«an» il capo poggiato contro la porta di mogano, le palpebre calate sugli occhi verdi e stanchi. «je» tenace, Phobos Campbell, nel battere la fronte contro l’uscio sigillato a chiave. «li» dopo la trentaduesima volta che chiamava il nome della Queen bussando con il pugno aveva capito che non avrebbe aperto nessuno, ma non per questo si era arreso all’evidenza: non era il tipo di persona che si scoraggiava, il trentenne. Per questo era passato alla testa: si poteva dire che l’avesse fatto per semplice spossatezza, ed in parte era così, ma se qualcuno gli avesse chiesto cosa, per la barba di Merlino, stesse cercando di fare, avrebbe senza alcun dubbio risposto che sperava, in quel modo, di sfondare la porta a testate – aveva la capoccia dura, era un dato di fatto. «ka.» soffiò l’ultima sillaba in un moto di disperazione mentre sentiva le mani spinte sugli stipiti scivolare per la forza di gravità, e la voglia di accasciarsi a terra crescere in maniera esponenziale. Cristo santo, era l’unico oramai che non chiudeva la porta del proprio ufficio a chiave la notte, e che non applicava alla serratura un qualche mistico incantesimo bloccante atto a neutralizzare un innocente Alohomora? E dire che era lui, lì dentro, quello che avrebbe dovuto nascondere troppe cose e sigillare tutto a tripli mandati – invece, pareva davvero che solo le sue stanze fossero costantemente aperte al prossimo. Non c’era più religione, in quel posto. E a quanto sembrava, non c’era proprio più nessuno in giro per il castello di notte – qualcuno a cui chiedere qualcosa, o che gli facesse passare il tempo speso invano nei Sotterranei: persino gli studenti che non rispettavano il coprifuoco, troppo intimoriti dalla figura di Van Lidova, lo avevano tradito. «ti prego» biascicò, appoggiando la guancia contro la spessa porta ed abbandonandosi al suolo, scivolando come la mano appiccicosa di un bambino lanciata contro una parete liscia. Chiuse gli occhi, dando le spalle alla soglia e sbattendo la nuca contro d’essa un’ultima volta – forte, giusto in caso -, le gambe stese sul pavimento antico. Quello era un enorme problema, ed avrebbe dovuto dare ascolto a Keanu. Glielo aveva detto, il migliore amico, di non rimanere a scuola quel giorno, di andare alla Testa di Porco e brindare alla luna piena nell’unico modo che potevano, che tanto sapevano entrambi che da solo Phobos si sarebbe dimenticato di prendere l’ultima dose. Cosa che, come volevasi dimostrare, era accaduta: quando aveva alzato gli occhi dalle pergamene nel suo studio, realizzando di non aver ancora rigettato la poltiglia ch’era l’antilupo in un concerto di succhi gastrici e lamenti da dopo sbronza, era già – ed inevitabilmente – troppo tardi. Tristemente, non quel troppo tardi che poteva facilmente trasformare in una corsa sfrenata verso (l’infinito ed oltre!) i confini del perimetro scolastico, abbastanza lontani da permettergli di smaterializzarsi e raggiungere la casa del leader della Resistenza, trovarlo ancora sveglio e scroccargli un po’ di pozione. Quella volta, non si era dato una mossa due ore prima del plenilunio – ovviamente era già successo che non rispettasse le tabelle di marcia: era un ribelle!, non era solito seguire gli schemi. Quella volta, mancavano sì e no quindici minuti alla mezzanotte quando aveva preso a correre per la scuola come un velociraptor impazzito. «scott!?!?» spalancò immediatamente gli occhi, quando udì dei passi per il corridoio dell’aula di pozioni. Nella penombra delle fiaccole, il giovane Chipmunks sobbalzò colto sul fatto, un gridolino trattenuto in un mugugno ed il volto pallido a risplendere nel buio. «sai che ore sono?» evidentemente, l’urgenza del professore allarmò ancora di più il tassorosso, che prese a balbettare in preda al panico. «mancano… mh… due minuti a mezzanotte?» ah, bene. Phobos si alzò, un sorriso intriso di isteria a piegare le labbra nella direzione dello studente. Chinò appena il capo in un inchino di riverenza, le mani a premersi il petto. «grazie mille» rispose solamente, prima di schizzare via di lì alla velocità di Celeste Bronwin Dornette. «NON SONO NEI GUAI PROF?» perché mai. «DIECI PUNTI A TASSOROSSO!» rispose semplicemente, già pronto a spogliarsi in movimento una volta oltrepassato il doppio portone della Sala d’Ingresso.
