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.Mi dispiace - e Gemes Hamilton, alle parole di William Lancaster sorrise distratto; non lo guardò nemmeno, le labbra ad incresparsi sardoniche e malevole nella direzione di Heidrun Crane in risposta a quel suo essere seria, cercando appena con lo sguardo Jayson e Darden, Shia ed Elysian, prima di ritornare su di lei: non ritenne nemmeno opportuno specificarlo alla ragazza, mentre inesorabile il tempo scivolava loro dalle mani, che lui non scherzava affatto – e che con lei, e che per quello, non l’avrebbe mai fatto. A quel punto, doveva conoscerlo abbastanza bene da sapere quanto restio fosse a quel tipo di gioco – che non mentiva mai se non a sé stesso, lui; che ometteva la verità laddove necessario, ma non era mai stato un bugiardo. Dono e maledizione d’essere un Gemes Hamilton, quella: non importava quanto potesse essere fuori luogo, o quanto a fondo la sua lama potesse spingersi; non gli interessava quanto avrebbe potuto fare male, né quanto avrebbe giovato a nessuno che non fosse la sua stessa persona; irrilevante, che fosse una parte del tutto od il tutto stesso. Se dire la verità avesse potuto spaccare il cuore nel petto, o renderlo più palpitante contro il costato, non portava alcuna differenza: per il ventisettenne non era mai stato utile raccontare un’altra versione della realtà – tenerla in parte celata fin quando non avesse ritenuto fondamentale svelarla, a volte sì. Modellarla tra le proprie dita come argilla fresca, rendendola più o meno piacevole a seconda delle esigenze: non ne cambiava mai la faccia, l’Hamilton – soltanto la forma, soltanto se necessario. Ma quella, quella era un’altra storia: quella era la sua storia, e non quella che valeva la pena d’essere raccontata ai posteri.
E non ritenne opportuno mentre i battiti nel petto si condensavano in sangue e bile sul palato, mentre le palpebre supplicavano di chiudersi su un mondo dietro la barriera che iniziava a scomparire, farle presente quanto l’avesse sperato, che lei fosse seria – quanto fino a quello che aveva creduto poter essere l’ultimo sorriso cremisi e distorto a spezzargli le labbra, aveva temuto non lo fosse affatto. Quanto ancora, mentre i rimanenti granuli di sabbia scura scivolavano nella clessidra impressa ad inchiostro pece sulla pelle, mentre il preside di Salem faceva loro presente che il tempo era scaduto, credeva possibile che lei gli avesse mentito. Un altro Gemes ed un’altra situazione non lo avrebbero fatto dubitare nemmeno per l’infinitesimo lasso di un battito di ciglia: era impossibile non amarlo - troppo vanesio anche solo per considerare la contraria eventualità -; ma era Run, e lei i suoi canoni li aveva sempre mandati a farsi benedire. Che era sempre un po’ più inverosimile, che una come lei potesse amare uno come lui – in ogni sorriso mancato, in ogni sguardo sfuggito. Lo rendeva sempre un po’ troppo insicuro, con quei ferini occhi foresta a sorridergli sardonici anche quando d’ilare non v’era nemmeno l’eco di un respiro – con quelle labbra piegate in morbide e sbieche curve, lo scostante e martellante palpito nella gabbia toracica a suonare le medesime note, le dita a stringerglisi attorno al polso chiedendogli di restare per poi lasciare la presa quando era suo il bisogno di rimanere. Non gli era mai piaciuta, quell’incertezza: nemmeno se ne rendeva conto lei, nemmeno se ne rendeva conto lui, di quanto ad ogni secondo di ogni minuti di ogni ora di ogni maledetto giorno della loro vita ciascuna parola ponderata con il contagocce, ciascuna sentenza sputata senza che gli scogli del buonsenso potessero arginare i danni, lo rendesse ancora più tentennante.
Perché era stato serio Gemes Hamilton, quando le aveva detto di amarla – e perché era vero che la possibilità che Heidrun Crane lo amasse, che amasse uno come lui, sfiorava i minimi storici.
Erano disfunzionali da soli, loro: in un’altra storia, di quelle che prevedevano il vissero tutti felici e contenti, il loro non funzionare affatto li avrebbe resi perfetti – che gli stessi angoli smussati andavano a cercare un appiglio nel quale incastrarsi, e che quelli che simili non erano affatto andavano completarsi, inserendosi in un magnifico meccanismo ben oliato e perfettamente funzionale.
Però la realtà dei fatti non assicurava il vissero tutti felici e contenti, ed un Gemes ed una Run sarebbero sempre rimasti imperfetti nella loro perfezione, sbagliati nel loro infinito essere sbagliati – che sarebbe andata bene così, se solo non prudesse così tanto sulla lingua quel fastidio.
Se solo una come lei non se lo meritasse, uno come lui.
Se solo quel ti amo non aveva sempre temuto fosse una strada a senso unico; perché non ci era abituato, lui. Non era il tipo di persona che in quelle cose ci credeva, capite: rientrava nei suoi dogmi più fondamentali e rigidi, quello di sotterrare debolezze del genere sotto cumuli di polvere ed odio – di favole simili per dormire sonni sereni la notte, ne faceva a meno da vent’anni.
Portò lo sguardo sull’ultimo granello, guardandolo mentre pigro s’apprestava a cercare il fondo della clessidra. Non aveva senso - William Lancaster, non era quel genere di persona che si arrendeva tanto facilmente davanti a difficoltà simili: non lo conosceva, vero, ma bastava guardarlo per capire ne conoscesse sempre una in più del diavolo. Era impensabile che si lasciasse perdere così facilmente – non era plausibile: e lo era sempre un po’ di più ad ogni fulmine impossibile a squarciare la stanza oltre la barriera, reclamando tutti coloro che non erano riusciti ad insinuarsi nello studio del preside; lo era sempre più, ad ogni battito sullo sterno a fargli presente di quanto quel sorriso sulle labbra non avesse ragione d’essere. Nemmeno ce lo voleva, lui - perché non c’era niente di cui ridere, nel pensare che dopo tanto, dopo un sempre, passato a sopravvivere potesse morire in quella scuola; nel pensare che si sarebbero portati dietro Eugene e Rea, Al e Sin e Nate. Soltanto perché non avevano fatto in tempo.
Aveva bisogno di certezze, Gemes Hamilton – aveva bisogno di mentirsi un altro po’, e credere che Lancaster avesse un piano di riserva. Di credere che non sarebbe morto lì; che Run, non sarebbe morta di nuovo.
Mi dispiace: e si disse di non essere affatto dispiaciuto, lui. Non era il tipo di persona da sentirsi in colpa, e lo faceva anche troppo per i suoi gusti; non servivano a nulla ed a nessuno, le scuse disperate dell’ultimo minuto. E si ripeté di non essere affatto dispiaciuto, lui, le iridi cobalto a scivolare sulla figura della Crane: perché alla fine, se poteva scegliere, gli piaceva davvero l’idea di morire insieme a lei – doveva pur esserci, un lato positivo in quella faccenda. Potevano non funzionare, da soli ed insieme, ma poteva anche fingere, allora e per sempre, che non avesse alcuna importanza – perché era vero, non l’avesse.
Il nostro tempo è scaduto: e sorrise perché quello era davvero divertente, seppur in maniera isterica. Perché nessuno di loro, nessuno di loro aveva mai avuto realmente il tempo necessario per poter credere non sarebbe scaduto; perché molti di loro, il tempo non lo avevano mai nemmeno avuto dal principio – che scadesse o meno, in fin dei conti non faceva alcun differenza: bruciava un po’ sugli angoli della bocca testardamente alzati in un ghigno rassegnato, sulla punta della lingua a premere sulle gengive. Perché lui aveva promesso un più tardi, voleva quel tempo in più, ed odiava non mantenere fede alla parola data.
«giusto in caso stessimo morendo,» un passo verso la mimetica, senza nemmeno dar ascolto alle sue parole – non sarebbe accaduto, non poteva succedere.
È l’unico modo. «dimmelo di nuovo»
Alzò pigro l’angolo destro delle labbra, stanco di tutto e di tutti – non gli interessava così tanto se quello sarebbe stato il loro ultimo per sempre in quell’istante, mentre lente le dita andavano a sfiorarle la gote; non gli interessava di niente e di nessuno, delle sue certezze o delle sue paure al riguardo. Non gli interessava nemmeno che lei avrebbe meritato di meglio, e non quelle labbra ad annullare di nuovo lo spazio tra di loro – non quel battito contro lo sterno a sincronizzarsi su un ritmo più incalzante, non quel respiro a chiedere famelico quello di lei: avrebbe meritato che qualcuno, che lui, le augurasse il meglio pur sapendo d’essere il peggio, pur sapendo di voler essere lui il suo meglio, conscio tuttavia di non poterlo mai essere. Non gli interessava del dolore al petto nelle palpebre chiuse con troppa insistenza su un mondo che cadeva a pezzi, o che quella fosse soltanto colpa sua – che se fosse stato meno egoista, non l’avrebbe condannata ad una seconda morte.
Non gli interessava nemmeno di essersi reso conto troppo tardi, sempre troppo fottutamente tardi, che non aveva bisogno di aspettare l’ultimo secondo a loro disposizione per dirglielo di nuovo: perché che glielo avrebbe detto sempre, non se n’era mai voluto rendere conto. «ti amo, heidrun ryder crane.»
Tempo.
Quanto accadde in seguito, fu soltanto tempo a fuggire l’umano controllo, a beffeggiarsi del raziocinio atteggiandosi da padrone dell’universo quale era; chiunque, a quel susseguirsi di minuti, ore e giorni – settimane, mesi, anni, sempre - che fu per grazia divina concesso ai Prescelti, avrebbe potuto ben pensare di tirare un sospiro di sollievo. Perché non ci erano morti, in quell’ufficio a Salem; perché erano salvi – ammaccati, con ferite che ancora dovevano rimarginarsi a bruciare del sangue già versato, ma salvi.
Chiunque avrebbe avuto ragione di gioire nell’esserne usciti vivi – come dargli torto, d’altronde.
Ma da esultare v’era ben poco, se ti ritrovavi vivo quando ancora non eri nato: cento anni indietro nel tempo, per essere precisi.
Erano passati pochi giorni, ma di quel tempo trascorso Gemes Hamilton non aveva avuto davvero una concezione concreta – anche in quel momento, il riflesso delle iridi cobalto a scivolare nella superficie polverosa e rettangolare, non avrebbe saputo ben dire cosa fosse successo. Non voleva dirselo, che forse negandolo ancora poteva arrivare a pensare che si trattasse unicamente di un lungo viaggio onirico e lucido – o che, invero, fossero tutti morti e quello non era che l’aldilà. Un inferno come un altro, il loro: ironico che il suo posto fisso si trovasse su di un terreno sacro a logorargli l’anima dall’interno.
Erano passati pochi giorni, e tanto quanto sembravano un’eternità trascorsa nella California della prima guerra mondiale, pareva che non si fossero mossi di un solo passo da quando lo strappo al ventre li aveva trascinati tutti quanti in un’altra epoca.
Da quando, riluttante, si era allontanato da Run, ignorando i suoi movimenti e le parole di Lancaster per scivolare al fianco del fratello, la guancia morsa tra i denti ed i conati di sangue venefico ad inacidire il palato; si era concentrato unicamente, stupidamente, sul fatto di essere ancora vivi – in quell’istante rubato ad un tempo passato, non gli era minimamente interessato delle condizioni secondo le quali ancora potevano permettersi il respiro sulla lingua ed il battito tachicardico nel petto: Jayson, un semicosciente Jayson accasciato lungo la parete dell’ufficio del preside americano era stato la sua unica priorità. Tenerlo sveglio, tenerlo in piedi, egoisticamente tenerselo, in quell’esatto istante, era la sola cosa importante per Gemes: l’aveva lasciato una volta, e non l’avrebbe fatto di nuovo.
