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eleonor x nicole

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    BEATI BELLICOSI
    sheet | ELEONOR VALERIE AZIKIWE | RIBELLE | 18 YEARS OLD | pensieve
    Stava urlando. O perlomeno, stava cercando di urlare. I polmoni erano in fiamme, nel vano tentativo di rubare aria al mondo che la circondava, la gola le bruciava mentre cercava di far scappare un unico, disperato urlo. Ma non un suono. Sudava nel cercare di muovere le braccia paralizzate, sudava mentre cercava di scappare dalle ombre che le si affollavano attorno. Erano ovunque: sopra di lei, ai suoi fianchi, nella sua mente. Poteva sentirne l’odore di morte, di paura e di disperazione. Poteva sentire la loro brama di morte, tanto che le sembravano vere. La camicia le si appiccicava fastidiosamente alla pelle madida di sudore, mentre si arrendeva a chiudere gli occhi, mentre si arrendeva alla paura.

    “Cazzo!” Con un sussulto, si mise seduta di scatto, scrollandosi di dosso l’angoscia portatale dall’ennesimo incubo. Con il respiro affannato, si guardò attorno disperatamente: era nel suo squallido monolocale, posto che considerava l’unico porto sicuro in quella Inghilterra che iniziava a detestare, che non aveva fatto altro che spingerla con violenza in un mondo che non considerava suo, dove il confine tra amici e nemici era impercettibile, dove lei stessa era vittima e carnefice di un nemico senza volto, senza nome, ma che esisteva, che aveva cercato di farle del male, che aveva cercato di ucciderla. Gli occhi percorsero febbrilmente il perimetro della stanza: i vestiti erano ovunque, come al solito, i posaceneri erano disseminati su ogni superficie e la bacchetta le premeva fastidiosamente contro un fianco, infilata nei pantaloni. Dopo la sua ultima esperienza, pensava di cucirsela addosso pur di non perderla di vista, pur di non sentire il rassicurante legno di noce che le lasciava il segno sulla carne. Si alzò velocemente, facendo cadere a terra con un tonfo il libro che le era caduto sul petto. Per l’ennesima volta, si era addormentata senza accorgersene, nel bel mezzo del pomeriggio, risvegliandosi solamente alle nove di sera, confusa e affamata, bisognosa di una birra nel giro di mezz’ora, prima di piombare in quello stato mentale tra nervosismo e necessità di combattere che le infiammava le vene e che la spingeva a rompere qualsiasi oggetto delicato nel raggio del suo braccio. Dopo una doccia più che veloce, si infilò il primo paio di logori jeans che ebbe sotto mano, una felpa nera oversize e le sue fedelissime sneakers. Acciuffò con una mano una manciata di monete, si calò il cappuccio fino agli occhi e, dopo essersi assicurata di aver blindato casa sua, si smaterializzò con uno schiocco sordo.

    Ad accoglierla ad Hogsmeade trovò un vento gelido, che spazzava inesorabile le foglie morte che incontrava nel suo cammino, spingendole ai lati della strada, insieme agli avventori della magica cittadina che cercavano disperatamente un riparo dal freddo pungente. Si calò ancor più sugli occhi il cappuccio scuro, sfilando con i denti una sigaretta dal pacchetto e accendendosela con un leggero tocco di bacchetta. Mentre sentiva i muscoli irrigidirsi per le temperature polari (dannati inglesi, ma come facevano a sopravvivere?) sputò nervosa il fumo, mentre si incamminava velocemente verso un’insegna che cigolava sotto la pressione del vento. L’insegna urlava “Testa di Porco”, la porta malconcia le dava l’idea che era proprio il pub che cercava: senza pretese, dove ognuno si faceva i fatti propri e nessuno faceva domande su chi eri e che cosa ci facevi lì. Entrò dopo aver buttato la sigaretta, senza degnarsi di togliersi il cappuccio. Insomma, non aveva la minima voglia di parlare con nessuno, figuriamoci farsi vedere in viso. Si avvicinò al bancone, adocchiando uno sgabello libero. In quello successivo, stava seduta una ragazza. Doveva avere più o meno la sua età, forse un paio di anni di più. Esile, capelli chiari. “Scusa, questo sgabello è libero, vero?” Senza attendere una risposta, si sedette, allungando un paio di monete sul bancone. “Whisky, doppio.” Non poteva sapere che la donna che aveva appena incontrato stesse cercando proprio lei, non poteva sapere che la donna che aveva appena incontrato fosse proprio quella che Eleonor stava cercando.
