Someone's In The Wolf

phobos

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    Keanu Larrington
    //
    Stamberga Strillante
    You don't find your way, the way finds you...
    ///
    Distruzione, fiamme, sangue, un ciclo continuo di rosso, nero, spettri del passato che tornavano in immagini sfocate, scenari di disperazione e di sconfitta ed inerme si ritrovava lì, in quel suo piccolo spazio, ingabbiato, incapace di poter fare qualcosa, vedeva morire i suoi cari, i suoi amici, eppure lo accettava, ma non voleva più, non voleva.
    Riuscì a svegliarsi finalmente dopo un ampio singulto, dopo quegli attimi di agonia disumana, ansimante, esattamente come dopo un brutto incubo, e tali erano le sensazioni che pervadevano, non solo la sua testa ma anche il suo corpo, era stato qualcosa di molto di più di un semplice brutto sogno.
    Era steso a terra, inerme, i suoi muscoli rispondevano a fatica, i suoi capelli bagnaticci toccavano un terreno molliccio e fangoso e strusciavano contro arbusti poco piacevoli al contatto, il suo corpo era sudato e stanco, persino tenere gli occhi aperti era un'ardua impresa, ma doveva rimanere sveglio, doveva farsi forza per comprendere cosa stava accadendo. Riuscì a muovere le dita, una alla volta, costatando anche con esse, affondando nella terra fangosa, dello strano ed inusuale luogo doveva aveva deciso di coricarsi, poi alzò la la schiena ed un leggero suono metallico accompagnò il suo di rientro nel mondo dei vivi.

    -:Sono sicuro che te la caverai, sta tranquilla, lo hai già fatto più volte dopotutto-, Keanu Larrington si prese la briga di rincuorare sua moglie, Helena, riguardo quella sera alla Testa di Porco.
    Lui non sarebbe andato a lavorare con lei, era un evento raro e si sentiva in colpa per questo, era difficile che Keanu non riuscisse a vedere i tanto odiati ed amati volti frequenti della sua locanda, rimanere fino alla chiusura, a ripulirla del marciume, a cacciare via gli ultimi ubriachi, a rimuginare guardando l'orologio, attendendo ansioso l'ora di poter tornare a casa ed abbracciare sua moglie.
    Helena invece avrebbe passato la notte lì, a destreggiarsi assieme a qualche aiutante, tra i tavoli, a servire quegli ingrati che non mancavano di lanciarle frecciatine e di complimentarsi, sempre nei loro modi rozzi, delle sue fattezze femminili, cosa che era scemata quando si era iniziata a spargere la voce che quella fosse la moglie del proprietario, ma appunto un'abitudine che tornava in sua assenza.
    Continuava a guardarla, costatando nel suo sguardo un lecito cenno di disapprovazione, ma non poteva fare altrimenti, o non voleva e soprattutto non ce la faceva più a rispecchiarsi in quegli occhi che pesavano più di macigni. La strinse quindi in un caldo abbraccio e le baciò dolcemente la nuca, prima di lasciare casa, altre parole di conforto e la promessa che si sarebbero incontrati più tardi, un sorriso poi, prima di chiudere la porta, che presto si spense in un'atona espressione una volta lasciata quest'ultima alle sue spalle, aveva mentito.
    Doveva ammettere che puntando sempre alla galanteria assoluta, non era certo il migliore dei gesti quello di lasciare che sua moglie si occupasse e preoccupasse di quell'attività, dove egli era alquanto importante se non indispensabile, dove sì, non c'era rischio, ma in quel mondo strano non ne poteva essere certo, no, non era affatto un gesto galante.
    Un'importante riunione con i ribelli circa la situazione mondiale e lo scontro appena accaduto, era stata quella la scusante e di certo non avrebbero potuto lasciare la Testa di Porco chiusa, qualcuno doveva pur andare. Una stupida scusa ed era facile risalire all'inghippo, il tranello era alla portata di tutti, bastava alzare lo sguardo e puntare verso il cielo, finché, i propri occhi non avessero scoperto l'evento non proprio quotidiano, quel grande cerchio argentato che illuminava chiaramente le strade della cittadina, quella luna piena.
    Ma Helena in fondo, non sapeva che Keanu fosse un lupo mannaro, un'altra grande mancanza di Keanu che egli non si era ancora perdonato, soprattutto dopo essersi giurati di dirsi tutto, qualsiasi cosa, per sempre, ma Keanu aveva avuto fin troppo da nascondere ed in fin dei conti, dopo quello che le era accaduto, dubitava persino che lei sapesse cosa fosse un lupo mannaro.
    Lo aveva fatto per il suo bene, si ripeteva, non c'era bisogno di stressarla con altri pericoli che avrebbero potuto incombere su di loro e Keanu, segretamente, ingeriva periodicamente la pozione che avrebbe frenato i suoi istinti animaleschi, alle sue spalle, le eleganti tazzine di tè che egli consumava quotidianamente, forse non erano semplicemente solo quello.