Da quando «stai morendo», e le ginocchia ad impattare sul terreno al fianco della Crane non le aveva nemmeno sentite, alcun controllo sulle gambe per impedirgli di giungere al fianco della mimetica – un macabro senso di déjà vu a prudere sul palato, quando le vene avevano da poco smesso di ribollire dalla necessità di vomitare sul pavimento tutto il sangue sporco. Ricordava appena l’effimero sorriso a scivolare per una manciata di secondi sulle labbra piene alle parole della ragazza, subito sostituito da denti digrignati ed un paio d’occhi troppo azzurri a cercare un appiglio sulla folla; ricordava appena, Gemes Hamilton, di aver cercato lo sguardo del fratello, quello di Elysian e Shia che, come lui e come loro, avrebbero dovuto sentire che qualcosa non stava andando affatto bene, prima di puntarlo feroce sullo stanco viso di William Lancaster, una taciuta e disperata supplica a concretizzarsi in odio e furore nel petto ad alzarsi spasmodico – rancore per l’uomo, rancore per sé stesso: che in quel stai morendo fosse incluso anche lui, era una cosa che aveva smesso di riguardargli da oramai troppo tempo. Checché ne potesse dire, era un rischio che aveva preso volentieri - aveva sempre saputo a cosa sarebbe andato in contro, la notte del diciassette novembre a Brecon: ma era colpa di Lancaster, del suo unico modo, se in quella maniera cento anni più tardi un Eugene Jackson reo soltanto di aver fatto la cosa più giusta sarebbe morto senza sapere né il come, né il fottuto perché; ma era colpa di Gemes, sempre più colpa di Gemes, se a dover scontare la condanna più dolorosa sarebbe stata nuovamente Run.
Da quando «per quanto dobbiamo rimanere qui?» – un sussurro appena, a mescolarsi a quello di altri nella stessa stanza: se l’aspettava, quella risposta. Se l’era sentita palpitare nella trachea senza che riuscisse a prendere forma, graffiando con unghie aguzze la parete della gola ed impedendosi di farsi verbo. L’aveva temuta fino all’ultimo istante, fino a quando non vide effettivamente le labbra dell’americano mimare parole che alle orecchie dell’Hamilton non arrivarono mai sotto forma di suono, suscitando soltanto una tenue risata nevrotica, le dita a scivolare nei corti capelli corvini nell’istante in cui la figura dell’uomo non si fece che eco nella magione. Per sempre era un tempo maledettamente troppo lungo – e si ritrovò a ringraziare il cielo perché quel loro per sempre, per lui, sarebbe stato di gran lunga più breve.
Da quando si era ritrovato nella penombra di una casa alla quale avrebbe dovuto fare il callo con Elysian e Jayson, le spalle al muro e gli occhi chiusi in un momento imprecisato di quella giornata senza fine – poteva essere passato un solo istante dal loro arrivo a Bodie, o una vita intera: non avrebbe potuto fare alcuna differenza, a quel punto. Da quando, le mani a nascondere il respiro pesante e stanco, non aveva udito quello spezzato di Freddie nella stanza attigua, una sola parete a separare la schiena dei due fratelli: Gemes Hamilton, come in quel preciso istante, si era sentito male poche volte – e la maggior parte di queste, nemmeno aveva voluto rendersi conto di quanto fosse rotto il fiato, o di quanto bruciassero gli occhi dietro le palpebre calate. Perché era un Gemes Hamilton, e non gli era concesso sentire, provare alcunché di quel genere: così si era represso nel momento in cui se n’era andato dalla casa di Presteigne, quello in cui aveva voltato le spalle a tanto che avrebbe voluto poter avere, e che non gli sarebbe mai stato concesso; così si era represso quando aveva abbandonato i Withpotatoes, quando era stata rapita Idem, quando Nathan ed April erano morti. Così si era annullato quando Heidrun era morta e quando l’aveva portata sul Tower Bridge, e quando stremato aveva sbraitato per ore ad una porta che aveva creduto sarebbe stata chiusa per sempre, perché faceva semplicemente troppo male, e a lui non era concesso: non provava niente, non sentiva niente. E si era sentito peggio, solo per essere stato felice nel sentire il pianto soffocato del fratello minore, nel sentirlo lì con lui - e forse prima, nemmeno avrebbe stretto così tanto lo stomaco quella semplice presenza; qualche mese addietro, se ne sarebbe fregato di tutto ciò che l’altro aveva perso. Forse prima non gli sarebbe mai venuto in mente di alzarsi per trascinarsi nell’altra camera, le spalle a scivolare sul muro fino ad essere vicine a quelle del ventenne, nella vana speranza di sopperire ad una mancanza che nel profondo sapeva di non poter colmare – perché lui, almeno lui, c’era. Perché voleva esserci, capite, e non poteva nemmeno in quel modo aiutare il telecineta: dopotutto, non era mai stato uno in grado di aiutare in quel modo.
Da quando «la mia famiglia», le labbra strette ed il respiro pesante nella camera di Martha Fay. E lui ancora, non poteva fare nulla – perché la sua famiglia era lì, e la ragazza che amava era lì. Sentiva fisicamente, in un’eterna maniera che non era mai stato capace di sentire, la mancanza di Rea ed Eugene, di Nate e Murphy ed Al e Charmion e di chiunque, persino suo nipote che tanto aveva cercato di sacrificare a Lucifero nelle notti di luna piena, ma almeno aveva loro: quel breve per sempre che gli si prospettava se lo sarebbe potuto vivere bene, capite. E sapeva, e li odiava e si odiava per questo, che non avrebbe mai potuto farlo realmente. Perché non era Lydia, Stiles o Xav per Jayson; non era Eugene e Jade, Al o Murphy o Sin per Run – era soltanto Gemes, e per una vita intera aveva creduto che tanto avrebbe dovuto bastare a chiunque. Il problema, era che non si era nemmeno mai bastato da solo: non poteva più chiedere agli altri di farlo per lui. Aveva portato gli occhi in quelli verdi della Crane, le dita a sistemare compulsive le pieghe del lenzuolo sul quale era seduto – avrebbe voluto dirle tanto in quello sguardo, ed invece rimase silente, lasciando che fosse lei a parlare per lui. «tu puoi rimanere con me?» e come poteva dirglielo, che era lei a farsi più male tra i due con quella richiesta? Come poteva dirle che non avrebbe mai dovuto prometterle che ci sarebbe stato, perché era soltanto capitato nel luogo giusto nel momento giusto? Che lei avrebbe meritato qualcun altro che restasse al suo fianco, non Gemes. Come poteva dirle che non era mai stata sua intenzione andarsene, quando l’unica cosa che aveva sempre fatto era stata fuggire? Lui semplicemente, non poteva dirle nulla di tutto ciò – perché era un egoista, bastardo patologico: nemmeno lui si sarebbe creduto. Così aveva aspettato sul bordo del letto qualche minuto, le dita a stringere quelle di lei prima di allungarsi al suo fianco, le braccia a stringerle i fianchi ed il fiato a perdersi tra i capelli bruni, quel «per sempre» a perdersi nel loro ristretto tempo mancante.
Erano passati pochi giorni, eppure non sembrava trascorso un solo istante da «abraham shaw è il punto di riferimento dei cittadini di Bodie», e quel colletto bianco a pendere pigro tra indice e pollice.
Perche chiunque avrebbe gioito di essere vivo, se fosse stato in loro.
Ma da esultare v’era ben poco, se ti ritrovavi vivo a Bodie, California, nel millenovecentodiciassette e se sei il fottuto parroco.
«è tutto pronto» ma Gemes non si mosse di un passo, quando la perpetua Mariel Simmons, all’epoca Gwen, scivolò nella sala che dava sull’abside della Chiesa di Bodie – rimase lì immobile, gli occhi chiari a scivolare sullo scuro abito talare riflesso nell’opaco specchio e le mani strette al violaceo paramento sacro che, aveva appreso, avrebbe dovuto indossare da quella domenica fino a Natale. Non rispose alla ragazza, visibilmente afflitta da quella nuova vita tanto quanto Abraham Shaw, ed altrettanto angosciata per l’imminente funzione: il telecineta nemmeno ci provava più, a nascondere le proprie contrastanti emozioni rispetto agli incontrastabili eventi che la vita gli riservava. Gli veniva naturale, ostentare quella maschera di indifferenza ed accondiscendenza, apatia a sovrastare qualsivoglia altra sensazione, ma era arrivato al punto che non gli interessava più di rafforzare quell’armatura; che senso avrebbe avuto? Si allontanò dal logoro mobile di legno antico, portandosi all’unica fonte di gioia che quell’esistenza ecclesiastica potesse permettergli ed ignorando, ancora, la voce della Markley. «ci sono già tutti i bodi… bodian… bodiotti? bodiotti.» e tutti stavano aspettando lui: uau k bll. In altre occasioni, sarebbe stato ben felice di una folla ad attendere unicamente il suo trionfante arrivo; ma era il punto di riferimento dei cittadini di Bodie, ed un tale onere era quanto di più lontano potesse esserci dalla figura dell’Hamilton. Poteva essere tanti punti di riferimento, lui, ma non quello. «secondo te…» schioccò la lingua sul palato, versò due bicchieri di vino in calici dai quali non avrebbero dovuto bere – e nemmeno sapeva perché voleva chiederle se secondo lei avrebbe fatto saltare una copertura ben studiata e perfettamente definita da Lancaster, se secondo lei erano pronti per quella roba, se secondo lei poteva essere un punto di riferimento, se.
Tanti, troppi se a pesare come piombo sulla punta della lingua, a pensare che dalla bocca di una quasi perfetta sconosciuta avrebbero potuto ricevere una risposta sensata - se secondo lei sarebbero tornati a casa. «secondo me…?» rispose con un sorriso morbido a riempire le labbra, porgendo una coppa alla giovane strega ed alzando la propria in un silente brindisi; tutti quei secondo lei, il fu Hamilton non aveva intenzione di sentirli.
Il terribile prototipo di ricetrasmittente antecedente alla guerra di funzioni sacre gli aveva fornito un minimo assaggio, confuso da riverberi a rimarcare l’antiquariato dell’oggetto e voci fastidiose a disturbare il segnale, troppo infimo per poter trarre spunto per una messa – già aveva organizzato una gita in incognito nei paesi limitrofi per spiare la concorrenza -; aveva studiato, perché qualsiasi cosa dovesse obbligatoriamente fare il ventisettenne la prendeva con fin troppa serietà, ma non aveva avuto il tempo necessario per imparare tutta la fanfiction del fandom della Chiesa: avrebbe ovviamente fatto saltare la loro copertura, e non era affatto pronto per quella merda. Era un Gemes Hamilton, quindi in ogni caso ne sarebbe uscito vincitore, ma. Punto di riferimento lo era sempre stato nel modo e per i modi più sbagliati: nemmeno ci voleva provare, ad essere quello che i fedeli di Bodie si aspettavano fosse. «secondo te abbiamo il tempo di ubriacarci di tavernello californiano prima di dover celebrare?» e per il resto di questa vita? Perché di tornare a casa, loro non ne avevano alcun modo.
Ed in ogni caso, la risposta era no.
Entrò alle spalle dell’altare sulle note di un canto gregoriano intonato dai fedeli, gli occhi al cielo che più che cercare Dio altro non volevano se non roteare il più possibile nell’orbita per evitare alla vista tutto ciò dal quale aveva sempre voluto scappare sin da quando era un bambino: era cresciuto in una comunità di timorati del Signore, ed i suoi amati genitori si erano così tanto amalgamati in quel culto per la sola necessità di integrarsi nella società di Presteigne da avergli fatto odiare qualsiasi cosa avesse a che fare con quella farsa. Era davvero troppo ironico, tutto quello: avrebbe agognato con malcelato sadismo l’ultimo petalo della rosa nella teca di Run per uccidere Lancaster, se solo non avesse significato che cento anni più tardi sarebbero morti sicuramente Rea e Nate – un po’ li odiava per non essere stati separati come lui e la Crane da Eugene, così da privarlo di una delle poche gioie che quell’epoca aveva da offrirgli. I drappi viola ad ondeggiare ad ogni passo, aiutati da una tiepida brezza invernale alla quale un inglese come lui non era abituato nemmeno in estate, padre Abraham Shaw non degnò di uno sguardo nessuno dei presenti, alcun sorriso ai fedeli che attendevano con ansia le prediche del nuovo parroco della cittadina: era certo che avrebbe incontrato lo sguardo di chi con lui proveniva da altre annate, ed altrettanto sicuro era che avrebbe scorto sorrisi divertiti che si sforzavano per non tramutarsi in vere e proprie risate al limite delle lacrime. Mentre si inginocchiava per baciare l’altare, l’unica cosa alla quale riusciva a pensare era quanto odiava tutti loro, e quanto moriva dal desiderio di dare fuoco a quella struttura religiosa con tutti i cittadini al loro interno – pensieri cotanto felici lo aiutavano a fingere quella maschera che i vicari del Signore avrebbero dovuto costantemente portare.
