Finzione: era soltanto quello, giusto? Non c’era niente di reale, non c’era niente che avesse un retrogusto rassomigliante a quello di casa – non c’era niente, punto. Soltanto finzione - quel mondo, quelle fasce, quel fottuto tutto; lui, in quel mondo, in quelle fasce, in quel fottuto tutto. Peccava di senso in ogni sfumatura che l’iride azzurra cercava di interpretare, in ciascun grido strozzato che lacerava la gola nell’incapacità di prendere forma – in tutti quei tiri di sigaretta dal sapore stantio, dal profumo di marcio; in tutti quei passi vuoti in un’altrettanto empia Londra, un eco nei vicoli scarsamente illuminati dalla pallida luce di un sole fin troppo timido. Pareva strano persino respirare, a Sunday DeThirteenth – perché era scomodo farlo, in quel mondo e in quelle fasce ed in quel fottuto tutto. Ma dovevano essere soltanto una mera illusione, quelle fitte al costato; ed aveva fumato tanto da non aver più bisogno di incamerare aria, trattenuto così tanto il fiato da non rendersi più conto di quando non sentiva il petto alzarsi ad un ritmo regolare; era stato così tanto tempo seduto contro il muro più nascosto dietro le strade di Londra, le gambe al petto e la fronte sulle ginocchia, da non volere più nemmeno sentire il bisogno di quella mancanza. E andava bene per un po’, sapete. Andava bene quando c’era l’alcol di una festa improvvisata ad annebbiarti la mente; andava bene quando potevi ignorare quel prurito al palato spiando da dietro una sedia la sua nuova one true pairing cercando di non farsi scoprire – almeno fino a quando una parte della coppia non si addormentava, ed era allora totalmente legittimato a non sentirsi più solo e molestare il fratello -; andava bene quando tua madre ti proponeva di guardare un maledettissimo porno in pieno pomeriggio dalla trama incerta, ma che di certo parlava di una MILF iraniana (o indiana). Andava bene quando si convinceva che CJ fosse da qualche parte a fare qualcosa da ricchi elitari; andava bene quando si convinceva che BJ, Sersha e Joey fossero stati rubati dalla mafia bulgara e venduti al migliore offerente, troppo biondi per non capire che quel furgoncino non era il finto furgoncino dei gelati che vendeva la droga; andava bene quando confidava che Barry stesse oramai assaporando la patata che scotta. Alzò gli occhi sul buttafuori del Lilum, le proteste di un avventore qualsiasi a suonare vaghe nella strada sulla quale era appena stato lanciato a calci in culo: non lo vide nemmeno, il grifondoro – gli occhi a soffermarsi sulle scritte al LED fin tanto che non iniziarono a lacrimargli, impedendogli di distinguere alcuna vera forma. Andava bene così. Perché era quando iniziava a riconoscere visi che non c’erano, che calava a picco. Perché anche Barrow Cooper aveva smesso di rispondergli al telefono – e lo avrebbe capito, in un altro fottuto universo: ci avrebbe riso su, andandogli a mettere la vibrazione e mettendoglielo sotto al culo fino a quando non sarebbe stato costretto a parlargli. “controllo se sono al lilum” ticchettò nervoso sulla tastiera del telefono, prima di portare di nuovo lo sguardo sull’uomo di poco prima. Amalie Shapherd non era certo la persona con la quale più avesse voglia di messaggiare alle undici di sera, o in qualsiasi altro orario della vita ad essere sinceri, ma di necessità era obbligato a fare virtù: tra tutti i pochi stronzi rimasti da Ollivander, lei era di certo una dei pochi con i quali i suoi amici avessero un qualche rapporto - e poi c’è Barry, a portare il concetto di rapporto d’amicizia ad altri livelli; questo, tuttavia, è un argomento del quale avrebbe il piacere di parlare