    Ma in quel periodo, Keanu aveva studiato precisamente il calendario, sapeva che la luna piena avrebbe fatto la sua comparsa e proprio in quel periodo aveva deciso di smettere con la pozione.
    Era davvero inconcepibile, soprattutto trattandosi di Keanu Larrington, quindi perché lo aveva fatto?.
    Il motivo di tutto questo, era abbastanza oscuro anche a sé stesso in fondo, istinto lo aveva chiamato, lo stesso che avrebbe sentito con le sembianze animalesche, una puttanata che aveva inventato per sentirsi meglio con la coscienza. La voglia irrefrenabile di rompere per un istante con la sua già ben troppo frenetica vita, forse era quello. Voleva trasgredire in un certo modo ed anche se un atteggiamento del genere non si confaceva ad un uomo cresciuto come lui ed in particolare a Keanu Larrington, voleva farlo.
    Voleva mostrarsi debole persino a sé stesso, perdere il controllo per un istante, abbandonare le spoglie di un uomo impeccabile il più delle volte, corretto, coerente, con una vita felice dopotutto, ecco, benché egli sapesse che la sua vita fosse tutt'altro che felicità, aveva il bisogno materiale di dimostrarselo.
    Non aveva mai avuto necessità di stringere tra le mani lussi o ricchezze, non era attaccato ai beni materiali, né schiavo malato ed oppresso dalla ricerca di sensazioni forti e spericolate, voleva semplicemente confrontarsi con qualcosa che fosse solamente suo, gli serviva il suo spazio dato che da molto tempo nel bene o nel male era stato tralasciato.
    Aveva superato la Stamberga Strillante e continuava a camminare imperterrito, lasciando che l'aria gelida della notte si piantasse sui suoi occhi poco coperti facendoli lacrimare. Continuava ad avere ripensamenti, probabilmente c'era ancora tempo per tornare indietro, per bere un po' della pozione e tentare di placare i suoi istinti. Eppure anche con questi pensieri in testa, continuava il suo percorso.
    Giunse al suo obiettivo, un piccolo cerchio di alberi isolati, lontani persino dalla Stamberga, voleva evitare qualsiasi contatto umano, qualsiasi pericolo, sapeva che poteva essere molto pericoloso e l'ultima delle sue volontà era quella di ferire qualcuno e dunque trasferirgli tale malattia.
    Fece apparire due spesse catene di metallo che portavano alle loro estremità delle manette per polsi, iniziò a fare questi gesti come una macchina, ormai deciso, sordo riguardo i pensieri che ancora giravano nella sua testa, fissò il cielo, doveva muoversi.
    Si spogliò, abbandonando le sue vesti poco distanti affinché poi le potesse riprendere e strinse le manette ai suoi polsi, le aveva create più larghe dei suoi comuni polsi affinché dopo la trasformazione non ci sarebbero stati problemi e poi semplicemente attese.
    Il silenzio assordante del luogo cozzava con la miriade di paure e preoccupazioni, erano passati circa sei anni dalla sua ultima trasformazione, li teneva a mente così come ricordava ancora come egli era stato trasformato, come egli aveva voluto quella maledizione e ricordava il dolore, atroce, quello lo aveva fissato nella sua testa indelebilmente.
    Sentì una lacrima rigargli il volto, ormai non c'era più speranza di tornare indietro ma lo aveva deciso lui, quella era una sua scelta.
    Poi fissò nuovamente la luna e proprio in quell'istante, sentì le sue palpebre stringersi, il sangue giungere pressante fino a che non sentì i suoi occhi arrossare, il suo corpo tremare ferocemente, prima con lievi palpitazioni, poi con scosse più violente, era cominciato.
    Il cambiamento, la bestia che si celava dietro l'uomo elegante ed impeccabile, la sua mente si svuotò dei pensieri, rimpiazzandoli con una sensazione che avrebbe fatto fatica a descrivere se non con la parola dolore, c'era solo quello adesso, che gli attanagliava la testa.
    Il suo sguardo si mosse scattante verso il suo corpo, vedeva i muscoli contrarsi e ritrarsi senza controllo, quasi come onde che adesso si spargevano su Keanu Larrington, come bubboni la sua pelle fuoriusciva e rientrava spasmodicamente, le sue mani si ritraevano incontrollate cominciando a sferzare colpi precisi che tagliavano l'aria gelida, i suoi denti, il suo naso, le sue dita, sentiva ogni parte del suo corpo cambiare. La sua bocca si aprì, facendo fuoriuscire un urlo disumano, dolore, dolore ovunque, proprio come lui ricordava, una veloce immagine di una donna entrò e scivolò via in frazioni di secondi nella sua testa ma poi, inesorabilmente, il vuoto.