Un sospiro, le iridi zaffiro a cercare gli occhi della perpetua che lo incitavano ad iniziare – certo, vaffanculo, non era lei quella a dover dire la messa. E così odiava anche l’unica che poteva comprenderlo.
Due respiri, un sorriso forzato che sempre aveva promesso efferati omicidi a scivolare sul popolo; portò la mano destra in alto davanti a sé, seguendo poi quelli che aveva appreso essere i precisi passaggi del segno della croce «nel nome del padre, del figlio, e dello spirito santo» e mentre la folla rispondeva con l’amen, già si sentiva morire. Più che in precedenza, ovviamente. Spinse gli eleganti occhiali sulla punta del naso – no, non ne aveva affatto bisogno, ma li aveva trovati nella stanza adiacente e (sperava che, come per Superman nelle vesti di Clark Kent, questi potessero nascondere la sua vera identità) era sicuro che gli donassero; in più, insieme alla barba che aveva deciso di non rasare, gli davano un’aria più clericale; il vino, tra l’altro, era molto buono -, allargando le braccia con fare bonario. «fratelli, eletti secondo la prescienza di dio padre mediante la santificazione dello spirito per obbedire a gesù cristo e per essere aspersi del suo sangue, grazia e pace in abbondanza a tutti voi» era abbastanza certo che nel duemiladiciassette non si usasse più una formula tanto astrusa, ma cento anni prima? «e con il tuo spirito» okay, funzionava. Curvò gli angoli delle labbra verso il basso, annuendo soddisfatto della performance – decise che non erano soltanto un mucchio di pecore che ripeteva a pappagallo ciò che avevano sempre detto per una vita intera, ma che lui era un prete. E fu in quel momento, in quel preciso istante dopo nemmeno pochi minuti dall’inizio della messa, che si ritrovò a cercare negli occhi dei suoi compagni un muto ausilio che loro non potevano dargli in alcun modo – almeno loro non erano obbligati a parlare. «fratelli…» si morse l’interno della guancia, deglutì bile e vizio: la discesa all’Inferno si faceva sempre più precipitosa. «per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati» ah ah ah che ridere. Seguì una breve pausa di raccoglimento, durante la quale dovette abbassare il capo sulle mani congiunte in preghiera per non scoppiare a ridere di isterico gusto davanti a tutta la comunità: riconoscere i propri peccati? Buon Dio – letteralmente! -, quella era una bella presa per il culo.
«confesso a dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni,» molti più di quanti ne potesse catalogare in una singola eucarestia: fortuna che aveva un’infinità (relativa) di tempo davanti a sé durante la quale ignorare le sue stesse prediche. «per mia colpa,» batté il pugno al petto. «mia colpa,» di nuovo, setacciando con lo sguardo le navate: era quasi tentato di usare la telecinesi per forzare quei pochi che si ostinavano a non farlo. «mia grandissima colpa.» e comunque, erano davvero esagerati i cattolici. «e supplico la beata sempre vergine maria,» un rapido movimento delle sopracciglia ad arcuarsi, impercettibile: sempre vergine, mh. Doveva volerci un bello sforzo di fede per credere all’immacolata concezione, ma decise di risparmiarsi commenti al riguardo: qualora i seguaci avrebbero iniziato ad amarlo com’era giusto che facessero, avrebbe potuto iniziare con la blasfemia – ma c’era un tempo ed un luogo per ogni cosa, ed ancora non era giunto né l’uno né l’altro. «gli angeli, i santi e voi, fratelli, di pregare per me il signore dio nostro» e quello, era il momento in cui si sedeva.
Forse. Credeva: non si ricordava assolutamente – stare in piedi era così stancante, ed era sicuro che in un momento della liturgia gli fosse concesso il trono. Guardò Gwen, guardò i fedeli, si mosse di un passo verso l’abside - guardò di nuovo Gwen, ed il gesto del capo di lei fu così pressante da fargli presente che no. Ma il reverendo Shaw si era già mosso di troppo, per non dare nell’occhio: così si piegò, e ringraziò l’arretrata situazione della città ed i campi di barbabietole per quel dono del Signore a saltellare vicino l’altare. «perdonatemi, fratelli» sorrise amabile, la voce melliflua a rimbombare nella basilica mentre si rimetteva in posizione eretta, avanzando verso la navata. «quest’adorabile bestiolina» di Satana «di Dio deve aver perso la strada di casa» si abbassò nuovamente sulle ginocchia, ponendo le mani raccolte sul pavimento tra le due schiere di panche. «va’,» ed uccidili tutti: donagli la rabbia e l’encefalite equina occidentale; infestali tutti con la leishmaniosi e la toxoplasmosi «e torna dalla tua famiglia, piccolo roditore» ed attese, le dita a destreggiarsi in un segno della croce per poi congiungersi in preghiera, fin quando il portatore di peste non fu uscito dalla sua chiesa. Solo quando dello squittire non vi fu più eco, poté tornare al suo posto. «san francesco ci insegna ad amare ogni creatura di dio, o sbaglio?» oh, quanto sbagliava. «kỳrie, elèison» ma che cazzo voleva dire. «kỳrie, elèison» ah ok. «christe, elèison» «christe, elèison» «kỳrie, elèison» «kỳrie, elèison»
Ho per caso accennato al fatto che voleva suicidarsi? Scusa Run, scusa Euge, ma meglio regnare all’inferno che servire il paradiso.
«preghiamo» congiunse le mani, un occhio chiuso ed un altro a sbirciare gli appunti nascosti tra le pagine delle sacre scritture. «o dio, padre misericordioso, che per riunire i popoli nel tuo regno hai inviato il tuo figlio unigenito, maestro di verità e fonte di riconciliazione, risveglia in noi uno spirito vigilante, perché camminiamo sulle tue vie di libertà e di amore fino a contemplarti nell’eterna gloria. per il nostro signore gesù cristo, tuo figlio, che è dio, e vive e regna con te, nell’unità dello spirito santo, per tutti i secoli dei secoli» «amen» ed anche quella era andata bene; trasse un sospiro di sollievo, mentre la plebe intonava l’inno di Gloria a Dio: più sicuramente che probabilmente, avrebbe dovuto unirsi anche lui al canto. Meglio per tutti se non lo faceva.
Finalmente, giunse il momento in cui poteva sedersi; ignorò una prima giovane, le curate e lunghe vesti a celare qualsiasi parte del corpo che avrebbe potuto suscitare desiderio (le caviglie, ovviamente), mentre dava voce alla prima lettura, ed allo stesso modo non seguì assolutamente alcunché di quello che quel biondo ragazzo, fasciato di quella che doveva essere la sua unica camicia pulita ed adatta alla celebrazione liturgica, leggeva il salmo responsoriale: ad entrambi, rispose soltanto con il coro del «rendiamo grazie a dio».
Ma la seconda lettura, non poté ignorarla: così si sporse vagamente in avanti, le dita a massaggiare la barba e gli occhiali calati sulla punta del naso. «Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi» era stranamente felice che la Crane avesse preso la parola, ma. «fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo! Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza» eh, ma se non l’avrebbero linciata: bello parlare quando sei ricca. Si coprì con il dorso della mano i denti scoperti in una tenue risata, attendendo la fine della lettura.
«dal vangelo secondo marco» Ed avrebbe voluto che quel sorriso malizioso restasse tale, quando giunse il momento del Vangelo, invece di inasprirsi di acido e rancore, di dolore: e forse, forse avrebbe dovuto leggerselo prima, magari cambiare la lettura – magari non farla proprio, sapete.
Perché era davvero ironico, e di divertente non aveva che un retrogusto amaro sulle gengive. «in quel tempo, gesù disse ai suoi discepoli: “fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento» si morse le labbra, senza alzare lo sguardo: sapeva benissimo chi voleva cercare, eppure non ne ebbe la forza. «è come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino;» o se mai lo farà. Scosse la testa, proseguendo. «fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate”. parola del signore» a quel «lode a te, o cristo», Gemes Hamilton più che Abraham Shaw sapeva di dover parlare, e sapeva quanta poca voglia ne avesse.
Non cambiate nulla - era un gioco, e per quanto assurdo fosse aveva delle regole: le aveva sempre infrante, lui, ma quello non era il momento più propizio. Non aveva idea di cosa sarebbe successo se avesse omesso una parte della celebrazione, quale effetto farfalla avrebbe scatenato di lì a cent’anni. Così si inumidì le labbra, si tolse gli occhiali per grattarsi la radice del naso. «cosa vuole dirci il vangelo con queste parole?» qualcosa che non posso dire: ed era una domanda sincera, la sua. Perché lui non voleva parlare, e sperava in un avanguardia che Bodie non poteva vantare, e che i profughi del tempo tanto quanto lui volevano negare. Sorrise forzatamente, malizioso e dolce, le parole a scivolare come caldo caramello sulla pelle. «di avere speranza, fratelli» che cazzata: per lui, per loro che di speranza per quel ritorno al quale amici e parenti si aggrappavano non ne avevano nemmeno l’ombra. «che bisogna essere pronti, perché potrebbe arrivare in ogni singolo istante della propria esistenza» e di cosa stesse parlando, lasciava la libera immaginazione ai presenti: che lui di Dio non poteva farsi portavoce, ma dell’uomo e della mancata speranza, quello sì. Quello l’aveva sempre fatto.
Che parlasse di lui, di loro, poteva importare a pochi e nessuno – ma porse lo sguardo all’unica che sapeva sarebbe importato, che ancora temeva non le interessasse affatto. «che il momento che si aspetta da una vita intera potrebbe presentarsi alla propria porta quando ciò che si attendeva era caduto nell’oblio della dimenticanza, perdendo di sapore e rilevanza» più morbida si fece la piega sulle labbra, mentre rimaneva su Run per più tempo del dovuto, per poi scivolare su Jay e Darden, su Shia ed Elysian - e su Arci, Julian, Aidan, Gwen, Sehyung: che lui non poteva per antonomasia avere alcuna speranza, ma a loro ancora un po’ ne era riservata. «bisogna rimanere sempre vigili, le spalle al muro al fianco della porta chiusa, nell’attesa di un ritorno nel quale taluni hanno perso la fiducia – vigili, non semplicemente svegli» ci tenne a precisare, senza più nemmeno sapere dove volesse andare a parare. «perché con gli occhi aperti a fingere di essere svegli, quando invece non si ha la capacità di capire, di vedere quel che già si ha davanti alle palpebre socchiuse, ne sono capaci tutti» lui per primo, tra tutti i primi di quel mondo. «bisogna essere vigili e attenti, di non saziarsi – di non vantare una coscienza che non si possiede» non parlava più del loro mondo, del loro viaggio, di nulla da ormai troppo: magari, non lo aveva mai fatto.
«e anzitutto,» E parlava solo di lui, parlava solo di lei. «bisogna riconoscere ciò che si è sempre avuto, e del quale non ci siamo ancora resi conto»
Di quello che accadde in seguito, delle mistiche parole che gli sfuggirono di bocca tra un’imprecazione e l’altra, non ebbe pieno controllo: reclamava soltanto una cosa, Gemes Hamilton. «padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l'effusione del tuo Spirito perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.» e chinandosi, ed abbassando di molti toni la voce mentre baciava l’altare, aggiunse: «ma se lo trasformi in uno château latour, mi faccio davvero prete»
Presentò il corpo di cristo, lo spezzò fingendo che l’atto stesso della Chiesa non fosse blasfemo – non aveva mai capito perché doveva spezzarlo: era rude.
«Allo stesso modo, prese il calice del vino e rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli, e disse: prendete, e bevetene tutti:» sì certo, bevetene tutti. Evidentemente non conoscevano l’Hamilton. «questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti» che simpatici, davvero. «in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.» e non guardò in faccia nessuno, quando appurando ch’era rimasto Tavernello sottomarca, lo ingurgitò senza remore alcuno, riempiendolo nuovamente e di nascosto da occhi indiscreti mentre la perpetua dava la comunione ai poveri. Non era Château Latour, ma era comunque gratuito: ci si faceva andare bene tutto quanto, ad un certo punto.