con il diretto interessato ed in altri lidi. Di certo, non poteva essere preoccupata quanto lui per quei cinque coglioni – né mai le avrebbe permesso di anche soltanto pensare il contrario -, ma dovevano darsi man forte. Dovevano, o almeno lui doveva, trovarli. Perché andava sempre un po’ peggio. «che cazzo guardi» alzò un sopracciglio, la piega delle labbra inflessibile – immobile, mentre l’altro si avvicinava e le sue spalle restavano incollate al muro. Perché andava sempre un po’ peggio, quando era da solo. «ho detto, che cazzo hai da guardare» non gli importava quanto l’eccessivo olezzo d’alcol, evidentemente il motivo che l’aveva portato ad essere cacciato dal locale a luci rosse di Diagon Alley, si facesse strada ad ogni secondo. Non gli importava del fatto che non avrebbe dovuto uscire da solo, che quello non fosse il posto adatto a qualcuno con la fascia da Indegno. Non gli importava del fatto che in quel posto non ci avrebbe trovato i suoi amici. Non gli importava che lo avevano fottutamente abbandonato in un fottutissimo universo parallelo. Perché funzionava sempre un po’ peggio, quando non c’erano i Freaks. «evidentemente,» gli sputò il fumo in faccia, avvicinandosi a sua volta in tutta la sua magra altezza. «un’emerita testa di cazzo»
Cerchi i tuoi amici in un locale di spogliarellisti, di coca e prostituzione, di lavoro in nero e probabilmente yakuza, di morte e perdizione – naturalmente, il posto adatto al più fiko dei gruppi sociali -: trovi tua madre, che elegante come un’assassina slovena scivola tra la folla cercando qualcuno da bombare uccidere. Non di certo la persona che avrebbe sperato di vedere lì – in quel momento, soprattutto. E sperava, Sunday DeThirteenth, che quei lividi freschi a truccargli il volto di tinte purpuree lo nascondessero – che quella violenza, celasse una fragilità che non era disposto a far vedere. A nessuno: figurarsi a sua madre. «jeez, hai ancora la bocca che puzza di latte» gli aveva rubato il cocktail? Davvero? Era quello ciò che gli era successo nel futuro? Era davvero così crudele? «dipende che tipo di latte intendi» a buon intenditor, poche parole. Di tante persone, buon Cigei, che potesse incontrare, proprio sua madre doveva rompere le palle? Si girò, rubando il primo cocktail che riuscì a passargli sotto le mani e mettendoselo sullo zigomo spaccato. «pensavo fossi più un tipo da milf» si strinse tra le spalle, senza riuscire a guardarla. Finzione: era soltanto quello, giusto? «non ho un tipo, prendo quello che passa il convento» aka, ancora nulla. Ma questo mamma non deve saperlo. «di solito, sono io il tipo» onesto. «che hai fatto alla faccia?» Aprì la bocca, si voltò. La richiuse. Avrebbe voluto rispondere a tono, qualche insulto, un bel a me lo chiedi? Non ti sei guardata allo specchio prima di uscire?, ma… cosa poteva dirle. Cosa poteva dirle. Akelei Beaumont, signori. Inattaccabile. «cazzi miei» E non era giusto le interessasse. Non era giusto gli chiedesse quelle cose - non era giusto nemmeno interagisse, capite. Non era fottutamente normale: e di anormale, lì, bastava ed avanzava Sunday DeThirteenth. «mi manca» CJ, Joey, Barry, Sersha, BJ, casa, Wendy, Fray – qualcosa che non fottutamente so «hogwarts» biascicò distratto, tirando fuori una bustina di polvere fatata - rubata durante la scazzotata di qualche decina di minuti addietro: belli i lerci di Londra. Chissà se anche ad Ake mancava - chissà se c’era mai andata ad Hogwarts. Chissà se era quella la fottuta cosa che l’aveva cambiata. Magari ci si va dagli amiki a Bodie spoiler: no «vuoi?» Perché se non si sniffa con la mamma si gode solo a metà #cosa. | |