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    Nello stesso istante, in un luogo non troppo lontano, anche Nicole stava urlando. Le ombre che la circondavano, però, avevano volti che conosceva fin troppo bene: la direttrice dell'orfanotrofio in cui era cresciuta, l'uomo che l'aveva trascinata ai Laboratori, gli sperimentatori che l'avevano torturata per anni. Galleggiavano attorno a lei, incorporei, sussurravano parole incomprensibili e ridevano, ridevano di lei, di ciò che era diventata, e intanto le cicatrici sul suo corpo bruciavano come se si fossero di nuovo aperte. Ma, in effetti, si erano mai davvero chiuse?

    L'ennesimo incubo, ormai ci aveva fatto l'abitudine. Le faceva male ogni cosa, come se anziché dormire fosse andata a correre i 1000 metri alle Olimpiadi, e sentiva la testa pesante come un macigno. Sospirò e si girò su un fianco, allungando una mano verso il comodino alla cieca ricerca delle sue pillole di valeriana, utilissime per conciliare il sonno dopo un brutto sogno.
    Tastò l'aria uno, due volte, poi le sue dita sfiorarono qualcosa che non le era familiare. Si alzò a sedere di scatto, pronunciando un «Lumos!» verso la lampada affianco al letto perché si accendesse. No, nessuna magia, solo della buona tecnologia a comando vocale per compensare la sua menomazione, se così la si voleva definire.
    La luce improvvisa la costrinse a sbattere più volte le palpebre, infastidita, cercando di mettere a fuoco i contorni nel miglior modo possibile. Una volta abituatasi alla luminosità della stanza, spostò lo sguardo sul comodino e, in particolare, su ciò che le era parso di aver toccato. Una lettera, bianca e anonima, se ne stava poggiata accanto al suo letto con assoluta naturalezza. Eppure, di naturale non c'era proprio niente: non aveva idea di cosa fosse quella missiva e, ciò che più la preoccupava, è che doveva esser per forza arrivata lì mentre dormiva. Un brivido le percorse la schiena: qualcuno era entrato in casa sua o era opera della magia? Non era abbastanza sveglia per fare valutazioni obiettive.
    Titubante, avvicinò la mano alla lettera e, non appena le sue dita fecero per afferrarla, questa si aprì magicamente. Il foglio che aveva di fronte recava solo una frase, scritta con calligrafia elegante ma ordinata: Testa di Porco, 21.30.
    Fece a malapena in tempo a leggerla, che la lettera si disintegrò fra le sue mani, trasformandosi in qualcos'altro: una fotografia, raffigurante una giovane dalla carnagione chiara e la capigliatura spettinata. Sul retro solo un nome, Eleonor, ed un marchio che conosceva bene, quello della Resistenza.
    Osservò in silenzio la figura catturata dalla macchina fotografica, chiedendosi che tipo di persona potesse essere. Sembrava piuttosto giovane, ed aveva l'aria di una vera combattente, ma era davvero così? Aveva imparato a non fidarsi delle apparenze, ecco perché chiamavano sempre lei per valutare le eventuali nuove "reclute". Il suo mestiere ed il suo potere insieme, le avevano insegnato come riconoscere le persone a cui dare fiducia e quelle da cui invece era meglio stare alla larga. Più o meno.
    Cercò con lo sguardo l'orologio sul comò, chiedendosi che ore fossero. Si era addormentata appena tornata dal San Mungo, esausta, perciò doveva già essere calata la sera... Le nove in punto. Saltò in piedi lasciando sul pavimento un groviglio di lenzuola, poi si precipitò a sciacquarsi il viso e a cambiarsi i vestiti prima di usare la Polvere Smaterializzante che aveva acquistato un paio di giorni prima per trasportarsi velocemente ad Hogsmeade.
    Stretta nel suo cappotto, sfidò il vento invernale che soffiava, crudele, sulla città, fino ad intrufolarsi -finalmente- nel locale incriminato. Il calore la avvolse immediatamente, facendole tirare un sospiro di sollievo. Diede un'occhiata ai tavoli alla ricerca della ragazza della fotografia, ma niente.
    Che i suoi informatori si fossero sbagliati? D'altro canto, la Chiaroveggenza non era un'arte infallibile.
    Decise di accomodarsi al bancone, così da avere la porta d'ingresso sotto controllo, qual'ora la giovane si fosse davvero presentata.
    «Una Burrobirra, grazie.» ordinò per ingannare il tempo, passandosi una mano sul viso per scacciare le ultime tracce di sonno. Dio, aveva davvero bisogno di una vacanza.