«ora, qualche comunicazione di servizio:» i fucking rule this fucking town and i’m gonna kill you all «ricordo ai più giovani della nostra comunità che frequentano il percorso del catechismo, che per domani è stata organizzata una… visita guidata» sorrise dolce, le mani aperte ad accogliere l’amore diSatanaDio. A quanto pareva il vecchio parroco, pace all’anima sua, aveva seriamente organizzato una specie di tour, ma era stato compito suo riadattarlo. «per chi non avesse letto il programma affisso sulla bacheca, vi spiego in breve» a quel punto, piegò il capo sui volti di chi con lui aveva partecipato alla missione in America, una nota di malizia a piegare le labbra. Com’era scritto nel Vangelo secondo Giovanni, capitolo dieci versetto quattordici, lui era il “buon pastore e conosceva le sue pecore” - il problema stava nel fatto che le sue pecore non conoscevano mai davvero bene lui. «la signorina Simmons, la nostra perpetua, vi porterà a scoprire le bellezze di cui il signore dio nostro ci da mostra ogni dì: farete un giro nella magione dei fay, così che possiate conoscerne la vita ed i costumi più da vicino anziché solo per sentito dire – sono assai certo che la servitù dei signori non veda l’ora di essere per voi un ausilio in una tale visita;» rivolse un modesto cenno del capo a Run e Darden, Elysian e Swing - naturalmente, non aveva loro detto alcunché: sarebbe stato troppo poco divertente. «danhiel simmons e myles shaw, mio fratello, attendono con ansia la vostra giunta nella dimora del primo, così che possano narrarvi di ciò che hanno vissuto sulla propria pelle» umettò le labbra, strizzando l’occhio a Jay ed Arci. «come immagino sappiate, sono mesi difficili per la nostra patria e per il mondo intero:» fece un rapido segno della croce per poi congiungere le mani in preghiera, il capo al soffitto nel rivolgere una muta preghiera a Dio. «ritengo opportuno che tutti noi sappiamo cosa ci può attendere – come ci ha detto il vangelo oggi, potrebbe sempre essere il momento» sperava sinceramente li terrorizzassero, o che in un raptus da disturbo da stress post-traumatico simulato li uccidessero tutti: ah!, come sarebbe stata più bella la vita senza bambini. «sheldon akers ed i fratelli kingsley, gideon e wood, saranno ad attendervi fuori dalla dimora» se sopravvivrete «per portarvi a fare un giro nel vero fulcro di bodie: vi faranno vedere come si coltivano le barbabietole, com’è la vita di campagna e quella d’allevamento» si prodigò in un casto applauso colmo d’orgoglio (nei suoi confronti) per complimentarsi con i sopracitati per aver (inconsapevolmente) preso parte a quella fantastica gita, prima di tornare sulla platea. «se chiunque altro di voi volesse offrirsi per essere parte dell’evento di domani, non esiti a comunicarlo alla perpetua; la messa è finita, andate» a fare in culo «in pace, che il signore sia con voi»
Amen.
«ah, padre shaw, che messa toccante» si allungò sul leggio di legno, gli occhiali a pendere tra le dita e le iridi chiare ad osservare gli ultimi fedeli che s’apprestavano a lasciare la casa di Dio – fu stranamente gratificante, la fine di quella sentita ora di preghiere rivolte in un’entità sacra nella quale nemmeno credeva e di cui ora era stendardo: avrebbe dovuto aspettarselo. Come, dopotutto, ogni qualvolta qualcosa proseguiva secondo i suoi piani – Gemes Hamilton non tollerava il fallimento, ed ogni vittoria sebbene scontata era pur sempre un nuovo trofeo da aggiungere alla collezione. «lei ha un dono, e sono davvero, davvero molto eccitata all’idea di averla nella nostra comunità» roteò gli occhi con lenta intenzione sulla Crane, le ciglia a battere lente sugli zigomi ed un sorriso più affabile a dipingersi sul volto – trovava sempre le parole più giuste per evenienze del genere, c’era da dargliene atto. «ammetto da umile peccatrice di non meritarmi il corpo di cristo. ma non mi dispiacerebbe il… suo sangue. non faccia il tirchio, padre» alzò le sopracciglia allusivo, senza muoversi d’un passo. «ah!, signorina fay,» sussurrò, sul sottofondo delle voci dei fedeli all’esterno della basilica. «temo che una tale, come dire…» schioccò la lingua sul palato, cercando nel soffitto il termine più adatto. «…attitudine non si confaccia alla vostra rispettabile figura: non vorrei che poi la gente parlasse, sa’.» ad ogni modo, Abraham raggiunse l’altare e dietro di questo si genuflesse, ma anziché pregare prese la boccia del vino - e rese grazie. Ne riempì il proprio calice ed un altro che teneva sempre pronto – non si sa mai, dopotutto -, per poi dirigersi alla prima fila di panche. «ma immagino questo possa essere il nostro piccolo segreto»gemes hamiltonbodie, 1917parson shawtelekineticcode by lele. -
.Quando anche l’ultimo dei fedeli abbandonò la chiesa, Heidrun scivolò maggiormente sulla panca, dita intrecciate sullo stomaco e gambe pigramente sollevate sullo schienale della panca successiva. Dubitava che il sandolato Gesù Cristo si sarebbe offeso solamente perché si metteva comoda – era o non era lui quello a girare con la tunica ed i gioielli al vento? Eh. – ma non poteva dire lo stesso dei suoi nuovi compaesani. Non che la cosa turbasse la Crane, chiaramente. «temo che una tale, come dire…attitudine non si confaccia alla vostra rispettabile figura: non vorrei che poi la gente parlasse, sa’.» Inarcò un sopracciglio al soffitto, l’accenno infinitesimale di un sorriso a piegare l’angolo destro delle labbra. «non importa che se ne parli bene o male, l'importante è che se ne parli» citò atona, enfatizzando la secca e tonda parlata irlandese. Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso, di suo non aveva alcun tipo di accento – il dover avere una voce neutra, d’altronde, era stata parte del proprio lavoro: non si potevano dare indicazioni alle vittime sulla propria appartenenza, ed in quanto Adescatrice doveva essere in grado di adattarsi ad ogni circostanza. Londinese? Nessun problema. Scozzese, irlandese? Basta chiedere. Italiano, francese, tedesco? Un gioco da ragazzi. Ecco come Martha Fay s’inseriva perfettamente nel contesto di Bodie, impeccabile anche nelle poche parole rivolte ai cittadini dai tre (o erano due? Quattro? Settanta?) giorni nei quali si trovavano lì.
Selezione naturale, belli: adapt or perish. «senza contare che, ovviamente» prese il calice di vinoe rese graziegentilmente offerto dal parroco, e si affacciò oltre il bordo per osservarne il contenuto – a cui rivolse un sospiro offeso, Run. «tutti amano martha fay» lanciò un’allusiva occhiata all’Hamilton arcuando entrambe le sopracciglia, un brindisi al vento nella sua direzione. Per una volta, davvero la prima, Heidrun aveva fatto i compiti a casa: aveva letto il fascicolo fornitole da Lancaster, scoprendo (poco) piacevolmente che il suo… alter ego era molto apprezzato fra i contadini. La Martha Fay delineata da Lancaster, pareva essere un misto fra Madre Teresa di Calcutta e Lady Diana: uau. «e la gente sa vedere solo quel che gli viene insegnato di vedere.» concluse in un bisbiglio roco, grondante dell’onesta ironia con la quale provocava ed offendeva il mondo da ventun anni a quella parte. Ai Bodiotti era stato detto che Martha era una dei buoni, e tale l’avrebbero vista finchè qualcuno più in alto di loro non li avesse convinti del contrario: avrebbe potuto mostrarsi in piazza vestita solo di sangue, ed i pastorelli le avrebbero comunque presentato i loro bambini perché potesse dar loro un bacio in fronte.
Adorabile.
Annusò il contenuto del calice, arricciò il naso; nelle narici le rimase comunque incastrato il denso spessore della plastica tipico di quei mini market dove spacciavano eroina, e cercavano di cancellare l’olezzo dei corpi in overdose abbandonati nel retro bottega. Sempre bello trovare un po’ di casa nel Ronco del 1917 versione California Dream. Il sapore, se possibile, fu perfino peggiore – e non poté trattenersi un singhiozzo frustrato, un sibilo a denti a stretti: cristo santo, era quasi a livelli Penny Market. Davvero terribile, ma decise di volerlo amare comunquevalido anche per te, Gemes: vada per quel che passa il convento, e letteralmente, sarebbe stato il suo nuovo mantra fino a nuovo ordine. Picchiettò con la mano libera sulla panca invitando padre Shaw a prendere posto, ma la distratta attenzione dei verdi occhi sbiaditi della Crane era tutta per il soffitto – incredibile cosa si trovava a ritenere interessante, in tempo di carestia. «credi nel destino?» domandò, senza girarsi a guardarlo. Piegò le labbra verso il basso, prima di ingurgitare un sorso di Tavernello – e rammaricarsene, ma ripetere l’operazione comunque. «credevo fosse una stronzata, prima di conoscere te» fece scivolare il capo di lato fino a poggiare la guancia sullo schienale della panca, lo sguardo adombrato da una patina di serietà che raramente faceva capolino nelle iridi color muschio. Run non era una stupida, ma trovava le venisse più conveniente far credere di esserlo – ed era più semplice, perché agli stupidi veniva giustificato tutto. Da una qualunque altra bocca, quello avrebbe potuto essere un commento dolce, il preludio di una dichiarazione a cuore aperto e sangue fra le dita – ma Run? La sua, bisbigliata in tono pensoso ed assorto, era un’accusa. «non eri previsto» sopracciglia leggermente corrugate nel drizzarsi a sedere composta, pensieri a farsi meno astratti e più concreti mano a mano che prendevano forma nell’aria. «senti qua,» posò un ginocchio sulla panca voltandosi completamente verso Gemes, premendo sovrappensiero un gomito sulla spalla dell’Hamilton. «ricordi la prima volta che ti ho baciato? ovviamente, lo ricordi» liquidò la questione agitando la mano nell’aria, una stretta nelle spalle. Una Heidrun ed un Gemes diversi, sconosciuti ed annoiati – una Run che a certe cose, ed a certi Gemes, non dava alcun peso. Era solo un bacio. Sorrise leggermente, l’indice a picchiettare sulla guancia del telecineta. «non è successo nulla. e ricordi la prima volta in cui mi hai baciato?» scrollò un dito nell’aria spingendo pigramente, e senza troppi complimenti, la porta della chiesa a chiudersi; schioccando la lingua sul palato, fece scivolare la gamba sinistra oltre l’Hamilton e si mise in ginocchio sulla panca premendosi contro di lui, abbastanza da buon Dio giurare di sentire il proprio stesso battito risuonare dal petto di Gemes alle proprie costole. Gli prese il viso fra le mani con un ghigno sbilenco, sopracciglio cinicamente arcuato mentre si chinava verso di lui. «è morta mia madre» sussurrò al suo orecchio, armeggiando per rubare gli occhiali e poterli così indossare – era un discorso serio, aveva bisogno di un’aria lecitamente intellettuale. «sai quante volte sono venuta a casa tua?» tutte domande retoriche, quelle della Crane, le dita ancora ad assorbire il calore del suo viso e gli occhi a scivolare sulla curva morbida delle labbra. «tante. E cos’è successo? Niente. Sei venuto a casa mia una volta» premette i pollici sugli angoli della bocca dell’Hamilton tirandoli verso l’alto – ma sempre con delicatezza, Run. Temeva sinceramente che una pressione maggiore potesse sfociare nel tipo di violenza sbagliata, e decidesse che dopotutto sì, okay, lo amava, ma non le sarebbe dispiaciuto sbattergli la testa sul pavimento della chiesa di Bodie, California. Così, per hobby. Dovette chiudere gli occhi, nel sorriso sghembo con cui rimembrò la settimana precedente – il suo nome a vibrare nel corridoio del condominio, i pugni contro la porta. «ci hanno rapito» non dico che si stesse creando un certo schema, eh, ma insomma. Umettò le labbra, mani ad intrecciarsi dietro la nuca mentr’ella si ritraeva per poterlo guardare negli occhi. «non ho finito. abbiamofinalmente!!&&fatto sesso, e siamo quasi morti» alzò un indice per fermare qualunque protesta sul nascere, quindi si spinse ufficialmente in piedi per raggiungere il centro della chiesa – ed osservò l’altare, Run, rimanendo in silenzio con il capo piegato all’indietro. Non si era resa conto di quanto il discorso si fosse fatto personale, di quanto una rabbia del tutto ingiustificata avesse cominciato a bruciare sulla lingua accompagnando ogni insinuazione. Di quanto fosse ingiusto, e di quanto fosse ironico, e di quanto fosse fottutamente triste che Dio, buon Dio, non fosse loro permesso di… esistere, semplicemente. Contemplati per essere sempre un amore a senso unico –insieme erano gioie effimere destinate a durare un battito di cuore, che quello successivo spaccava sempre il muscolo nel petto. «hai detto di amarmi» confessò in preghiera al crocefisso oltre l’altare, semplicemente incapace di girarsi. Il tono di voce basso ed ovattato di chi era consapevole che dirlo, semplicemente dirlo, avrebbe potuto cambiare cose – e che dirlo, semplicemente dirlo, lo rendeva più reale ed immutabile. Odiava tutto ciò che era statico, la Crane, tutto ciò che aveva una forma ed un’etichetta espressa: perché bastava sempre poco, troppo poco, per farle credere di aver letto male. Inspirò dalle narici e chiuse gli occhi, attendendo solo il momento di sentire un io? Mai detto. Nel dubbio, decise di non dargli tempo di ribattere: «e siamo rimasti bloccati qui.» se vogliamo, aggiungiamo al variopinto quadretto il fatto che lui fosse prete, e lei la futura sposa di suo fratello.
