stranger in a strange land

sersha + cj

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    kentucky jagger
    Imprecò per l’ennesima volta, fallendo nel mordersi la lingua. In quel fottuto buco di paese non aveva trovato niente di meglio di alcool scadente e un paio di stracci, non che cent’anni di prima usasse altro, per medicarsi. Avrebbe chiesto a Barbie di guarirla, fosse stata una persona normale. Indovinate? Non lo era: prima di chiedere aiuto, doveva star m o r e n d o. Non amava dover dipendere dagli altri, né che qualcuno la toccasse.
    In quel caso, non stava morendo, quindi non le serviva Adam Levine. «sei sicura?» spostò gli occhi dalla ferita al ragazzo, le palpebre a ridursi a una fessura «sì» tono deadpan, e non se ne parlava più. «tanto non avevo voglia» eh, ma che piccolo infame. «grz barbie smpr il best» lo conosceva a malapena, ma lo amava molto di più di qualche altro stronzo barry. Aveva sempre voluto uno zio kul a cui rompere i coglioni con le sue cazzate, e le era piombato a caso da un albero.
    Non scherzava: il Jagger viveva davvero su un albero.
    «ti stavo dicendo, praticamente c’è lorenzo che sta usando nilufar per far ingelosire sara – almeno, questa è la teoria mia e di maria – ma non vuole dichiararsi» «sks e pe-perché????» la bionda sospirò, una mano al cuore come a frenare il dolore. «ma che cazzo ne so, vuole prenderci per il culo ancora per un po’» «mica sc-sc» «scroto» no? No. Eh vbb, Barbie parlava sempre di scroti altui con i vecchi di Bodie. «e invece nicolò rimane una puttana» «ha di nu-nuovo limonato con v-vi» «sì, troiagirl. E poi se n’è andato da Marta – I mean, how fucked up is that?» era arrivata a lamentarsi di uomini e donne con qualcuno che non aveva idea di chi fosse Queen Mary, l’astinenza da tutto le aveva dato finalmente alla testa.
    Strappò un pezzo di garza e la avvolse sulla mano, con tanto di cheerleading da parte di Adam. «troppo utile» «non c’è di c-che serscia» «sersha» «e-e io che ho detto?» che figlio di mignotta, lo odiava. C’erano volte in cui le piaceva, ma quello era solo perché aveva una casa sull’albero e la Kavinsky poteva spingerlo giù quando voleva. Facevano anche le scommesse: se Barbie riusciva a cadere in piedi vinceva lui, se no la grana era sua. Barbie era una sega a quel gioko, era fin troppo facile vincere con un bambino speciale.
    «e cj?» «cosa» cosa sapeva lui che a lei mancava? Ma cosa voleva. Ma perché le parlava. Le piaceva di più quando era spiccicato al suolo, finalmente zitto. «parli nel sonno, gemi» ah ah ah, k simpa Barbara. «gli piacerebbe» in realtà no, ma quello Barbie non lo sapeva. Se si pentiva di aver usato il jagger come il peggio confessionale del gf? Sì, ogni volta che respirava.
    Kentucky Jagger aveva bisogno di passatempi nella sua vita, capite? Non le bastava salvare il culo di Barbie dai bodiotti, o rubare il tavernello a Gemes: non pensava fosse abbastanza per il suo animo trash. Quindi, era passata alla ciatelleria. Ora che ci ripensava, avrebbe potuto gestire la cosa meglio. «ciao xoxo vado» «DOVE» a fanculo, come al solito.

    Che posto di merda, quel buco di paese dimenticato da Satana.
    Voleva tornare a casa, per quanto la odiasse. Dov’erano Sandy e Barry? Quelle teste di cazzo erano tornate in Francia, o si erano perse cercando la patata bollente?
    Era proccupata per Dagger, ma sapeva che poteva cavarsela da sola.
    E in tutto quel puttanaio, aveva cercato davvero tanto di non pensare ai suoi genitori, a Barrow (che nome di merda, poi) e a CJ. Nessuno le aveva spiegato un cazzo, l’unica cosa che aveva era un pezzo di carta scritto da qualche alternativa versione di se stessa. Poteva fidarsi? Perché avrebbe dovuto. Perché no.
    Parte di quello che aveva letto nella lettera, le era stato confermato da Sandy e Barry. Per il resto, non aveva capito una pippa - ma non era una novità, dopo i kinesi volanti a Salem non voleva più saperne niente della vita.
    Il piano era semplice: entrare nel saloon #farwest e rubare qualcosa che non fosse il tavernello di Gemes, semplice e pulito. Un po' come quei cazzo di cartoni dei ninja che aveva visto qualche volta da piccola, solo più r-rated. «visto che non ho delle tette, dovrai distrarlo te» sersha ancora sperava che sarebbero spuntate dal nulla, com’era successo a tutte le ragazze della sua età. Forse poteva provare ad annaffiarle. «gli dici qualche cazzata delle tue per farlo allontanare e io scivolo dietro al bancone a prendere la bottiglia» mantenne lo sguardo oltre la spalla di CJ, concentrandosi sul vecchio intento ad osservare i contadini lavorare. Si sarebberi ridotti come lui pur di fare qualcosa nelle loro vite, quello o il raccogliere barbabietole per le Fay. «va bene, jebediah?» alzò gli occhi chiari sul ragazzo, un mezzo sorriso a curvare le labbra sottili. Cristo, che nome di merda.

    Kiss me 'til you're drunk
    and I'll show you all the moves like Jagger
     
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    you want to take the lead and hurt first.

