato col cuore colmo di speranze, pronta a dire che avrebbero trovato un altro modo, perché non poteva essere vero.
    Non ancora.

    Dall'erboristeria alla dimora dell'Hamilton non ci mise molto, eppure le sembrò di incespicare in ogni crepa del marciapiede, di annaspare ad ogni respiro, mentre il timore di vedere le macchine della polizia o altri prescelti aumentava. Già il fatto che fosse stato Jamie a trovarlo non le era andato bene, che anche se non sapeva cosa avrebbe fatto, non avrebbe lasciato che qualcuno le mettesse i bastoni tra le ruote. Avrebbe fatto una scelta e per farla non poteva avere nessuno attorno.
    Suonò una, due, quattro volte il campanello dell'apartamento, quando finalmente la porta si aprì rivelando una ragazzina sui diciassette anni. Sperò sinceramente che si trattasse di una cugina e che Jamie non fosse entrato in qualche strano giro, non tanto per il suo bene ma più perché non voleva averci nulla a che fare, lei, che non si sarebbe trovata a quella porta se il poliziotto non fosse stato l'unico punto di riferimento della situazione.
    «Hamilton!» la ragazza non si oppose quando la Moonarie si fece largo in casa, lasciandola a perlustrare l'appartamento fino al bagno dove il ragazzo osservava lo specchio. Non degnò nemmeno di uno sguardo né dall'asciugamano a coprirlo, nè la lastra di vetro appesa sopra il lavandino.
    «Dov'è?» chiese con decisione, con lo stesso tono con cui il padre di Jamie avrebbe chiesto ad un sospettato che fine avesse fatto il suo complice.
    Era animata da un sentimento sconosciuto e indefinibile, qualcosa che non aveva mai provato, non in quel modo e non in quelle circpstanze. L'Hamilton riservò lo stesso trattamento dall'asciugamano alla cronocineta, un angolo della bocca sollevato in un sorriso minuscolo e infinitamente provocatorio, facendo quasi scambiare il sentimento della Moonarie per furia omicida.
    Eventualmente, prima di tentare un approccio corpo a corpo col ragazzo, la cronocineta rivolse un'occhiata distratta allo specchio, curiosa di vedere cosa ci fosse di interessante ma convinta che fosse solo il nauseante narcisismo del ragazzoa renderlo così ostinato.
    Certo non si aspettava di scorgere un'altra stanza. Altre due, a dirla tutta.
    «io...» a bocca aperta continuò a osservare lo specchio, sempre più volti ad affollarsi in quelle due specie di finestre al di là del vetro.
    Nemmeno si rese conto di serrare il pugno attorno alla prima cosa a portata di mano, mentre ancora incredula scorreva con le pupille sugli occhi di quei spettatori.
    Era lì, prima di tutti a raggiungere la meta.
    Ancora non sapeva cosa avrebbe fatto, ma non c'era nulla di gioioso o sereno.
    Improvvisamente avrebe voluto trovarsi da tutt'altra parte, il più lontani possibile dal guardare la realtà in faccia.
    2118 - 00.00
    25 y.o.
    chronokinesis
    lonely soul
    Should I stay
    or should I go now ?


    Edited by Archer83 - 24/4/2018, 15:21
     
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    Il primo mese, era stato complesso; il secondo, aveva iniziato a comprendere come muoversi, seppur con i piccoli passi di un bambino che avesse appena imparato a camminare. Sull’orlo dei tre mesi da quando si era stanziata a casa di Leonard Hamilton, Maeve Regan Winston aveva oramai raggiunto una competenza degna dei miglior post adolescenti del ventunesimo secolo. Il bip del microonde non fu seguito da alcuna esplosione; nulla si mosse nell’immobile cucina dell’Hamilton dopo quel bip, eccetto la porticina del forno che, schiudendosi, la invitò ad aprirlo. Gli occhi le si inumidirono istintivamente di lacrime, colpevole più la gravidanza dell’emozione di aver finalmente imparato ad usare un forno a microonde. La gravidanza e l’assenza di Dakota e Leaf e Scott, coloro che quotidianamente avevano vissuto la guerra fredda fra la Winston e quel piccolo criminale rettangolare. Morse l’interno della guancia, un’occhiata istintiva verso il basso lungo la protuberanza, meglio detta tartaruga al contrario, oramai difficile da ignorare. La gravidanza. Un rivolo di sudore, come sempre, le bagnò la fronte – ed il battito accelerato, ed il fiato a mancare in ondate improvvise. Era l’unico motivo per il quale la Winston ancora non si fosse data la possibilità d’impazzire. Era incinta. Incinta, Santo Cielo. Portava in grembo qualcuno. Troppo giovane per aver mai realmente pensato ad una gravidanza, non riusciva a … comprendere come abituarsi potesse essere stato così semplice. Prima non c’era, e poi zaac non riusciva ad immaginare di svegliarsi senza dover vomitare, né poteva concepire l’idea di tornare a leggere qualunque libro senza soffermarsi più del dovuto su ciascun nome incontrato sulla pagina. Com’era possibile? Perché? Non avrebbe saputo dirlo; se un anno prima qualcuno le avesse detto che avrebbe digerito così bene l’idea di diventare madre, Maeve si sarebbe limitata a tacere arcuando le sopracciglia: che avesse l’istinto materno era indubbio, ma che fosse effettivamente pronta a portare due vite nel proprio utero, era tutto un altro discorso. Un giorno, si era sempre detta pigramente; se mai ci arriverò, più cinica e realista. Di certo non aveva mai valutato la possibilità di ritrovarsi in dolce attesa senza un padre (morto) una casa ed un lavoro (abbandonati cent’anni prima).
    O senza Dakota. Senza Jade.
    Sarebbe stato stupido, nonché una bugia, dire che fosse sola: oltre agli abitanti di quell’assurdo mondo, tutti più che felici di avere due mini Prescelti in arrivo, c’erano i suoi compagni. Doveva pur significare qualcosa, giusto?
    Sbagliato. A malapena li conosceva, Maeve Winston. Non l’aveva detto a nessuno. Era rimasta un mese in silente lutto, limitandosi a rispondere a monosillabi a chiunque avesse provato a rivolgerle la parola. Aveva perfino evitato Callie - le ricordava così tanto Jade - malgrado la … pro nipote? Non avesse fatto nulla per meritarsi un simile trattamento. A nessuno era parso troppo assurdo, il comportamento della bionda: avevano partecipato ad una missione organizzata da un Cappello Parlante, erano quasi morti, erano stati sbalzati in un universo alternativo per poi essere sbattuti, poco galantemente, cent’anni nel futuro; aveva scoperto di avere una sorella quando oramai era troppo tardi. Non aveva la sua famiglia, Maeve, e non aveva i suoi amici. Nessuno l’aveva biasimata per quel silenzio pesante ed artificioso. Febbraio aveva lasciato posto ad un soleggiato inizio Marzo quando Maeve, passando di fronte alla camera di Al, si era decisa a bussare. Non si era mai chiesta perché avesse scelto lui e non qualcun altro, dato che di reale scelta non si era mai trattata: avevano entrambi perso così tanto, e così tutto, che le era parso più che naturale socchiudere la porta e poggiarvi distrattamente una spalla. Aveva incrociato le braccia sul petto, inumidendosi appena le labbra. «sono incinta» aveva richiuso la porta, e se n’era andata. Dopo la prima annunciazione, era stato più semplice; forse l’aveva trovato più naturale proprio perché li conosceva poco, prescelti e discendenti, di conseguenza il loro possibile giudizio non la riguardava; d’altra parte, il fatto che fosse la sola a comprendere realmente cosa comportasse quella gravidanza, non faceva che alimentare e masticare la nostalgia di casa.
    «non puoi fumare qui» «perché?» «sono incinta»
    «ti va un bicchiere di champagne?» «passo, sono incinta»
    «vuoi un’altra razione di patatine?» «meglio di no, grazie, sono incinta»
    Più semplice del previsto. Nel giro di una settimana, tutti erano a conoscenza dello stato interessante di Maeve Regan Winston – e lì, la bionda, aveva chiuso la questione. Che importanza poteva avere chi fosse il padre? Era palese che non fosse il genere di ragazza che, appena arrivata in un nuovo mondo, concedesse le proprie grazie al primo che le fosse capitato a tiro; il «tanto è morto» deadpan con il quale aveva ribattuto a chiunque gliel’avesse chiesto, aveva evitato ulteriori interrogativi.
    Tornò nel salotto di Leonard Hamilton stringendo la ciotola di pop corn al petto; si lasciò cadere con poca grazia sul divano di fianco ad Al, un sospiro stanco più dalla vita che dalla mancanza di sonno. «quante ce ne mancano?» piegò la testa sul sedile, i chicchi di mais in fragile equilibrio sulle future Mabel ed Hemingway Winston. Le serie tv non erano mai state una passione della bionda, la quale, chiaramente, aveva sempre preferito un buon libro; film e compagnia cantante facevano parte di una cultura del quale era stata privata sin da giovane, e non aveva mai subito il fascino della tecnologia – principalmente perché davvero inetta. Quando Leonard aveva detto loro che beh, si erano persi cent’anni di serie tv, Maeve aveva davvero creduto che la questione si fosse conclusa con quel dato di fatto. Non aveva previsto le maratone di Brooklyn 99. Le prime puntate erano state una tortura, una costrizione che si era imposta per non offendere il padrone di casa; le prime due stagioni le aveva passate addormentandosi o colpendo con sentite gomitate il coinquilino Crane perché fosse lui a chiedere a Leonard di spegnere: come già detto, Maeve non voleva offenderlo, ma non le dispiaceva se ad offenderlo fosse Al. Insomma, erano amiki, no? Come diceva il proverbio, gli amici della mia prozia sono amici miei, giusto? Beh, comunque. Dalla terza stagione in poi, era accaduto l’impensabile: non solo la Winston si era appassionata alle vicende del distretto, ma aveva cominciato a ridere di quell’umorismo che, inizialmente, aveva reputato demenziale. Come aveva potuto crederlo? Era geniale, era brillante, ED ERA BELLISSIMO. L’Hamilton fece per risponderle, ma proprio in quel momento squillò il suo telefono.

    «porca troia.» stringeva ancora fra i denti una sigaretta, William Yolo Barrow, le mani affondate nelle tasche dei jeans ed i piedi ben piantati sull’uscio del bagno di Johnny Bravo. Come fosse riuscito ad impedirsi di lasciar cadere al suolo la Marlboro, era imputabile solamente alla forza dell’abitudine – e dell’amore, certamente. Arricciò le labbra attorno al cilindro di tabacco, le palpebre socchiuse a cercar di dare un senso a quello spettacolo, quindi aspirò una boccata di fumo tale da incenerirgli i polmoni. Un giorno, Dio Santo, quel mondo avrebbe smesso di prendere per il culo quel disgraziato d’un Barrow – evidentemente, quel giorno non sarebbe stato il venti aprile duemilacentodiciotto. Passò la lingua sul labbro superiore, i piedi a trascinarlo all’interno della stanza. «puttana merda.» enfatizzò ancora con l’usuale finezza tutta Will, quando si fu infine ritrovato spalla a spalla con Helianta. Staccò gli occhi dallo specchio solamente per lanciare una pigra, intenzionale, occhiata a Johnny Bravo. «ma che cazzo,» strascicò, il sorriso a trainarsi lento come caramello un angolo della bocca verso l’alto. «hai davvero una vasca enorme» ebbene sì, il turpiloquio di William era rivolto alle imponenti dimensioni del bagno dell’Hamilton: evidentemente nel futuro non c’era la crisi. «è tutto vero?» non si stava rivolgendo solo alla vasca semi olimpionica vicina all’entrata, non era così superficiale; allungò pigro un indice verso gli addominali di Johnny Bravo, lasciandosi sfuggire un fischio a denti stretti quando si rese conto che sì, uau, era tutto vero.
    «eh già» eh già. Affascinante.
    «lo sai che c’è della gente nel tuo specchio?»
    «così pare» eh già, così pareva.
    Stringendo la sigaretta fra pollice ed indice, il fumo a scivolare denso e granuloso sulla lingua, William Barrow si accorse di tre cose: uno, riconosceva le persone affacciate alla… finestra; due, era stato effettivamente mandato lì da qualcuno, anche se al momento non ricordava chi, il che implicava che ci fosse qualcosa che meritasse di essere visto. Tre: «non è una sigaretta» eh già, quella che stringeva fra le mani non era decisamente una sigaretta. Arrotolò la lingua sui denti annuendo fra sé, le mani a massaggiarsi gli arrossati occhi azzurri. Neanche quella prima, si disse, doveva essere una sigaretta; e, probabilmente, quella di qualche ora antecedente l’incontro non era mai stata una caramella, così come quello che aveva ingurgitato da quando aveva aperto gli occhi quella mattina, non era stata acqua: magiko. «è importante?» biascicò, più stanco che fatto. William Yolo Barrow ne aveva pieni i coglioni, di quell’esistenza. Si era distratto un attimo - un attimo- e: il Cappello aveva rappato un creperete tutti e male in rima, Will aveva chillin’ - killin’ per Beauxbatons insieme ai suoi homies, aveva scoperto che i cinesi erano davvero dei ninja, e che i suoi lombi avevano dato forma ad una squadra di calcio proveniente dal 20sticazzi i quali, al momento (relativo) attuale, conoscevano più nomi di droghe che di luogo; per concludere in bellezza, si era ritrovato sul set di Ritorno al Futuro. Alla veneranda età di centoventiquattro anni, il Barrow aveva ormai raggiunto l’apice della saggezza spirituale che l’aveva spinto a considerare la settimana come formata da sei giorni - di un giorno alla settimana, aveva deciso, non aveva bisogno. Sceglieva un giorno a caso fra i sette canonici e lo dedicava alla sua (seconda) attività preferita, ossia sfarsi come il lenzuolo di un bordello. Quello, era uno di quei giorni.
    «punti di vista» l’Hamilton fece spallucce. Will cercò supporto negli occhi della Moonarie, ma vi trovò solo un velo di confusa apatia: magistrale. Sospirò, un «buon dio» sganasciato male fra i denti, quindi prese l’oggetto cilindrico immerso nella tasca dei pantaloni. Solo per le emergenze, recitava la ben visibile etichetta rossa: senza troppi complimenti, si piantò l’ago nella coscia. Quando riaprì gli occhi imprecando ancora un poco al Signore, il mondo aveva nuovamente i suoi angoli ed i suoi colori, e William Yolo Barrow era di nuovo stabile sui propri piedi.
    Se non l’avesse creduto impossibile, avrebbe detto che la dose di sveglia, figlio di puttana non aveva funzionato, perché - «siamo fottutamente seri?»
    Sì, erano tutti molto fottutamente seri. Sostituì la canna con una sigaretta, lucidi occhi azzurri a scivolare sui volti conosciuti al di là della linea; non si diede modo d’essere Will, preferendo attivare la modalità Barrow – quella che l’aveva reso leader della Resistenza. Prima il lavoro, «il tre dicembre siamo stati reclutati per una missione; ci siamo divisi – noi eravamo in francia, a Beauxbatons. Jeanine lafayette non è morta; nascondeva una Giratempo, il… Nos, ed ora siamo a cent’anni dal 2017» poi il piacere. Ed allora li mise a fuoco sul serio, lasciando che gli occhi si soffermassero più di quanto il suo cuore potesse sostenere sul pubblico davanti a sé: «cristo santo» deglutì, un sorriso leggero ed a metà a curvare la bocca. «mi siete mancati, stronzi.»

    «sono incinta» alzò le mani in segno di resa avanzando ad occhi serrati all’interno del bagno di Jamie Hamilton. Non voleva vedere le loro reazioni, Maeve, quindi diede loro modo di sorprendersi mentre non li guardava. Inspirò dalle narici ed espirò pesante, azzardando infine un altro passo nella stanza che, lentamente, andava riempiendosi. «scott? Come state AVETE MANGIATO dio mio vi prego perdonateci non volevamo abbandonarvi, io…dakota… dakota è con voi?» sollevò lo sguardo cercando quelli che avevano detto di essere nel 1918. Quanto aveva sognato quel momento? Quanto aveva pregato per quell’opportunità? Di poterli rivedere, anche solo per poco.
    Ed ora, Maeve Regan Winston, non aveva la più pallida idea di cosa dire. Sentiva il bisogno di capire come quello, qualunque cosa fosse, fosse stato possibile, ma al contempo non voleva perdere tempo così. Non poteva. Fra tutte le cose intelligenti e sentite che avrebbe potuto dire, infine optò per «stai per diventare zia!!&&» con tanto di finger gun a Jade. C’era un modo facile per dire alla propria migliore amica che, dopo averla conosciuta in un au ed averle ammesso fossero sorelle, aveva conosciuto la pro nipote che gliel’aveva confermato?
    Dubitava.