Una poteva essere una coincidenza, eh. Anche due - ma quello? Quello era un complotto.
Ed il problema, ogni volta, era Gemes Hamilton. «hai cambiato gli schemi» non era previsto che lui la baciasse – che andasse a cercarla a casa, che l’amasse. Dovevano aver letto male il libretto d’istruzioni, essersi persi una qualche fottuta clausola scritta in piccolo. Si abbracciò il petto nel voltarsi alla navata, un sorriso amaro a rendere d’un acido acerbo gli occhi chiari di Run. Ed il suo sguardo, quel bugiardo sincero, domandava semplicemente: dove abbiamo sbagliato?
La sua bocca, d’altro canto, pareva pensarla diversamente: «sei tipo l’anticristo» lo indicò con un ampio cenno del braccio, sopracciglia inarcate e dita strette fra loro mentre agitava la mano nell’aria. «e padre shaw,» così poco - COSì POCO CREDIBILE, da raggiungere un nuovo livello di inammissibilità. «come se non bastasse, sta chiaramente cercando di sedurre la futura moglie di suo fratello!!&&» ma a l l u c i n a n t e. «questo causerà la prima guerra nucleare in anticipo di quasi trent’anni» scherzava, Run? Dall’abbozzo di sorriso, avreste potuto dire di sì.
Ma era una Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso.
Scherzava solo quando non lo faceva affatto.martha fay / run cranequella rikka & bellamartha + myles 4e&ee fumati 'sta barbabietolalancaster you're drunkForgive me, Father,
for I have sinned. it's been god only knows when since my last confession. -
.Percorse la navata con i due colmi calici di vino scadente, schioccando la lingua contro il palato mentre Martha osava quel che sarebbe parsa un’azione blasfema al novantacinque percento della popolazione di Bodie – sedersi in maniera cotanto scomposta nella Casa del Signore? Buon Dio. Bisognava essere dei veri demoni dell’Inferno, risaliti sulla superficie della Terra con le peggiori delle intenzioni, per tentare un affronto del genere. Non che Heidrun Crane, difatti, non fosse un diavolo tentatore. Uno dei fottutamente migliori, a dire il vero - inutile negare quanto l’Hamilton l’odiasse intensamente, per quel suo semplice essere così: ammirava quando in qualcuno riconosceva attributi simili a quelli che aveva sempre attribuito alla sua persona, risultando pertanto degni di nota; non sopportava, quando tal qualcuno si arrogava il diritto di raggiungere i suoi livelli, cercando di superarli. Tuttavia, almeno quella volta, il proprio disappunto non era rivolto alla ragazza comodamente distesasi sulle panche o per la saccente citazione wildiana di lei, quanto per lo sgradevole e pungente odore d’uva mestata – l’unica qualità di vino che padre Abrahams potesse permettersi, considerando che l’esiguo stipendio di un parroco in tempi di guerra non gli permetteva di comperare bevande alcoliche di più alto profilo. In un altro frangente, le labbra piegate verso il basso ed il tranquillamente riconoscibile disappunto ad ombrare le limpidi iridi azzurre sarebbero certamente state tutte per la mimetica per quel suo sfacciato profanare il suo ambiente sacro. Sacro, ma non per l’effettiva santità dell’edificio: vestiva i panni di un prete, Gemes, ma un abito di scena come quello non l’avrebbe mai portato a credere in quell’entità bigotta che aveva sempre influenzato la sua città natale; tutta la religiosità di quella chiesa risiedeva nell’essere il palcoscenico del telecineta. Ciascuno dei partecipanti alla missione suicida di Salem aveva un proprio posto in quella cittadina dimenticata dal resto del mondo: Heidrun e Darden avevano l’effimere comodità della nobiltà americana, suo fratello gli oneri e gli onori di un presunto passato militare, gli altri i campi e gli allevamenti quando non i compiti da servitù; per quanto non avrebbe mai davvero accettato una divisione in ruoli prestabilita da uno psicolabile preside che non aveva di meglio da fare nella propria esistenza se non scrivere storie di tempi passati, riconosceva che non poteva fare altrimenti, e che il proprio copione l’avrebbe interpretato nella perfetta maniera che si confaceva ad un Hamilton. Pertanto sapeva che quella Chiesa sarebbe diventata un luogo di culto anche per lui, ma non rivolta alla stessa divinità altrui: Gemes Hamilton non aveva altro dio al di fuori di sé.
Atteggiamenti come quelli di Martha Fay sarebbero stati scoraggiati, quando non puniti – Shaw, per quanto si fosse presentato come una figura ecclesiastica fin troppo avanti rispetto ai tempi che correvano in California, sarebbe sempre stato favorevole anche ad un bel rogo. Per puro divertimento, s’intende.
Ma nel momento in cui il sipario calava sul palco, al ventisettenne non fregava più un cazzo di Lancaster, o degli abitanti di Bodie – tanto si sapeva, che nemmeno al pubblico poteva interessare di meno di ciò che gli attori confabulavano nel dietro le quinte.
Quando erano da soli e per quanto gli riguardava, Heidrun Ryder Crane poteva mettere le sue gambe ovunque.
Le porse il calice ed ella non rese grazie, poi si appoggiò con la schiena contro la panca sulla quale erano adagiate le gambe della ventunenne. «senza contare che, ovviamente, tutti amano martha fay» arcuò le scure sopracciglia nel rispondere al brindisi, gli angoli della bocca appena piegate in un sardonico sorriso. Avrebbe voluto dirle che non poteva dar loro torto, ma pompare ulteriormente quell’ego che la nobildonna andava portandosi dietro non gli parve la migliore delle idee. «se ti amano così tanto come affermi,» si sforzò di bere di nuovo quel terribile vino, mascherando nello scoccare delle labbra una feroce contrarietà che lo logorava dal fegato stesso - cristo!, quanto gli mancavano le ben più rinomate etichette che tenevano nella dispensa della Villa a Londra. Decise che era meglio soffermarsi solo sugli alcolici lontani cento anni e millecinquecento chilometri, piuttosto che su coloro che li avrebbero bevuti senza il consueto brindisi delle sette del pomeriggio. «organizza qualche riunione del patronato o cazzate simili e convincili a versare un po’ più di offerte la domenica» prima che vada a riscuotermele da solo. Sollevò il calice più vicino al volto, facendo vorticare il contenuto rosso sangue. «questa roba è peggio dell’aceto che producono giù in campagna» lo sapeva bene, dato che in false visite di benedizione delle case si era girato tutta Bodie nei due giorni precedenti, cercando di capire un po’ come destreggiarsi in quella cittadina. Spoiler: ancora non aveva capito chi mestava meglio l’uva, lì.
E sperava sinceramente che non avrebbero avuto tempo per scoprire da chi recuperare un fac-simile di un buon vecchio Nero d’Avola. «e la gente sa vedere solo quel che gli viene insegnato di vedere.» alzò appena le spalle, Gemes, continuando riluttante a sorseggiare l’american Tavernello. Che la semplicità e la stupidaggine della gente non lo stupisse più in alcun modo, non sarebbe stata una novità per la Crane. «soprattutto i poveri timorati di dio» convenne in tono moderato, gli occhi fissi sul portone ancora socchiuso; avrebbero, giustamente, avuto paura di lui, se dalla volta a seguire non avessero imparato che, uscendo, la fottuta porta si chiude.
Forse non era così che funzionava in un luogo simile - sapete, che magari bisognava sempre accogliere tutti i fedeli nel caso volessero confessarsi e stronzate simili. Ma indovinate a chi non interessava affatto?
La risposta, esatto!, era sempre Gemes Hamilton, o Abraham Shaw che dir si voglia.
Quando si era accomodato sulla panca, così vicino alla ragazza da santo cielo sentire il profumo delicato di quegli anni ad impregnarsi sulle vesti leggere della Crane, aveva creduto – nonché sperato - che sarebbero rimasti lì in silenzio a contemplare lo stesso soffitto che lei non sembrava voler smettere di fissare, o che se proprio avessero dovuto interagire non ci sarebbe stato bisogno di parlare. Aveva già parlato di troppe cose assurde in una sola ora e mezza: di certo, quel «credi nel destino?», amplificava il carico metafisico di quella giornata. Aveva evidentemente perso troppo tempo a sospirare, il moro, poiché nel momento esatto in cui dissentì ad alta voce – e che di cose contrarie ad una presunta ideologia fatidica degli eventi, ne aveva da esporre – Run riprese a parlare. «credevo fosse una stronzata, prima di conoscere te» a quel punto, altro non poté se non alzare gli occhi al cielo.
«non eri previsto» inarcò un sopracciglio, accusatorie le iridi celesti a posarsi in quelle verde bosco. Lui non era previsto? «il sentimento è reciproco» fu l’unica precisazione che si sentì in dovere di esporle: era lei, ad avergli scombussolato tutti i piani e tutti gli ordini impilati per anni in maniera ossessivamente perfetta.
Gli dispiaceva, quell’imprevisto? Non così tanto quanto avrebbe dovuto.
Non disse altro, sapendo quanto parlare sopra un fiume in piena come lei sarebbe stato inutile – persino per uno come lui, che la propria voce l’avrebbe preferita sopra a qualsiasi altra. «senti qua, ricordi la prima volta che ti ho baciato? ovviamente, lo ricordi: non è successo nulla. e ricordi la prima volta in cui mi hai baciato?» si volse appena per seguire la porta girare sul cardine, prima di ritrovarsi Run sopra di sé; non annuì, né scosse il capo. Quelle della Crane non erano domande, e che lui ricordasse era – appunto - ovvio. Sebbene la sua memoria fosse altamente selettiva, atta a ricordarsi soltanto ciò ch’era bello a vedersi e ricordarsi, o utile per fini futuri, tutte le immagini che riteneva degne di essere scolpite eternamente nella pietra erano perfettamente nitide ai suoi occhi.
Ogni cosa del Labirinto, era ben incamerata nel suo cervello.
Ciascun evento a seguire quella settimana, era stato anche solo minimamente degno di nota.
Heidrun Crane, si era sempre insinuata negli intricati fili di un pensiero che voleva liberarsene, e ch’eppure nei suoi grovigli aveva continuamente tentato di legarla in maniera fastidiosamente duratura.
«è morta mia madre» chiuse gli occhi mentre lei non vedeva, le mani del prete a tenere le gambe della ragazza ed il battito del suo petto a vibrare concreto contro il proprio – oh, se lo ricordava.
Non avrebbe mai apertamente contemplato il fallimento, ma sapeva che quello era stato un suo errore. Non che gliene fosse importato, sul momento – e sinceramente, non che di Joanne Harvelle all’Hamilton potesse fregare qualcosa nemmeno allora. Un caduto come un altro; l’ennesimo nome da spuntare dalla lista dei sette miliardi di individui ad infestare il globo.
Era di Run, che gli era importato. Era di Run, che gli importava.
«sai quante volte sono venuta a casa tua? tante. e cos’è successo? niente. sei venuto a casa mia una volta: ci hanno rapito» e mentre la ragazza chiudeva gli occhi con una piega storta sulle labbra, quelli socchiusi di Gemes restarono a scrutarla mesto, nessun muscolo ad incoraggiare gli sforzi di lei nel piegargli gli angoli della bocca. Conoscendola abbastanza, quel discorso poteva rivelarsi serio quanto sfociare in un dialogo sul peculiare clima statunitense degli anni venti – ma la piega che stava assumendo per il telecineta, era decisamente ben delineata.