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    «chi è quello?» e dire che CJ Knowles, spalle alla porta e gambe pigramente allungate di fronte a sé sul pavimento, ne aveva aspettato di tempo prima di uscire dalla propria camera. Aveva atteso, pazientemente, che ogni rumore cessasse – che le voci divenissero sommesse ed ovattate, le risate smorzate in sbuffi dal sonno. Si sapeva che il ragazzo avesse bisogno dei propri tempi, dei propri modi, per somministrarsi alla gente: un sovradosaggio era letale per ambedue le parti. Quando anche l’ultimo bicchierino era stato malamente sbattuto sul tavolo e più nessun suono s’era imposto dalla cucina degli Shaw, CJ aveva ritenuto fosse giunto il momento di uscire dalla propria tana. Aveva lanciato una sbilenca occhiata al divano, arricciando il naso nel constatare che fosse già occupato: Elysian, Shia, Heidrun – proprio in quell’ordine – più uno sfortunato Swing abbandonato mollemente al suo destino sopra tutti e tre. Aveva alzato gli occhi al cielo, la lingua a premere sul palato. Sospirando piano s’era avvicinato al tavolo, impadronendosi della bottiglia abbandonata con un lesto movimento di polso, e qui aveva volto le proprie iridi alle due teste corvine accasciate sulla superficie lignea.
    Non c’erano più i giovani di una volta.
    Dopo aver infilato il naso in un bicchiere ed aver constato, sperato, fosse pulito, vi aveva versato un dito di whisky, prima di lasciarsi cadere mollemente sulla sedia libera di fianco a Gemes. Non sapeva con esattezza quanto tempo fosse rimasto a bere in silenzio, CJ, studiando il profilo di un’addormentata Darden seduta dalla parte opposta alla sua – forse minuti, forse ore. Di quel vuoto riempito solo dai respiri, avrebbe potuto fare una religione – quelle sbagliate, sapete. Quelle che veneravano con ironia la mancanza di un Dio, ed in una stanza piena di persone riuscivano a vedere solamente gli spazi vacanti.
    CJ Knowles era sempre stato bravo ad essere l’unico fra tanti.
    Nella tiepida luce elettrica che ancora illuminava la stanza, accompagnato solo dal frusciare dei vestiti dei suoi compagni di disavventura, le aveva riprese - e sapeva quanto fosse stupido, quanto fosse inutile, quanto poco avesse senso. Sapeva che non era la sua vita, quella del CJ nelle foto: non era il suo BJ, non era il suo Joey; non erano la sua Sersha od il suo Barry; non erano i suoi genitori, od i suoi zii, o buon Dio il suo Barbie - perfino lui!
    Sapeva che Ronan Barrow Beaumont non era il suo Sunday De Thirteenth.
    Ma era tutto ciò che gli fosse rimasto, e se lo sarebbe fatto bastare.
    Nell’udire la domanda, CJ non aveva fatto una piega. Non si era irrigidito, non un muscolo del viso l’aveva tradito mentre voltava gli occhi, una fetta sottile color giada, sul suo interlocutore: «un bambino» ribattè ovvio, una curva pigra delle labbra sottili verso un afflosciato Gemes Hamilton, senza nascondere la pellicola – sarebbe stato troppo sospetto. D’altronde, nel viso tondo del bambino biondo acciambellato su un divano qualsiasi di una vita qualsiasi, non c’era nulla di sconcertante: anche se l’Hamilton fosse realmente riuscito a mettere a fuoco la foto, cosa che non stava facendo, ed anche se avesse riconosciuto CJ, non sarebbe cambiato un cazzo. Neanche Gwen avrebbe potuto fargli la predica: Cristo, nel 1918 non era permesso avere proprie foto nel fottuto portafoglio? L’altro si strinse (cercò.) nelle spalle, facendo leva con i palmi aperti sul tavolo per (cercare di) alzarsi a sedere. «gliel’avevo detto che avrei vinto» Aveva evidentemente pronunciato la parola magica, vincere, perché al pugno sul tavolo perfino il Knowles si ritrovò a sobbalzare con il cuore in gola.
    Cristo. Santo. «UN ALTRO GIRO.» e la Larson, fiammeggianti occhi cerulei, era ufficialmente rientrata in gioco. Sentendosi l’arbitro di una partita di quidditch, osservò con interesse accademico l’opaco scambio di sguardi fra Gemes e Darden – doveva intervenire? Smorzare la tensione? Schioccare le dita e farli cadere in trance? Indubbiamente, avrebbe dovuto impedirgli di bere ancora.
    Ma andiamo, con quale incoerenza avrebbe potuto permettersi un atto del genere. «pronti via» riempì fin troppo generosamente i bicchieri facendoli poi scivolare verso i rispettivi proprietari, guadagnandosi da entrambi un’occhiata che in circostanze normali avrebbe potuto apparire minacciosa, ma che nelle condizioni in cui versavano li faceva sembrare due cuccioli di gatto troppo cresciuti. Nel dubbio, rivolse ad ambedue il migliore dei suoi sorrisi.
    Non fecero caso a lui, quando passò alla foto successiva. Non prestarono attenzione alle dita a stringersi impercettibilmente sulla pellicola sottile, od allo sguardo farsi duro e freddo – che se avessero visto il taglio orizzontale della bocca di CJ Knowles in quel momento, qualche domanda se la sarebbero fatta.
    Premette il pollice sul proprio nome, nascondendo le lettere infami di un cognome che non gli apparteneva con il dito, e sollevò la fotografia di fronte ai propri occhi. Erano troppo fottutamente familiari, quelle facce del cazzo lì, per non costringerlo a smettere di respirare soffocando un ringhio atono – e certe cose, buon Dio, a quanto pareva non cambiavano mai. Si diceva che le foto fossero importanti, che cogliessero un pezzo di vita - che lo ricordassero per sempre.
    Almeno loro.
    E CJ Knowles, a ricambiare il sorriso sornione di un CJ Hamilton dalle foto segnaletiche, non avrebbe mai saputo perché a sedici anni lui e Ronan fossero stati arrestati – in Florida, per giunta. Lo sapete cosa si prova ad essere inermi di fronte alla propria fottuta vita? A non sapere una minchia di quegli stessi occhi che ti ferivano ogni fottuto giorno dal fottuto specchio? Avrebbero potuto essere lui e Sandy l’anno prima, se - se.
    Se lui e Sandy fossero mai stati così. Non avrebbe saputo spiegare a parole cosa ci fosse di diverso nei visi dell’uno o dell’altro rispetto ai loro attuali, ma c’era indubbiamente qualcosa che non tornava – una nota dissonante, il suono del coltello sul piatto nel tagliare la carne a cena. Erano solo ragazzini, Ronan e CJ Hamilton. Magari in un mondo sbagliato, ma erano ragazzini - un lusso che Sandy e CJ Knowles non avevano mai avuto, nati adulti in corpi neonati. Non erano ancora stati spezzati, quei Ronan e CJ – ed il Knowles, seduto in una fottuta cucina del cazzo nel 1918, non poteva che invidiarlo. Invidiarsi, chiedersi cosa si provasse a non. fottutamente. Sanguinare. Ad ogni. Fiato. Come si fottutamente facesse, a sorridere e basta alla lente di una fotocamera.
    E odiava tutti, CJ Knowles, capite? Neanche il suo fottuto metro e quasi novanta poteva contenere quell’onda straripante di disprezzo: dopo aver consumato quel che c’era di buono e di marcio in CJ, doveva trovare qualcos’altro da radere al suolo – qualcun altro. Non aveva più abbastanza di sé stesso per rendersi polvere e riderne. Era stato derubato, contorto e ritorto come fil di ferro.
    Era così ingiusto.
    Era così sbagliato.
    Era così fottutamente ingiusto e sbagliato.
    Era così «cos’è ingiusto e sbagliato?» non si era reso conto di averlo detto ad alta voce – o delle proprie guance arrossate, o del fiato a mancare costringendo i polmoni a stritolarsi per ricercarne.
    O del fatto che Jayson Matthews fosse appena entrato nella stanza. «oltre a – questo» sopracciglia corrugate, il fremello, mentre con un ampio gesto del braccio indicava la stanza. «che stronzi» perché non l’avevano aspettato? Perché avevano occupato il divano? Non l’avrebbe mai saputo. CJ piegò appena la bocca in un sorriso, il capo ancora chino sulla fotografia. «sempre» concordò atono, monocorde come l’amen conclusa la preghiera. Tamburellò con il dito sul bicchiere pieno a metà, ed anche lì sperava pulito, al proprio fianco. «te ne ho tenuto un po’» ed ancora sorrise, pur non guardandolo.