    Aveva appena cominciato a sorseggiare la sua Burrobirra, pensando a dove sarebbe potuta andare per prendersi una pausa dallo stress che aveva accumulato negli ultimi tempi, quando la porta del Testa di Porco si aprì rivelando un volto che le era familiare. Socchiuse gli occhi, cercando di entrare in contatto empatico con lei per poterne percepire le emozioni con chiarezza.
    «Oh sì, certamente.» le rispose con un sorriso, spostandosi appena per lasciarle lo spazio di sedersi. Riusciva a sentire il suo nervosismo, così come le era abbastanza evidente poca voglia che ella aveva di intrattenere una conversazione, eppure...
    «Non sei di queste parti, non è così?» azzardò, giudicando il suo accento dalle poche parole che aveva pronunciato.
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    Il bicchiere colmo per metà di liquido ambrato le scivolò di fronte, spinto da una mano svelta. Con la stessa sveltezza dell’uomo dietro al bancone, lo acciuffò avidamente, portandoselo alle labbra fine, lasciandosi cadere una buona quantità di quel liquido amaro direttamente nella gola, sentendo e appagandosi di quella sensazione di bruciore che la travolse di lì a qualche momento. Quel calore tanto intenso riuscì a spazzare via quasi del tutto la terribile sensazione che la avvolgeva dopo l’ennesimo incubo. La necessità di fare qualcosa, qualunque cosa, la stava portando alla follia. Un uomo aveva tentato di rapirla, era stata quasi violentata e aveva dovuto pulire le tracce di tre cadaveri nello stesso appartamento in cui era costretta a tornare ogni dannata sera. In più, non aveva la più pallida idea di chi fosse il mandante di quel folle gesto: il suo aguzzino, colui che si era definito il signor Basquiat, aveva parlato come se lui si trovasse in quel luogo su consiglio di altri. Poteva allora sentirsi veramente al sicuro? Ovviamente no. Poteva allora continuare a starsene con le mani in mano, lasciandosi scivolare addosso ogni giorno della sua vita, lasciandosi trasportare dalla monotonia che aveva preso il sopravvento sul suo spirito avventuriero e intraprendente? Ovviamente no. Doveva mettersi in gioco. Doveva cambiare tutto, ancora una volta. Trovare un lavoro, magari, tornare ad allenarsi, mettersi in contatto con la Resistenza, facendo ciò per cui era partita, per cui aveva abbandonato la sua casa. Per iniziare, però, si accontentava di quel rassicurante bicchiere di whisky, seduta su quello scomodo sgabello in quello squallido locale. Frugò avidamente dentro le sue tasche, intrappolando tra i denti una sigaretta, l’ennesima sigaretta, e accendendola con un colpo di bacchetta e – con un secondo movimento – avvicinando a lei il posacenere che stava qualche sgabello più in là. “Non sei di queste parti, non è così?” Senza girarsi se non dopo qualche momento, sputò il fumo dalle labbra, guardando attentamente la ragazza che le aveva rivolto parola. Osservò il suo bel viso, i suoi capelli biondi e i suoi occhi grandi che attendevano fiduciosi una sua risposta. Continuò a studiarla per qualche altro momento, non curandosi di apparire strana e, probabilmente, anche un po’ maleducata. Non aveva voglia né l’intenzione di conoscere qualcuno, ci pensava già la sua ultima conoscenza a mettere a rischio la sua sanità mentale. Il pensiero di Shay, così improvviso, le procurò una fitta allo stomaco. Non voleva pensare a lui, ma – dannazione – non riusciva a fare altro. Scrollò la testa, cercò di tornare alla mera realtà. “Voi inglesi passate le vostre giornate a cercare di capire da dove vengo o sono stata solo sfortunata nei miei ultimi incontri?” Rispose impulsivamente. Subito dopo che quelle parole taglienti si erano allontanate dalla sua bocca, si rese conto di aver esagerato. Okay, non aveva proprio imparato a pensare e, solo dopo, dar fiato alla bocca, ma aveva ancora la capacità razionale di capire quando la sua aggressività fosse utile e quando no. Fece velocemente qualche altro tiro di sigaretta, fissando lo sguardo sul bancone consunto e rovinato dagli anni. “Okay, sono stata una stronza. Giornata difficile.” Non era quello il modo di comportarsi con una ragazza che le aveva solamente rivolto la parola, lo sapeva, ma la sua diffidenza nei confronti del genere umano era esponenzialmente aumentata. Si rese conto, però, che la bionda di fronte a lei non era il suo nemico. Glielo dicevano i suoi occhi, glielo diceva il suo istinto. E, da brava persona impulsiva quale era, decise di lanciarsi. Dannazione, dopo che la avevano rapita era pronta ad affrontare qualsiasi cosa, o no? “Io sono Eleonor. Se ti va di dirmi chi sei, ho voglia di ascoltare. Se ti va di bere, ho voglia di fare anche quello.” Accennò un sorriso che, probabilmente, sembrava più una strana smorfia. Era come se i suoi muscoli facciali fossero atrofizzati, come se si fosse dimenticata come si faceva a ridere, come se si ricordasse solamente di tenere un’espressione neutrale e distaccata nei confronti di tutto ciò che la circondava. Tutto pur di rimanere nell’ombra, tutto pur di non venir presa di mira, di nuovo.