«non ho finito. abbiamo fatto sesso, e siamo quasi morti. hai detto di amarmi e siamo rimasti bloccati qui.» non si mosse nemmeno quando decise di alzarsi, quando avrebbe egoisticamente voluto trattenerla tra le proprie braccia – stringere la carne delle gambe tra le proprie dita, annullare la distanza che li separava per farla tacere, e soltanto per sentire ancora un sapore a cui ormai si era abituato. Che ormai voleva.
Allargò le braccia sullo schienale della panca, prendendosi tutto quello spazio che la senza dubbio molesta presenza della Crane gli aveva precluso fino a quel momento. «hai cambiato gli schemi» sbuffò appena scuotendo il capo, l’accenno di un sorriso malizioso a non far capolino negli occhi chiari. Non sapeva evidentemente con chi stesse parlando: lei, a lui, gli schemi li aveva cambiati cinque anni prima.
Non avrebbe avuto alcun diritto di parola, se solo l’Hamilton non avesse dovuto concordare con lei – aveva, effettivamente, cambiato gli schemi: di certo, nemmeno lui se lo aspettava.
«sei tipo l’anticristo. e padre shaw, come se non bastasse, sta chiaramente cercando di sedurre la futura moglie di suo fratello!!&& questo causerà la prima guerra nucleare in anticipo di quasi trent’anni»
«innanzitutto,» chinò il capo in reverenza, un mezzo inchino verso di lei. «grazie del complimento.» Anticristo era sempre stato uno dei modi in cui preferiva venire chiamato. «in secondo luogo,» si fece controvoglia più serio, Gemes – la gola a deglutire vino sottomarca e acida bile. «preferirei non sentir parlare del matrimonio fino all’effettiva data.» c’era qualcosa, in quel fatto, a dargli l’orticaria. «terzo,» dopo aver alzato pollice ed indice della mancina per indicare i primi due punti, sollevò anche il medio. «eri chiaramente tu a provarci con il sottoscritto, sgualdrina,» – cit. il buon sciaia dalle barbabietole «ma se dovesse scoppiare una nuova guerra, dato che questa sta per finire e noi ci salveremo tutti, non mi dispiacerebbe se bombardasse bodie» una preghiera all’Altissimo? Forse: da tenere in riserva nel caso non ci fosse stato modo di tornare nel loro presente.
«ma, dimmi,» riprese, curioso. Fu a quel punto che si alzò, raggiungendo il centro della navata, le braccia incrociate al petto. «mi stai per caso incolpando di tutto questa merda, run?» la buttò lì, vago com’era stato il resto del discorso.gemes hamiltonbodie, 1917parson shawtelekineticcode by lele. -
.Il problema di Gemes Hamilton era prendere tutto troppo sul serio, quello di Heidrun Crane non farlo mai abbastanza. Strinse la bocca in una linea dura piegando appena il capo sulla propria spalla, le sopracciglia ad arcuarsi sornione sui sottili occhi smeraldo. C’erano momenti, quali quello in questione, in cui si domandava fin dove potesse giungere l’ego del telecineta – e si rendeva conto che, come l’infinito, era incommensurabile per la mente umana: non aveva né inizio né conclusione, vivendo da sé e per sé. Fece scivolare lo sguardo attorno a loro, concretizzando tutta questa merda con le scialbe panche della modesta chiesa di Bodie, California. Non avrebbe neanche saputo dire chi dei due, con la risposta a pruderle sul palato, fosse più stupido: avevano chiaramente dei problemi di comunicazione se Gemes credeva che Run volesse colpevolizzarlo per i peculiari gusti storici di William Lancaster, e se seriamente poteva pensare che occupasse un tal posto d’onore nell’universo da poter essere biasimato per una dozzina di persone a spasso nel tempo. Curvò le labbra in un sorriso piatto e distratto, riempiendosi nel mentre la bocca di razionale incomprensione: non solo alla Crane non piaceva essere compresa, ma non ne aveva alcuna voglia. Non ci provava neanche, in quelle battute destinate ad essere capite solo dal proprio senso dell’umorismo: aveva un mondo tutto suo nel quale esistere, Run, dove mai faceva entrare nessuno. Non si trattava di politica di privacy aggiornata o barriere con cui proteggersi dal mondo (quando mai) quanto proprio… abitudine. Chiederle l’accesso era un po’ come bussare sulla spalla di una suora e chiederle di tirare su la tunica: poteva farlo, poteva non farlo; semplicemente non ci aveva mai pensato. Viceversa, nessuno le aveva mai domandato espressamente di poter entrare; chi conosceva Run abbastanza da sapere dell’esistenza di quel cosmo – i suoi fratelli, i suoi amici- sapeva anche che non privava gli altri di una parte di sé; non v’erano segreti in grado di cambiare esistenze, non c’era nulla di diverso rispetto a quel che mostrava agli altri. Era solo un posto…privato, più ordinato di quanto potesse mai apparire in un qualunque mondo di Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso. Quella stessa parte che andava amando od odiando a seconda delle giornate; quella con cui non solo condivideva battute e scuole di pensiero, ma anche strette segrete di mano - ecco perché era privato. Fece scivolare sorriso e sguardo su Gemes, accentuando maggiormente il ghigno sulla bocca.
Era decisamente lui quello stupido. «veramente,» battè le ciglia, incrociò le braccia sul petto studiando il profilo dell’Hamilton nel banale intento di capire l’impossibile – non Gemes, per inciso; cercare di capirlo la privava del divertimento. Heidrun cercava di capire come, fra tutti gli esseri umani esistenti in quell’universo, fosse incappata in un Gemes Hamilton – e perché avesse deciso, in turbolenti anni di convivenza poco civile, di tenerselo sempre un po’ troppo stretto. «stavo per dire che porti sfiga.» concluse, lasciando solo un sopracciglio sollevato ed enfatizzando così l’idiozia della sua domanda. Egocentrico e megalomane, sottintendeva la pungente occhiata della Crane. «e che l’universo, chiaramente, sta mandando dei segnali» sollevò lo sguardo color muschio al cielo, il labbro superiore stretto fra i denti. Possibile che dovesse sempre spiegargli tutto? Scrollandosi nelle spalle, sciolse la presa sul proprio petto sollevando un braccio per indicare prima se stessa, e poi lui. «qualcuno non approva» spiegò con voce piana ed annoiata, la lingua masticata fra i denti. «non sono certa di poterlo biasimare» ruotò gli occhi verso l’Hamilton, l’ombra opaca di un sorriso scaltro a pungere un angolo della bocca. Lo pensava davvero, o si divertiva solamente a prenderlo per il culo? Entrambe, sempre. Talvolta credeva di essere nata apposta per quello, Run; che quello stesso destino beffardo che tanto si preoccupava di rendere la loro relazione improbabile ed inopportuna, l’aveva piazzata nella vita di Gemes Hamilton solamente per rompergli il cazzo.
Anche in quel caso, non poteva biasimarlo. Sospirò teatrale volgendogli le spalle per tornare ad osservare l’altare della chiesa, desiderando in cuor proprio di poter essere più credente e meno cinica: avrebbe voluto potersi appellare a Dio, la Crane, con la vaga speranza che almeno lui potesse fare qualcosa – ma era sempre stata troppo sveglia per essere fedele alle parole di qualcun altro. «magari non ne vale la pena» un bisbiglio, ma ben udibile nel silenzio della navata. Attese alcuni secondi prima di decidersi a voltarsi di tre quarti verso padre Shaw, non dovendosi sforzare particolarmente nel mantenere indecifrabile l’espressione in volto. Avrebbe potuto suonare più credibile e meno provocatoria nell’affermazione, ma aveva deciso d’essere magnanima e lasciare all’Hamilton il beneficio del dubbio di potere, per una volta, capire dove finisse la natura importuna della Crane ed il suo reale pensiero. Gli uomini erano così, bisognava aiutarli – spingerli nella giusta direzione, ma non troppo perché ehi, non era la baby-sitter emotiva di nessuno.
Una vera fortuna, più per Run-e-Gemes che per Run (o Gemes.), che la pigrizia insita nella Milkobitch a tempo perso non si fosse mai infiltrata nel suo spirito competitivo: amava le sfide, e tendeva a vincerle sempre.
A proposito di sfide: «hai l’ansia da palcoscenico per celebrare il matrimonio?» non credeva sarebbe mai giunto il momento in cui avrebbe visto un Gemes Hamilton a disagio per qualcosa (qualcosa, non qualcuno: mettere a disagio il telecineta era un altro dei suoi innati talenti, e non rimpiangeva nulla). «sarei più preoccupata dai battesimi, se fossi te» non poteva immaginare alcun neonato che potesse non piangere vedendo Gemes – ed era loro emotivamente vicina, la Crane. – né, viceversa, riusciva a figurarsi un Hamilton a proprio agio nell’innaffiare la testa di una mini creatura. Potevano non essere stati… vicini, i mesi precedenti, ma Run non si era lasciata sfuggire alcuna occasione per ricevere update quotidiani sulla convivenza degli Hamilton e River. «loro la percepiscono ad un livello più profondo, la malvagità» si strinse nelle spalle, un sorriso a piegare la bocca verso l’alto. «sono grata che lanchy non mi abbia dato la povertà,» perché non aveva un cazzo di voglia di far nulla, Run: non fingere di seminare o raccogliere barbabietole, non osservare il vento scivolare fra i fili d’erba di una collina mentre portava al pascolo le mucche, e di certo non occuparsi della chiesa di Bodie. «finalmente qualcuno ha riconosciuto la superiorità della razza» Inarcò un sopracciglio verso gli abiti talari del telecineta, esplicitando la miseria di quel ruolo nel naso arricciato.
Crane 1, Hamilton 0.martha fay / run cranequella rikka & bellamartha + myles 4e&ee fumati 'sta barbabietolalancaster you're drunkForgive me, Father,
for I have sinned. it's been god only knows when since my last confession. -
.Si strinse nelle spalle, innocente ed innocuo nelle vesti talari e nel morbido broncio a curvare le labbra verso il basso – tanto puro e candido, negli scomodi abiti di Padre Abraham Shaw, che ad occhi estranei avrebbe potuto realmente sembrarlo.
Per quanto casuali, fortuiti e così esageratamente al limite dell’inverosimile si fossero dimostrati gli eventi della sua vita dacché aveva conosciuto Heidrun Ryder Crane – ed altrettanto, più che accidentale, incidentale, era stato l’incontro con la ragazza -, e sebbene dovesse ammettere la stranezza di quanto accaduto da quel fatidico giorno, Gemes non avrebbe mai ammesso seriamente di credere al Fato. Sfortuna, segnali mancati e non approvati dall’Altissimo, destini già scritti non appartenevano al modo di pensare proprio dell’Hamilton: questo Run lo sapeva, e sebbene il pattern fosse ridondante avrebbe capito il perché dell’indifferenza del non-prete all’accusa d’essere un menagramo. Nonostante fosse stato un Cappello Parlante a trascinarli in America senza alcun motivo, e Lancaster a fargli fare uno scadente e non richiesto remake di Ritorno al Futuro, non avrebbe mai avuto dubbi riguardo alla consequenzialità degli eventi capitati loro; era colpa e merito di tutti loro, se si ritrovavano nel millenovecentodiciassette a Bodie, poco ridente cittadina della California. «era solo per dire.» commentò in un bisbiglio ben udibile nella sorda chiesa, gli occhi cerulei a ricambiare provocatori il ghigno di Martha Fay, ma senza realmente pensarlo: come lei non biasimava del tutto il Don Abbondio level master che cercava di separarli, lui non aveva (stranamente) alcuna intenzione di criticare le sue insinuazioni; magari non erano quelle le sue, le loro, più rosee aspettative per il futuro, ma non gli pesava essere considerato la causa di quel casino.
Avrebbe continuato a tacerlo in pubblico ed ai più intimi, a negarlo nonostante l’evidenza, ma non poteva più permettersi di fare lo stesso con sé stesso. Semplicemente perché gli era impossibile continuare quella menzogna così magistrale da averlo destabilizzato troppe volte nel giro di soli due anni, mandandolo così fuori rotta da rendere il punto di partenza un ricordo fisso e ben chiaro, eppure distante ed offuscato e non più così importante; era un marinaio in preda alla burrasca, sopravvissuto all’Oceano in tempesta e trasportato su rive sconosciute – lei, era tutto ciò che l’America erano state per un gruppo di scalmanati alla ricerca d’altro: oscura e sconosciuta, bellissima nella sua imprevedibilità, l’indesiderato figlio di errori di calcolo e presunzione; la miglior scommessa, la miglior conquista da tentare.