    «KEN MA 6 TU??» Corrugò le sopracciglia. «ken, ma quanti siete» trì ken is megl che uan. Ed a proposito di tre: dato che Niamh e Mitchell non erano ancora apparsi, il che limitava alquanto i saluti strappa lacrime del buon Barrow, Will ebbe tempo per dedicare la sua completa attenzione a Cocaine Girl e De Tortellino. «quindi…» mh, come dire. Doveva mimarlo? Strategia?
    STRATEGIA!
    jay (26)-> joey + sandy
    darden (3)-> gwen + julian
    julian (4)-> julian + sersha
    gemes(6)-> bj + joey
    sandy (14)-> sandy + shia
    cj(7)-> cj + sersha
    run(17)-> shia + cj
    bj (1) -> bj + gwen
    Chiuse la mano sinistra a pugno, e vi picchiettò la destra sopra; quando riaprì le mani, anziché l’arcobaleno swag, sollevò nove dita. «davvero?» stranamente aveva creduto al Cooper, forse perché davvero poco poteva ormai render scettico William, ma –
    Dai, una conferma non faceva mai male.


    20/04/2118 | 23:30
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    «Ma sola...sola sola??» Sua sorella sbuffò esasperata, costretta a rispondere a quella domanda che, da una settimana a quella parte, la minore di casa continuava a ripeterle all'infinito nei momenti più diversi: mentre si mettevano a tavola a mangiare, durante gli spot pubblicitari di Beautiful, o anche solo appena usciva dal bagno dopo essersi fatta la doccia. E persino Callie era consapevole di esser troppo petulante, persino per i suoi standard, ma non riusciva a farne a meno.
    «No, Callie, non sarò sola sola. Devi smetterla di far finta che Quentin non esista» Meh
    Non che il fidanzato di sua sorella non le piacesse, sia chiaro. Ma andare a vivere insieme?? Le sembrava una mossa fin troppo esagerata.
    Quando Cassie aveva fatto il grande annuncio, durante il pranzo domenicale a casa di nonna Rude due settimane prima, Callie aveva finto di non sentirla. Non aveva reagito, quando tutti gli altri avevano iniziato ad abbracciarla e farle le congratulazioni. Poi la sera stessa era entrata in camera sua e le aveva fatto la domanda con cui avrebbe continuato ad assillarla per le settimane successive, senza sosta.
    Non riusciva a capacitarsene, non riusciva ad accettarlo: erano le sorelle Colors, loro, non potevano mica esser separate. La più piccola di casa Beech non era abituata ad una vita in cui Cassiopea Pink non vivesse sotto lo stesso tetto di Coronide Green e Calliope Blue. Che poi, sarebbero mai riuscite a sopravvivere senza di lei? Chi avrebbe preparato colazione, pranzo e cena? Cory era sempre troppo impegnata a sperimentale quale complesso teorema della fisica quantistica di cui le sorelle non erano in grado di decifrare nemmeno mezza riga, Callie rischiava di dar fuoco a casa anche solo mettendo un piede in cucina. Chi avrebbe finalmente buttato il flacone vuoto di shampoo, dopo che per pigrizia tutte a casa si limitavano a riempirlo d’acqua nella speranza di ricavarne qualche residuo? Era assurdo pensare di vivere senza Cassie in casa. E Callie non riusciva a rendersi conto di come sua sorella e sua mamma, al contrario, sembrassero aver accolto la notizia come se non fosse nulla di speciale. Pronto, erano consapevoli del fatto che senza Pink sarebbero andate in giro come barbone perché nessuno, a parte lei, sapeva come azionare quella macchina infernale meglio nota come lavatrice di ultima generazione?? Erano forse impazzite e Callie era l’unica sana di mente rimasta in casa - cosa alquanto improbabile - oppure Cassie aveva annebbiato la loro mente con qualche pozione strana? Del resto era sempre stata la più furba tra le tre sorelle, l’unica sempre in grado di ottenere ciò che desiderava.
    «Non..non credo tu sia pronta» Odiava mentire, Blue, ma in situazioni come quella ne sentiva il bisogno, perché era persino più semplice che confessare la realtà: era lei, a non esser pronta. Ma come poteva dirlo ad alta voce? Non voleva farglielo pesare, e nonostante non volesse che la sorella si trasferisse, allo stesso tempo non voleva esser lei la causa che la costringesse a rimanere. «Calliope Blue Beech Jackson, IO? Sarei IO a non...- grazie a dio furono interrotte dalla sigla di un cartone vintage che Callie amava, le Mermaid Melody, e Cassie smise di parlare perché sapeva che quella era la suoneria che la sorella aveva impostato per le chiamate dal lavoro: ogni volta che dal suo IPhone 50 iniziava a sentirsi "CIAO SONO LUCIA E SONO UNA SIRENA" allora significava che Callie aveva qualche criminale da dover colpire con i suoi raggi di luce arcobaleno. «Pronto? EH, i muri nel bagno di Jamie parlano?? Ma ha cambiato spacciatore recentemente??? Lo vedevo un po' pallido» Magari aveva trovato qualcuno che metteva la salvia al posto dell'erba, o la farina invece che la cocaina. Anche se non capiva perché chiamarla per così poco: la sirena serviva solo in occasioni più gravi. «Un..che?» Non capiva una cippa di cosa le stesse dicendo Leonard in quel momento, ma non era certo una novità. Poi però l'Hamilton, chiaramente esasperato, le urlò un «I TUOI BISNONNI GIOVANI» e allora Callie esclamò un «AAAAHHH, potevi dirlo subito!» anche se, in realtà, continuava a non aver capito cosa fosse successo. Ma, anche in questo caso, fingere era meglio che ammettere la verità.

    «Ma sicuri non sia solo una fantasia di Jamie?» Lei ne faceva tanti, di sogni ad occhi aperti, ed aveva più amici immaginari di quanto fosse normale averne persino per una bambina di quattro anni, eppure non è che creava un trambusto così grande ogni volta che vedeva un unicorno in camera o un arcobaleno nel salotto. «Se ha scombussolato zia Mae per niente giuro che..» lasciò quella frase in sospeso perché, in realtà, non avrebbe saputo cosa giurare. Che poteva fare lei a Jamie? Era già tanto riuscire a guardarlo negli occhi senza che le venisse da piangere, per quanto le incuteva timore. Ma la sua propro(pro?)zia di certo non poteva far sforzi per nulla, viste le condizioni in cui si trovava: era strano per Callie pensare che avrebbe avuto due pro(pro?)zie di gran lunga più piccole di lei, anche perché era sempre stata abituata ad esser la più piccola della famiglia.
    Quando entrò nel bagno però, al seguito degli altri, capì di essersi sbagliata: c'erano davvero delle persone nel muro. Magiko!
    Si guardò un po' intorno, osservando tutti quei volti sconosciuti finché non le sembrò di ritrovarsi davanti ad uno specchio vero e proprio. Anzi no, non uno specchio normale: era come guardare una versione di sé più adulta, più matura. E non ebbe dubbi, Callie, spostando lo sguardo da quella ragazza all'uomo al suo fianco con un neonato stretto al petto. Si avvicinò titubante, non sapendo bene cosa dire: sarebbe stato bello per loro vederla? Avrebbero notato in lei almeno una qualche somiglianza? E vabbè, non era certo una cosa da tutti i giorni ritrovarsi davanti i propri bisnonni in collegamento in diretta da cent'anni prima: tanto valeva buttarsi, anche con il rischio di traumatizzarli a vita.
    «CIAAAAAO IO SONO CALLIE» Oddio, aveva parlato troppo forte? L'emozione giocava brutti scherzi «Sono la nipote di vostra figlia!!» Poi però, da vicino, notò che il bisnonno Euge aveva un bimbo al petto, maschio. «Mannaggia, nonna non è ancora nata! Mi sarebbe piaciuto vederla da bambina, però vabbè CIAO ZIO URAN » Ops,aveva parlato troppo?
    Cercò la conferma di non aver appena causato un disastro spazio temporale lanciando un'occhiata a Maeve, per poi riportare lo sguardo sui volti chiaramente perplessi dei nonni: li aveva forse appena traumatizzati a vita?
    Certamente non doveva esser semplice per loro venire a sapere da una perfetta sconosciuta che avrebbero avuto un altro figlio.
    Ancora meno quando quella sconosciuta altri non era che la loro pronipote.
    E sicuramente il fatto che si trattasse di una Calliope Blue non faceva altro che aggravare la situazione.


    Potete tranquillamente saltare questo post, è tremendo non leggetelo CIAO :vwat:
     
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    «quante ce ne mancano?» Leonard Hamilton alzò gli occhi dal telefono, lasciando in sospeso la lettura della prima pagina de “La Gazette de Paris” per volgere uno sguardo assonnato ai suoi ospiti. Dopo quattro anni passati a vivere in solitaria - una benedizione per cui vent’anni prima avrebbe volentieri firmato col sangue, ma che a quel punto somigliava più ad una condanna -, il quarantaduenne non era più avvezzo ad avere qualcuno in pianta stabile in casa propria. Se, ovviamente, non si tengono da conto tutte coloro che dal fascino della divisa si lasciavano abbindolare fin troppo facilmente, e che già al primo bicchiere mandato giù in compagnia dell’ufficiale parigino non erano, né volevano essere, in grado di rifiutare una notte nella sua villa – ed erano tante. Troppe, a dir dei colleghi cui l’Hamilton mai prestava ascolto, che spesso e volentieri lo incontravano nei loro giri di pattuglia notturni a portare questa o quella sgualdrina, o donna di classe e sposata che fosse, tra le suntuose pieghe delle sue coperte di seta; per lo special, tuttavia, non sarebbero mai state abbastanza da tenerne il conto: per quanto lo riguardava, negli ultimi nove anni avrebbe potuto far godere cinque donne come tutta la popolazione femminile della capitale francese, eppure non gliene sarebbe mai fottuto così tanto da dover spuntare i nomi dalla lista. Potevano essere le più squallide persone ad abitare la faccia della terra, o le più genuine e fantastiche di tutto il maledetto universo: per Leonard sarebbero sempre rimaste belle gambe prive di nome, facce sconosciute che sapevano, dal momento che lasciavano cadere il perizoma sul parquet della camera da letto, che non avrebbero mai avuto una faccia. Per tutte quante quelle notti potevano essere la realizzazione di una vita intera – e privo di modestia alcuna l’uomo ben sapeva che, più che ipotetico, quello era un fatto reale -, un ricordo cristallizzato da conservare per quelle volte in cui tra le mani trattavano l’amore di un altro individuo; per lui, nient’altro erano se non l’appagamento di una serata come ogni altra, destinata all’anonimato nel momento del sobrio risveglio la mattina successiva. E nessuna – che Morgan possa averle in gloria per questo – aveva mai avuto la presunzione di farsi ritrovare assopita quando la sbronza lasciava il palco alla sveglia di un nuovo giorno.
    L’ultima compagnia che avrebbe sempre voluto tenere per sé, quella di suo figlio, aveva cessato d’esistere nel momento in cui uno Jamie anagraficamente definibile adulto aveva deciso di fare pacchi e bagagli ed andare a vivere per conto suo. Non avrebbe mai biasimato il suo ragazzo per quella scelta – per molte altre, per tutte le altre, lo faceva ogni qualvolta si presentava l’occasione di farlo. Lui per primo era sempre stato uno strenuo sostenitore dell’indipendenza non appena giunta la maturità, e molti anni addietro aveva preso la stessa decisione di Jameson: era felice per lui, com’era normale che fosse, ma era comunque suo padre. Era comunque l’unica famiglia che gli restava: non avere più nessuno da buttare giù dal letto ad urla, nessuno da aspettare fino a notte fonda seduto sulla poltrona davanti al camino e da rimproverare perché, porca troia, aveva dei fottuti orari da rispettare, era triste. Non avere più nessuno con cui condividere la colazione, nessuno da infastidire con inopportuni commenti da genitore single, nessuno da convincere o costringere a sedere sul sofà con lui per guardare un qualche scadente film di un secolo prima, era ancora più angosciante.
    Ma ci si era abituato - doveva.
    E soprattutto, si era assuefatto all’idea che non ci fosse più nessuno che gli rompesse le palle mentre leggeva il fottuto giornale.
    Nessuno lo aveva costretto, tre mesi prima, durante quella maledetta celebrazione, quando erano apparsi dal nulla nuovi Eroi sul palco della commemorazione, ad offrire il proprio tetto come rifugio per sfollati senza fissa dimora. Alcuni erano persino amici di famiglia - quante volte aveva sentito il nonno e la prozia parlare e lamentarsi di tutta la gente che quel fatidico tre dicembre era scomparsa nel nulla? Troppe. Oltre che apparire scortese, oltremodo oltraggioso ed inopportuno non proporre la propria casa come albergo, all’Hamilton non faceva né caldo né freddo se qualcuno andava a stare da lui per un tempo indeterminato – ovverosia, fino a quando non si sarebbero trovati un lavoro e stabiliti per conto loro (che di farli tornare a casa propria, sinceramente, la vedeva difficile).
    Di certo, quel sette gennaio, Leonard non sapeva che Maeve fosse incinta e che Aloysius fosse un Crane - razza terribile , era solita dire la zia Rea, sebbene con un vago retrogusto di malinconia a dare alla voce un suono più dolce, tienitene alla larga il più possibile, se puoi: ti porteranno o all’esaurimento nervoso, o alla morte; è quello che succede quando dei Crane incontrano degli Hamilton. Quasi più profetica, in quel tono mistico, dello zio Elijah.
    Comunque. I primi tempi si era pentito amaramente di quel suo atto di misericordia e generosità, tentando persino il baratto con suo figlio e suoi amici che davano asilo ad altri immigrati; aveva persino (minacciato) tentato di persuadere gli Eat a prenderseli, ma a quei bastardi piaceva essere costantemente un dito ricoperto di sabbia su per il colon. Con il passare delle settimane, dei mesi, era diventato tutto molto più… nella norma. Era persino piacevole trovare la luce accesa quando rincasava dal lavoro.
    Però, ancora doveva farci davvero l’abitudine.
    Erano troppo vecchi: avevano usanze e costumi arretrati, modi incomprensibili, facevano cose (non quelle cose, laidi – che lui sapesse, certo!, ma insomma: la Winston era pur sempre incinta) che un semplice capo della polizia non era tenuto a sapere del passato. E dire che, tra tutti loro, era il più adulto.
    Ci provava, davvero; per questo non ritenne opportuno ignorare la domanda della bionda, o la loro esistenza in generale per chiudersi nelle sue stanze, nonostante l’avesse interrotto. Dopotutto, era lui ad aver insistito per far loro una cultura – per tenerli impegnati, sapete.
    Posò gli occhi nocciola sul largo schermo, facendo cadere la propria attenzione sulle informazioni nell’angolo. Quella, era soltanto la quinta stagione. Sospirò affranto, chiuse gli occhi: stava per rispondere alla strega che, senza dormire e senza interruzioni, sarebbero stati in pari con la programmazione attuale in un mese, quando il telefono iniziò a squillargli tra le mani, il nome di suo figlio a richiedere una videochiamata. «jamie» salutò pigro l’orecchio del figlio, trattenendo a malapena uno sbadiglio: senza alcool in corpo, le undici e mezza erano per l’Hamilton il momento in cui s’apprestava ad andare in coma. Non quello in cui si dava al binge watching, né quello in cui suo figlio gli presentava la sua prozia, incredibilmente troppo giovane per essere reale. «che mi prenda un colpo» esclamò, spingendosi in avanti sulla poltrona per scrutare il viso di «zia rea? è il tuo bagno, ragazzo?» «sì, sono a casa mia. A quanto pare c’è una falla nel tempo. Chiami te gli altri? bella lì. Sì, te la saluto. cià» incurvò gli angoli della bocca verso il basso, piegando appena la testa mentre s’alzava e chiudeva la chiamata – beh, sì: perfettamente normale.
    «preparatevi, tra cinquanta secondi esatti si va a fare un giro del quartiere sulla volante» spostò gli occhi sui due ancora immobili, le sopracciglia arcuate a rendere espressivo ed allusivo un volto altrimenti impassibile. «yay, non siete felici? su, muovetevi» «aspetta, hai detto rea sospirò ancora, avviandosi già verso la sua camera. «già. Ed ho detto anche di muovervi, perciò non capisco perché voi due siate ancora lì seduti a cazzeggiare»
    Millenials.
    Vestendosi, compose un altro numero. «vestiti, ragazzina: tra tre minuti sono sotto casa tua, turno straordinario»
    «… eh?»
    Inspirò ed espirò, fermandosi ad occhi chiusi per non urlare al telefono alla sua tirocinante prediletta. «dobbiamo fare un giro, c’è una falla nel tempo a casa di Jamie e ci sono un po’ di persone a spasso nel tempo»
    «Pronto? EH, i muri nel bagno di Jamie parlano?? Ma ha cambiato spacciatore recentemente??? Lo vedevo un po' pallido»
    Santo cielo. «c’è una falla nel tempo a casa di Jamie e ci sono un po’ di persone a spasso nel tempo» ripeté, già spazientito dal ritardo sulla tabella di marcia.
    «un… che?»
    «I TUOI BISNONNI GIOVANI»