    Perché era passato alla foto successiva, CJ – e di quell’immagine statica conosceva ogni linea, ogni curva.
    Ogni morsa allo stomaco ed ogni battito perso.
    «aw, charlie» eppure la voce gli arrivò distorta, assordata e resa metallica dal cuore ad otturargli le orecchie. Chiuse gli occhi nel riporre le fotografie all’interno dello zaino, la mascella serrata e la lingua a sanguinare. Non si scostò quando zio Jay ritenne opportuno e necessario graziare la sua testa rasata con le proprie labbra, tristemente consapevole di quanto tutto, di quel Jay – e di quel Gemes e di quella Darden e di quel Shia e di quella Heidrun e di quell’Archibald e di quell’Aidan e di quella Gwen e quel Joey Sersha BJCJ - fosse pura facciata: sopravvivevano giorno per giorno, ora per ora, in silente bilico fra isteria e sanità. «è vivo?» indicò con un cenno del capo Gemes. CJ, da bravo figlio (x2) ch’era, decise di constatarlo nel modo più pratico: premendogli una mano sulla faccia, e rivolgendo al suo adorato padre (x3, c’era anche la versione religiosa) le tenere attenzioni di Darla con i propri pesci. Ricevette in risposta un biascicato «crane piantala» che ritenne molto ironico, ed un debole schiaffo sul polso. «pare di sì» Fine.
    Gente di poche parole, i CiJay di quel mondo. Nessuno dei due bevve; si limitarono a rimanere in ascolto del flebile russare dei belli addormentati, facendo ondeggiare di tanto in tanto il liquido ambrato all’interno dei bicchieri. Dormire piaceva poco, quando anche i sogni avevano il ramato sapore degli incubi. «posso chiederti una cosa?» Jay aprì la bocca, probabilmente per rispondere in vero stile Arci ricordandogli che l’aveva appena fatto, ma la richiuse invitandolo con un cenno del capo a proseguire.
    CJ si disse ch’era colpa dell’ambiente. Che da biasimare c’era la angoscia ad occludere i polmoni, l’alcool a bruciare sulla lingua, il peso di due vite troppo lunghe – che era la notte, che era quel posto del cazzo. Dovette deglutire, passare la lingua sulle labbra secche. «quando… ti cancellano la memoria sulla tua vita» ignorò il cinico sopracciglio inarcato del Matthews. «e poi… trovi persone che ne hanno fatto parte» lo sguardo di Jay scivolò su un Gemes ancora privo di sensi, un «mh» ad incitarlo a continuare. «se-» dovette sollevare gli occhi al soffitto, CJ, soffocando l’inizio di una risata nervosa e folle.
    Non poteva dirlo ad alta voce, era troppo per lui – e sicuramente, lo era anche per Jay. Difficile dire chi dei due volesse morire di più, in quel momento. Non era bravo in quelle cose, CJ.
    Ma aveva bisogno di sapere, ed aveva carenza di persone a cui poterlo domandare. Strofinò le mani a palmo aperto sul bordo del tavolo, un sorriso pregno d’ironia a piegare la bocca. «poi come fai a sapere che sei stato tu» ripiegò, in quello che Dio, buon Dio, avrebbe tanto voluto non suonasse come un fiato disperato. «a fare cosa?» la sentì elastica, quella domanda – un interrogativo al caramello, di chi sapeva la risposta ma voleva una conferma. Sapevano entrambi che Jayson avesse compreso quel che CJ faticava a dire – a vivere, a pensare. Che certe cose, gente come loro, non avevano bisogno di specificarsele: se le leggevano nelle rughe degli occhi, nei pugni chiusi e le risate forzate. Jayson Matthews, Freddie Hamilton, Myles Shaw o quel cazzo che gli pareva, non avrebbe potuto comprendere appieno la situazione del Knowles – non aveva vissuto due fottute vite intere, Cristo – ma almeno in parte poteva: Jay non era Freddie.
    CJ Knowles non era CJ Hamilton.
    Ed allora perché Jay aveva Gemes. Ed allora perché CJ aveva BJ.
    Ed allora perché Lydia.
    Ed allora perché Sersha.
    «scegliere» si sentiva sbagliato, CJ. Costretto in una storia che aveva scritto e rimosso, mosso da fili del cazzo che ad ogni movimento lo strangolavano un po’ di più – perché non ci sapeva stare, in quelle righe. Non era mai stato bravo a seguire le regole, le spaccava e basta.
    Ma non aveva mai saputo dire no, a BJ Reynolds. Non aveva mai rimpianto di aver conosciuto Sandy, né di aver incontrato Joseph o Barrow. Si odiava, CJ Knowles, perché non si odiava affatto - perché quelle regole gli piacevano, gli andavano comode. Perché non riusciva a pensare ad una fottuta vita del cazzo in cui loro non ci sarebbero stati. Perché gli andava bene, che qualcun altro li avesse scelti per lui – che CJ Hamilton se li fosse imposti.
    Con Sersha era diverso. Con Meara era sempre stato diverso. Non voleva – non fottutamente, maledettamente, voleva che fosse stato qualcun altro a scegliere per lui. Non se lo meritava, non se lo meritavano. Non, Cristo Signore, poteva sopportare che fosse CJ Hamilton, quello a spingere gli angoli della bocca in un sorriso sghembo alla Serpeverde.
    Aveva già avuto tutto, lui. Che cazzo d’altro rimaneva, a quel CJ?
    Stupido, infantile. Capriccioso ed insignificante – eppure non ci dormiva la notte, un braccio piegato sotto la testa e gli occhi al soffitto. Non ci viveva bene di giorno, setacciando quella Bodie del cazzo perché aveva bisogno del suo miglior amico e lui non c’era; non ci respirava nei pugni incassati anche quando avrebbe potuto evitarli, nei soldi sporchi guadagnati nella fattoria in disuso dei Bower. Non ci stava, CJ, nel sopportarsi tutti i fottuti giorni quella famiglia del cazzo che sapeva di aver perso, e che ogni fottuto giorno di merda gli domandava ignara di passar loro il fottuto olio.
    Gli stava tutto sui coglioni, ma lei sempre un po’ di più.
    Od un po’ di meno, a seconda dei punti di vista.
    Vide Jay buttare giù il contenuto del proprio bicchiere, una smorfia aspra e falsamente leggera sulle labbra – abile nell’evitare il contatto visivo, occhi caramello fissi sulle proprie mani. Gli diede una pacca sulla spalla, alzandosi infine in piedi. «perché lo rifaresti» e CJ non aveva risposto, e Jay s’era già avviato verso la propria camera. Si fermò sull’imbocco del corridoio, sopracciglia corrugate nell’occhiata sbieca da sopra la spalla. «charlie, devi dirmi qualcosa?»
    Hai due figli di diciott’anni.
    Sono tuo nipote – ah, anche BJ lo è.
    Ah, anche Barbie è tuo nipote.
    Veniamo dal futuro, abbiamo creato noi il Labirinto – hai visto che belli nel video messaggio?
    «è cj» gli sorrise salutando pigro con la mano, un bacio schioccato nella sua direzione. Attese di sentire la porta chiudersi, prima di alzarsi.
    Che a volte era semplicemente tutto troppo, capite - ed allora si faticava a respirare, ed il sangue diveniva denso veleno a ledere i tessuti.
    Prese un cuscino e lo infilò sotto la testa di Darden; prese un bicchiere, lo riempì d’acqua, e peccando d’aspirina decise che a padre Shaw avrebbe fatto lo stesso effetto un rosario ivi immerso – con tanto di biglietto del Knowles come monito a redimersi dei suoi peccati. Infilò una sigaretta fra i denti, e sistemò una coperta sui quattro stronzi addormentati sul divano.
    Non sapeva neanche perché lo stesse facendo.
    Rimase immobile a lungo, CJ Knowles, le mani a coprire il viso tremando flebilmente. Doveva calibrare ogni fottuto gesto del cazzo, lui – percepiva la violenza in ogni battito, un istinto primordiale a costringerlo a spingersi un po’ di più. Sentiva il bisogno viscerale di andarsene – andarsene e basta.
    Andarsene di nuovo.
    Era un vagabondo, CJ. Non sapeva come starci, in una casa.
    E non era di una casa che aveva bisogno, lui - non nel senso fisico.
    Ecco perché, mezz’ora dopo, si ritrovava sul vialetto della magione maledetta. Ecco perché, sgattaiolato nel cortile, stava lanciando sassolini sulla finestra di quella che sapeva essere una camera da letto.
    Ecco perché «blowjob, posso rimanere qui stanotte?»