L’amava come poco e nulla aveva amato prima di sentirla - sotto le dita e dietro gli occhi chiusi in un moto di esasperata rassegnazione, nel battito di ogni giorno e nei quotidiani insulti. Se avesse dovuto prenderla di peso e portarla indietro altri cento anni per continuare quello spettacolo, per ritardare ancora di più ed ancora per sempre il sipario a calare sul palco, non aveva dubbi l’avrebbe fatto mille altre volte.
Di quella situazione del cazzo la colpa gli piaceva averla, per quanto concernesse il loro piccolo universo. Avrebbe solo voluto che lei lo capisse, lo condividesse e comprendesse che il merito era d’entrambi, oltre che di Gemes. Ahimè, non era certo riuscisse a farlo: era pur sempre una Run, ed alle cose sapeva arrivarci con un po’ di ritardo. Le si voleva bene anche per quello.
Se c’era qualcosa, di tutto quanto detto dalla Crane, che aveva potuto far vacillare le convinzioni del magonò, quello era stato il solo pensare che potesse non valerne la pena: per un effimero momento, gli era persino importato ch’ella lo credesse seriamente.
Le sorrise appena, le sopracciglia sollevate allusivamente nella sua direzione, prima di spostare brevemente lo sguardo sul pavimento – sporco ed impolverato: doveva ricordare a Mariel di pulirlo per bene – ed incamminarsi verso la ricca del paese. «non ti montare la testa, lancaster non ha evidentemente capito un cazzo» schioccò la lingua sul palato, muovendo lenti e misurati passi. «se ha riconosciuto la superiorità della razza in te» un sospiro e lo sguardo rivolto al crocefisso dietro le spalle della ventenne, alzò il pollice della mancina puntellandolo con l’altra mano. «a) siamo messi davvero male;» arricciò il naso in una smorfia provocatoria, picchiando sull’indice. «b) significherebbe che ha riconosciuto la santità in me. andiamo, ti rendi conto da sola di quanto sia ridicolo.» sorrise appena, piegando leggermente il capo.
«comunque i bambini non mi preoccupano» liquidò la questione con un disinvolto movimento della mano. «loro percepiscono la malvagità perché sono, la malvagità. io e loro siamo affini: se mi piacessero, andremmo persino d’accordo» aveva scansato la questione del matrimonio come se nemmeno l’avesse nominato, diminuendo sempre un po’ di più lo spazio che li separava. Quando le fu di fronte, ad un soffio di fiato di distanza, immersosi dapprima fin troppo nelle verdi praterie cosparse di paglie dorate fece poi scivolare lo sguardo sulle labbra di lei, le dita a sfiorarne tenue la spalla.
Senza bisogno di muoversi premette sul portone d’ingresso della povera basilica di Bodie, e quando si fu chiusa, per precauzione, fece incastrare negli appositi appigli l’asta di legno che ne impediva l’apertura. «hai ragione,» prese tra le dita la spallina dell’abito datato, giocherellandoci per qualche secondo prima di scansarlo. «non ne vale la pena.»
Si piegò verso di lei solleticando la pelle con le labbra delicato, solo per premere sempre un po’ di più mentre si avvicinava dalla spalla alla base del collo. Strinse tra le dita la carne dei fianchi, solo per impedirle di andarsene – ma sapeva, non lo avrebbe fatto: lo sentiva in ogni proprio battito accelerato contro la gabbia toracica, ed in ogni suo a risponderne. «basare la felicità su ciò che è fuggitivo è un atto di follia,» citò, un lieve sorriso mentre le mordeva il lobo dell’orecchio: non che loro, folli, non lo fossero affatto.
E più i secondi si susseguivano, più pazzo Gemes Hamilton si sentiva. «solo l'imperituro e l'eterno vale la pena d'un ardore perseverante.» le sue stesse labbra strette tra i propri, vicino alla gote di lei – così vicino, che resistere richiedeva un immenso atto di forza.
Chiuse gli occhi, strinse più forte che poté le palpebre tra di loro.
Soffiò un respiro tremulo, così lieve che confidava Run non potesse nemmeno riconoscerlo da uno normale.
Hai l’ansia da palcoscenico per celebrare il matrimonio?
Non aveva risposto, solo perché non era nel suo stile ammettere di provare qualcosa di simile all’ansia, alla paura. In quel momento, ne aveva.
«sposa me.» sussurrò, più dolce di quanto non fosse mai stato e meno sicuro di quanto non credeva di poter essere. «quando tutto sarà finito, quando saremo salvi. sposa me, heidrun crane.»
Un cambio di piani, una promessa – ed una scommessa, la sua migliore.
Per stravolgere i piani, magari; soltanto per dimostrarle che per lui, non ne era mai valsa la pena prima di lei – non abbastanza, mai davvero.
Perché il segnale di risposta da mandare ad un universo che non approvava, per Gemes Hamilton sarebbe sempre stata una sfida. Questa volta, però, la sfida era più per sé, che per il cosmo.gemes hamiltonbodie, 1917parson shawtelekineticcode by lele. -
.In quel momento - in quell’unico, minuscolo momento – Run poteva, e voleva permettersi di chiudere gli occhi e fingere di essere ancora a casa, nel cuore di una normalità che normale non la era mai stata per nessuno, ma che s’erano fatti andare bene con il sorriso sulle labbra, e la consapevolezza di essere insieme. Nel fiato caldo di Gemes a scivolarle sulle labbra, poteva - e voleva - immaginare che il loro fosse un altro contesto, che la loro fosse un’altra storia; che non fosse mai stata reclutata nei laboratori, mai avesse rapito l’Hamilton, ed un giorno, per caso, l’avesse incontrato in modo comune e quieto, ed avesse deciso di portarlo all’esasperazione fino a che non l’avesse accettata nella propria vita. Senza anni taciuti fra i denti, senza lutti a stringere le braccia al petto, senza baci rubati dove sangue e morte impregnavano ogni mattone del Labirinto - senza morire, senza tornare indietro.
Senza essere catapultati a cento fottuti anni nel passato; un mondo utopico dove Gemes si sarebbe seduto ad un tavolo nel bar in cui lavorava, e l’avrebbe annoiata con ordini eccentrici fino a che Run non avesse deciso di scagliargli una brocca sulla nuca – e quando fosse stata licenziata, sarebbero tornati a casa insieme, dove i grugniti ed i brontolii sarebbero diventati sospiri e dita a stringere la pelle nuda. Di quella vita, si sarebbe accontentata di saltare qualche pezzo ed essere quel che era –un’Adescatrice, aver rapito un Hamilton privo di magia; avrebbe accettato tutto, perfino morire, se solo Dio l’avesse privata di quel vuoto ai polmoni ogni volta che si rendeva conto di essere nel cazzo di passato in una cazzo di cittadina della California, con indosso abiti che avrebbero fatto invidia alle lady ottocentesche. Non riusciva a dimenticarlo, non riusciva a soffocarlo con alcool o sonno – rimaneva sempre lì, persistente, a pulsare come una ferita aperta.
Ma solo per un secondo, voleva essere in grado di immaginare una vita diversa con protagonisti uguali. Serrò le palpebre lasciando fossero le sensazioni a dettare legge per lei, allontanando qualunque cosa potesse rimembrarle dove fossero – l’odore d’incenso, i suoni ovattati provenienti dall’esterno – concentrandosi invece sulla sensazione delle mani premute sulle guance del telecineta, sul palato secco e asciutto, sull’assordante e stupido battito a incastrarsi in ogni costola. Una parte di lei le gridava di darsi un contegno, che fosse grande e vaccinata, ma non sapeva come impedire al proprio corpo di reagire come una dodicenne alla sua prima cotta. Riuscì perfino a trovare il tempo di odiarsi per la necessità fisica di annullare la distanza fra le sue labbra e quelle di Gemes - sei meglio di così - , giusto perché il contrario avrebbe significato dargli una soddisfazione che nessuna Heidrun avrebbe mai voluto dargli.
Così, per principio. Aveva già un ego troppo spropositato di suo perché la mimetica, oltre a lasciarlo intendere in maniera del tutto involontaria, ammettesse con gesti intenzionali di aver perso, e di aver sempre perso, nella guerra combattuta fra loro dal primo momento. Che fosse lei, e sempre lei, ad aver bisogno di lui, delle sue mani sulla sua vita e gli occhi sollevati al cielo ad una battuta particolarmente triste. Aveva amato di tanti tipi d’amore, Heidrun Crane, ma non ricordava di aver mai tenuto fra le dita uno più fragile e delicato di quello per Gemes Hamilton – e non perché di suo fosse sottile, quanto per le parti di cuore che andava a toccare.
Più o meno metaforicamente.
Onestamente, non riusciva a ricordare un momento in cui non ne fosse stata almeno in parte innamorata. Sarebbe morta (di nuovo, sì) prima di confessarlo. Se chiudeva abbastanza forte gli occhi, poteva quasi sentire il gridolino eccitato di Murphy, ed il conato indotto delle adorabili teste di minchia dei suoi fratelli.
Quasi. Quasi.
Ed era lì, nel mezzo di una riflessione filosofica sull’amore del livello morale di una basic bitch tredicenne nella posta settimanale del Cioè, concentrata a contenere la propria libido come un’adolescente sugli spalti delle gare di nuoto, che –
«sposa me.»
Spalancò gli occhi guardandosi attorno, certa di essersi imbattuta in qualche triste Sposo Cadavere incastrato nella navata della Chiesa ad attendere la sua fidanzata malgrado la morte li avesse già separati. Un sussurro così sottile, ed appena percettibile, che avrebbe potuto davvero appartenere a chiunque: ad un sibilo delle candele, al vecchio legno della porta ormai chiusa a doppia mandata, alle rondini che sicuramente volavano nei pressi del crocefisso, a qualche Suora nascosta nelle porte segrete…Chiunque, eccetto le labbra in tenue movimento sul quale scivolarono le iridi verdi. «quando tutto sarà finito, quando saremo salvi. sposa me, heidrun crane.»
Cosa
Aspetta
In che senso.
Cosa sta –
Succedendo.
???????
«eh?» fu la rauca, ruvida, risposta di Heidrun Crane, le dita ancora sulle guance di Gemes. Aveva forse sniffato troppa barbabietola? Non era abituato alla roba forte; Run – l’intenditrice, si – gliel’aveva detto di andarci piano. «ah. Aah. Ah ah ah ah» Una risataistericascivolò dalle labbra piene della Crane, la fronte ancora poggiata contro quella dell’Hamilton. «ahaha?» ?? Perché non rideva? Non stava – non stava
«ma fai sul serio?» Ruvida e arida, gli occhi spalancati a cercare quelli dell’altro.
Le aveva
Ma cosa dici
A LEI?
LUI?
Impossibile. «cioè -» sposare SUL SERIO? Tipo…con i vestiti…? E il ….vino? e gli….invitati? «ma fai sul serio?» Doveva essersi persa qualche inside jokes, perché…non aveva senso. L’occhiata di Gemes le fece rimpiangere di aver mai aperto bocca, ed istintivamente strinse la presa su di lui per impedirgli di scostarsi. Corrugò le sopracciglia cercando i suoi occhi, percependo il battito di entrambi riempire il silenzio per loro. Siamo giovani, avrebbe voluto dirgli – ma che importanza aveva? Era morta, e volente o meno, era già legata a lui per il resto della sua vita; inoltre, non riusciva a pensare a mezzo motivo per il quale volesse passare un giorno della sua esistenza senza far rimpiangere a Gemes di essere nato, ed ora che l’aveva lì, fra le sue braccia, dubitava l’avrebbe mai lasciato andare via nuovamente - ma il MATRIMONIO? Non credeva in quelle ……………cose, Heidrun.
Principalmente perché non credeva ne avrebbe mai avuto uno, ma quella era un’altra storia. «mi stai dicendo che indosseresti un completo serio, mi aspetteresti all’altare davanti a tutti quelli che conosciamo, e giureresti – TU! – il tuo amore eterno per ME?» DAVANTI A!!! PERSONE VERE!!!! Gemes Hamilton avrebbe ammesso di amArE QuAlCuNo? «e balleresti con me in un contesto privo di cadaveri ad ingombrare la pista?» lequestmissioni non valevano, lì vigeva la regola Las Vegas. Gli occhi di Run s’illuminarono di verde smeraldo, un sorriso eccitato a far capolino sulle labbra. «TAGLIERESTI LA FRICKIN TORTA CON ME??» Aveva evidentemente passato troppo tempo con Murphy.