    Come da programma, cinque minuti dopo erano già in macchina diretti alla casa del figlio dell’Hamilton, sirene spiegate ad annunciare l’evento per coloro i quali fossero interessati. Da quel che aveva visto, ben pochi: la maggior parte della gente o ignorava l’annuncio, stanca di quell’ennesima stronzata nel giro di troppo poco tempo, o, per il medesimo motivo, insultava l’autorità locale dalle proprie finestre. Non che a Leonard sembrasse importare più di tanto, in realtà. Si era svociato ben poco, più che altro aveva biascicato le informazioni base, e l’aveva fatto soltanto nei pressi di poche abitazioni – quelle dove sapevano essere stanziati gli altri che avevano partecipato alla missione di dicembre.
    Aloysius Angus Crane, semplicemente troppo vecchio per tutta quella merda, gettò uno sguardo preoccupato ai bagliori intermittenti che provenivano da sopra la volante prima di sporgersi nello spazio tra i due sedili anteriori. «sei certo che sia…» si inumidì le labbra, inarcò un sopracciglio: come dire. «sicuro, tenere la ragazza lì sopra?»
    Dopo anni, ancora si rifiutava di capire molte cose del mondo magico della sua epoca: ne era parte integrante, certo, ma ciò non significava che il fu Marcus Quinn dovesse necessariamente comprendere che cosa gli succedesse attorno ogni fottuto giorno. Lo accettava e basta, con sentiti sbuffi di rassegnazione e vaghe occhiate lasciate in sospeso: c’era quella parte di lui che continuava ad impegnarsi, a cercare di capirci qualcosa senza lasciarsi scivolare costantemente tutto quanto addosso, ma non era semplice e non portava a nulla. Soprattutto quando, di punto in bianco, si ritrovava a guardare tutto quello che aveva imparato in quella vita contorcersi su se stesso, rivoltandosi e cambiando completamente secondo canoni che non stavano né in cielo né in terra, facendo tabula rasa più in fretta di quanto le fosse consentito.
    Continuava a smacchiarsi d’ogni colpa e delitto, di ogni merito e sorriso; un colpo di spugna, uno strappo al centro del quadro che lacerava il frutto di un lavoro doloroso e duraturo. Tornava ad essere bianca, quella tela, intonsa e splendente nel suo essere completamente nuova, pulita da tutto ciò che aveva osato sporcarla in precedenza; ed ogni volta, ogni fottuta volta, riproponeva la stessa tavolozza, gli stessi sgargianti colori a mescolarsi – solo che non sapeva. Non lo capiva, che tutte le volte che si ripuliva, che si ripresentava nella sua forma originaria solo per farsi un po’ più piena e un po’ più bella, all’occhio dell’artista dava fastidio; non lo poteva comprendere, che a lungo andare al pittore s’offuscava la vista, e che dell’arcobaleno a sua disposizione non riconosceva più la luce. Era solo una scala di grigio.
    E a quale artista poteva andare a genio di dipingere un quadro che non avrebbe potuto vedere egli stesso?
    Al, in tutta sincerità, si era rotto il cazzo di quella giostra lenta e infinita.
    Figurarsi se la vita nel futuro potesse andargli a genio, o se avesse voglia di capirla davvero. Ci si adattava e basta, perché semplicemente non aveva altro che potesse fare.
    «assolutamente» tutto ciò, ad ogni modo, non gli impediva di preoccuparsi di una ragazzina legata sul tetto di una volante della polizia per fare la sirena. Che cazzo avevano, nel ventiduesimo secolo? «non l’avrei fatta salire se non fosse sicuro» commentò aspro l’Hamilton, ma Al aveva i suoi dubbi.
    E faceva bene, ma questo non lo avrebbe mai scoperto. «quindi… c’è una falla nel bagno di tuo figlio» «mh mh» «e che nello specchio c’era rea e… altri» inutile dire che sentire dell’amica in contatto interdimensionale tramite un cesso, l’aveva vagamente riscosso dal suo solito torpore esistenziale e pessimistico – che, solitamente, si risparmiava solo se in compagnia di Maeve o di Murphy. La prima aveva una gravidanza da portare avanti, e lui non aveva assolutamente intenzione di renderla più difficile: anzi, voleva prendersene cura. A prescindere, sapete: non gli interessava se lei lo detestava, con tutte le buone ragioni che aveva per farlo; non gli interessava non essere nessuno, per la ragazza. Si era affezionato troppo, e già se ne pentiva amaramente. Non andava mai a finire bene.
    La Skywalker, invece, era la sua famiglia: voleva starle vicino nei migliore dei modi (ossia, lasciando che fosse lei a deprimersi); era una sua responsabilità, e voleva che fosse felice nonostante tutto quanto.
    Glielo doveva. Lo doveva a lei, e lo doveva a suo padre.
    «sì.» rispose impassibile l’ufficiale, senza nemmeno preoccuparsi di provare emozioni per tutto quello che stava accadendo. «ma… come è poss
    «senti.» il Crane temette un’inchiodata da parte dell’uomo quando la macchina si fermò e questo si sporse all’indietro, osservandolo torvo e stanco, e subito si premurò di tendere un braccio davanti alla Winston per evitare che andasse a sbattere contro il sedile davanti – lei, e il pancione. Invece, erano solo arrivati a destinazione con un parcheggio mediamente tranquillo (e Callie già trotterellava scintillante nel vialetto). «sono un investigatore, non un fottuto scienziato» aprì la porta, senza distogliere lo sguardo dagli occhi verdi del lumocineta. «ne so esattamente quanto te ed ho sonno, quindi smetti di fare domande e muoviti.»
    Ah!, i cari vecchi Hamilton.

    Non tradiva alcuna emozione, Chariton Deadman – non l’aveva mai fatto, ed era una sua deformazione professionale quella di continuare per la via che aveva sempre percorso. Non un singolo sussulto, nessuna espressione sul volto olivastro a lasciare intendere più di quanto egli volesse far vedere; non un fiato, non un anelito di fiato a parre tremulo nella concitata confusione della sala da bagno di Jameson Hamilton.
    Eppure, mentre s’avvicinava alla piccola folla adunata attorno alla superficie riflettente, aveva temuto di non mantenere la solita facciata di annoiata e disinvolta indifferenza – un fremito a socchiudere appena le labbra altrimenti serrate, una stretta troppo salda delle dita a stringere la spalla di Kieran, un qualcosa soltanto. Perché non aveva mai pensato, o anche solo ipotizzato, che sentire la voce di Lydia cercarlo tra tutti potesse fargli quell’effetto; perché non aveva creduto possibile che vedere le iridi verdi di Run ed il volto abbronzato di Arci, che udire gli insulti pungenti e nostalgici di Jade, che sopportare la vista di un Sin senza coppola, potesse fare quell’effetto.
    Deglutì, forzò un sorriso nell’incontrare i volti dei suoi amici – e più gli angoli della bocca s’alzavano, meno sentiva il bisogno di forzarli. Rimase semplicemente lì, in silenzio e senza avere alcunché da dire loro: non era il tipo, lui.
    Avrebbe voluto esserlo, per una volta; avrebbe voluto che fosse semplice come lo era per tutti gli altri, dire qualcosa. Che non dovesse limitarsi ad un’alzata di sopracciglia verso la migliore amica nel Far West, un sottinteso “riesci ad essere sobria per un giorno, Crane?” a vibrare soltanto dietro i denti serrati, o che nel guardare anche il Leroy nello stesso riflesso potesse dirgli che avrebbe voluto che almeno, se proprio dovevano andare a fanculo nel tempo, avrebbe voluto fossero lì a Parigi. Che riuscisse a rispondere alla Beech, dicendole che non avevano nemmeno idea di come provarci.
    Che gli mancavano, e che non aveva idea di come comportarsi a tal proposito.
    «non ci credo» fu invece l’unico, sarcastico commento a cui riuscì a dare forma, tornando con lo sguardo sulla Hadaway. «sono fiero di te, roomie»

    «non capisco?» nemmeno ci provò, Aloysius, a trattenere le lacrime che già gli ostacolavano la vista. Non poteva. Passò il braccio sulle palpebre socchiuse, eliminando ogni traccia dell’istantanea debolezza: non che avesse da vergognarsene, o che gliene potesse fregare qualche cazzo se qualcuno l’aveva visto; molto più pragmaticamente, voleva darsi un contegno. Voleva poter restare lì davanti il più a lungo possibile. «tutta tuo padre» si lasciò sfuggire, l’eco di una risata sorda a raschiargli la gola. Si soffermò appena sulla toga della figlia, non abbastanza perplesso da quel look da chiederle perché avesse una tenda come vestito; spostò per poco lo sguardo sugli altri del suo tempo, occhi verdi troppo chiari a posarsi sui profili di Jay e CJ, di Shia e Gemes, a sorridere isterico e felice (di vederli, del fatto che stavano bene, che erano insieme) nello scrutare i loro abiti, deglutendo bile ed acido giù per la trachea all’idea di non poterli stringere – tutti, persino quegli ingrati di CJ e Gemes. Soprattutto loro, per vendetta. Si fermò sul del De Thirteenth, sulle parole dell’adolescente riguardo ad Amalie, una fitta allo stomaco mentre andava a cercare i visi di Maeve ed Akelei, di Helianta, di Barry: era d’accordo, sapeva se la sarebbe cavata, ma avrebbe preferito fosse già arrivata.
    Ma poi, inevitabilmente, tornò a guardare Heidrun.
    Si astenne dal chiederle se stesse bene, come se la passasse, cosa stava facendo della sua vita. Come padre, voleva sapere ogni maledetta cosa; come padre e come Al, sapeva sarebbe stato un dialogo superfluo - inutile.
    «mi manchi» disse invece a voce roca, senza mezzi termini; gli mancavano tutti, da qualsiasi fottuta epoca si trovassero – gli mancava suo figlio; gli mancava Sin, gli mancavano Rea ed Eugene, Drake e Jericho, Amos e Todd e Jeremy e chiunque.
    Ma Run - Cristo santo. Era
    Sembravano essere maledetti, i Crane.
    Ed a proposito di Crane maledetti. Andò finalmente a cercare nella stanza della Hamilton, le iridi smeraldo a setacciare con cura ogni centimetro – fino a che. «rea,» schiarì la voce, cercando un modo per cercare il perdono della cacciatrice senza dover usare le parole. «mi dispiace. ti giuro che non era mia intenzione sparire e lasciarti un neonato a cui badare» un neonato che da lì ad un mese avrebbe compiuto un anno.
    Un neonato che sarebbe cresciuto senza suo padre, e che lui non avrebbe mai visto crescere.
    Inspirò piano, espirò tremulo dalle narici; e tremula fu la voce, e piano di nuovo le lacrime ad offuscargli la vista. «è lì?» domandò, mordendosi le labbra - troppo forte, tanto da sentire il sapore di sangue premere sul palato. «posso vederlo?»
    Col senno di poi, quando si riaccese la luce, avrebbe preferito non chiederlo.
    «CHI CAZZO È QUELLO PSICOPATICO» in realtà, sapeva benissimo chi era Soho: era un suo fan fino a qualche tempo prima, poi meh - qualcosa era cambiato. Però, insomma. Avrebbe riconosciuto ovunque Mr. Uouei, aka suo figlio, e quel pazzo di un cantante GLI AVEVA FATTO SALTARE LA FOTTUTA TESTA? Lo stava lanciando?
    Fortuna che Shia ed Eugene erano in diretta live per condividere un arresto cardiaco.
    «oh signore, grazie al cielo» commentò infine, gli occhi a scivolare sui due biondi – gli stessi del funerale, quei medesimi ragazzi dall’aspetto un po’ troppo familiare, per i suoi gusti. Quando Jack si fece più vicino, la somiglianza divenne così assurda che gli fu impossibile non rendersene conto. E gli fu impossibile non cercare lo sguardo della Winston – che sapeva di averle già visti da qualche parte, quelle sfumature d’indaco e zaffiro a brillare nell’iride. Ed impossibile fu anche cercare il fratello del più giovane, e distogliere lo sguardo dopo troppo.
    Stava iniziando a diventare… troppo strano. Perciò, si concentrò su River – sul volto sereno del bambino, sui ciuffi biondi, sugli occhi chiari. Soffiò un sospiro a fischiare tra i denti, scosse la testa. «ditegli che suo padre gli vuole bene» deglutì, incapace di aggiungere altro. Voleva illudersi che sarebbe tornato, che avrebbe riabbracciato i suoi figli, la sua famiglia.
    Non ci riusciva. E prima di lasciare lo spazio ad altri, cercò brevemente lo sguardo scuro di Sin, quello più chiaro di Shia – le dita a cercare caute su una piccola ferita riapertasi spontaneamente sul ventre, la gola a cercare un modo per emettere suoni. «mi dispiace»
    Un po’ per tutto, mai per niente.