Rotolò sul fianco ancora in dormiveglia, piegando il braccio sotto la testa per afferrare il cuscino e portarlo più vicino alla faccia; scalciò con i piedi tentando di riassestare le coperte, sentendo che nella notte doveva aver avuto tremendamente caldo per scoprirsi del tutto. Soltanto che non giaceva su un materasso, Phobos Xavier Campbell, ed aprendo gli occhi di giada poté notare che quello era il manto innevato di una radura – nonché, di essere completamente nudo come mamma lo aveva messo al mondo. E che, no, quello non era un cuscino. «aaaw» mormorò estasiato, sistemandosi in posizione prona, i gomiti puntati al suolo ed il mento adagiato sulle mani a coppa – e per quanto quello scoiattolo barra cuscino sul quale s’era adagiato fosse davvero adorabile, si pentì di tutto quanto immediatamente, scattando in piedi e facendo scappare Tom (lo scoiattolo: sì, aveva già un nome). Tralasciando il fatto che immergere le proprie grazie tra la neve dimostrava in maniera lampante perché, vent’anni addietro, il Cappello Parlante non avesse nemmeno lontanamente preso in considerazione la casata di Corinna Corvonero, c’era un altro motivo per il quale il professore di combattimento reputò uno sbaglio madornale, quello di ribaltarsi. Sfiorò con le dita l’addome, passando cauto sui bordi frastagliati di quello che, a tutti gli effetti, risultava essere un foro di proiettile – e, spingendovi appena, avvertì che non era uscito dall’altra parte. Che bel modo, di svegliarsi la mattina. Ad ogni modo, non aveva nulla con sé: vestiti, bacchetta, caramelle di emergenza o canne preparate. Decise quindi di rimediare almeno ad uno dei problemi e, sebbene le priorità in casi come quelli fossero canne e caramelle per iniziare bene la giornata, faceva troppo freddo per restare senza indumenti addosso. «meh» - non suo figlio. L’ultima cosa che ricordava della sera precedente, era di aver gettato i propri abiti ai piedi di un salice sulle sponde del Lago Nero mentre fuggiva verso la Foresta Proibita. Doveva non aver considerato, nella fretta, che fosse inverno, e che i vestiti tendono a volare al minimo soffio di vento. Osservò malinconico la toga e i pantaloni scuri in balia dei tentacoli della Piovra Gigante, la camicia a galleggiare inerme insieme a mutande e pedalini. «fantastico» commentò, braccia strette al petto ed un principio d’ipotermia a farlo tremare da testa a piedi. Entrare al castello, in quel momento, era impensabile: se non gli studenti, di certo buona parte del personale scolastico era già in piedi e vigile. Non poteva certamente presentarsi nudo e con una pallottola nel ventre come se nulla fosse. Optò per il male minore, quando si diresse alla capanna del guardiacaccia di Hogwarts. Conosceva Pearl O’Sullivan quel tanto che bastava per immaginare che, se a quell’ora era già sveglia, doveva essere decisamente rincoglionita da sonno ed alcol della sera prima.
«sei del mattino?! Giuro che gli spacco il naso» rude. Continuò a bussare insistente, più mosso dai tremori che dalla voglia di buttare giù la porta – cosa che, per inciso, non doveva essere così difficile come lo era stato provarci con l’aula di Pozioni. Non si arrestò nemmeno quando l’uscio si spalancò, ritrovandosi a colpire la testa bionda della ragazza. «ma che – ahia!» già detto quanto, quella giornata, fosse iniziata bene? Probabilmente no, perché non lo aveva fatto. Avrebbe voluto complimentarsi della presa feroce della strega, ma predilesse afferrarsi la mano dolorante e mugugnare in sottofondo. «uh, sono arrivati?» aveva una capacità di compartimentare le reazioni alle varie dinamiche della vita decisamente unica, Phobos: se l’istante prima soffriva di freddo e polso probabilmente slogato, quello immediatamente successivo già non sentiva più nulla, estasiato dalla notizia del pacco che aveva ordinato su WiZalando solo il giorno prima. Avanzò nella modesta abitazione della O’Sullivan, felice che questa fosse – come previsto – così intontita da non essersi resa conto delle condizioni del ribelle. «come hanno fatto a fallire così tanto?» però era buffo, Phobos Cappell. L’avrebbe riutilizzato prima o poi, ne era certo. Senza pensarci troppo, afferrò il pacco e lo mise davanti al proprio (mlml #cosa); si schiarì la voce, austero e rispettabile come avrebbe dovuto mostrarsi a lezione – cosa che non faceva mai. «buongiorno. avresti per caso qualche cosa da prestarmi?» chiese, schietto e senza troppi giri di parole. Meno perdeva tempo, meno moriva – e prima poteva fuggire dal Larrington o al San Mungo, per farsi estrarre la pallottola prima che facesse infezione. «certo certo…» Okay, bene. Attese, davanti la porta chiusa e facendo scivolare cauto lo sguardo sulle decorazioni vintage di quel capanno. Ed attese ancora. E ancora. «mh-mh» grattò nuovamente la trachea, richiamando l’attenzione dell’altra. «mi vanno bene anche un paio di coperte, o un tappeto» a mali estremi. | |