E mai abbastanza. «possiamo avere un cavallo come ridge e brooke?» Aspetta –
Aspetta. Cosa sta succedendo. Tentò di darsi un contegno drizzando le spalle e curvando le labbra verso il basso. «no, scusa, e questa» indicò la stanza con l’indice. «sarebbe la tua proposta di matrimonio? Dov’è l’anello» e la bocca s’inarcò nuovamente in un sorriso, lento e viscoso quanto parole sussurrate nel buio. «e poi perché non sei in ginocchio?» Gli piaceva davvero tanto, quand’era in ginocchio.martha fay / run cranequella rikka & bellamartha + myles 4e&ee fumati 'sta barbabietolalancaster you're drunkForgive me, Father,
for I have sinned. it's been god only knows when since my last confession. -
.Se solo Gemes Hamilton avesse creduto, anche un minimo, in quello stesso Dio del quale era stato obbligato ad indossare le vesti di portavoce in terra, lo avrebbe supplicato di cambiare il proprio potere da laboratorio con uno molto più consono ed adatto in quel momento – conscio che l’unica divinità che avesse mai venerato, ovverosia se stesso, non era purtroppo in grado di compiere una tale impresa. Oh, che cosa non avrebbe dato per riavvolgere il tempo attorno al nastro di quella giornata, ed osservare in loop la reazione di Run alle sue parole! C’era una parte del ventisettenne che, ad un certo punto di quel ciclo infinito, era pronta a scoppiare a ridere in faccia alla mora, a darle un paio di affettuose pacche sul capo e confessarle che quello fosse semplicemente un esilarante scherzo – che era davvero una rottura di coglioni quella Bodie, e che il suo già poco marcato umorismo aveva raggiunto fosse di ilarità tanto basse in così pochi giorni che se divertiva era semplicemente per pura isteria, sia del comico che dello spettatore; che, andiamo!, poteva davvero prendere sul serio uno come lui dire certe cose in un posto come quello? La stessa parte del proprio ego che, in quel preciso istante, aveva gli occhi coperti dalla mano, e sospirava drammaticamente rassegnata – quella più razionale, che il telecineta avrebbe sempre dovuto mettere davanti ad ogni cosa, e che cercava testardamente di trovare una via di fuga a quell’inghippo; si diceva che non doveva nemmeno essere troppo difficile, rimangiarsi le parole appena pronunciate. Ancora: chi gli avrebbe creduto? Non la Crane, non sé – nessuno mai, al mondo.
Ma, la teste ancora fin troppo vicine e l’alito caldo di una risata nervosa a premergli sulle labbra, l’Hamilton non voleva davvero saperne di ascoltare quella voce dietro le quinte: sapeva avesse ragione, quanto che di ragione non avesse bisogno. Era una scommessa ed una messa in gioco per chi, come lui, aveva passato una vita a pianificare ogni singolo istante della propria esistenza – dal vestito da indossare per apparire abbastanza casual da non dare nell’occhio, alla postura precisa ma mai troppo per adattarsi alla situazione in esame: non c’era mai stato un singolo atto in quei ventisette anni, che non fosse stato calcolato con minuzia e dedizione.
Se doveva dire grazie a Lancaster per avergli fatto cogliere l’attimo in quel paesino nascosto della California, o ad Heidrun ed Eugene per averlo cambiato a tal punto da reputare possibile agire d’istinto piuttosto che come suo solito, era pronto a farlo persino con il sorriso sulle labbra. Poteva morirci in quella città, in quel tempo - lontano dai propri amici, lontano da un obiettivo più grande al quale si era immolato nel momento stesso in cui aveva messo piede fuori dai Laboratori -, e sebbene fosse sempre stato pronto ad accettare quell’unica sconfitta, lo era nella misura in cui fosse stato egli stesso a scrivere il proprio epilogo.
Non aveva di certo considerato una svolta del genere, ma Dio: più la sentiva balbettare, più le dita di lei si ancoravano alle sue guance e più si immergeva nelle fitte foreste dei suoi occhi, meno aveva importanza quella piega. Avrebbe potuto scrivere libri - saghe! - interi su quel cambio di rotta imprevisto, prima di dover giungere ai capitoli finali di quella storia; avrebbe sopportato l’agonia di un’ambientazione scadente e ridondante, pur di prolungare il piacere che provava in sua compagnia.
Non rise, sebbene ogni reazione di Run lo tentasse come il Serpente nell’Eden, preferendo limitare il proprio divertimento ad un angolo delle labbra appena sollevato, lasciando che fosse il suo sguardo a rispondere al quesito della mimetica. Non era mai stato così serio in vita sua - e se avesse saputo come ammetterlo a sé prima che a chiunque altro, si sarebbe reso conto che era per quel motivo se non proferiva parola alcuna. Fortuna voleva che gran parte della sua eloquenza giacesse nel non detto.
Strinse le labbra tra i denti nel momento in cui lo scambio di sguardi si fece più intenso, ed il battito cardiaco di entrambi pareva essere l’unico rumore a rimbalzare sulle pareti della chiesa; corrugò le sopracciglia senza mai chinare il capo, percependo quel silenzio a tappargli la gola. Soltanto in quell’istante, considerò un’ipotesi che quell’impeto gli aveva impedito di calcolare con i giusti tempi: avrebbe potuto dirgli di no.
Ne avrebbe avuto tutto il diritto – assolutamente incompreso da Gemes: chi mai poteva non volerlo sposare? -, ma non… non lo aveva studiato con il giusto preavviso, capite?
Se un ego grande come quello dell’Hamilton veniva mantenuto in vita così a lungo, era solo per l’immensa capacità di controllo di cui era in possesso: ogni gesto mirava sì ad un beneficio, immediato o a lungo termine che fosse, ma anche ad una nuova impalcatura per sorreggere il continuo e spropositato aumento dell’Io – decisamente più fragile di quanto poteva ammettere che fosse.
Ed ecco perché non apriva bocca, Abraham Shaw: paura.
«mi stai dicendo che indosseresti un completo serio, mi aspetteresti all’altare davanti a tutti quelli che conosciamo, e giureresti – TU! – il tuo amore eterno per ME?» deglutì impercettibilmente, roteando gli occhi zaffiro al cielo prima di puntarli nuovamente sulla ragazza; quello non era un no, e tanto gli poteva bastare. «mi sto già pentendo.» commentò piatto, cercando di dissimulare la piega sulle labbra. A dirla tutta, non mentiva: pentirsi e rimpiangere un’idea del genere era forse l’unica cosa che aveva calcolato in tutta quella faccenda; d’altronde, però, Run era capace di farlo pentire di essere nato a giorni alterni. Non era così male. «e balleresti con me in un contesto privo di cadaveri ad ingombrare la pista?» lo conosceva così poco? Sollevò un sopracciglio scettico. «questo è da vedere.» non il ballo, ma i cadaveri. «non sono un fan delle feste ordinarie: se ci scappa un morto ne sarei più che deliziato.» mi piacerebbe dire che così non fosse ma, insomma. «TAGLIERESTI LA FRICKIN TORTA CON ME??» «per poi non dividerla con nessuno, certamente.» alzò un dito, sancendo una condizione. «se c’è qualcuno pronto a saltare fuori da lì per fare gli auguri, lo taglio insieme alla torta.»
La conversazione prendeva una strana piega, ma era divertente; si ritrovò persino a ridere - di cuore, delicato come un sospiro sulla pelle -, quando vennero tirati in gioco i cavalli. «per quello basterà chiedere a mio fratello, immagino.»
E poi.
E poi.
Immaginava che non le sarebbe bastato sentirsi dire che se ne fotteva delle tradizioni e delle proposte – soprattutto perché non era ciò che voleva dire: avrebbe smontato tutta l’idea del matrimonio stesso. Controvoglia, si allontanò di qualche passo da Run, sbottonandosi la veste talare - no, non si stava per mettere in ginocchio nel modo che più lei prediligeva (quello più tardi.) – per rimanere in una più semplice camicia da cittadino normale, quale avrebbe voluto sinceramente essere. «pretende davvero troppo dalla vita, signorina fay.» e di nuovo rimosse la distanza tra i loro corpi, tra le loro labbra; una mano dietro la nuca, le dita tra i capelli castani di lei, l’altra tra le scapole – entrambe a spingere con delicata violenza verso di lui.
Per quanto fosse sempre piacevole il sapore di lei sulla bocca, il profumo della sua pelle che costante gli ricordava e prometteva un posto tra le lenzuola del proprio letto, non era solo per quello che la teneva così forte.
Più che altro, era per motivi di pragmatismo e logica se non se la sentiva di lasciarla andare; almeno, non fino a quando una brezza leggera non sostituì l’aria immobile della casa del Signore. Quando la liberò, fu immediato e spontaneo il voler scostare una ciocca di capelli che il vento le aveva portato sul viso. Attese qualche istante affinché capisse di non essere più a Bodie, e che sotto i loro piedi non c’era più un pavimento sudicio bensì un vasto manto d’erba – nemmeno un po’ innevato, nonostante la stagione: l’inverno, i californiani, lo vivevano in tutt’altro modo rispetto a loro. Puntò poi lo sguardo sul lago cristallino, appena increspato dal volo di qualche uccello a filo dell’acqua; più lontano, sulle cascate a giungere ovattate fin da loro.
«parco nazionale dello yosemite:» spiegò pratico, portando le mani in tasca. «l’ho visto su qualche libro anni fa, e ricordavo fosse nella california centrale – abbastanza vicino a bodie.» beh, capire la geografia della loro nuova vita era stata tra le prime cose da fare nella lista dell’Hamilton. «avevo pensato di andare sul golden gate, ma sono più di quattrocento chilometri di distanza.» e non era sicuro di poterli percorrere con il suo potere, ma giammai si sarebbe espresso a sfavore delle sue potenzialità. «direi che è comunque una gran bella vista, non pensi?» piegò la testa alla sua sinistra cercando lo sguardo smeraldo della ragazza, per poi tornare sull’orizzonte – e con accurata attenzione, affinché non lo vedesse, fece scivolare un sasso fino alla sua tasca.
«non sappiamo quanto tempo resteremo qui, né se mai riusciremo a tornare a casa.» strinse la pietra tra le dita, percependo sotto i polpastrelli ogni molecola del solido. «vorrei poterti dire che ce la faremo senza dubitarne, che non moriremo a cent’anni di distanza dagli altri» dai fratelli della Crane, da suo padre, da sua cugina, dai suoi amici; da Rea, dai Withpotatoes, da Nathaniel, Eugene – da chiunque. «aspettando che una rosa perda tutti i suoi petali - ma sai benissimo che non mi piace dire stronzate, e men che meno a te. tuttavia…» inspirò, per poi voltarsi completamente verso di lei. «posso dirti una cosa – e non è una bugia a fin di bene, né una vana speranza: soltanto la verità.»
Ma fai sul serio? Non credeva alle sue parole, ma sì.
«ti prometto di fare tutto ciò che è in mio potere, per riportarti a casa. voglio che tu sia felice, run, e penso di averlo voluto sin dal primo momento in cui ci siamo incontrati.» ricordava perfettamente, come fosse passato un solo giorno da allora, quanto sotto la strafottenza e l’arroganza gli fosse parsa pura - di un’innocenza strana, già macchiata nonostante non ne comprendesse il motivo, ed alla quale ancora voleva aggrapparsi con unghie e denti.
Sorrise appena, la mente a vagare ai giorni trascorsi a Salem più che a quelli di due anni prima. Ti ho odiato da sempre, e così tanto, perché è sempre stata l’unica forma d’amore che io abbia mai conosciuto. «perché ti amo - e lo farò fino alla fine, qualunque essa sia» che l’attesa sarebbe stata più sopportabile con lei al proprio fianco, e che era soltanto per lei se una persona come Gemes Hamilton si permetteva di sperare. Dopotutto, l’aveva già portata indietro una volta.
Estrasse la mano dalla tasca, rigirandosi l’anello appena forgiato tra le dita. «io potrò anche averti riportato in vita, certo,» nervoso, il moro, ma senza esserlo davvero. «ma sei stata tu la prima a farmi sentire realmente vivo, e vorrei continuassi a farlo per sempre» chinò il capo, deglutì: santo cielo, cosa era diventato? Non sapeva nemmeno più se ciò che andava dicendo avesse un senso, e la cosa più esilarante era che non lo interessava poi così tanto. «per questo ti chiedo, di nuovo:» si mise in ginocchio, gli occhi ancora puntati sul suo viso e l’anello alto tra loro.
«heidrun ryder crane: vuoi sposarmi?»gemes hamiltonbodie, 1917parson shawtelekineticcode by lele.