    «e perché voi non ci siete?» Leonard Hamilton, onestamente parlando, non voleva immischiarsi negli affari della plebaglia che ciarlava tra le dimensioni. Era lì soltanto per portare a suo figlio dei vestiti («non vorrei mai giudicare il tuo modo di vivere, figliolo, ma… non hai vestiti a casa?») e per vedere suo nonno e sua zia giovani.
    Aveva visto le loro foto, li aveva conosciuti ad un’età già avanzata – non aveva idea di come fossero Amos e Rea Hamilton, nei loro fiorenti vent’anni. Semplice curiosità.
    Di tutti quei drammatici saluti, non sapeva che farsene. Con quegli addii che faticavano a dire, e quei “troveremo un modo” che restavano nell’ideale irraggiungibile e difficile da concretizzare, l’uomo poteva benissimo pulircisi il culo.
    A dirla tutta, qualcosa se ne poteva fare: li odiava.
    Nel sorriso finto a farsi bello per il pubblico, detestava ogni singolo individuo che in casa di suo figlio osava arrogarsi un diritto che lui, nove anni prima, non aveva avuto. Era ingiusto, e non gli era mai risultato facile essere contento per gli altri.
    Prese quindi la domanda del pallido biondo come pretesto per avvicinarsi di più allo specchio, sebbene non fosse mai stato nel fantomatico mondo parallelo decantato da molti: era un poliziotto, e rispondere a quesiti simili era suo compito – quando non lo era porgerli, più che altro. «quelli che sono arrivati qui da quell’universo, dicono di aver… messo a posto, giusto?, qualcosa nella vita di alcune persone che sapevano essere errate» piegò il capo, scrutando lo squallido Far West. «diciamo una specie di purgatorio a metà tra il paradiso» ed indicò, con un largo gesto delle braccia, il bagno di suo figlio e per estensione il futuro. «e l’inferno» arricciò il naso, un cenno con il capo ad indicare i millenovecentodiciotto; piegò appena le labbra a far intendere che <i>stava scherzando, senza che a sorridere fossero anche gli occhi – carico di quella malizia a marchio Hamilton, che di scherzare non ne aveva mai davvero voglia. «ho creato una task force per studiare l’evento, comunque» un blando gesto della mano, a minimizzare la questione. «niente di cui preoccuparsi»
    Poi, finalmente, posò gli occhi sui suoi antenati - alcuni (ciao zio Shia!) molto più… avi degli altri. «nonno amos» un cenno del capo al biondino, che allora era persino più piccolo di suo figlio. «zio sciaia, zia rea» uau, era proprio vero che aveva ripreso tutto quanto dalla mora. «è stato un piacere vedervi giovani e vivi» era serio? Non lo so. Chissà se sono ancora vivi nel 2118.
    20.04.2118 • h. 23:30 • paris • I'm calling you from the future to let you know we've made a mistake
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    (noun) 1. a facetious word for stripper.
    «sei solo una puttana» ma neanche all’ennesimo schiaffo a far bruciare le guance già arrossate, Melvin reagì. Avrebbe potuto, certo; in qualunque momento, l’ultima sopravvissuta dei Diesel avrebbe potuto decidere di concludere quella storia perversa e crudele dal ramato sapore di sangue e marciume, ma non l’avrebbe mai fatto: addestrata per difendersi, ed allenata a non farlo. Chinò appena il capo evitando d’incrociare lo sguardo iracondo dell’uomo, il petto a gonfiarsi e sgonfiarsi flebile sotto le sue braccia. La linea fra piacere e mera violenza era così sottile per la ragazzina, che ragazzina non era mai stata, da risultare invisibile; non era in grado di dire no, né sapeva imporsi una safe word che la togliesse da quel genere di situazioni. Accettava quel che le capitava in maniera passiva e docile, conscia che il mondo all’infuori di quella stanza avrebbe potuto trattarla in modo peggiore. Sentiva di meritarsele, quelle dita attorcigliate alla gola; le piaceva in quella maniera malsana per il quale all’uomo sempre piaceva ciò che lo faceva sentire vivo ed utile. Esistente. Da anni era l’unico mondo che conosceva, e sapeva che opporsi avrebbe reso tutto più difficile. La clientela richiamata dal sorriso innocente di Sally non era mai il tipo di persona con la quale avresti voluto trovarti in compagnia, composta perlopiù da ricchi maniaci che, dalla sua giovane carne, volevano estrapolare un effimero elisir della fanciullezza. Non le importava più da anni, da tutta una vita, chi fosse a toccarla o come; all’inizio, quando del sesso non sapeva nulla ed ancora sognava di poter tornare in Canada dalla sua famiglia, era stato difficile – doloroso. Aveva pianto tutte le notti, fra tutte le braccia, mentre un fiore troppo acerbo veniva colto senza che le venisse domandato il permesso. Ma era cresciuta, ed aveva imparato a ingoiare lacrime e bile finchè di lacrime da digerire non ce n’erano state più. A sedici anni da poco compiuti, Melvin era giunta alla conclusione che quello fosse amore – almeno una forma di esso. Se lo faceva andar bene perché non conosceva un’alternativa, perché all’orecchio le male lingue le avevano sussurrato che la vita, per lei, avrebbe potuto essere molto più brutta. Aveva imparato celermente le regole di un gioco ch’era iniziato a piacerle troppo presto. La seduzione era, nel suo caso, un’arma a doppio taglio: ogni qual volta qualcuno s’invaghiva di lei, lei era incapace di non ricambiare - ed ogni volta ci credeva davvero che quello sarebbe stato quello giusto, che l’avrebbe accolta in casa ed amata come una principessa. Non importava che il fetish di turno fosse un innocente piangerle in grembo, un leccarle l’orecchio, o legarla alla testata del letto dimenticandola lì per ore: non aveva pregiudizi, Sally. Era la preda perfetta di ogni cacciatore, con la sua pelle morbida ed il sorriso troppo pulito per quegli occhi già adulti e vecchi. Le donne la volevano per agghindarla come una bambola, gli uomini per strapparle quegli stessi abiti e premerle la faccia sul materasso. Sally piaceva perché era fragile e delicata; nessuno era in grado di resisterle, in un senso o nell’altro. Aveva il brillante animo della damigella in pericolo, ma il salvarla dei suoi Principi Azzurri non faceva altro che scavare maggiormente la fossa attorno al castello. Creava negli altri l’idea che lei avesse bisogno di loro, e non rispondere a quell’implicita richiesta di soccorso pareva scorretto e perfido. Sarebbe stato un dono, se solo Melvin non avesse avuto la cattiva abitudine di attirare solo gli interessi sbagliati.
    Perlomeno gli affari andavano una bomba.
    Non emise alcun gemito neanche quando le mani dell’uomo si strinsero attorno alla sua gola strappandole il poco d’ossigeno che era riuscita a rubare poco prima; impossibilitata a muoversi dal busto in giù, non cercò di liberarsi. Riusciva a percepire, come una mano densa e calda a premerle sui bronchi, il malato e bollente piacere dell’uomo amplificato dal suo potere: la condanna e la benedizione di Melvin era l’empatia, la capacità ereditata alla nascita di sentire le emozioni altrui come fossero state proprie. Accadeva di rado che l’empatica assumesse il controllo della propria natura, e molto più spesso che la lasciasse vagare abbandonandovisi completamente: talvolta era fortunata ed i sentimenti degli altri ingurgitavano i propri; talvolta finiva per alimentare istintivamente gli impulsi più oscuri ed animali che la circondavano, e si ritrovava bloccata in un vortice di rabbia che consumava, e consumava, e consumava finchè non era più abbastanza cosciente da rendersene conto. Il problema di Melvin Diesel era che non conosceva alcun genere di freno, neanche l’usuale limite che l’essere umano s’era sempre imposto per la propria sopravvivenza. Sedeva nel posto del passeggero lasciando che a guidare fosse qualcun altro, e non importava che andasse ai venti o ai duecento all’ora: lei, la cintura di sicurezza, neanche sapeva esistesse.
    Al pugno sferratole sulla bocca, non riuscì a tacersi un lamento basso e contrito. Quello sarebbe stato il momento perfetto per supplicare Iddio di farla tornare a casa.
    Ma Melvin, una casa, non la aveva. Non aveva una famiglia, non aveva amici. Non aveva nessuno eccetto loro, quegli individui che la usavano e ne abusavano ripagandola, se faceva la brava, con molli carezze sulle gote rosee e bassi «sei proprio una brava ragazzina».
    Lo era davvero, una brava ragazza. Testarda all’inverosimile, stupida e terribilmente ingenua pur portando sulla pelle più di una cicatrice, con più d’un passatempo che una sedicenne neanche avrebbe dovuto conoscere, ma maledettamente una brava ragazza. Debole, dipendente da ogni attimo di tenerezza riuscito a strappare fra lenzuola o sul bordo di un marciapiede.
    E dire che avrebbe potuto ucciderli. Tutti, dal primo all’ultimo. Malgrado la sua giovane età, Melvin avrebbe tranquillamente potuto trovare impiego come mercenaria, quando non sicario - anzi, proprio per la sua giovane età, sarebbe stata perfetta per qualunque lavoro nei campi sopracitati. Il lignaggio Diesel l’aveva costretta a diventare una Vigilante, istruita a mantenere l’ordine con qualunque mezzo a sua disposizione, ma mamma e papà le avevano insegnato che non fosse necessario occorrere alla violenza. Che poteva scegliere, lei.
    I suoi genitori erano morti perché non la pensavano come il resto della famiglia, e la Diesel non avrebbe infangato la loro memoria scegliendo di divenire quel che i nonni avevano designato per lei. Preferiva vendere il proprio corpo, che la propria anima. Sognava ancora una casa, una famiglia, e degli amici con cui organizzare stupidi pigiama party e feste a tema in piscina: era nata per essere la reginetta del ballo, non la puttanella di un manipolo di pedofili. È solo una fase. Ci avevano provato in tutti – in tutti! – i modi a sporcarla; l’avevano rotolata sul cemento e sul suo stesso sangue, l’avevano insultata ed umiliata, l’avevano piegata e spaccata e Dio mio l’avevano distrutta, ma Vin era troppo una testa calda per permettere che vincessero loro: per quel motivo, fra tutti, il proprio mestiere aveva iniziato a piacerle. Ripicca. Una forma di vendetta tutta personale, sadica ed auto lesionista, ma pur sempre una sua scelta - pagava i suoi errori con la propria carne, e si rialzava un altro giorno per sorridere alle stelle.
    A malapena si rese conto quando l’uomo ebbe finito con lei. Provò un improvviso senso di vuoto che, scioccamente, le inumidì gli occhi e imporporò le guance. Le contusioni sulle cosce ed il costato cominciavano a pulsare dolorosamente, ma almeno il labbro aveva smesso di sanguinare; ritenne un trionfo personale il non aver racimolato alcun osso rotto – talvolta capitava. Quel giorno in particolare si sentì più sporca del solito, più Vinnie che Sally, quando l’Ivanov la squadrò inarcando le sopracciglia e le domandò, in tono affettato, se prendesse dei contraccettivi. Gli rispose di sì, il cuore a battere atono nello sterno.
    Venne cacciata come un cane sotto la fine pioggia di Parigi. Vin lasciò che l’acqua le scorresse fra i capelli e sulle spalle, cercando di impedire a sé stessa di tremare. Un randagio, ecco cos’era. Buono da tenere al caldo per qualche giorno, ma una vergogna di cui liberarsi il prima possibile. Si strinse le braccia al petto ricordandosi che non tutti - non tutti - erano come Ivanov: non tutti la picchiavano, sapete. Capitava che qualche vecchietto comprasse il suo tempo per leggerle una favola della buonanotte fingendo fosse sua nipote; capitava che, adolescenti alla prima esperienza, le domandassero teneramente se le avessero fatto male, le dita a toglierle ciocche bionde dalla fronte umida; capitava che la pagassero solamente per abbracciarla, o per raccontarle della loro vita. Inoltre non sempre si giungeva ad un rapporto sessuale completo, qualcuno si accontentava di brevi ed indolori lavoretti di mano o bocca. Le offrivano vestiti ed appartamenti, gelato e pizza, scuse in lacrime e denaro in più rispetto a quanto pattuito – ed era in momenti come quelli che l’audace Sally lasciava il posto alla mite e grata Melvin Diesel. Era un po’ come fare la barista, aveva detto spesso; le raccontavano i loro problemi, e lei offriva loro il conforto che non potevano trovare da altre parti. Nelle giornate buone, la prostituta era il miglior mestiere che si potesse trovare, se sapevi comprenderlo.
    Nelle giornate cattive, ti ritrovavi gocciolante sullo zerbino di quella ch’era quasi casa, a suonare il citofono di quello che era quasi amico e quanto più di vicino avessi ad una famiglia. Jamie le aprì senza battere ciglio, osservandola pigro mentre avanzava verso l’interno dell’appartamento. Sapeva cosa si dicesse di lui, ed era consapevole del fatto che fosse tutto vero - ed anche peggio, in realtà – ma non aveva mai avuto paura dell’Hamilton. Riusciva a sentirlo come un secondo battito sin dalla prima volta in cui, in lacrime e distrutta, si era rannicchiata sul suo zerbino aspettando che rientrasse a casa. Non aveva mai voluto niente da lei, anche quando anni dopo un’adolescente Diesel aveva offerto, nei modi più creativi che le potessero venire in mente, tutto ciò che aveva – ossia, solo sé stessa. Nel momento in cui aveva smesso di essere una questione di debiti, la faccenda si era fatta meramente personale, ed il continuo essere rifiutata aveva minato la sua già debole auto stima. Aveva raggiunto i minimi storici l'anno prima, occhi gonfi di lacrime dopo essere stata cacciata dall'ennesima Casa delle Bambole, le ginocchia raccolte al petto e la schiena poggiata sullo stesso pianerottolo che l'aveva accolta anni prima: perché se non potevano amarla i suoi clienti, se non poteva amarla qualcuno come Jamie, nessuno avrebbe mai potuto farlo. Perché, continuava a domandarsi; dove sbaglio, gli aveva chiesto ingoiando il pianto. La maggior parte dei suoi colleghi rifiutava i baci, imponendoli come tabù; evidentemente solo a Sally capitava il contrario, ossia clientela difficile per la quale un pompino andava bene, ma un bacio era troppo intimo. Lei non lo capiva, non lo accettava. Non lo trovava giusto. Non meritava neanche quello? Si era sentita stupida e giovane nel nascondersi il viso fra le mani facendosi sfuggire quell'interrogativo - soffocato troppo a lungo, e troppo spesso. "Sono solo una puttana, giusto?" ed aveva riso ironica, ma affatto divertita, di quella frase di rito che di rito non era mai stata: poteva illudersi quanto preferiva, ma quando alla fine della giornata si ritrovava senza un tetto o un pasto decente, la risposta era sì, Vinnie. Sei solo quello. E ricordava il momento esatto in cui Jameson Hamilton aveva smesso di essere un'ideale astratto, una Carta Salvezza onirica, ed era diventato semplicemente...Jamie. L'istante in cui aveva compreso cosa fosse l'amore - quello vero che alcun libro sarebbe mai stato in grado di descrivere. Quando il ragazzo si era chinato su di lei posando gentile le labbra sulle sue, Melvin aveva imparato che l'amore non era sempre sesso - che alle persone potevi semplicemente voler bene perché ti andava, perché potevi, perché pur avendo perso tutto avevi un'intera vita per ricostruirti una famiglia. Era stato un bacio delicato e disinteressato, pregno di una premura ed un affetto del quale non l'avrebbe mai creduto: una promessa, di quei tempi, era formale cordialità; quella era la dimostrazione che diceva sul serio. Era stato il primo, nonchè l'unico, a prendersi cura di lei - a preoccuparsi, per lei. Lo faceva a suo modo, ma lo faceva. Non aveva avuto bisogno dell'empatia per leggere il significato implicito di quel bacio: poteva lamentarsi quanto voleva della Diesel, ma le voleva bene - e tanto le era bastato per continuare a sorridere un giorno in più, ed un altro ancora. Ovviamente era un amore puramente platonico per diversi motivi (e no, l'età non fermava Melvin, come potevano testimoniare i diversi tentativi - soffocate da occhiatacce di Jamie - con il quale aveva tentato di farsi sbattere in cella da William e Leonard. «ma se siamo tipo fratelli, posso chiamare Leonard daddy «melvin.»): in primo luogo, Jamie era come un (padre.) fratello maggiore; Melvin flirtava di natura, ma almeno con l'Hamilton aveva smesso di prendersi sul serio. In secondo luogo, Jamie era gay. Tipo - palesemente gay, come le aveva fatto notare il suo (potere) radar. Non gliel'aveva mai domandato apertamente, ma coglieva ogni occasione per lanciare sottili (neanche troppo) frecciatine, e per specializzare la propria gamma di (innocenti) molestie sessuali: «sai che posso cambiare aspetto, vero?» «mh-mh?» «basta chiedere» «cosa» «dai, jameson» «di andartene? Volentieri»
    E questa è la breve storia di come Melvin Diesel avesse decretato che il mondo iniziasse e finisse con Jameson Black Barrel Hamilton. Probabilmente la persona peggiore a cui giurare lealtà ed adorazione, ma lei si piaceva così - diversa. Se le avesse chiesto di saltare da una scarpata, l'avrebbe fatto; se le avesse detto che i lampioni fossero lucciole troppo cresciute, ci avrebbe creduto. L'unico punto sul quale (per l'immensa gioia di Jamie) non transigeva, erano i limiti: non poteva dirle cosa non fare. Ad esempio, non poteva dirle «smettila di provarci con mio padre. è imbarazzante» perché non sarebbe mai accaduto, come non poteva insistere su «ed anche con will. Non hai delle bambole con cui giocare?» perché la Diesel, spingendo allusiva la lingua contro l'interno della guancia, avrebbe sempre risposto «dovrei essere io a chiederlo a te».
    Era fastidiosa di natura, non poteva farci nulla. Ed era molto, molto triste che fra le Forze dell'Ordine l'etica morale fosse così alta: la sua giovane età era apparentemente un ostacolo insormontabile. Millenials. Quindi, Jamie Spacca Gioie Hamilton, almeno lasciami sognare.
    Era ormai passata più di un'ora da quando la Diesel aveva bussato alla porta della Guardia; lui non le aveva chiesto cosa fosse successo, e lei, quand'era uscito, non gli aveva domandato dove andasse. Aveva approfittato di quel tempo da sola per farsi una doccia, indossare vestiti (di Jamie. L'Hamilton era un armadio e lei un attaccapanni, quindi le sue maglie le arrivavano quasi a metà polpaccio) puliti, e farsi i cazzi (solo quelli metaforici) del ragazzo sui social: mandò richieste d'amicizia a fanciulli random che sembravano tanto carini e che, per puro caso assolutamente fortuito, erano dichiaratamente gay.
    Jamie l'avrebbe uccisa. Una vera fortuna che le volesse oramai troppo bene per farlo - sperava. Stava ancora trafficando sulla cronologia internet, quando sentì un rumore provenire dal corridoio del palazzo. Strinse le dita attorno ad una delle tante pistole che l'Hamilton aveva /nascosto/ in giro per l'appartamento, odiandolo per usare armi da fuoco con un calibro da cacciatori di maledetti orsi: Melvin non aveva problemi con pistole od arsenale bianco, ma potendo scegliere preferiva una (primula!) maneggevole Browning - o direttamente un bazooka: go big or go home. Chi diceva che le dimensioni non fossero importanti, non aveva mai dovuto impugnare un'arma per più di sette minuti contro lo stesso bersaglio, né aveva dovuto ricorrere al piombo per salvarsi le chiappe. Fidatevi di una (prostituta) Diesel: sono le dimensioni a fare la differenza fra vivere o morire.
    «jamie?» beh certo, perché se non fosse stato lui, un possibile intruso le avrebbe sicuramente risposto in maniera onesta rivelando la sua identità segreta. Si morse la lingua maledicendosi a bassa voce, riponendo (ingenuamente) l'arma quando sentì la voce di Jamie ribattere un ironico no.
    Riconobbe l'odore del sangue ancora prima di vederlo.
    Ed ancora non disse nulla, Melvin. Non cercò ferite perché sapeva non ne avrebbe trovate, non visibili; lo guardò e basta, occhi pieni di lacrime e di tutto quel non detto che si trascinava dietro da quasi sei anni - lo stesso mantra che nessuno avrebbe mai faticato a leggere nei limpidi occhi verde foglia, perché raramente lo celava: mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace. Non dovevi. È tutto okay, è colpa mia. È colpa mia. Quando sentì la porta del bagno chiudersi, si permise un singhiozzo asciutto e frustrato: uno) qualunque cosa avesse fatto, le aveva sicuramente rovinato gli affari; due) che stupido. Jamie era un soldato privo di causa che sgusciava in guerre non sue rendendole proprie perché poteva, e poi navigava in quel sangue condannando ironico la propria solitudine ma uccidendo chiunque tentasse di stare dalla sua parte. Egocentrica bestia di Satana - eppure gli occhi le pungevano di pianto, perché Vin sapeva che in qualunque guaio si fosse cacciato, l'aveva fatto per lei. Jamie poteva raccontarsi la favola che preferiva, ma l'empatica non aveva bisogno di lui per sapere la verità: neanche la Diesel era abbastanza (stupida) ottimista da credere che l'Hamilton sarebbe mai stato in grado di essere onesto con una creatura vivente che non fosse Hachiko - Dio, neanche ci riusciva con sé stesso.
    Grazie, mimò con le labbra ad una stanza vuota, mentre si prodigava ad asciugare e lavare il sangue di Ivanov ed amici dal pavimento.
    Ed anche quella volta, non gliel'avrebbe detto.