    Fece cadere le braccia sulle ginocchia e raccolse subito dopo le catene che avevano prodotto lo strano suono, improvvisamente aveva ricordato tutto, nudo, si era trasformato, lo aveva fatto, ma non si spiegava come mai nel cielo ci fosse ancora la luna piena.
    L'aveva lasciata lì e non doveva esserci una volta tornato nelle spoglie umane, eppure aveva solamente cambiato di posizione, non poteva dire con esattezza quante ore fossero passate, ma non era cambiato molto.
    Sentì nella sua bocca lo strano sapore metallico del sangue, era inquietante ed iniziò seriamente a preoccuparsi, aveva ucciso qualcuno? Lo aveva davvero fatto? Non voleva pensarci ma benché quegli indizi lo portavano al peggio, si rincuorava di altri. Non era troppo distante dal posto in cui aveva deciso di incatenarsi, aveva fatto forse una trentina di metri, eppure, quelle spesse manette si ritrovavano sui suoi polsi penzolanti, prive delle catene che le tenevano strette all'albero, le aveva staccate o qualcuno le aveva staccate e si era ritrovato lì.
    In quel momento realizzò che era stata l'idea più stupida mai realizzata nella sua vita, la sua testa ancora in panne prese lentamente a ragionare, a ricollegare tutti i pezzi di quello strano puzzle, iniziò ad avere paura, una paura tenuta a freno solamente dalla breve distanza percorsa come bestia.
    Ritornò dove aveva lasciato i suoi vestiti, non trovò nulla di particolare, nessun segno di una lotta, nessuna traccia di sangue, nulla.
    Si rivestì e decise finalmente di tornare indietro, verso la cittadina, magari c'era ancora tempo per aiutare Helena a lavoro o magari c'era ancora tempo di rivederla sveglia e di scusarsi nuovamente dell'assenza.
    Ma prima di tutto, la sua tappa obbligata era quella alla Stamberga. Era diventata una tappa solamente da qualche settimana eppure ne sentiva il dovere, c'era anche qualcos'altro che Keanu teneva nascosto a sua moglie.
    Aprì la porta cigolante ed entrò nella diroccata dimora e salendo le scale, da una tasca del suo pantalone, tirò fuori la sua famosa pipa. Aveva smesso per qualche tempo ma erano ormai frequenti le pause dove egli si rintanava al sicuro per fumarla, ovviamente poi, copriva l'odore impregnante del fumo per non essere scoperto.
    La strinse tra le labbra e salì le scale, fino alla stanza più in alto della struttura. Iniziò a percepire qualche rumore proveniente da essa, una sorta di lamento od un qualcosa di simile, qualche studentello di turno o più probabilmente il vento che fischiava da una finestra.
    Ma la sua pipa, una volta aperta quella porta, si infranse sul terreno, rovesciando il tabacco che attendeva di essere fumato, il suono sordo dello strumento di legno riecheggiò solamente nelle sue orecchie, tanto lo stupore e la gravità di quello che stava accadendo, un uomo, sanguinante, giaceva sullo sporco pavimento della Stamberga.
    Avrebbe soccorso chiunque, lo avrebbe soccorso al meglio al costo della sua vita, eppure non si aspettava di trovare lui, quell'uomo non era una persona qualsiasi ma un amico, uno tra i migliori, un alleato, uno tra i migliori, una persona a lui molto cara.
    Phobos sanguinava steso sul pavimento e lui gli venne subito incontro, si posizionò al suo fianco, sbattendo le ginocchia sul pavimento che rumoreggiò fortemente, la sua bocca, fino ad allora rimasta spalancata prese a parlare, mentre tinteggiava le sue braccia del sangue dell'amico e gli sollevava leggermente le spalle per sistemarlo:-Phob, Phob!! Avanti, puoi farcela, non mi morire-. La sua voce era spaventata e racchiudeva pienamente il momento, non c'era conforto nel suo tono, ma terrore, non sono stato io, continuava a ripetersi, non sono stato io, è impossibile.
    Un lungo squarcio nel suo fianco destro, continuava copiosamente a sanguinare, Phobos lo stringeva, aggrappandosi alle sue ultime forze. Keanu allora estrasse la bacchetta:-Epismendo-, tentò di fermare la ferita il più possibile, sperava bastasse ma era chiaro che all'amico servivano anche altre cure, quantomeno quello era una sorta di placebo.
    :-Andiamo al quartier generale va bene? Lì sarai al sicuro-, aspettava un cenno, una sua parola, la prova che riuscisse a muoversi correttamente, una qualsiasi cosa.
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    16.09.2017 | h: 01:00
    Studiò con accademico interesse il proprio riflesso sul vetro dell’enorme ampolla di vetro, le dita a tamburellare accorte sul recipiente attento a non esercitare troppa pressione sul delicato contenitore.