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    Resistance. Wizard: Nicole Marie Rivera
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    Questa cosa dell'essere diventata l'ufficiale recluta matricole della Resistenza aveva iniziato a darle sui nervi. Certo, i suoi studi, la sua esperienza professionale, la sua innata capacità di giudizio, erano senz'altro utili ai fini dell'attenta analisi che il suo compito richiedeva, ma di contro la sua palese difficoltà nei rapporti sociali le rendeva il tutto dannatamente difficile. Per esempio, se fosse stato per lei mai avrebbe approcciato una sconosciuta ad un bar, men che meno qualcuno con quell'aria da 'Dio, non parlarmi' che giusto quella ragazza aveva stampato in volto, ma tant'è. Si era anche appena svegliata, dannazione! Buttò giù un altro sorso di Burrobirra, chiedendosi mentalmente a chi fosse possibile far reclamo per quell'ingrato incarico.
    «Suppongo sia la natura umana: vedi qualcosa che non conosci, vuoi sapere cos'è.» le fece spallucce, nascondendo un sorriso dietro al proprio boccale. «Gli inglesi, poi, sono i peggiore sotto questo aspetto.» non che avesse dati scientifici a riguardo, ma aver sempre vissuto in Inghilterra le dava un certo vantaggio sulla questione.
    In effetti, da che avesse memoria, non aveva mai lasciato il proprio paese. Non che non avesse mai desiderato viaggiare, tutt'altro, solo che non le era mai stato davvero possibile: Hogwarts prima, la prigionia dopo, e il suo lavoro. Invero, avrebbe potuto prendersi una vacanza, ma l'idea di partire da sola non l'allettava più di tanto. Forse la colpa era anche di tutte quelle volte in cui aveva sognato di partire assieme ad Evangeline; si era creata talmente tante aspettative a riguardo da non essere più in grado di pensare all'eventualità di andarsene via, anche solo per qualche giorno, senza il timore che niente fosse come aveva immaginato. D'altro canto, per quanto il suo rapporto con l'ex Corvonero fosse ormai quasi completamente ricucito, stentava ancora a fare quei passi che sarebbero stati necessari per definire la loro amicizia solida come quella d'un tempo. Ma Nicole, inutile a dirsi, non era più quella d'un tempo. Era una causa persa.
    «Tranquilla, è proprio questo il motivo per cui si entra in un bar, no?» scherzò, gettando un'occhiata al suo bicchiere. In effetti, malgrado la sua poca socievolezza, le sue escursioni alcoliche serali non erano per niente una novità. Si sedeva in disparte, beveva qualche drink, scambiava due chiacchiere solo se era abbastanza brilla da volerlo fare, poi se ne tornava a casa. Una volta ogni tanto beccava il tipo molesto di turno, ed allora le toccava usare il proprio potere per ammansirlo, altre volte accettava le avanches di qualcuno solo per il gusto di sentirsi normale come quasi mai si sentiva da quando era tornata dai Laboratori.
    «Nicole.» si presentò facendo un cenno con il capo. «E, se può aiutare, ho avuto una giornata difficile anch'io.» si limitò ad aggiungere, perché dire di avere un'intera vita difficile poteva risultare un tantino imbarazzante ad un primo incontro. «Seduta psichiatrica alcolica? Mi piace.» affermò, facendo cenno al barista di riempire nuovamente i bicchieri ad entrambe. Buffo il fatto che fosse capace di tanta naturalezza solo quando era costretta a farlo.
    «Beh, che posso dirti? Passo le mie giornate a cercare di convincere la gente a non buttarsi dalle finestre del secondo piano del San Mungo e a dar loro consigli relazionali quando, ops, io stessa sono stata scaricata appena un paio di giorni fa. Riesci a dirmi di peggio?»
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