    «visto che non ho delle tette, dovrai distrarlo te» Sorrise alla Kavinsky, sopracciglia arcuate e capo chino per cercare d’incontrarne lo sguardo. Avrebbe potuto dirle che non aveva bisogno delle tette per distrarlo, ma perché mentirle? L’onestà era praticamente l’unica fottuta cosa ch’era certo fosse fottutamente sua – era stato messo a novanta troppe volte a causa delle proprie verità, per credere che il culo a bruciare fosse colpa di qualcun altro. Amava credere che almeno nel farsi fottere, avesse i propri meriti. «gli dici qualche cazzata delle tue per farlo allontanare e io scivolo dietro al bancone a prendere la bottiglia» Erano in momenti come quello che CJ sapeva perfettamente, e senza ombra di dubbio, perché lei gli piacesse tanto – e che l’Hamilton si fottesse, quello era tutto Knowles. «va bene, jebediah?» CJ reclinò il capo verso destra, un sorriso sghembo a completare quello a metà della Kavinsky. Un passo nella sua direzione, prima di chinarsi e bisbigliare al suo orecchio un «guarda e impara, kentucky» superandola per raggiungere l’ennesimo accattone che quel buco di culo di Bodie aveva l’onore di vantare. «’giorno, buon uomo» sorrise melenso al barista, liquido come la più leggera delle pennellate su tela. Lui, come prevedibile, non ricambiò il sorriso: ah, neanche essere il figliol prodigo del parroco l’avrebbe salvato dalla scenetta di Natale.
    Che rancorosi bastardi.
    Ora, il piano era piuttosto semplice – banale, a dire il vero: doveva solo distrarlo.
    CJ Hamilton avrebbe ampliato il sorriso, invitandolo ad uscire per osservare più da vicino la buccia della Barbabietola Santa: ”dai, è chiaramente Gesù quello nella buccia! MIRACOLO!”.
    CJ Knowles avrebbe abbandonato il sorriso in breve, preferendo la tattica del mordi e fuggi - dove il mordere avrebbe implicato prendere la testa dell’uomo e sbatterla contro il bancone, ed il fuggire… niente, ma dire solo pikkiare un vekkio sarebbe stato rude.
    Ma.
    Ma.
    Non era CJ Hamilton, a Bodie (California) 1918. E non era solo CJ Knowles, a premere i gomiti sul bancone del locale. Amava fare a brandelli la propria reputazione, costruirsi in cartone e ferro la sagoma del ”Tenere fuori dalla portata dei bambini – ma anche di chiunque”, ma non c’era solo la propria, in ballo. Sì che Gemes era stato abbastanza sveglio da rendere noto a Bodie che suo figlio fosse un po’ autistico, ma CJ stava cercando di mantenere un profilo basso: colpisci duro, ma colpisci al buio – quel genere di profilo basso, per intenderci. Gli scazzava incredibilmente il dover qualcosa a qualcuno, e testardamente si sentiva in dovere di dimostrare che, vaffanculo, poteva essere un bravo ragazzo del cazzo, quando voleva – il genere affidabile, il genere che non mandava a puttane tutto per capriccio.
    Il genere che «gradazione alcolica alta - amen» mentre faceva scivolare una verde banconota sull’appiccicosa superficie in legno.
    Soldi guadagnati onestamente incrinando le costole di suo nipote. Se li era quasi guadagnati, il barista del saloon. CJ non accennò ad abbandonare il sorriso neanche quando lo volse sulla Jagger, una morbida stretta nelle spalle. «sono il figlio del prete, cosa ti aspettavi» aveva rovinato tutto il divertimento? Sì. Lo rimpiangeva?
    Sì. Cosa non si faceva pur di fare buona impressione su papà, oh. Ma come si era ridotto. Inspirò secco dalle narici, attendendo che il Principe della Barbabietola tornasse con qualcosa di buono per le mani – lo sperava con tutto il cuore, CJ: se avesse fatto schifo, lo avrebbero usato come accelerante per bruciargli la famiglia. E doveva averlo capito anche il locandiere, ormai. «a proposito di figli,» chinato sul bancone, volse una bieca occhiata di sottecchi alla bionda. «ken, ma ‘sta lettera duemilasticazzi ti è arrivata, o è in ritardo come il tuo telarca?»
    A scopo puramente informativo, eh.
    I wait for you to come around you got me dancing in the dark
    I've closed my eyes But I won't sleep tonight
     