    Sedeva sul basso mobiletto all’entrata del bagno, un ginocchio contro il petto e l’altra gamba a dondolare sopra il pavimento. Era l’unica all’interno della stanza a non degnare di mezza occhiata le persone di là dallo specchio, gli occhi chiari a scivolare apparentemente disinteressati su coloro che, invece, erano appena entrati a casa di Jamie. Masticava un chewing-gum rosa infilando di tanto in tanto l’indice nella gomma per sfilacciarla all’esterno, un mezzo sorriso perenne a pendere d’innocente malizia sulle labbra rosee. Si sentiva leggermente alticcia, ebbra delle emozioni che saturavano la stanza come sabbia colorata in bottiglie di vetro. Gioia, dolore. Speranza, curiosità. Delusione, incertezza. Tutte impalpabili dita ad accarezzarle la pelle e intossicarle le vene, un addizione più pericolosa di qualunque genere di droga mai provato dalla sedicenne. Non aveva mai incontrato da vicino i cosiddetti Salvatori, limitandosi a cogliere qualche commento dai propri clienti o da quei pochi amici che perfino Melvin, aveva. L’ultima volta che aveva sentito Laurent le era parso indubbiamente emozionato dall’avvento di quelle che, per lui, erano vere e proprie leggende tramandate dalla bisnonna. Vin li trovava… interessanti, ma non piacevoli quanto i soliti, vecchi (in tutti i sensi) compagni di vita. Sorrise a Jamie, che nel frattempo (maledetto.) si era quasi completamente rivestito, quando la colse ad osservare di sottecchi suo padre. Spostò lo sguardo sui vari biondi che apparvero nella stanza riconoscendo solamente Callie e Barrow Senior, neanche lontanamente affascinante quanto il…nipotino? Bisnipotino? Le dinamiche le sfuggivano. Fece una bolla con la gomma da masticare, e la fece sonoramente scoppiare fra i denti. «quello mi piace» annunciò pigra, puntando l’indice contro lo specchio delle brame - a chi si riferisse, era interpretabile. Salutò con un cenno della mano tornando poi a poggiare la guancia sul ginocchio, un sospiro soddisfatto contro la gamba. Sarebbe rimasta ad osservare dalle retrovie ancora a lungo, probabilmente fino alla fine, se una fitta di… qualcosa, non le avesse stretto il cuore in gola. Drizzò la schiena di scatto, gli occhi a guizzare dalla direzione verso cui aveva percepito tirare; distinse nei tratti di Jamie la medesima, improvvisa, staticità: le spalle rigide, la mano a pochi centimetri dall’arma al proprio fianco, occhi seri su un sorriso cortese e distante. Balzò in piedi con grazia, ed in pochi secondi lo raggiunse. Quando Jamie Hamilton entrava in modalità pericolo, Melvin Diesel scattava sull’attenti come il soldato che, sotto le calze a rete e le parrucche colorate che tanto amava indossare, era stata addestrata a diventare. «sei tu?» domandò in un filo di voce, sollevando il capo per cercare tanti (troppi) centimetri più in alto il viso spigoloso del ragazzo. Lui scosse impercettibilmente il capo – una volta, secco. Voleva dire Melvin, fatti i cazzi tuoi. È roba da adulti. Qualcosa non va. Levati dalle palle ma Vin decise di interpretarlo come sei la benvenuta, indaga pure. Tenne le dita sospese sopra il braccio di lui senza toccarlo, un sapore amaro e fresco a scivolare in gola. «qualcuno…» piegò il capo verso destra, le palpebre chiuse. Jamie la guardò. Melvin, chiudi quella cazzo di bocca. Lei socchiuse gli occhi. Ma certo Vinnie, dillo pure. «qualcuno ha bisogno di aiuto. Sento…» scrollò il capo e corrugò le sopracciglia, la bocca secca. Allungò d’istinto una mano verso la superficie magika, ma le dita dell’Hamilton le si strinsero sul polso prima che potesse toccarlo. «tutti indietro di un passo» ordinò secco, sollevando un braccio per impedire ai nuovi arrivati di avanzare verso i loro amici - sciocco di un Jamie: non lo sentiva che avrebbero preferito prendersi una pallottola, piuttosto che rinunciare alla possibilità di vederli un poco più da vicino? Inarcò un sopracciglio nella sua direzione, la testa reclinata all’indietro. Tacque solamente perché dalle dita dell’Hamilton, ancora strette sul proprio braccio, sentiva qualcosa che di rado sfiorava la pelle tatuata della Guardia.
    Inquietudine? Paranoia? Non era paura, ma il gusto non le pareva così differente da tranquillizzarla. «c’è un…» lo vide umettarsi le labbra, cercare con lo sguardo qualche cosa al di là del Portale. Non capì se qualcuno rispose alla sua occhiata, ma da come Jamie battè le palpebre tornando al presente, dedusse che avesse trovato quel che cercava.
    «buco?» O forse no.
    Quando incrociò gli occhi turchesi dell’Hamilton, Vin strabuzzò i propri e si strinse nelle spalle: ah, Jamie. Non chiederlo a me.
    melvin "sally" diesel
    She said, hey boy, hey boy
    I like your style
    I'll let you play me for a while
    Play me 'till the sun rises
    Play me like a violin
    20.04 - 23:30
    canadian | thunderbird
    empathy | 16 y.o.
    prom queen


    Edited by #epicWin - 1/5/2018, 00:18
     
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    Doveva mantenere la calma. Pensare razionalmente, calcolare le probabilità e le dinamiche, cercare una spiegazione che fosse quanto meno plausibile. Le veniva richiesto uno sforzo disumano, ma rientrava nella scelta di vita che Murphy aveva fatto anni prima, quando ancora - forse - non era in grado di farne una; Phil era stato costretto a fare le sue veci, preconfezionando il futuro di una neonata e segnandone il destino. Possedeva la mente di una scienziata, la Skywalker, ma il cuore l'aveva già tradita in passato: troppo sentimentale, eccessivamente emotiva, pronta ad andare contro ogni regola per amore. Qualunque forma questo avesse, o lei considerasse tale.
    Non era come Shot, non lo era mai stata.
    Lì dovegli occhi scuri del ragazzo parevano tramutarsi in ossidiana grezza, tagliando fuori il mondo dai propri pensieri, quelli di Murphy si scioglievano come cioccolato fuso, ogni singola emozione a trasparire oltre le ciglia folte, oltre il futile tentativo di proteggere se stessa; lì dove la voce del Deadman si manteneva salda, inamovibile, al pari della sua volontà, quella della geocineta finiva per spezzarsi, un vetro in frantumi, sabbia ruvida nei polmoni. «papà... run! Sono qui, mi vedete?» se la vedevano? cristo santo, li aveva ad un palmo di naso. Eppure le servivano conferme, la prova tangibile che non si trattasse di un sogno; un passaggio interdimensionale nello spazio-tempo apertosi nel bagno del bisnipote di amos era un cosa, distinguere un'illusione dalla realtà, dopo aver immaginato quei volti ogni santissimo giorno negli ultimi cinque mesi, comportava il bisogno viscerale di toccare con mano. Così, quando Run chiamò il suo nome e le iridi scure di Sin incrociarono quelle della figlia, Murphy si rese finalmente conto della posta in gioco. «SIETE VIVI? IN CHE SENSO NEL MILLENOVECENTODICIOTTO???? PÁ POMELO STA BENE?» #priorità Si aggrappó a Shot suo malgrado, contravvenendo alla regola che si era data da sola due mesi prima, ovvero cercare di mantenere un rapporto cortese, ma distaccato, l'unico modo per impedirsi di esplodere dalla rabbia ogni qualvolta il ragazzo si comportava... beh, come uno Shot. Gli riusciva così bene, torturarla, che ormai sembrava quasi averci preso gusto. «io.. credevo foste.. mi mancate così tanto! perché gemes è vestito da prete???» corrugó la fronte, mentre qualcuno da dietro tentava di spintonarla per farsi spazio, fallendo miseramente. Non l'avrebbe spostata di lì nemmeno Salvini su una ruspa. «JANEIRO! te lo giuro, stiamo.. stiamo cercando di fare qualcosa.» anche se era vero solo in parte, per motivi personali che rob non ha davvero il tempo di spiegare; è che credendoli morti, tutti loro, la Skywalker non se l'era mai sentita di partecipare alla ricerca di un modo per tornare, il cuore troppo appesantito da quella che ormai era divenuta una certezza. Non li avrebbe mai più rivisti. «e.. stiles?» uno dei lati positivi dell'essere una Murphy - pochi, ma fondamentali - era che non ci si doveva preoccupare più di tanto per la propria dignità, la vergogna rasentava il livello manto stradale e l'amor proprio finiva per essere l'ultimo dei problemi: stava piangendo dal momento esatto in cui si era resa conto di cosa succedeva alle spalle di un palestrato e alquanto nudo Jamie Hamilton (si, ok, mel trambusto aveva lanciato più di un'occhiata fatele causa), grossi lacrimoni a rotolare tra le ciglia e giù lungo le guance rigandole la pelle di mascara. Che sfiga, proprio la sera in cui si era data da fare a rendersi presentabile per il suo falso appuntamento con l'altrettanto falso corteggiatore! «STILES!» con un sorriso velato di euforia al limite dello psicotico, Murphy ruotó il busto, cercando frenetica con lo sguardo la persona che sarebbe dovuta essere accanto a lei, per completare il ritrovato quadretto familiare; lo riconobbe per i capelli, l'espressione smarrita di chi non sa bene dove si trova e perché. Conoscendolo, era probabile che Barry credesse di essere sotto acidi. «OBI VIENI C'È TUA MADRE!»

    «OBI VIENI C'È TUA MADRE!» ironia della sorte, la madre di Barrow Cooper, quella che lo aveva messo al mondo in un'altra vita e alla quale somigliava in maniera anche troppo evidente, si trovava davvero al suo fianco, pochi passi più in là. Da quando le aveva raccontato la verità, a lei e a William, si sentiva sempre sull'orlo di un baratro così profondo da non riuscire a vederne il fondo. Cretino lui, a credere di potersi liberare di quel peso semplicemente spiattellandolo a chi di dovere. «ciao..» non se l'aspettava proprio, il corvonero, di sentirsi in colpa osservando le iridi caramello di Andrew, una sensazione vischiosa che dopo l'ammissione ai due della sua vera identità avrebbe preferito non provare più. «non--non fare quella faccia, ok? sto bene. stiamo..stiamo bene. ho conosciuto il tuo alter ego, proposito.» si strinse nelle spalle, mentre Murphy abbandonava il suo fianco sbracciandosi in direzione di Jess e Erin, la fronte praticamente incollata allo specchio lasciando tracce sulla superficie riflettente. «ho fatto in modo che tu e isaac foste migliori amici anche in quel buco merdoso e--»
    «cup?»
    «BARRY?? testina di merda, dove sei FATTI VEDERE»

    Quegli stupidi babbi. Sia mai che il fottuto destino li facesse atterrare in posti o epoche diverse, quando mai. Solo a lui toccava la gioia di non doverli vedere ogni santo giorno, la grazia del non dover stare a sentire i racconti sugli alieni di suo fratello o Bj che farneticava di antiche sopracciglia d'argilla da portare in salvo. Grazie tante, bastardo di un karma. «sono qui coglioncelli. hai bisogno degli occhiali, sandra?» avrebbe voluto dire loro che gli erano mancati, come l'aria a polmoni agonizzanti, ma le parole si tramutarono in insulti prima ancora che il cervello potesse rendersene conto. Era così che i Freaks comunicavano, in fondo, ed era certo avrebbero capito cosa provava nel rivederli; cosa aveva provato senza di loro. Non fosse stato per quel babbo di fratello che cercava di mandare a puttane tutto il lavoro certosino svolto da Barrow nelle ultime settimane per rivelare a William e Akelei la verità senza citare uno all'altra e viceversa, quello scambio di battute sarebbe bastato e avanzato. Quasi meglio di un abbraccio fraterno o un bacio sulla fronte.
    Ma no, Sandy proprio non poteva farcela.
    «MAMMA, PAPÀ!!!&&» non esisteva facepalm abbastanza potente per quel genere di situazioni, o buco profondo a sufficienza da consentire a Barry di sparire dalla faccia della terra senza lasciare traccia. Poteva sempre tirare una testata allo specchio, ma a che pro? «buona la droga nel far west, eh?» con un sorriso falso quanto la banconota da dodici eurl, il neo diciassettenne si voltò lentamente verso William, stringendosi nelle spalle ruotando il dito indice accanto alla tempia destra, un gesto inequivocabile. Non aveva preso la decisione di tenergli nascosto con chi avesse procreato ad minchiam, ma seguendo una logica ferrea contro la quale nemmeno Barrow avrebbe potuto sollevare questioni: a lui non lo aveva detto perché il Ribelle non avrebbe mai creduto alla possibilità di aver ingravidato Akelei Beumont - PER TRE VOLTE!; a lei non lo aveva detto perché in cuor suo Barry ci teneva a conoscere il padre, e non poteva succedere se la bionda finiva per ammazzarlo prima. «amalie è… credo sia ancora un po’ impegnata nel sottosopra. [...] insomma, ho visto ieri shapherd e stava una bomba, poi puff, sono finito nel far west. Però è una ragazza in gamba, magari sta aiutando gli altri in difficoltà insieme a dakota. sta benone, tranquilla»
    Quando credeva di averla superata. Proprio quando credeva che l'avrebbe vista lì, insieme ai Freaks, con un cappello da cowboy in testa e quel sul sorriso terso dipinto sulle labbra piene. E invece Amalie non c'era, niente passato e presente, ancora intrappolata in quello schifo di limbo, abbandonata a se stessa. «merda. sandra sei sicuro chE CAZZO?!?»