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    kentucky jagger
    In fondo, il 1918 non era così male. Certo, a meno che non fossi ispanico, gay, di colore o una donna. A parte quello, era un ottimo posto dove passare il proprio tempo a coltivare barbabietole e a rubare ai rikki per dare ai poveri (Sersha). «guarda e impara, kentucky» l’aveva detto lui eh, e se Kentucky si aspettava uno dei suoi soliti assi nella manica, quella volta rimase interdetta. Non aveva idea di come funzionasse nel far west, ma a casa sua non si pagava per bere – il solo fatto che il Knowles avesse piazzato dei soldi sul bancone, era abbastanza per farle sollevare le sopracciglia. «ma sei scemo?» che domanda idiota, la conosceva già la risposta. Appoggiò un gomito sul bancone, il busto appena sporto in avanti per osservare lo scambio tra i due: da quello che stava vedendo, non era soddifatta dalla performance di CJ. Aspettò qualche momento, certa che di lì a poco il ragazzo avrebbe afferrato la testa del barista per sbatterla sul legno, o qualcosa del genere.
    Cristo, aveva segato a metà una persona qualunque e non- «gradazione alcolica alta - amen» amen un cazzo. Immaginava l’avessero picchiato troppo forte da bambino, ma non le era mai sembrato più menomato di altri – beh, stava incominciando a ricredersi.
    Abbassò il tono fino a un bisbiglio, allungandosi verso il tassorosso «cosa stai facendo?» «sono il figlio del prete, cosa ti aspettavi» sorrideva, CJ Knowles. Anche Sersha sollevò gli angoli delle labbra, mostrando il medesimo sorriso – i suoi occhi, al contrario, non sprizzavano altrettanta gioia. Aveva capito che la prossima si sarebbe portata dietro Joey, almeno lui avrebbe potuto meravigliare tutti con la sua burlesque. «mh, hai ragione, non sei il tipo da sporcarti le mani» ruotò lo sguardo sul barista, annuendo lentamente alle sue stesse parole, mentre decideva cosa fare. Avrebbe potuto seguire l’esempio del Knowles, o fare come voleva lei «ma io non sono la figlia del prete, quindi» scrollò le spalle, e lasciò completare la frase al ragazzo. Quindi faccio il cazzo che voglio. Avrebbe potuto lasciar perdere, ma ormai si trattava di una questione di principio, e quando si metteva qualcosa in testa non c’era modo di dissuaderla – infatti, si vedeva che grandi scelte aveva fatto nella vita.
    Si chinò sul bancone e richiamò l’attenzione di Greg, il quale sembrava aver ancora meno voglia di vivere di quanta ne avesse lei: le stava già simpatiko «senti, Gary» «Boe» «come ti pare. prima ho visto myles girare qui intorno, ho sentito che ti deve dei soldi?» la sua conoscenza del periodo veniva dai film, e in quei pochi che aveva visto, c’era sempre una qualcuno con dei debiti. Aveva menzionato il primo nome venutole in mente, e a giudicare da come si illuminarono gli occhi di Gyanny, ci aveva preso. «figlio di un marx!» era un insulto? a giudicare da come si precipitò verso la porta, decise di sì. Adocchiò un inserviente servire ai tavoli e prima che questi potesse sostituire Gary, Sersha scivolò oltre il bancone, aggraffando le bottiglie che aveva adocchiato pochi minuti prima «gngn gradazione alta amen» bofonchiò tra i denti, ancora scazzata per prima. Non era propriamente scazzata, però CJ gliel’avrebbe anche potuto dire che non aveva intenzione di fare un cazzo. «allora, il mio te-tuamadre non ho idea di cosa sia» (#onesto) esordì, incamminandosi a passi svelti verso la porta, prima che qualcuno la sorprendesse con l’alcool stretto fra le braccia «e la lettera ce l’ho, perché, ne hai una anche te?» aprì la porta con le spalle, mentre la fronte stava iniziando a imperlarsi di sudore. Non era sicura di voler sostenere una conversazione del genere, specie se includeva bambini e relazioni.
    Era stato più complicato del previsto ignorare la sensazione delle labbra del ragazzo sulle sue e il bisogno di prendersene ancora e ancora, ma a quel punto, sapeva dove voleva arrivare CJ.
    O forse era confuso quanto lei.
    «non so se l’hai letta, ma è piena di cazzate» non ne era sicura, ma sperava fosse così. Alzò lo sguardo sul tassorosso, tentando di cogliere qualcosa di diverso dalla solita piega affilata - cosa, non lo sapeva neanche lei. Una conferma, una smentita? Mantenne le iridi lì dov’erano, cercando nel viso del Knowles una risposta alla sua domanda «perché mi hai baciato?» non era un’accusa la sua, quanto più una curiosità. Lei ce l’aveva, un’opinione in merito, ma sperava di sbagliarsi.

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    Si morse la lingua, CJ Knowles, un sopracciglio arcuato in direzione della Kavinsky. Il Tassorosso era un esibizionista di natura, ma sapeva anche quando fare marcia indietro mostrando che non fosse sempre un miscredente figlio di puttana - talvolta, qualcosa in cui credere, lo aveva. Sé stesso, quando aveva tempo da perdere. Capitava perfino al Knowles di essere troppo orgoglioso per accettare che il mondo avesse fottutamente ragione; a Londra, con i soldi racimolati fra Rodere ed altre attività poco lecite, uno dei suoi passatempi preferiti era entrare nelle boutique di classe, possibilmente vestito da barbone (qual era) e con le giuste chiazze livide di sangue sugli zigomi, per sputtanare i suoi averi in cappotti del cazzo di Chanel nei quali infilava Cocaine perché stesse al caldo - con sta minchia, che ci si sporcava la pelle lui. Ostentava un denaro che non aveva solamente perché poteva, perché di quelle etichette di merda di cui il mondo lo voleva protagonista, ci si puliva il culo: decideva CJ quale fottuto cliché del cazzo essere, grazie tante. A Bodie, California, sceglieva di essere lo psicopatico che parlava con le pannocchie e schiantava le ossa di tuo nipote con una ginocchiata allo sterno, ma ehi, sotto il sole del mezzogiorno pagava i propri debiti e sorrideva alle vecchiette. Onesto nel suo non esserlo mai del tutto, ed esserlo comunque più di tanti altri. «sborona,» masticò a denti stretti, lanciando un'occhiata interdetta alle proprie intaccate banconote. Non era necessario, e CJ aveva fatto dei propri metodi alternativi una necessità, non un vizio: se poteva pagare, l'avrebbe fatto. Era stupido rubare qualcosa quando se lo poteva permettere - un inutile infangarsi una reputazione che, di suo, lasciava già a desiderare. Si strinse nelle spalle, occhi verdi alzati al cielo; evidentemente non era colpa di CJ se Sersha Kavinsky non si sentiva abbastanza criminale di suo, e doveva eccedere. Lui, di quei problemi, non ne aveva mai avuti.
    Un delinquente di classe - roba per pochi.
    «infantile,» continuò, intrecciando distrattamente le dita dietro la nuca nel volgerle un sottile sguardo di sottecchi. «e caga minchia.» concluse, lasciando che l'ombra di un sorriso piegasse un lato della bocca verso l'alto. A quanto pareva Sersha Kavinsky aveva una sua discreta visione di quel che CJ era, e quel che non era - problema suo. Non era il tipo da giustificarsi, né da dare importanza all'opinione altrui - soprattutto quando questa non intaccava la natura del rapporto: Sersha poteva ritenere il Knowles la persona più indegna sulla faccia della terra, ma sapevano entrambi che il giorno dopo, e quello dopo ancora, sarebbero ancora usciti insieme, ed ancora si sarebbero lamentati delle stesse stronzate.
    Freaks, a summary.
    «allora, il mio te-tuamadre non ho idea di cosa sia» che capra ignorante. Trattenne ancora un sorriso, lunghe ciglia bionde a sfiorare le guance, nel reclinare il capo all'indietro. «nulla di cui tu debba preoccuparti» biascicò, un ghigno a metà figlio della battuta che avrebbe compreso solo lui. La seguì all'esterno della locanda, i passi lenti e strascicati con i quali aveva sempre consumato il cemento della Gran Bretagna: difficile, se non impossibile, vedere un CJ Knowles di fretta. A lui la vita piaceva bruciarsela accelerando a rallentatore. «e la lettera ce l’ho, perché, ne hai una anche te?» Rude. Non la aiutò ad aprire la porta, osservandola con il cipiglio annoiato e seccato che solitamente dedicava a suo fratello quando faceva qualcosa di stupido ed offensivo - tipo respirare. «mi prendi per il culo» non ritenne opportuno risponderle che , la aveva. Se a quel punto non c'era arrivata da sola, infilare il dito nella piaga della sua ignoranza le pareva superfluo - e l'aveva presa sul personale, CJ: lui non era nella sua lettera? Lei non aveva le loro foto? Era un livello di rudezza che sforava le leggi dello spazio e del tempo, letteralmente. «non so se l’hai letta, ma è piena di cazzate» ed ancora non le rispose, limitandosi a stringersi nelle spalle e distogliere lo sguardo. D'altronde non aveva chiesto la sua opinione in merito, e lungi da CJ Knowles dare informazioni aggiuntive quando non esplicitamente richieste: era un ragazzo di poche parole, ed ancor meno voglia di dirle. Non che potesse realmente pronunciarsi in proposito, dato che tendeva ad evitare l’argomento perfino con BJ. Erano passati mesi, ma per il Tassorosso era ancora difficile da accettare – non credeva sarebbe mai stato in grado di digerirlo. E no, il suo problema non era l’assurdo viaggio nel tempo, quanto la facilità con il quale aveva ceduto a credervi, quasi non avesse mai aspettato altro. Si sentiva stupido, buon Dio. Si sentiva un patetico bambino a cui il Signore in persona avesse offerto la perfetta giustificazione per quell’esistenza nata a metà, e sporca da sempre. Socchiuse le palpebre alla bianca luce del sole, lasciando che il calore lambisse la pelle chiara e sottile delle guance. Dovette piegare il capo sulla propria spalla ed aprire maggiormente un occhio, nel percepire il peso delle iridi chiari di Sersha su di lui. Beh? domandò tacitamente, inarcando cinico un sopracciglio.
    E per quella domanda, CJ Knowles, non era preparato.
    «perché mi hai baciato?»
    Perché –
    Perché mi hai baciato? Non avrebbe dovuto stupirsene, ed invece non riuscì a celare quanto quell’interrogativo l’avesse preso in contro piede. Subito le sorrise ironico, la vaga speranza che fosse un modo come un altro per cambiare argomento, ma dovette abbandonare il ghigno quando, negli occhi di lei, lesse sincera curiosità in proposito. Ma che – ma che cazzo di domanda era? Erano domande da fare, poi? Corrugò le sopracciglia avanzando ancora di un passo, le dita allacciate sulla nuca ed i gomiti poggiati l’uno contro l’altro sotto al mento. Scosse impercettibilmente il capo soffocando nei denti una risata incredula, la carne stretta fra i canini a cercare una risposta nel sangue. Perché CJ, a Sersha, avrebbe potuto rispondere in qualunque modo, e sarebbe sempre stato sincero: perché mi annoiavo; perché non avevo nulla da perdere; perché no?. Sarebbe stato onesto perfino scrollandosi nelle spalle in un era solo un bacio - ma non era abbastanza figlio di sua madre da ignorare questioni spinose illudendosi che non pungessero. Avrebbe potuto evitare il confronto diretto con la rinomata classe dei Crane, alleggerendo la tensione finchè non fosse divenuta così inconsistente da prendere il fottuto volo, e possibilmente non tornare più a terra; avrebbe potuto mostrarsi tutto Hamilton nel ribattere con un’altra domanda, lasciando che fosse Sersha a cercarsi la risposta che ritenesse corretta.
    Ma checchè ne dicesse la Lettera, lui non era Crane Junior Hamilton. Lui era CJ.
    Ed a CJ, mentire, non era mai piaciuto.
    Arrestò il passo fino a fermarsi, i piedi a fungere da fulcro perché potesse girare su sé stesso. Si pose senza troppi complimenti sulla strada di Kentucky Jagger, impedendole di proseguire se non circumnavigandolo. «perché volevo farlo» rispose ovvio, battendo lentamente le ciglia sugli occhi acquamarina. Gli pareva una domanda così stupida, così insulsa, da sentirsi in obbligo di continuare a guardarla in attesa che proseguisse – e quando lei non lo fece, reclinò il capo ed arcuò le sopracciglia. «non posso?» e fu più forte di lui il sorriso a colorare le labbra, gli occhi una fessura sottile d’oro e verde.
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    Evidentemente, qualcuno non le aveva prese a sufficienza quel giorno. Non vedeva che stava cercando di farle qualcosa di davvero utile, anziché continuare a lamentarsi? Dalla posizione di CJ poteva non sembrare così complicato, ma capire come incastrare quella bottiglia tra l’elastico dei pantaloni e la camicia non era facile, anche perché era sicura le sarebbe scivolata appena avrebbe mosso un passo in avanti. In quel momento si stava quasi pentendo di indossare i “calzoni che mi stanno piccoli” di Barbie, quando era chiaro che fossero troppo grandi per chiunque. Sembrava uno spaventapasseri, ma alla fine aveva concluso che qualsiasi cosa era meglio di portare un vestito - non aveva neanche idea di come si infilassero, figurarsi. Era quasi riuscita a trovare un problema alla situazione elastico, quando il Knowles, non senza un’ultima pausa d’effetto, dovette dare fiato a un insulto? Un contorto complimento? «sborona, infantile, e caga minchia» e sorrideva pure, il coglionazzo, fiero di se stesso per essere riuscito a concludere una frase di senso più o meno compiuto. La bionda si fermò a fissarlo per qualche attimo, scuotendo poi la testa e decidendo che non aveva neanche voglia di ricambiare il favore al ragazzo «se è così che parli alle ragazze, capisco perché sei vergine» era anche vero che c’era chi adorava farsi trattare come uno zerbino, forse avrebbe potuto provare a ripetere le stesse cose a qualcuno di loro.
    Comunque, alla fine non era riuscita a risolvere il problema che più le stava a cuore in quel momento. Altro che insulti di CJ, lei era in lutto per il suo piano mai decollato. Ignorò la paralisi facciale del ragazzo, ormai più impegnato a sghignazzare con se stesso che ad aiutarla. Dov’era Barry quando seriva? Ah, giusto, a correre dietro alla patata bollente.
    «e la lettera ce l’ho, perché, ne hai una anche te?» aprì la porta con i gomiti – grazie CJ – incominciando ad essere sempre più restia all’idea di condividere il suo tesoro con quell’infame. Perché avrebbe dovuto, quando era stato tutto frutto del suo unico e duro lavoro. «mi prendi per il culo» «è uno dei miei passatempi preferiti, lo sai» side note: a CJ erano per caso venute? Perché, in quel caso, Sersha sarebbe evaporata in pochi secondi: preferiva evitare le persone mestruate, quando possibile. Aspettò che il tassorosso le rispondesse, e quando non successe, decise di non indagare oltre. Non aveva idea di cosa sapesse CJ del futuro, se avesse una lettera o una sfera di cristallo, ma se non aveva voglia di parlarne se ne sarebbe fatta una ragione. Per ora. «perché mi hai baciato?» invece, aveva deciso di cambiare discorso, convinta che non le avrebbe risposto neanche quella volta. Rallentò fino ad arrestarsi, osservando CJ che andava a bloccarle la strada. Sembrava così confuso da quella domanda, che la bionda non poté fare a meno di chiedersi che cosa vi fosse di strano - non gli aveva mica chiesto quante seghe si fosse fatto nell'ultima settimana, dopotutto. Dovette fare un passo indietro per poterlo guardare in volto senza sentire il suo collo urlare, ma almeno quella volta non aveva il sole in faccia, poiché il ragazzo provvedeva a bloccare i raggi. «perché volevo farlo, non posso?» la bionda fece schioccare la lingua sul palato, mentre si sistemava una chiocca di capelli dietro l’orecchio. Stava prendendo tempo, ancora confusa da quel sorriso sulle labbra del ragazzo: la stava prendendo per il culo? Era difficile dirlo quando si trattava di lui.
    Non posso? Non ne aveva idea. Poteva? Non riusciva a trovare un motivo valido per il quale non le sarebbe piaciuto sentire ancora la sensazione di lui sulle labbra, e non era sicura di cosa provare a riguardo. Nel dubbio, avrebbe posticipato la questione a mai. «non chiedere, fallo e basta» sbatté le lunghe ciglia per poi avanzare di un passo, lasciando la scelta al Knowles. O forse gli stava solo chiedendo di togliersi dal cazzo.

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    Edited by cocaine/doll - 13/4/2018, 22:43
     
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    Aveva aspettato ore, prima di presentarsi a quella porta – a quella vita. Non esisteva tempismo per chi, come lui, arrivava sempre o troppo presto o troppo tardi; il Tassorosso aveva smesso d’interessarsi alla concezione del tempo un’esistenza prima, quando tutto era andato a puttane in un mezzo battito di ciglia e d’altri mesi ed anni non se n’era più fatto niente.
    Respirò a denti stretti, sanguinando ad ogni fiato. Chinò il capo ad osservare le proprie mani, malamente fasciate dentro quella che un tempo era stata la sua canottiera, e che Houdini aveva reso utilissime bende da battaglia: tremavano flebilmente, quelle piccole puttane traditrici. Chiuse i pugni ed ignorò la stilettata di dolore ad intirizzire cuore e polmoni. Le prime luci dell’alba pungevano campi d’oro e smeraldo esigendo la presenza dei contadini e dei pastori di Bodie; piccoli uccellini cinguettavano da un ramo all’altro raccontandosi, come da teoria esposta anni prima con un più giovane de Thirteenth, storie sporche che avrebbero fatto vergognare anche le più accanite scrittrici di fanfiction a rating rosso su Harry e Louis. Quel CJ ai piedi dell’enorme albero, avrebbe potuto essere un CJ qualunque - che intanto, qualsiasi CJ ci cascava sempre in quella sottile trappola di seta.
    Ma non si trattava di un CJ qualunque: era Christopher Jeez Knowles, quello a saggiare il sapore denso del proprio sangue fra le radici del tronco che ospitava la dimora Jagger. Socchiuse le palpebre, scosse impercettibilmente il capo. Appena tornato in California, com’era giusto e necessario, aveva cercato – e trovato – suo fratello: se n’era sbattuto il cazzo d’essere sudato e malconcio, dell’espressione ferita e stupita di BJ; di tutti quegli scheletri nell’armadio con i quali entrambi i fratelli avevano imparato a ballare la samba, preferendo ignorare la carne a decomporsi sull’osso in favore di un fragile quieto vivere comune. Gli aveva raccontato cosa fosse accaduto, tacendo sul fatto che fosse morto - tacendo sulla sorella; voleva solo, fottutamente, godersi una di quelle rare parentesi di tregua in cui riusciva a sorridere al Serpeverde senza sporcare la bocca di greve e rancida malizia – quei delicati momenti in cui CJ si permetteva di amare qualcuno, e quell’affetto lo lasciava gocciolare secco dalle iridi acquamarina.
    Dire che non si fosse accorto del cambiamento in sé stesso in quelle ultime ore, sarebbe stata una cazzata. Si era insinuato nel cuore del Tassorosso percorrendo un vetro già scheggiato e cagionevole, arrampicandosi sui tagli come sangue in una ferita appena aperta. Era iniziato negli occhi di CJ Hamilton, nella piega sghemba ed affilata della sua bocca – ed aveva infine infranto la barriera nel momento in cui il suo alter ego aveva stretto le braccia attorno alle spalle di un privo di vita Reynolds, vuoto e trasparente come un sacchetto di plastica per imballaggi. Siamo uguali, io e te. Ancora sulla lingua, ancora sui denti, ancora a masticare un cuore il cui battito CJ aveva ignorato per anni. C’era qualcosa di troppo emotivo e fragile, nel Tassorosso; debole, infranto e ricostruito più volte di quanto fosse umanamente possibile, scheggiandosi palmi e dita e fingendo di non vedere il sangue. Era in grado di riconoscerlo perlomeno a se stesso, che l’impenetrabilità dei propri sorrisi fosse dovuta al percepirli sempre troppo più del dovuto; quand’era da solo, poteva fingere di patteggiare con il triste scenario della propria misera esistenza. Come sapeva perfettamente, il fu Prefetto, che in un altro mondo sarebbe stato un perfetto Oratore: sapeva cosa dire, CJ; sapeva come farlo. Aveva semplicemente scelto di non dirlo né farlo, divenendo il fastidioso ed eccentrico diciassettenne che il mondo odiava o biasimava o trascurava. C’erano momenti in cui avrebbe voluto essere meno sé stesso e più quell’ideale, il Knowles; in cui si domandava quanto la sua vita sarebbe andata diversamente se, anziché seguire la propria lingua ed il proprio masochistico istinto, avesse tenuto la testa più abbassata e le spalle più infossate. Se le parole, il fu Hamilton, le avesse usate per guarire anziché, sempre, per tagliare un po’ più a fondo. Forse non si sarebbe trovato lì.
    O più probabilmente, si sarebbe trovato comunque lì ma avrebbe avuto qualcosa da dire, anziché ritrovarsi a mordere la guancia senza saper cosa fare dei propri bronchi. Mosse un primo, esitante, passo verso l’arbusto – e si fermò ancora, il respiro profondo a dolere i polmoni. Era giusto fosse lì - aveva bisogno di essere lì, in quell’esatto punto di quell’inesatta vita. Lo sapeva, il Knowles; l’aveva visto nella mascella serrata del proprio doppelgänger, nella voce screziata di dolore e ferro con il quale infilzava il mondo perché non c’aveva un cazzo da perdere – lo sapeva da quando aveva ricevuto la Lettera, da quando in una scuola abbandonata a sé stessa, sporco di sangue e con pochi respiri, si era permesso di posare la bocca su quella di Sersha Kavinsky.
    Una parte di CJ, credeva di saperlo da tutta una vita. Pensava troppo, il Knowles; pensava troppo finchè non lo faceva punto, lasciandosi guidare da istinti primordiali ed antichi quanto l’acqua od il cielo. Finiva sempre, sempre, per giungere ad un punto di rottura. Ad una svolta.
    Inspirò dalle narici, spinse i pugni chiusi contro le palpebre. Non voleva più vivere così, CJ. Non voleva più fingere, trascinandosi dietro menzogne e non detto per poi marcire su rimpianti e rimorsi. Non voleva più perdere suo fratello; non voleva perdere i suoi amici.
    E non voleva sprecare quell’opportunità, CJ, dolorosamente conscio che di storie come quella ce ne fosse solo una su un migliaio – e che fosse sempre la loro, e che fossero sempre loro. Prendendo parte alla missione del 2043, CJ era stato consapevole del fatto che avrebbe perso la sua famiglia: genitori, zii, nonni; l’ho già persa, e si era stretto nelle spalle. Che cazzo di differenza può fare, ed ingoiando bile ed acido, l’aveva accettato – ma ad un prezzo.
    Perché sapeva che non avrebbe perso BJ. Non avrebbe perso Ronan.
    E non avrebbe perso Meara. Non li avrebbe lasciati di nuovo, si era ripromesso. Non avrebbe commesso lo stesso errore due volte; si era imposto di non fallire, CJ Hamilton, convinto di voler e poter vincere sempre. CJ Knowles ne sapeva di più e di meno: aveva già perso, e raramente aveva voluto vincere – e si era testardamente, ingenuamente convinto, che quel che aveva potesse bastare. che quel rapporto zoppicante con BJ andasse bene, che non potesse entrare nella vita di Sersha Kavinsky più di quanto non avesse già fatto. Non si era neanche reso conto di quanto, Dio!, quanto si fosse trattenuto da irrompere nelle loro vite come un bulldozer su un edificio in demolizione, pur non desiderando altro – pur avendo bisogno di ben poco altro. Non si era reso conto, finchè non aveva visto l’altro CJ, di quanto si fosse privato.
    Non aveva capito quanto fottutamente labile fosse quella vita, CJ – quanto poco bastasse perché glieli portassero via prima ancora che fossero suoi. Voleva suo fratello al proprio fianco; voleva che quei cazzoni dei Freaks la smettessero di cercare di crepare ad ogni ansito di fiato, perché aveva bisogno di loro come d’ossigeno.
    E c’era poco da prendersi per il culo, perché CJ Knowles voleva Sersha Kavinsky. Doveva essere fottutamente scritto nelle stelle, a quel punto; doveva Cristo Santo essere stata impressa nel sangue e nella carne, perché altrimenti veniva difficile pensare che dopo tutti quegli anni, e tutti quei loro, si trovassero di nuovo lì. Sempre lì, ad un passo dall’essere qualcosa e troppo distanti dall’essere sconosciuti, abbastanza vicini da poter diventare un noi ed abbastanza terrorizzati da tenersi disperatamente ancorati ai loro io. Umettò le labbra, lasciando che le gambe cedessero e lo portassero a poggiare la schiena sul tronco dell’albero. Aveva chiesto a Barbie di aggiustarlo - il minimo indispensabile, s’intendeva: quel dolore a persuaderlo d’essere vivo voleva tenerselo ancora un po’, CJ, perlomeno finchè non fosse stato abbastanza da riuscire a convincerlo -, gli aveva domandato se potesse rimanere con lui implicando sottilmente un loro, ancora agonizzando dietro una certezza sulla quale non riusciva a tenere il passo. Non voleva tornare a casa Shaw, CJ – e, capriccioso, voleva semplicemente una scusa per giustificare la propria presenza in quella casa. Se lo sentiva nelle vene, il Knowles, che se avesse aspettato ancora avrebbe finito per procrastinare all’infinito, trascinando come denso caramello quella relazione fatta di sottintesi e malizia. Che avrebbe trovato altre scuse per giustificare l’impossibile, mescolando codardia e coraggio nel non voler avere qualcosa di suo perché consapevole di non poterselo permettere. Gli ci erano voluti mesi, vite intere, per scindere quella che credeva assoluta certezza in cruda, brutale, verità –e per averne ancora più paura.
    CJ Knowles non voleva che Sersha Kavinsky fosse sua, era lui a non voler essere di nessun altro. Che si fottessero l’orgoglio e le maldicenze, l’insano bisogno di avvicinarsi sempre più alla morte che non alla vita – non aveva importanza, in quel frangente. Voleva poter dire di averci provato, CJ. Voleva potersi guardare allo specchio, sorridere sghembo al proprio ghigno, ed asciugarsi malevolo l’ennesima goccia di sangue a pendere sul labbro inferiore dicendosi sei un pezzo di merda, CJ, ma sei un pezzo di merda fottutamente testardo. Patetico? Probabilmente. Se ne sbatteva qualcosa?
    Non in quel momento.
    Non sollevò lo sguardo quando sentì i passi di fronte a sé, riconoscendo nel modo delicato e cocciuto con il quale consumavano la terra rossa della California, la camminata della Serpeverde; attese ancora, gambe allungate di fronte a sé, finchè i piedi di lei non si fermarono. Non ebbe bisogno d’alcool, quella volta, nello spingersi infine in posizione eretta senza ricambiare l’occhiata di lei, ancora diversi metri a separarli. «non siamo amici» secco, risoluto. Non un briciolo d’indugio in quelle parole, non la sporcizia di una menzogna a renderne opaca la forma. Onesto, si sapeva, CJ si sforzava d’esserlo sempre. «non lo siamo mai stati» corrugò brevemente le sopracciglia, sentendosi impastare la lingua, ed i nuovi denti gentilmente donati dal Jagger, da qualcosa di più grumoso e sottile della pura e semplice verità: era pura e semplice verità studiata, analizzata, che costava un grammo d’ossigeno ad ogni parola spesa. Il loro rapporto era sempre stato diverso, rispetto a quello con i fratelli di lei o con Joseph; non si era mai sprecato a darci un’etichetta, a soffermarcisi più del dovuto, ma in cuor proprio l’aveva sempre saputo. Non aveva avuto bisogno di una cazzo di lettera, ma le conferme di non essere semplicemente l’ennesimo coglione di turno incapace di resistere ad una ragazza, facevano sempre bene all’ego e all’amor proprio. Non è colpa mia, si ripetè; era fottutamente già così, prima che ci conoscessimo od avessimo un nome. «ed onestamente, kavinsky, non voglio esserlo» alzò la testa cercando gli occhi chiari di lei, ignorando la gola secca per plasmare le labbra in un debole sorriso. «sono fottutamente stanco di fingere che sia tutto un bel gioco del cazzo» indicò prima se stesso, e poi lei. «non è divertente» il sorriso sparì dalla bocca del Tassorosso, un cauto e misurato passo nella sua direzione. Non sapeva porsi freni, né voleva farlo. «e non è mai stato un gioco» inarcò un sopracciglio senza specificare per me - perché sapeva di dover e poter dire noi, ma ancora non s’arrischiava ad esplicitamente parlare per altri. L’avrebbe capito, Sersha.
    Lo faceva da più di una vita. «vorrei poter dare la colpa al vecchio cj, a quella lettera di merda,» si strinse nelle spalle, il pollice a sfiorare distratto la punta del naso mentre il Tassorosso inspirava sonoramente. «ma non sono un completo coglione» un ghigno, sopracciglia crudelmente sollevate. Se fosse stata Meara, il respiro mancato di CJ Knowles, non si sarebbero trovati lì: era Sersha, il suo problema; era il modo in cui sollevava ghigno e dito medio infossando la testa nel cappuccio scuro, le spalle rigide non appena un rumore troppo forte o troppo vicino li coglieva alle spalle; era la determinazione negli occhi chiari ogni volta che scendeva in campo, i denti serrati ad ogni pugno incassato, il testardo alzarsi con più sangue sulle mani che nelle vene; era il modo in cui li guardava, lui ed il resto di quel gruppo d’handicap con cui giravano come gesso ed ossa rotte, vedendo in loro tutto quel che non avevano ed erano comunque.
    Come guardava lui, con quel misto di desiderio distante e seccato con il quale si poteva desiderare una granita nel cuore dell’inverno – giusto perché in vendita non te la mettevano, e pur volendola sapevi di poter sopravvivere comunque. «e non voglio più comportarmi come tale.» un altro passo ed un altro sospiro, sempre più a se stesso che non alla Kavinsky. «non me ne frega un cazzo se il mondo mi disprezza o non mi vuole o non mi capisce» gli angoli della bocca piegati verso l’alto, lo sguardo a guizzare rapido sul cielo blu cobalto prima di tornare a guardare un punto oltre le spalle della bionda.
    Dillo, CJ. Morse a sangue l’interno della guancia sporcando le labbra di un sorriso sgualcito ed orribilmente sincero. «ma non mi dispiacerebbe se tu potessi fare un eccezione» ingoiò saliva e liquido ramato, alzando paziente una mano per sfregare appena, distratto ma mai indeciso, il labbro inferiore di lei. «per oggi, per domani» premette lo stesso pollice con cui le aveva sfiorato la bocca sul proprio petto, sempre assorto ma mai superfluo: incideva una promessa, CJ Knowles, con quelle dita sul cuore – e lei avrebbe potuto interpretarlo come le pareva.
    «per quanto cazzo ti pare»
    Che ci avrebbe provato sempre.
    cj shaw / knowles
    2043: cj hamilton
    04.06.1918
    menace to society
     