    «chE CAZZO?!?» con un rusatone ben assestato, Just spostò il ragazzino platinato di un metro, affacciandosi sullo specchio magico con entrambe le mani premute contro la bocca; non stava più nella pelle, ed era bastata una raoida occhiata a quei volti conosciuti solo tramite fotografie per eccitarsi come un adolescente di fronte al paginone centrale di playboy. «non / ci / posso / credere» Aveva seguito Leonard sulla fiducia, e non perché il poliziotto lo avesse esplicitamente invitato, sia chiaro: è che l'Eat maggiore gli stava quasi sempre incollato al culo, quando non lavorava, e certo non poteva perdersi l'occasione di accodarsi al mezzo scelto dall'Hamilton con la propria Mercedes Benz ultimo modello. Volete mettere la goduria nell'essere per una volta alle spalle della sirena? Di solito gli capitava di incrociare Callie da lontano, nello specchietto retrovisore del furgone usato per le rapine, la povera ragazzina legata al tettuccio della volante. Non che le dispiacesse, questo ci tengo a specificarlo. «VOI SIETE I MIEI AVI!!! Trisnonno Phobos! Sei gnocco come nelle foto, f i c o!» Poteva stonare a quelli nello specchio, l'entusiasmo adolescenziale dimostrato dal giovane uomo ben curato in completo Armani, ma certo non a chi aveva avuto modo di frequentarlo anche solo qualche giorno. Justin Eat si rivelava essere sempre l'opposto di quanto suggerito dal suo sguardo profondo, dalla presenza marmorea ed impenetrabile, dai bei vestiti e auto di lusso: sotto sotto, e nemmemo tanto in profondità, era un coglione. «no vabbè, ma c'è anche... Leo, guarda, quello è il mio bisnonno Behan, sembra un dodicenne! Beh dai, bello vedere che siete già una family, mio padre mi ha sempre raccontato di quanti anni sono dovuti passare prima che lo scopriste.» mostrò ad entrambi i pollici sollevati all'altezza del torace, un sorriso luminoso a levigare i tratti taglienti, ruvidi del viso. Anche se, insomma, c'era da dire che gli sembrarono piuttosto perplessi mentre, guardandosi dall'alto al basso e viceversa, Phobos e Beh cercavano di realizzare quanto appena detto da uno sconosciuto dalla parte opposta dell'improvvisato cunicolo spazio temporale. «non... ok. ah. ah si, forse ho capito.» oops. Forse da loro non era ancora il duemila e ventidue. «spoiler??!!?»

    20/04/2018 | 22:30
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    Il ragazzo scavalcò la recinzione alta quasi tre metri senza troppa difficoltà, atterrando dall'altra parte fra i fischi di apprezzamento della gente rimasta nel vicolo. Laurent si voltò verso di loro e li zittì con uno sguardo divertito, accompagnando l'espressione esasperata con un sopracciglio alzato. Ok che non lo vedevano da un po', ma andiamo, lo avevano visto fare di meglio, sapeva fare di meglio, e lo sapevano perfettamente; non soltanto perchè se invece di asfalto ai loro piedi ci fosse stata anche una sola erbaccia, avrebbe potuto usare il suo potere per renderla una scala, perchè era bravo ad arrampicarsi in giro, ad adattarsi con quello che aveva (c'era un motivo se la nonna quando era più giovane lo chiamava sempre scimmietta). Si voltò nuovamente verso l'obiettivo. Quando la porta che dava sul magazzino si spalancò, Laurent si nascose immediatamente come riusciva raso muro, trattenendo il respiro. Tempismo perfetto. L'uomo non si accorse di lui, limitandosi a gettare altra roba verso l'immondizia per poi sparire nuovamente. Il ragazzo aspettò qualche altro secondo, poi si diresse rapido verso il grosso bidone. Schioccando la lingua lo aprì, guardando all'interno; dentro c'erano un'infinita di confezioni di torte, carne, frutta, verdura... La bandana colorata nascondeva metà del viso, ma era difficile non riconoscere dagli occhi scuri che Laurent stesse sorridendo. Al supermercato locale (in tutti i supermercati, come aveva imparato) venivano gettati ogni giorno chili e chili di roba assolutamente ancora mangiabile; magari in scadenza, magari con etichette stampate male. La gente - quella ricca, per lo meno - faceva la schizzinosa con queste cose accettando senza indagare la sparizione di tutto quel ben di Dio, ma d'altro lato c'erano altresì un sacco di altre persone che quel cibo lo avrebbero mangiato ben volentieri. Soprattutto se gratis.
    «Lou! Veloce!»
    Purtroppo, per qualche motivo frugare nei cassonetti era illegale. Una volta gli avevano detto che se tutti avessero iniziato a prendere il cibo in scadenza buttato via nessuno avrebbe più comprato, gettando il mondo nel caos. Laurent non era un gran fan dell'economia, nè un genio della finanza quindi, come dire, se ne fotteva altamente. Non facevano del male a nessuno a prendere quella roba lì, non toglievano il pane dalla bocca di alcun figlio di famiglia ricca, nè facevano davvero dei danni a chissà quale sistema produttivo; la gente che si accontentava di quel cibo gratuito non era certo gente che avrebbe potuto permettersi di spendere soldi per averlo.
    Il giovane, Lou, annuì al richiamo, affrettandosi a prendere il prendibile, infilando quanto riusciva nelle borse che aveva facendo attentione a non scavare tropo a fondo ma controllando sempre bene lo stato del cibo (erano poveri, ok, ma il loro stomaco avrebbe risentito di muffa e co e dovevano fare attenzione). In meno di un minuto aveva riempito tre o quattro grossi sacchi neri. Tornò verso l'alta recinzione che lo separava dagli amici, e iniziò la scalinata mordendosi il labbro (gesto non dettato dallo sforzo ma dalla mera abitudine). Oltre la rete, vide le facce di Bill, Agnes e Terry farsi improvvisamente spaventate. Il cane al loro fianco, un bastardino canelupo che il ragazzo aveva recuperato mesi prima in uno dei suoi viaggi, abbaiò frenetico.
    «Yen» cercò di richiamarlo a bassa voce Laurent. Di solito grazie ad una dote naturale era bravo a comunicare con il cane, ma se Yen era nervoso o particolarmente agitato difficilmente stava ad ascoltare «Zitto, bello. Shhh»
    «LAURENT.»
    Per poco, sentendo il proprio nome gridato alle spalle, il ragazzo non mise un piede in fallo rischiando di cadere. Considerando che era già a quasi due metri di altezza, non sarebbe stata una bella idea capitolare giù «Dannazione...», borbottò, accompagnando l'imprecazione con un sospiro. Doveva aver fatto male i conti, oppure al supermercato avevano cambiato il turno di ritiro rifiuti per qualche motivo a lui sconosciuto... l'idea di una soffiata, neanche era troppo lontana. A volte era capitato che qualcuno dei barboni con cui girava facesse il doppio gioco, ma Laurent non ce la faceva a prendersela con loro, e cercava sempre di calmare le acque col resto del gruppo quando "la spia" voleva far ritorno nel piccolo "gruppo di sostegno" (che era un po' una famiglia allargata): si rendeva conto di quanto potesse apparire allettante un pasto caldo o un po' di carta moneta da usare per una dose, e preferiva di gran lunga essere "tradito" che non vedere la gente compiere atti più folli. Laurent giustificava tutti, non giudicava nessuno. I suoi amici scuotevano la testa quando lui offriva una seconda - terza, quarta - occasione, ma era anche quel suo lato del carattere il motivo per cui gli volevano bene o lo avevano conosciuto in primo luogo.
    Quindi, dicevamo: Laurent stava per essere preso... ma non sarebbe stato neanche sto gran problema a dir la verità; quanto poteva fare per un "furticello" del genere? Una - due notti in carcere? Sopportabile. Ma gli altri? Non tutti i senzatetto lì riuniti erano fortunati come lui; alcuni avrebbero rischiato grosso; gli agenti avrebbero di certo scoperto che Terry era il giovane pazzo che più di dieci anni prima aveva dato fuoco al padre (un uomo violento che picchiava e molestava lui e la madre, ma a questo la polizia non avrebbe mai creduto), Agnes rischiava di perdere i bambini proprio adesso che era riuscita a trovare un colloquio per un lavoro vero dopo mesi di prostituzione.
    «Ehi!» usando tutta la forza che aveva, Laurent tenendosi con una sola mano lanciò prima un sacco poi l'altro oltre la recinzione, sperando che il sopracitato Billy fosse abbastanza sveglio da recuperarlo prima che la roba si spargesse ovunque. «E ora, sciò!» e mentre lo diceva, un sorriso sereno in volto ma urgenza nella voce, si sentì afferrare per il piede. «no bueno», mormorò, le dita intrecciate alla recinzione di metallo, e l'ultima cosa che vide prima di cadere all'indietro, ancora due sacchi neri stracolmi di cibo attaccati alla vita, furono gli amici che, piccola gioia, se la davano a gambe con quanto recuperato. "Well, almeno sono riusciti a fuggire e avranno la cena". Non era certo il bottino sperato, ma era qualcosa.
    La sua caduta fu fermata all'improvviso, magicamente. Rimase sospeso a mezz'aria, e non riuscì a evitarsi un sospiro scoraggiato.
    «Questa volta sei nei guai», lo avvisò il manager. «Non più del solito, Mark» l'uomo ritirò la bacchetta, e Laurent sbattè di sedere sulla strada con una smorfia. Portò una mano a massaggiarselo mentre l'altra abbassava la bandana dal volto (lì di bellezza, chiaramente) «Come stanno le bambine?» «Agatha si è iscritta a danza, ma non so per quanto durerà» «Cynthia gioca ancora a pallavolo?» «La sua squadra ha vinto il campionato lo scorso mese»
    Mentre Laurent si metteva seduto più comodamente, Mark si sporse per mostrargli la foto della figlia, negli occhi tutto l'orgoglio che un padre poteva avere, e soprattutto il men che minimo dubbio che il giovane seduto a terra sarebbe rimasto fermo ad aspettare l'arrivo della polizia come se niente fosse stato.
    Cosa che avrebbe fatto.
    Funzionava così con Laurent, Robin Hood del ventiduesimo secolo: faceva qualche cazzata per aiutare gli altri (e aiutare se stesso, a volte: non era sempre facile trovare lavoretti quando hai l'aspetto di un barbone e puzzi da tale), si metteva nei guai, accettava le conseguenze delle proprie azioni facendo notare quanto in primo luogo le regole infrante fossero sciocche. Laurent non opponeva resistenza non solo perchè Mark gli era simpatico e la sua famiglia era gentile (una volta lo aveva invitato a cena per farsi una doccia, e poi era rimasto a cena e per la notte: un sogno), ma perchè non voleva metterlo nei casini. L'obiettivo di Laurent era fare del bene a chi ne aveva bisogno, non certo creare problemi a chi già se la cavava.
    Quando arrivarono i due agenti della polizia Laurent, seduto fino a quel momento tranquillamente su uno scatolone con i piedi che dondolavano avanti e indietro, si alzò prontamente, una mano sulla bretella dello zaino. Si accorse subito dell'agitarsi frenetico dei due.
    «Oh» disse il primo sporgendosi dal finestrino «Ma è solo Laurent»
    «Mi mancavate troppo, Gregg» ammiccò con tanto di finger guns, ma lo sguardo di Gregg era già sul menager del supermercato.
    «Mark, senti, sono successi un po' di casini, non abbiamo tempo di portarlo in centrale per... qualsiasi cosa sia stato accusato»
    «Furto di proprietà privata, molto tecnicamente. In gergo è skipping»

    «Grazie» «Figurati» agitò una mano in aria «Sai cosa ne penso. Legge inutile, non utilizza il criterio del "pubblico interesse", tecnicamente evitiamo gli sprechi...» I suoi genitori avrebbero voluto fosse un avvocato, e da sempre, nel cercare di renderli felici, aveva cercato di studiarsi leggi, casi precedenti e via discorrendo. Se non ci fosse stato tanto lavoro d'ufficio, tanta burocrazia, forse Laurent avrebbe seguito quella strada diventando un avvocato d'ufficio o un altro di quelli poveracci ma buoni, dando ai suoi almeno una piccola gioia... Invece li aveva delusi su ogni fronte. Eh vabbè, così era la vita. «Sì sì sì. Dicevo. Siamo nella merda, abbiamo ricevuto una chiamata mentre venivamo qua da Hamilton. Riguarda quei tizi, quelli dal passato»
    Laurent si avvicinò di un passo, improvvisamente attento. «Che succede?»
    Fosse stato qualcun altro probabilmente non glielo avrebbero detto, ma era Laurent, e i poliziotti (alcuni, almeno) avevano un debole per il ragazzetto giramondo che anche se veniva trattato nel peggio dei modi, riusciva sempre a strapparti un sorriso. Quando Gregg ebbe finito di raccontare il - veloce - messaggio ricevuto, Laurent sapeva perfettamente dove doveva andare. La prigione poteva aspettare, subbia.
    «portatemi là, per favore»

    Gli sembrava di avere fra le mani una di quelle palle di vetro con dentro un dolce paesaggio: scosse leggermente scende la neve, ma poi devi posarle senza più muoverle, facendo attenzione alla loro fragilità; guardi i personaggi chiusi dentro, sorridi, ma c'è una certa nota di tristezza nel farlo perchè sai di non fare parte di quel mondo, di essere un estraneo tagliato fuori e che non potrai mai entrare a far parte di quel piccolo sogno se non da lontano.
    Laurent si sentiva un intruso, guardando quelle persone sconosciute o conosciute solo di vista salutarsi, guardarsi con occhi lucidi, mani davanti alla bocca o sopra il cuore. Badate, non in modo puramente negativo: era felice di poter partecipare ad un momento del genere, di assistere a quel ritrovo e a quei sorrisi e a quegli sguardi, e anche se stava capendo poco o niente di quanto stava accadendo o fosse accaduto comunque mesi prima (sapeva dei Prescelti in Francia quello che dicevano i giornali, e se si trovava di nuovo in Francia dopo tre mesi dalla festa era solo per amore della bis nonna e la curiosità che provava nei confronti della sua vita giovanile) non avrebbe voluto essere in nessun altro posto.
    Stette leggermente in disparte la maggior parte del tempo (dopo aver dato un bacio sulla testa a Melvin, seduta anche lei inizialmente per i fatti suoi), portandosi le mani alle guance schiacciandosi il viso solo quando riconobbe dei visi familiari. «Nonna... nonna Jess???» un passo avanti, occhi spalancati «Ma sei bellissima!» certo, aveva visto foto (ologrammi? qualsiasi cosa abbiano nel futuro??) della bis nonna da giovane ma vederla lì in 3d (come attraverso un vetro ma PUR SEMPRE 3d E IN MOVIMENTO!!) era... era così... era fantastico ?????? «Questa te la devo raccontare... e voi!» scosse la testa «Nnnnooo... Erin e Scott? Wow.»
    Avrebbe voluto dire un sakko di altre cose (?????) (in realtà no, si era fatto prendere dall'emozione ma sapeva che avrebbe fatto meglio a lasciar parlare i grandi i 2018 fra loro perchè lui non c'entrava una sega), ma ovviamente il «tutti indietro di un passo» di Jamie lo fece voltare di scatto. Incredibile, contando tutti i giorni che aveva passato in prigione, lo so, ma a Laurent le regole piacevano discretamente, se vedeva motivi per rispettarle, e non si fece ripetere l'ordine, prendendo anzi gentilmente le persone attorno a sè per le spalle facendole indietreggiare «Ciao nonna, arvedze 'n gamba eh! Non arrabbiarti troppo se il marito della tua nipotina sarà un cazzone, una volta era simpatiko ma la morte di mamma gli ha fatto male, e senza di lui non ci sarei io che sono un dono del cielo. Ah, e attenta nel febbraio del 2026: niente palline da tennis mi rakk» (?????????)
    «c’è un…» laurent si voltò incuriosito verso di Jamie, cercando poi di vedere dove fosse il suo sguardo. «buco?»
    Aggrottò le sopracciglia, non vedendo... niente? Eh la droga faceva male, Jamie, doveva limitarsi come Laurent all'erba.
    Sempre che il buco non ci fosse davvero SURPRISE MOTHERFUCKER
    20/04/2118 | 23:30
    uau qua dovrei
    scriverci cose
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    special: geokinesis
    laurent miller
    COOL PEOPLE SMILE




    scusatemi???? cos'ho scritto ho sonno non ricordo neanche se ho riletto o ho messo solo i colori ai dialoghi
     