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    Era così concentrata sull’intagliare il legno, che quasi non sentì i colpi alla porta. Posò il coltellino e la tavola a terra, pulendo dai pantaloni i residui della lavorazione prima di alzarsi – la Kavinsky alzò gli occhi al cielo, trattenendo un’imprecazione tra i denti, immaginava fosse uno dei Freaks, dato che Barbie non aveva amici o figa. Si domandò brevemente se vi fosse un modo semi-umano per mandare a faculo l’amiko di turno, sapendo già che sarebbe stata una battaglia persa: persone come Sandy non accettavano rifiuti. Per sua fortuna, non si trattava del fratello. «ah, sei te» mantenne la voce atona, l’espressione a farsi più annoiata del solito – non gli avrebbe dato la soddisfazione di farsi vedere mossa da quella vista, non si sarebbe imbarazzata ulteriormente. Sì, perché per lei si trattava di questo, dato che il Knowles non aveva problemi a ignorarla, così faceva anche lei. Era maledettamente orgogliosa, fatele causa. «non siamo amici, non lo siamo mai stati» sbatté sorpresa le ciglia, non si aspettava di certo quello. Non pensava neanche che fosse lì per lei, figurarsi. «questa era rude, knowles» ribatté rapida la bionda, avvezza a quel tipo di dichiarazioni random che faceva il tassorosso. Piegò la testa nell’osservare il ragazzo, chiedendosi che diamine volesse da lei – insultarla? Che si accomodasse pure, solo non mentre era a casa a farsi i cazzi propri. «ed onestamente, kavinsky, non voglio esserlo» deglutì, cercando dannatamente tanto di rimanere impassibile al suo sorriso accennato. Si era sbagliata sin dall’inizio, vero? Premette le labbra in una linea sottile, lo sguardo a perdersi per qualche momento oltre le spalle del Knowles; cazzo, sersha, datti un contegno si ricordò severa, non era certo una dodicenne alla prima cotta. «sono fottutamente stanco di fingere che sia tutto un bel gioco del cazzo, non è divertente» un….gioco, interessante definizione del loro rapporto. Era certa che per CJ fosse sempre stato quello, una bambolina da stuzzicare quando si annoiava e da buttare via quando ormai si era stancato – fece per aprire la bocca per chiedergli che cazzo fosse cambiato, venendo battuta sul tempo «e non è mai stato un gioco» lo osservò avvicinarsi, e per l’ennesima volta si ricordò di darsi un contegno. Fosse stata un’altra persona, Sersha non avrebbe creduto a una delle parole che aveva detto, ma il Knowles non era come gli altri – un bugiardo, non lo era mai stato. Avrebbe voluto fargli mille domande, in primis perché fosse una testa di cazzo, ma nessuna sembrava quella giusta: la Kavinsky era conosciuta per rovinare il momento, e sentiva già pungere sulla lingua l’impulso di farlo «vorrei poter dare la colpa al vecchio cj, a quella lettera di merda, ma non sono un completo coglione» la bionda sollevò le sopracciglia, lo sguardo chiaro ad assottigliarsi divertito «ah, sì? Da quando?» eh, scusate si era trattenuta anche per troppo tempo. Si sarebbe potuta soffermare sulla lettera ma non le importava abbastanza da scomodarsi, aveva già fatto il suo lavoro no? E sinceramente, se non ne avevano mai parlato prima, ci doveva essere un motivo (sono due teste di minchia). CJ fece un altro passo avanti – per dimostrarle quanto fosse un coglione? – senza che la Kavinsky sentisse il bisogno di indietreggiare, la vicinanza al tassorosso non la disturbava quanto quella con gli altri, accendendo in lei qualcosa di diverso. «non me ne frega un cazzo se il mondo mi disprezza o non mi vuole o non mi capisce» che se ne faceva del mondo quando aveva lei, i Freaks? Non avevano mai avuto bisogno di niente e di nessuno, se non l’uno degli altri, e a fanculo il resto della gente. «ma non mi dispiacerebbe se tu potessi fare un eccezione» sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di elaborare quello che le aveva appena detto. Non che ne avesse bisogno, Sersha sapeva fottutamente bene quello che le stava dicendo, era tutto ciò che aveva aspettato. Dischiuse le labbra al tocco delicato del Knowles, chiedendosi come potesse essere così gentile quando aveva visto quelle mani macchiarsi di sangue innumerevoli volte «per oggi, per domani. Per quanto cazzo ti pare» e sapeva così maledettamente di una promessa già fatta, che non poté non crederci. Perché lei, a un CJ qualsiasi, ci avrebbe sempre creduto.
    Sersha Kavinsky non era sicura di diverse cose, come se sarebbero mai tornati a casa o se sarebbero stati bloccati in quel fottuto posto per sempre, ma c’era altro di cui era certa. Lo sapeva da diverso tempo di non essere indifferente a CJ, e aveva cercato di non farlo trasparire più di tanto: non sarebbe stata quella ragazza che perdeva la dignità non appena l’altro apriva bocca. E poi, il Knowles non era mai stato seriamente interessato a lei.
    O meglio, così aveva creduto fino a mesi prima.
    Ora, non era più tanto sicura di cosa fare: doveva essere cauta con lui, era troppo importante per lasciarselo scivolare tra le dita. «sei sempre stato la mia eccezione» poggiò una mano sulla sua guancia, la barba corta a pizzicarle la pelle «non me ne frega un cazzo di quello che dice la gente» continuò risoluta, cercando di cogliere ogni sua reazione per capire cosa stesse passando per la sua testa, se stesse rovinando tutto. L’aveva detto, di non essere brava con quelle cose. «perché ti voglio come sei» in qualsiasi tempo, in qualsiasi universo. Che tra mille uomini, avrebbe sempre scelto lui, non le importava quanto fosse sbagliato o che avrebbe potuto avrebbe di meglio. Non le importava quante volte fossero separati, Sersha e CJ ritornavano sempre a quel punto, due calamite attratte inevitabilmente l’una dall’altra. «non come amico, cj, che qua abbiamo finito di prenderci per il culo» tolse la mano dal suo viso per stringerla attorno alla sua, attenta a non fare troppa pressione sulle ferite. Voleva fargli sentire quello che provava, e le azioni le erano sempre riuscite meglio delle parole – così appoggiò il palmo del Knowles sul suo petto, dove il cuore batteva ormai irregolare «voglio essere di più, voglio essere la tua eccezione» gli sussurrò ormai vicino alle sue labbra, aspettando solo che le dicesse di per premere la bocca sulla sua, sigillando quella promessa.
    IF YOU'RE READY MY HEART IS OPEN
    I'LL BE WAITING COME AND FIND ME