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    I giorni passavano uno dopo l'altro, alcuni più velocemente di altri, ma in quei lunghi mesi di lontananza la speranza si era affievolita. Era convinto che sarebbe morto in quel futuro, un futuro dove lui non esisteva e forse non era mai esistito. Le dimensioni funzionavano in modo cosmico, i mondi alternativi e tutto il resto. Niente era come sembrava.
    Talvolta si chiedeva se mai sarebbe tornato a casa e sopratutto cosa ne fosse stato della sua famiglia. Aveva accolto quel viaggio nel tempo come una vacanza meritata, peccato solo che fosse forzata. Quello era l'unico problema.
    Generalmente trovava qualcosa da fare con Nicole, un viaggetto in Scozia, Irlanda, in Francia. Avevano viaggiato in lungo ed in largo, la cucina li aveva avvicinati notevolmente e doveva ammettere che era piacevole non trovarsi da solo in quella brutta situazione, era confortante non essere solo.
    Erano tornati in Francia alcune settimane prima, ricongiungendosi così ai compagni che erano rimasti nella capitale francese. Parigi era una bella città e gli sembrava di essere tornato alle origini, quando ancora viveva in Europa con sua madre, quando ancora viveva in un paese fuori città e la vita pareva meno complicata. Sua madre era una donna complicata, lo era sempre stata ma il matrimonio aveva tirato fuori il peggio di lei e non se la sè rivendi incolpar io marito perché quella problematica era lei. Lui era un danno collaterale.
    Aveva deciso di cercarlo un lavoro perché se voleva vivere aveva bisogno di mettere qualche soldo da parte e quel mondo era tutto diverso da quello che ricordava. I principi fondamentali erano gli stessi ma la vita era diversa. Più semplice sotto certi punti di vista.
    Nel corso di una riunione con i suoi vecchi compagni, gli uomini e le donne che avevano lottato al suo fianco nel corso di quella terribile missione che si era conclusa un secolo nel futuro, era venuto a sapere che si poteva comunicare con il proprio tempo, il secolo da cui venivano e dice avevano lasciato tutto senza neppure un saluto. Non se l'era fatto ripetere due volte e Rivera accollato a tutti coloro che avevano deciso di andare a casa Hamilton, quella famiglia era una costante di ogni epoca, e provare a comunicare con i propri cari. Aveva cercato di mettersi in contatto con Cain senza riuscirci ma sperava avesse recepito il messaggio ed avesse deciso di presentarsi comunque al luogo dell'incontro.
    Appena entrato in villa di fermò a salutare chiunque gli capitasse a tiro, scambiando un paio di chiacchiere con chi non era di fretta, poi si avvicinò allo specchio dove viso una delle ragazze più belle che conoscesse spero mia figlia sia ancora la bambina innocente che ho lasciato, sei un cattivo esempio sorella le sorrise caldamente ben sapendo che era la scelta migliore, l'unica che avrebbe protetto Catarina a costo della vita. Eppure non poteva fare a meno di preoccuparsi, la dura vita di un padre. Non sapeva cosa dirle se non darle qualche dritta per non uccidere la bambina, tocco lo specchio sperando di poter tornare così a casa sua, alla sua vita di sempre.
    Every time I think I'm missing a piece of me, you give it back -- role scheme by nina
     
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    Lo capite subito che c'è qualcosa di strano; un fischio fende l'aria, acuto e sottile come fosse nella vostra testa (ma non è così), dopodiché è questione di attimi. Infida unità di misura, l'attimo. Non hai tempo di comprenderlo, che è già concluso. Lo specchio sembra flettersi verso di voi, gonfiarsi come il cuore di una creatura preistorica a pompare sangue denso come miele nell'organismo. Tu-tum, Tu-tum. Inutile cercare di uscire: provandoci, scoprirete che siete bloccati in quell'angusta stanza rettangolare - in quel bagno, in quel salotto diroccato. Non a Londra, però: lì le immagini arrivano semplicemente distorte, una linea di comunicazione disturbata. Lo specchio non accenna alcun movimento.
    Voialtri potete ancora vederli quasi chiaramente, i superstiti del 2018. Potete ancora osservare le loro bocche muoversi, le loro mani tendersi senza sfiorarvi - e la pressione aumenta, ed il fischio diventa sibilo, ed il pulsare della parete diventa impossibile da ignorare.
    Smette d'improvviso com’è iniziato, e davanti a voi è buio.
    Laddove il Presente aveva bussato alla porta della vostra realtà, non c'è più nessuno.
    Non c’è nulla.
    Potete incrociare brevemente gli occhi dal futuro e dal passato, sopracciglia corrugate mentre, invano, cercate di arretrare: perché è buio, e non dovrebbe. Perché è vuoto, e non potrebbe.
    Perché nulla rimane vacante a lungo
    (questione di equilibrio)
    ed ormai lo sapete.
    Un secondo, o forse solo mezzo, in cui il silenzio si fa quasi viscoso nelle orecchie.
    Poi la parete esplode verso di voi.

    O meglio, così vi sembra; vi viene istintivo socchiudere le palpebre e portare un braccio a coprire gli occhi, allontanarvi dallo specchio quanto permesso dal piccolo ambiente. Un fruscio vi fa abbassare lo sguardo in tempo per vedere un ragazzo, capelli scuri ed un paio di peculiari occhi dal doppio colore, entrare in scivolata sul pavimento del bagno. Frena con una mano sul linoleum, un ginocchio già piegato per rialzarsi; attacca qualcosa sulle mattonelle, un oggetto che emette una fredda ed elettrica luce blu. «precauzioni» bisbiglia in impeccabile francese, sollevando impercettibilmente gli angoli della bocca in un sorriso stanco e meravigliato. Non potete saperlo, ma potete sentirlo: ha bloccato ogni genere di magia, sia quella innata degli Special che quella dei maghi tramite la bacchetta. Pur essendo armato, non toglie la sicura alla propria pistola; indietreggia fino a lasciarvi spazio per reagire, respirando piano per timore di spaventarvi più di quanto già non abbia fatto. Prima che possiate pensare ad una controffensiva, un giovane in jeans entra trafelato in scena: indossa una maglietta azzurra stropicciata, sporca di polvere ed una sostanza nera che può sembrare fango ma non lo è; tiene fra le braccia quello che ha tutta l’aria di essere un fucile a pompa, ma lo abbandona in grembo lasciando che pendi inoffensivo sul proprio petto. Cerca i vostri occhi così che possiate vedere, nelle calde iridi castane, che non ha alcuna intenzione di farvi del male. Respira a bocca spalancata per riprendere fiato, un’occhiata sopra la propria spalla verso il Portale dal quale è appena apparso. «siamo dalla parte dei buoni» il francese sporcato da un lieve accento anglosassone, il sorriso rassicurante sulle labbra sottili. Alza entrambe le mani mostrandosi disarmato, spostandosi in modo da trovarsi al centro della stanza. «gli altri?» domanda, questa volta in inglese, lanciando un’intensa occhiata al primo ragazzo in blu. Lui gli fa un cenno con il capo indicando la parete poco distante, dov’era ancora possibile intravedere uno spiraglio della diroccata casa in legno ed i suoi, peculiari, abitanti. Arriccia il naso e passa la lingua sul labbro superiore. Un gemito irritato giunge denso dall’oscurità, seguito da una risata che di rassicurante ha ben poco – eppure, nessuno dei due stranieri pare turbato da quell’errore nel sistema. «i buoni,» ribatte la terza voce scimmiottando, con pesante accento francese, ciò che era stato detto poco prima, uscendo dal Portale con la classe d’un attore di teatro. Una sagoma longilinea emerge dal buio stringendo le dita attorno alla cornice dello specchio. Vi sorride di un’ironia difficile da distinguere o capire, posando lo sguardo su ciascuno di voi. «parla per te» conclude in inglese, masticando la risposta a denti stretti. Si guarda attorno senza mostrarsi impressionato; posa i ferini occhi color giada sulla stanza, scivolando poi, non senza disgusto, sulle mani alzate in segno di resa della propria squadra. Scrolla il capo come se la questione non lo riguardasse o non lo importasse; la cravatta dei Grifondoro giace abbandonata circondando la nuca, priva di nodo. Non vi da completamente le spalle, ma la sua attenzione è attratta da altro – dal Portale, dall’assurdo scenario del visibile ed il non. Fa cadere lo sguardo sui propri piedi, dove tutti potete notare la piccola pozza cremisi raccolta attorno alle scarpe. Solleva la mantella nera mostrando una camicia pregna di sangue, ed il ben distinto solco lasciato dai denti di un animale – un felino, probabilmente. Magari una tigre. Impreca a bassa voce, si stringe nelle spalle richiudendo il manto. «vi sono mancato?» CJ guarda il Portale sporcandosi appena la bocca di un sorriso, prima di tornare ad osservare voialtri. «non siamo qui per farvi del male. guardate» il secondo ragazzo armeggia con il proprio fucile «andy, sei sicuro -» e lo posa lentamente, sul pavimento di fronte a sé, prima di allontanarsi ancora. Il primo giovane, quello entrato in scivolata, si morde il labbro inferiore e segue il suo esempio. Sono disarmati, i tre, spalla contro spalla. «il mio nome è andrew stilinski» posa, sempre muovendosi come ne andasse della sua vita, una mano sul proprio petto. «loro sono arabells» l’altro fa un cenno con il capo («billie. Lunga storia») sorridendo mite. «dallaire, e » un movimento del braccio in direzione del terzo ed ultimo degli intrusi, il quale non attese la formale introduzione dello Stilinski. «cj» piega la testa rasata verso il Portale, un ghigno sbilenco sulla bocca. «la versione bella.» Andy tenta un passo in avanti, mani ancora alzate di fronte a sé. «avete bucato la nostra realtà, ed ora abbiamo bisogno del vostro aiuto.»

    Dieci minuti prima.
    «perché siamo qui?» CJ Hamilton, mani abbandonate nelle tasche della mantella nera, inarcò un sopracciglio verso Franklyn Cobain. Il Tassorosso, la divisa (come sempre.) in disordine ed i capelli castani ancor più caotici, si strinse nelle spalle. «saltiamo un giorno di scuola?» sottolineò la sentenza graffiando le corde della chitarra appesa al collo. Era il venti aprile duemiladiciotto, e la vita era… strana da mesi, ormai.
    Seth era impazzito. La sua già sottile sanità mentale era andata completamente allo sfacelo, ed il severo Capo di Stato era diventato semplicemente sadico - un sadico folle; per intenderci, a metà Gennaio aveva riunito tutti gli studenti con un’insufficienza in Poteri Fisici, e li aveva soffocati sotto cumuli di macerie. A Febbraio aveva costretto famiglie estratte casualmente di Londra a sterminarsi a vicenda. Non gli importava neanche più se ad essere trucidati fossero Indegni (i maghi), Scelti (coloro che avevano acquistato un potere nei Laboratori) o Eletti (coloro che special, c’erano nati).
    Non c’era più alcuna gerarchia. Solo caos.
    Il primo marzo, aveva decretato i Medium una razza pericolosa: quelli che aveva trovato, li aveva sterminati tutti. Il quindici, alla lista s’erano aggiunti i Chiaroveggenti; il venti, era stato il turno dei telepati e di qualunque mago o strega ancora in grado di praticare l’antica arte della Legilimanzia. Il loro non era mai stato un mondo perfetto, ma era stato ordinato: la legge era dura, ma era la legge.
    Qualcosa era cambiato. Erano arrivati loro - quelli dell’Altra Parte. Seth credeva che oramai chiunque, perfino i suoi fidati collaboratori da anni, non fossero parte di quel mondo – ed uccideva a vista, lui. Gli bastava schioccare le dita. Schioccare le dita. Qualche anima già sulla gogna aveva detto loro che Seth aveva paura; che aveva avuto una Visione – che sarebbe morto per colpa di qualcosa che non era giusto fosse lì.
    Non poteva permetterlo. Lui esisteva da secoli.
    «intendevo al carrow’s. so perché siamo qui, cobain» masticò a denti stretti, intrecciando le dita dietro la nuca. Non riusciva ancora a credere, l’Hamilton, di essersi fatto trascinare in quella storia. Di essere diventato un ricercato; che la sua pelle – la sua limpida e perfetta pelle chiara – fosse ora screziata dai tagli rosa delle volte in cui Seth aveva voluto un bersaglio vivo: comodo usare un CJ Hamilton incapace di sentire alcun male ( insensibilità congenita al dolore con anidrosi), non si lamentava mai quando i coltellini sferzavano la carne e ivi rimanevano incastrati. «non hai letto il messaggio? Tipico.» Billie Dallaire, occhi chiari circondati da lividi cangianti, indossava ancora la divisa da Quidditch dei Blu Bronzo. Per puro principio, CJ non guardò il proprio telefono; per pura testardaggine, il Dallaire gli sbattè sotto il naso il proprio: «gi ha scritto a tutti. il portale dovrebbe aprirsi…» sospirò, una mano ad aprirsi e chiudersi. «…in giro» concluse, strappandosi un sorriso a metà. Non che il (la.) Dallaire non fosse entusiasta di poter fare finalmente qualcosa, figurarsi; odiava quel mondo da tutta una vita, e quando aveva avuto una concreta possibilità di cambiare le cose, era stata fra le prime ad unirsi alla Resistenza, sempre che così potesse essere chiamata. Ciò che lo (la.) turbava, era il non essere riuscito a prepararsi in tempo. Poteva anche essere stata maledetta con un maledetto pene, ma in cuor suo era ancora la ragazza che passava ore ed ore in bagno ad agghindarsi prima di uscire – quindi scusate tanto, se aveva le balle girate. Che senso aveva vedere il futuro se poi non davi ai tuoi compagni di squadra un maledetto, dannatissimo, preavviso? Normalmente la questione non l’avrebbe turbata, ma - «siete arrivati» - ma. Il cuore le si sciolse in una pozza d’amore e adorazione, quando incrociò gli occhi color cioccolato di Andy ”Tre” Stilinski. Aveva una cotta platonica per l’inglese espatriato da quando era stato uno dei più giovani, e fenomenali, giocatori dei Quiberon Quafflepunchers. Talvolta credeva di volerlo sposare, altre di farsi adottare come figlia. Dipendeva dalla giornata. «eravate gli ultimi» Bells (Billie. Loro) si sentì morire. Chinò lo sguardo sulla punta dei propri piedi, tornando a volare solamente quando la mano di Stilinski gli si poggiò sulla spalla. «mentre non c’eravate abbiamo fatto le squadre.» Le squadre? Andy annuì, un sorriso luminoso che le ammorbidì l’anima. «e se osate fallire» le bastò il tono per capire che, uh-uh, non voleva sentire. Non comprendeva perché fra i tanti lavori esistenti al mondo, suo fratello e la sorella del suo migliore amico dovevano per forza avere dei maledetti Laboratori dove giocavano con le vite degli altri come fossero state loro. Vendere giornaletti porno su internet non andava più di moda? «vi troverò.» non ebbe bisogno di aggiungere altro, grazie a Dio - anche perché non aveva davvero idea di come concludere la sentenza, Roy. La sua fama era decisamente più crudele (scelta di marketing, facciamole causa?) della reale Heidrun Harvelle: mantenerla su un piano ideale era semplice, ma dovendo scendere nel concreto… meh, gli avrebbe tolto internet per una settimana? Gli avrebbe scuoiato la famiglia? Non sapeva quale delle soluzioni potesse essere ritenuta un esemplare ed equa condanna. Magari avrebbe fatto un sondaggio su Instagram.
    Comunque. «dovrebbe mancare poco» Gkee strinse fra i denti la manica del maglioncino, un’occhiata nervosa al Parco. Era pieno di famiglie in gita, ma riusciva a riconoscere i profili dei ”ribelli”: mentre loro avrebbero attraversato (forse. Molto forse. Avevano il 45% delle possibilità di fallire – okay, 72. Non aveva detto agli altri quanto poco fosse certa delle sue visioni: quando si mostrava ottimista e sicura, gli altri tendevano a crederle abbastanza da rendere quel futuro concreto) i portali, gli altri si sarebbero occupati di…controllare il perimetro, ecco. Disperdere le tracce, cose così. Saltellò sul posto, il cuore a mille nel petto. Fare le squadre era stato quasi (quasi) semplice: Billie, Andy e CJ parlavano francese, quindi avrebbero dovuto cercare il Portale per la Francia (o…beh….quella che credeva fosse la Francia, e che pensava si trovasse nel…futuro? Quisquiglie) mentre lei, Roy e Frankie, si sarebbero occupati dell’Altro Portale (di cui…non….sapeva nulla, ad essere onesti. Poteva essere il far west quanto una Roadhouse od un Old Wild West del 3072 dopo Cristo); tutti gli altri sarebbero stati nei dintorni pronti ad intervenire se le cose fossero andate male, o a recuperare i possibili (ostaggi? Alleati? Li aveva visti in entrambi i modi, quello dipendeva da loro) compagni quando fossero rientrati. Lineare, giusto? Una meraviglia. Un piano impeccabile.
    ….Al…38%, sì, ma quel 38% era perfetto.
    «voi andate…lì, sì, lì» indicò un tendone poco distante. «noi dobbiamo andare…là» si avviò verso il retro della ruota panoramica. Si volse verso gli altri ancora sorridendo, Jericho “Gkee” Lowell, pollici sollevati nella loro direzione: «ci siamo tutti?»
    Sì, c’erano tutti.
    Comprese le Bestie di Seth, che proprio in quel momento schizzarono verso di loro a fauci spalancate.

    «quanto è diverso il vostro mondo dal nostro?» Andrew Stilinski, Andy per gli amici e Tre per i compagni, umettò le labbra facendo scivolare gli occhi scuri sulle persone di fronte a sé, evitando accuratamente di non ignorarne né, al contrario, soffermarsi su alcuno di loro. Aveva la stoffa del campione e del leader, il carisma in grado di placare le masse od agitarle sugli spalti. Il fu Egaisson fra le file cobalto di Beauxbatons smise di parlare in francese per tornare alla propria lingua madre, scandendo le parole di modo che fosse una parlata comprensibile a tutti. «abbastanza.» la smorfia sghemba dell’Hamilton fece quasi vacillare la perfetta maschera di cortesia di Andy. Dio, non li educavano più i giovani? Non era compito di CJ rispondere a quella domanda: se volevano, e volevano., guadagnarsi la fiducia di quella realtà, dovevano dimostrare di meritarselo. Fissò lo sguardo sul Grifondoro, intenso e ruvido, prima di riportarlo sugli appartenenti a quell’universo. «abbiamo poco tempo,» Billie alzò dieci dita nella sua direzione. «ma cercherò di dirvi quanto possibile. vi racconteremo tutto» promise, schiena dritta e braccia abbandonate inermi lungo i fianchi. «il punto è che -» «avete mandato tutto a puttane» CJ Hamilton non guardava nessuno di loro, lo sguardo acquamarina a posarsi invece nei propri, ma non del tutto, a ricambiare la sua occhiata da un altro tempo – da un’altra vita. «era già tutto a puttane» ruotò il capo verso lo Stilinski, inclinando la testa verso il basso per incrociarne le iridi castane. Inarcò un sopracciglio, un sorriso ad aprirsi sulla bocca con la lentezza di una crisalide a liberare il bruco in farfalla. «per te» sollevò il braccio recante la fascetta viola, un distratto movimento della mano a confrontarla con quella arancio del mago. «punti di vista» si strinse apatico nelle spalle tornando ad infilare le mani nelle tasche della giacca. Erano in inferiorità numerica, ed i suoi compagni avevano ben pensato di posare le uniche armi a loro disposizione: CJ Hamilton non avrebbe distolto l’attenzione dai propri potenziali avversari per principio, ma non avrebbe temuto a mostrare loro le spalle. Se volevano (e, ad intuito, volevano) ucciderli, avrebbero tranquillamente potuto farlo di petto, quindi perché preoccuparsi di non vederli arrivare? Billie Dallaire abbandonò la posizione contro il muro per avanzare d’un passo verso CJ. Da brava Corvonero sapeva che non fosse opportuno mostrare a degli sconosciuti che v’erano ferite all’interno di uno stesso fronte, ma non ce la faceva ad accettare un simile, stupido, comportamento. Lo indicò con l’indice, un sorriso amaro a pungere negli occhi grigio verdi con acida intenzione. «sono quelli come lui ad aver rovinato tutto.» all’occhiata di Andy, scosse brevemente il capo. «non perché è un Eletto, solo perché è un deficiente» CJ liquidò la questione con un cenno della mano, un sorriso arrogante nei presuntuosi occhi chiari.
    Arabells Dallaire odiava i fottuti Grifondoro. «seth è il nostro capo di stato. guida tutte le istituzioni – scuola, ministero. Tutto il mondo magico risponde ai suoi comandi» riassunse la Dallaire, facendo vagare lo sguardo dall’uno all’altro. «lo è da…molto, molto tempo. secoli» si strinse nelle spalle ruotando il capo per far giungere la voce anche al Portale opposto. «non è un Indegno, non è uno Scelto -» Gkee sollevò il braccio indicando la propria fascia bianca, «ma non è neanche un Eletto. È qualcosa di…più.» Le sembrava così, così assurdo che loro non avessero idea di chi fosse Seth, colui che terrorizzava generazioni di Maghi e Potenziati da decenni. Spostò un preoccupato sguardo eterocromatico dall’orologio a Stilinski, il cuore a tremare nel petto. Non avevano, dannazione!, tempo per una lezione di storia della magia. Lui dovette comprendere il panico nei polmoni del Dallaire, perché avanzò d’un passo e prese nuovamente parola: «i potenziati sono al comando, i maghi sono … una razza inferiore» alzò un dito. «prima avevamo un margine di libertà, ora non possiamo neanche cambiarci le mutande senza il permesso di uno di loro» un altro dito sollevato, la bocca asciutta. «non era un mondo perfetto, ma era il nostro» una fitta di dolore trasparì dagli occhi scuri, sincera ed onesta quanto l’asciutto tono di voce. «qualcosa è cambiato» «siete arrivati voi» e non trovò parole con il quale ribattere alla Harvelle, perché era vero. Abbassò il capo un istante, un solo istante, pregando che gli abitanti di quella Realtà comprendessero la portata di ciò che stava accadendo. Sentiva le guance in fiamme ed il cuore a mille, ma non poteva esporsi troppo, Andy: non poteva obbligarli, malgrado una parte di lui l’avrebbe di gran lunga preferito. «seth è fuori controllo» alzò la testa, il tono controllato di chi cercasse di convincere un suicida a non saltare dal cornicione. «abbiamo un piano per eliminarlo,» sempre che di piano si potesse chiamare. «e voi ne fate parte» Per favore. Seth stava uccidendo intere generazioni di esseri umani - chi se ne fotteva, poi, se fossero Scelti o Indegni o Eletti. Dannate persone. Billie, il pragmatico Corvonero, lo raggiunse in quel passo avanti per dire agli altri contro cosa avrebbero dovuto combattere. «ha una mimesi permanente. possiede tutti i poteri, conosciuti e non. può perfino creare la vita» un cenno con il capo al Far West, dove Frankie indicò con la punta della chitarra la Bestia morta poco distante.
    Andy non avrebbe potuto costringerli ad attraversare il Portale o a combattere quella guerra, ma confidava che pur trattandosi di un universo differente dal suo, decidessero di aiutarli: si trattava di salvare il mondo, quanta importanza poteva avere che non fosse il loro?
    this is a war - the phantoms
    When you kill a king, you don't stab him in the dark. You kill him where the entire court can watch him die
    21.04 | h: 00:00
    upside down
    au: duty calls



    //: SURPRISE BITCHES, BENVENUTI UFFICIALMENTE ALLA MINI QUEST.
    – trama. la dimensione alternativa che, sin dal principio, ha diviso il 2018 come un cuscinetto accogliendo le anime disperse di Salem e Beauxbatons, ossia l'universo nel quale avete conti in sospeso, ha bisogno di voi. È scritto nelle stelle, in un disegno da sempre più grande di qualunque Prescelto o Burattinaio: avete cambiato la storia, ed ora il loro mondo sta collassando su sé stesso. Dovete rimediare ai vostri ed ai loro errori; il vostro compito, è quello di riportare l’equilibrio. La giustizia. Sistemare una volta per tutte il Vero Conto in Sospeso di quella realtà. Perché dovreste volerlo? Semplice: in caso la gentile persuasione non bastasse, avete la possibilità di recuperare tutti i dispersi nell’AU, nonché… *rullo di tamburi* scoprire come tornare a casa – la vostra vera casa. Cos’avete da perdere?
    – breve storia upside down. ossia le informazioni di cui avete bisogno per creare il vostro fittizio facente parte dell’AU. Prendete tutto quello che conoscete dell’oblivion, e ribaltatelo. Gli Special esistono da secoli, sia come Mutazioni (quindi dalla nascita) che come Esperimenti; a inizio ‘900 vengono introdotti i primi Laboratori, ufficialmente in uso pubblico da metà del secolo. Il diventare esperimento è un onore, e può capitare in due modi: pagando (rikkanza) come si trattasse di mera chirurgia plastica; venendo scegli dagli Eletti (coloro che sono Mutati dalla nascita ed hanno da sempre un potere) in modo del tutto casuale. La gerarchia è ben delineata: gli Eletti sono al comando, possiedono potere e denaro; la fascia (ossia il bracciale di stoffa che per tutti è obbligatorio portare) che sono tenuti a portare, è di colore viola. Gli Scelti sono uno scalino inferiore rispetto agli Eletti, e la loro fascia è bianca; non hanno privilegi di base come gli Eletti, ma possiedono la più completa autonomia. Gli Indegni, infine, sono i maghi – indifferentemente dal loro stato di sangue; per avere un lavoro dovranno avere un Garante Special che li raccomandi, e la loro fascia è arancio. Scelti ed Eletti frequentano Hogwarts, e qualunque altra scuola magica, insieme agli Indegni; sono state introdotte le materie Poteri Fisici e Poteri Mentali a cui partecipano tutti gli studenti (chi attivamente per imparare ad usare il potere, chi passivamente imparando a difendersi). Come nel nostro oblivion, esiste la Sala delle Torture (ovviamente ad andarci sono, solitamente, gli Indegni – ma, ehi!, le eccezioni sono ovunque). Tutti gli insegnanti Indegni, quindi di materie che richiedono l’uso della bacchetta, sono accompagnati da un Assistente Capo Scelto o Eletto. I babbani non sono a conoscenza dell’esistenza del Mondo Magico. La Francia è più tollerante verso gli Indegni, l’est Europa al contrario è più rigido – l’America, nel dubbio, tende a farsi i fatti propri. Il potere è incentrato in Gran Bretagna, e tutti rispondono ai comandi di Seth (che, come detto, è a capo di…tutto.). In caso di domande, sapete dove trovarci (ad ogni ora del giorno o della notte, SEMPRE.).
    – tempistiche. avete tempo per iscrivervi fino alle 23:59 del 06.05.
    – regole. bando alle fasce PE, siamo ribelli: tutti avranno 15 PA/PD indipendentemente dal potere / reale fascia di punti esperienza. Valgono le solite regole a cui, lo so, siete particolarmente affezionati: (1) l’attacco vale 48 h, dopodiché se non vi sarete difesi né alcuno l’avrà fatto per voi, perderete tanti PS quanti PA offensivi. (2) sono ammesse combo in difesa, ma non combo in attacco. (3) potete fare combo con voi stessi a patto che siano due post differenti. (4) potete scegliere l’arma che preferite, e non avrete le limitazioni su proiettili / granate / quant’altro. (5) se avete ancora pg nell’au (dakota, amalie, jason, ritter & co) potrete iscriverli, ma a) solamente se avete fatto un minimo di cinque post e/o avete indovinato la questione in sospeso b) varranno come pg dell’upside down, non come principali.
    – iscrizioni. qua si giunge alla parte complessa. Potete iscrivere solamente (ed obbligatoriamente) personaggi appartenenti all'epoca 1918 o 2118, ma ciascuno di questi personaggi dev'essere accompagnato da un personaggio facente parte dell'au. Durante la mini quest i personaggi saranno insieme, quindi potrete usare indifferentemente l'uno o l'altro pg. Es: iscrivo Heidrun Crane, devo iscriverla legata Heidrun Harvelle. Non è obbligatorio che il personaggio sia effettivamente lo stesso in entrambi gli universi (né che siano pg con una scheda già fatta: possono essere fittizi, in ambedue i mondi) ad esempio Ari può iscrivere Madeleine come 1918, ma dovrà accompagnarla ad Archibald Baudelaire dell’AU – e poi ruolarli entrambi insieme: varranno come un unico personaggio. In che senso? Nel senso che verrà attaccato Arci O Mads, non entrambi (così come a difendere ed attaccare potranno essere Arci O Mads, non tutti e due). A vostra disposizione ci sono tre (3) gruppi in cui dovrete iscrivere i pg, i quali dovranno essere più o meno equilibrati (e sì, dovrete scegliere a scatola chiusa). All’interno di uno stesso gruppo, varrà come PG vero il player, ossia: se Ari iscrive Madelaine (+AU arci) e Arci (+ au Jade) nel gruppo 1, verrà attaccato solamente uno dei quattro personaggi – ma ciascun personaggio /principale/ avrà un nemico (quindi Ari ne avrebbe due, uno per Mads/AU Arci e uno per Arci/AU Jade) che attaccherà solamente quando il primo sarà morto. Se non avete personaggi nel 1918 o nel 2118… beh, create fittizi, è il vostro momento! Ricordate che non dovrete necessariamente ruolarlo, ad esempio: Eve non ha alcun pg “a spasso nel tempo”, quindi può creare un Ciccio Pasticcio del 2118 ed accompagnarlo ad AU Ringo (il Kook dell’upside down, il quale, anche se per piccoli particolari, sarà diverso dal Kook del presente) ruolando solamente il secondo mentre il primo fa da mero accompagnatore.
    Per iscrivervi dovrete postare in questa discussione. Potete fare un post, oppure rispondere semplicemente sotto SPOILER. Compilate il seguente modulo:
    CODICE
    [color=#334E58]<b>&#10141; nome pg (principale):</b>[/color] (1918/2118)
    [color=#334E58]<b>&#10141; nome pg (bonus):</b>[/color] (upside down)
    [color=#334E58]<b>&#10141; gruppo:</b>[/color] (1 / 2 / 3)
    [color=#334E58]<b>&#10141; armi:</b>[/color] (scegliete quella che preferite, può essere diversa da un pg all'altro)
    [color=#334E58]<b>&#10141; sei pronto ad accettare le conseguenze?</b>[/color] (certo che sì / ovviamente)
    [color=#334E58]<b>&#10141; incoraggia i tuoi compagni:</b>[/color] (ossia campo a caso ed assolutamente non necessario)
     
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    ➝ sei pronto ad accettare le conseguenze? meh
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    ➝ sei pronto ad accettare le conseguenze? SEMPRE.
    ➝ incoraggia i tuoi compagni: se partecipate in tanti vi facciamo sconto !! #cosa
     
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    ➝ sei pronto ad accettare le conseguenze? beh...jamie usa stiles come scudo, quindi sì
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