    Edited by ambitchous - 14/10/2018, 21:59
     
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    CJ Knowles era tante cose per tante persone, usualmente poco lusinghiero per sé o gli altri. Era la spina nel fianco del corpo docenti di Hogwarts, il sangue sporco da torturare per noia, ed il ragazzo brillante che non si applicava per rari, rarissimi, casi umani intossicati dall’ottimismo; era il Prefetto dei Tassorosso, ed il ragazzo più grande che, nel modo crudo che da sempre gli era consueto, evitava ai ragazzini punizioni ingiuste addossandosi colpe che non aveva. Era l’errore e l’orrore della sua casata, diverso dai compagni ed allora malfatto, perché uno dalle nocche spaccate ed i lividi a fiorire sulla pelle rosea pareva poco adatto nelle vesti giallo-nere – perlomeno secondo loro, che ignoravano o fingevano di non sapere che CJ, dinoccolato e leale bastardo, avesse più diritto di molti di loro d’indossare quei colori. Era il figlioccio da adottare per gli assegni di mantenimento; era il bambino di sei anni sopravvissuto all’incendio, e l’omicida minorenne che aveva passato un anno nel carcere minorile. Era la gomma attaccata alla suola, ed il cemento marcio e corroso dagli anni calpestato ogni giorno. Era fastidioso, ed irritante, ed irraggiungibile nel modo più letterale e meno astratto del termine: non un numero di telefono, un indirizzo. Cristo, neanche aveva un nome. Era quello da evitare; quello che, incontrato di notte o di giorno, puzzava sempre di sangue e strada, per il quale si sceglieva di percorrere il marciapiede opposto. Era un pericolo per la società, malgrado invero della società se ne fottesse i tre quarti del suo tempo, passando il quarto rimanente a pulire il casino del cazzo lasciato da altri.
    Ed era sbagliato. Era sbagliato. Nel posto sbagliato al tempo sbagliato, in un nome sbagliato di un sangue sbagliato, con un sorriso sbagliato di cicatrici sbagliate.
    Ed era - «- sempre stato la mia eccezione», con quelle dita sottili a sfiorargli appena le guance come se fino a poche ore prima, o qualche mese prima, non avessero tagliato arti e spruzzato sangue dei nemici come vernice spray sulle pareti della scuola di Salem. Chi l’avrebbe mai detto che dita così, che ragazzi così, potessero essere delicati? Esitanti, loro ch’entravano da sempre e sempre come dei bulldozer, medio al cielo e visi nascosti nel cappuccio. Giusti, per un mondo che li aveva marchiati come macchie d’inchiostro su pergamene che, immacolate, non lo erano mai state, ma come tali venivano vendute. Era il miglior amico di Sunday De Thirteenth, il miglior cliente di Barrow Skylinski, il miglior sostenitore di Joseph Moonarie. Nel bene, e soprattutto nel male, era il fratello di BJ Reynolds – ed era, CJ Knowles, quel genere di ragazzo che sarebbe morto e vissuto cento vite, per loro, ed altrettante se necessario ne avrebbe tolte, con loro.
    Ed era sempre stato la sua eccezione. Lo poteva sentire nella fragile pressione dei polpastrelli sulle guance, nel tono della sua voce, in quegli occhi che troppe volte si era imposto di evitare perché sapeva di essere eccessivamente onesto e nudo, e non voleva ch’ella vi potesse leggere qualcosa con il quale non era ancora pronto a fare i conti. In quel momento, respirando piano ma facendolo, lasciò invece che Sersha potesse leggervi tutto: si poteva scappare da tante cose nella vita, e lui ne era un esempio lampante, ma c’erano cose per le quali, ad un certo punto di un certo battito, non volevi più. Potevano mandare tutto a puttane? Potevano rovinare tutto? Sicuro.
    Ma potevano anche non farlo.
    E CJ aveva davvero bisogno di lasciarsi essere CJ, in quel momento. Permettersi di avere amici, ed un fratello, ed una vita che non fosse solo vetri rotti ed ossa spaccate. Permettersi di volere Sersha, di volerla baciare fino a rimanere a corto di fiato o di cuore, di voler sentire il suo profumo sulla pelle e sui vestiti, di poterla guardare senza domandarsi come sarebbe stato. Di poter dire, arcuando le sopracciglia in un sorriso a metà a chiunque l’avesse guardata di sbieco perché troppo violenta o strana, che fosse la sua ragazza: non la sorella di Sandy e Barry, non la compagna di squadra di BJ, non la quidditch buddy di Joey, non un’amica - non una ragazza incontrata per caso e che altrettanto per caso era entrata a far parte della sua assurda, per tutti sbagliata, cerchia di amici.
    Non lo era mai stata, e non voleva fosse una ragazza: voleva fosse la sua. E che andassero a fanculo orgoglio e pregiudizi, quel continuo e testardo bisogno umano di esistere solo per e con se stessi, di non essere di nessuno, discorsi del cazzo a coprire paura ed inganni di una vita – perché CJ odiava quand’era costretto ad essere di CJ; non si sapeva gestire, sadico con se stesso più di quanto non lo fosse con gli altri, arrabbiato e sfondato di qualunque fottuta emozione negativa esistente nel fottuto range dell’emotività umana. A lui andava bene essere di quei tre stronzi dei suoi migliori amici. Di suo fratello, quando e per quanto voleva. Lo rendevano qualcosa, perlomeno.
    Lo rendevano qualcuno per il quale fottutamente valesse la pena volersi un po’ di più. CJ non avrebbe mai, Cristo!, mai voluto essere di CJ, se non fosse stato per loro. E si sentiva più CJ, e meno uno spreco di fiato e carne vagabondo, se poteva essere di Sersha. Sarebbe stato suo e loro in mille vite e fottuti universi alternativi, se gliel’avessero permesso.
    «non me ne frega un cazzo di quello che dice la gente, perché ti voglio come sei» e lì stava il punto della questione, il nodo attorno a cui si svolgevano guerre e trattati, funerali e battesimi, trionfi e perdite. Accettazione. Roba che il Knowles, a voler essere terribilmente ottimisti, poteva contare sulle dita di una mano. Cercò di sorriderle, ma non se lo sentì né sulla bocca né nel cuore, troppo avvezzo a sorridere per i motivi e le persone sbagliate. La osservò serio, le labbra dischiuse per respirare, il capo a chinarsi appena per incrociarne le iridi chiare. «non come amico, cj, che qua abbiamo finito di prenderci per il culo» Distolse lo sguardo dagli occhi della Serpeverde per portarlo alla sua, alle loro, mani, seguendone il movimento verso il petto della Kavinsky. Sentì sulla punta della lingua l’usuale, cinico Knowles pronto a farle notare quanto poco ci fosse da palpare; fu tentato di dirlo, di tornare al tipico scambio di battute CJ-Sersha – quello che non faceva male a nessuno, e sempre un po’ ad entrambi – ma si trattenne nel sentire il battito irregolare sotto il palmo, un uccellino ingabbiato dietro lo sterno. Voleva fare le cose per bene, il Knowles. Per una volta, voleva prendersi e prenderla sul serio, lasciare l’umorismo ad un secondo momento nel quale si fosse abituato a quello - poterla toccare, s’intendeva. C’era qualcosa di affascinante e contaminante nell’avere il permesso di toccare qualcosa che nessun altro poteva, di assuefacente nell’essere accolti su una pelle d’inchiostro e tagli che dal tocco fuggiva e per il tocco soffiava. Sersha Kavinsky non era delicata, non era fragile, non era innocente, ma c’era qualcosa di tutto il sopracitato in quella pressione contro il suo stesso sterno di ambedue le loro mani. Una concessione, una promessa. Sollevò lo sguardo acquamarina sulla bionda, trovando tutto quel di cui aveva bisogno.
    Di cui aveva sempre, avuto bisogno.
    «voglio essere di più, voglio essere la tua eccezione»
    Come se non lo fosse sempre stata. Scosse impercettibilmente il capo, la bocca piegata in un sorriso appena accennato ma vivo, e sincero, privo della patina di malizia e sarcasmo con il quale era solito sporcarlo. «non lo vedi?» tenne la mano sul suo petto, conscio del cambiamento di frequenza sotto il palmo, chinandosi ancora per poter poggiare la fronte sulla sua, concedendosi di chiudere gli occhi perché neanche loro, in quel momento, avevano nient’altro da dire. «lo sei già» ed in quell’abbozzo di risata leggera, a non tagliare né gola né lingua, sfiorò le labbra di lei con le proprie, allontanandosi solo quanto bastava a poterle rubare un respiro. E le si avvicinò ancora, come mai e come sempre, senza più esitazioni nello strofinare il labbro inferiore su quello superiore di lei, premendo poi la bocca sulla sua per baciarla – e farlo davvero, senza temere, per una fottuta volta, di non sopravvivere per averne un secondo.
    O un terzo. O quanto cazzo gliene pareva. Fece scivolare la mano libera sulla sua guancia, chiudendola nel palmo e schiacciando il pollice sulla pelle ad imprimervi il proprio nome e sapore, non stupendosi affatto di quanto quel posto gli appartenesse: no c’era nulla di nuovo in CJ-e-Sersha, se non CJ e Sersha. «non cambierai idea domani?» soffiò, senza realmente interrompere il bacio, sorridendo delle sue labbra e sulle sue labbra. «intendevo tutto sul serio, kavinsky» si staccò da lei per poterla guardare negli occhi, portando le dita, le loro dita, che ancora premeva sul petto di Sersha sull’altra guancia. «per essere chiari: voglio questo, e voglio noi» non provò alcuna vergogna per quella specifica, d’altronde non aveva bisogno d’infarcirsi di orgoglio per ammettere quel che voleva: aveva solo diciassette anni, CJ Knowles, ma non era un ragazzino.
    Dio, non lo era mai stato. «ed una pasticca di barry, ma immagino non si possa avere tutto dalla vita» Sorrise, perché intanto del tutto, lui, non se n’era mai fatto un cazzo.


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    L’unica cosa a cui riusciva a pensare era a quanto si sentisse stupida, lei che aveva passato anni della sua vita a prendere per il culo le persone che provavano sentimenti. Tutte quelle effusioni in pubblico? Disgustose ed eccessive, non c’era bisogno di ostentare la loro /relazione/ davanti a tutti – persino suo fratello era più dignitoso, venerando la Patata nel buio della sua camera. In quel momento, sinceramente? Si stava rimangiando tutto. «non cambierai idea domani?» «ti piacerebbe» scosse piano la testa, il solito sorriso impertinente a far capolino sulle labbra. Non aveva nessuna idea di cambiare idea il giorno successivo, era la prima volta che sentiva qualcosa per un’altra persona, che qualcuno fosse riuscito a smuovere quel cuore intorpidito da droghe e alcool. «per essere chiari: voglio questo, e voglio noi» fino a qualche mese prima non si sarebbe mai sognata di sentire quelle parole, convinta che il Knowles non provasse niente per lei se non semplice amicizia, e che i baci che c’erano stati fossero per puro divertimento. Era la loro thing quella di stuzzicarsi, no? Ecco perché non aveva mai preso CJ seriamente, non importava quanto qualcosa dentro di lei la supplicava di farlo - e se fosse reale? Non aveva mai avuto una risposta, fino a quel giorno. «pensavo non l’avresti mai detto» optò per la nuda verità, lasciando fuori per una volta l’ironia della voce «e ti dirò, ho perso la scommessa con sandy» eh, il momento serietà doveva durare poco. Qualche settimana (mese?) prima aveva scommesso con Sandy che CJ avrebbe continuato a fare il cazzone, e lei sarebbe rimasta appesa al pero per altri vent’anni almeno, ma il fratello aveva voluto porre fiducia nel migliore amico. Inutile dire che gli aveva riso in faccia, questo il livello di fiducia che riponeva del Knowles. «ed una pasticca di barry, ma immagino non si possa avere tutto dalla vita» CJ sorrise, e la serpeverde si chiese come avesse fatto per tutti quei mesi a ignorare quel tumulto che sentiva nello stomaco. «beh, non è una pasticca di barry ma ho qualcosa che ci si avvicina» inarcò le sopracciglia allusiva, e appoggiandosi la schiena alla porta fece scivolare la mano sulla maniglia «dopo di te» si spostò di lato per far entrare il ragazzo, accogliendolo in quella che era la Reggia dei Jagger, ossia una catapecchia con a malapena lo spazio per camminare. Non si lamentava comunque, aveva dormito in posti peggiori.
    Si chiuse la porta alle spalle, facendo del suo meglio per ricomporsi: non sarebbe diventata una Barry.
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