    Phobos Xavier Campbell, seppure nella propria vita avesse preso una strada del tutto differente, aveva sempre amato le pozioni, nonché tutto l’impegno e la cultura che c’era dietro d’esse – dalle complesse preparazioni allo studio dei più basilari ingredienti, dalle differenze che intercorrevano tra i diversi tipi di calderone usati per mescolare ai più svariati effetti che si potevano riscontrare a lavoro compiuto: qualsiasi particolare di quella branca della magia era in grado di stregarlo. Quando ancora frequentava Hogwarts come studente, era stato un discreto modello da seguire ed un orgoglio per la maggior parte dei professori dell’istituto di magia: era difficile trovare una materia in cui non eccellesse l’allora Skeeter, ed anche in quelle poche in cui il massimo che era riuscito a prendere nel corso dei suoi sette anni era stato un Oltre Ogni Previsione, ci si metteva così tanto d’impegno da far passare in secondo piano il risultato finale; Pozioni rientrava nella prima categoria da quando era un novello a scuola, e mai una volta aveva vacillato dall’essere nella top tre degli insegnamenti preferiti dal giovane scozzese. Non aveva mai creduto di avere un futuro in quel campo, sebbene per un breve periodo avesse lavorato nelle vesti di assistente del professor Masters – ahimè, venuto a mancare durante una lezione segreta: sentiva che avrebbe per sempre avuto gli incubi sulla poltiglia che si era lasciato alle spalle quando era letteralmente esploso davanti ad un gruppo di bambini ed adolescenti -, ma l’aveva sempre considerato come un piacevole piano di riserva.
    Inutile dire, a questo punto, quanto l’appuntamento mensile nell’ufficio della Queen lo mettesse di buon umore - okay: c’era da dire che Anjelika sapeva essere vagamente inquietante quando ci si metteva d’impegno, e che talvolta persino lui temeva avrebbe mangiato vivo qualche alunno solo per il gusto di farlo, ma nemmeno la radicale divergenza di ideologie politiche riusciva a metterlo a disagio quando capitava nel suo regno.
    «potresti evitare di…» voltò il capo verso l’altro lato della stanza, le dita ancora prese a sfiorare la superficie della fiala. «veritaserum?» domandò, prima ancora che potesse chiedergli – come ogni volta, d’altronde -, di non toccare nulla: era davvero strano, come chiunque dentro quel castello ancora provasse a mettere un freno alla curiosità del Campbell. E come ogni volta, d’altronde, la professoressa non rispose. «…toccare?» Naturalmente, doveva essere Siero della Verità: troppo orgogliosa, la Queen, per dargli ragione – Phobos, d’altro canto, si divertiva davvero con poco. Si strinse nelle spalle, riponendo le mani nelle tasche del lungo trench beige mentre si avvicinava alla scrivania della donna. «assicurati che il signor Barnet -» «“la beva davanti ai miei occhi”: sì, lo so» concluse per lei, le dita a stringersi attorno alla fialetta appena riempita.
    Quella era l’altra parte della medaglia – o, per restare più conformi al tema, l’altra faccia della luna.
    Se da una parte v’era il piacere di ritrovarsi in mezzo a tutti quegli intrugli, un piacevole salto indietro nel tempo a rimembrare anni in cui tutto era diverso, dall’altra risiedeva il motivo di quella visita mensile all’aula di Pozioni. Per una vita intera, il Campbell era stato amico di un Lupo Mannaro: aveva imparato a memoria le fasi lunari, conosceva la perfetta preparazione dell’Antilupo, si era studiato i punti più strategici della Foresta Proibita per aiutare Keanu a non essere un problema per sé stesso e per gli altri; non poteva capire il dolore, Phobos, ma di certo poteva farsi un’idea di quanto il plenilunio facesse male.
    Ed erano tempi difficili, i loro: più del solito, si vuole intendere. Cercava sempre d’essere ottimista, di non far pesare né farsi pesare la situazione mondiale che incombeva come un macigno sopra le teste di tutti loro – ma non era uno sciocco, il professore. Sembrava sempre vivere un po’ fuori fase, lontano dal mondo e da tutti i suoi problemi, una persona strettamente dedita al benessere spirituale ed al divertimento, e forse in parte le impressioni erano giustamente ripagate da un concreto temperamento leggero e gioviale: il ribelle era effettivamente un tipo particolare, esuberante e fin troppo eccentrico per una società che scoraggiava al massimo un certo qual umore, ma ciò non gli impediva di essere fin troppo oggettivo.
    Era innegabile il fatto che la situazione avesse iniziato a calare a picco dalle vicende di luglio, e più il tempo passava meno sembrava voler migliorare le cose. Era fin troppo raro che passasse un giorno senza che si sentisse di una nuova aggressione, senza che Phobos entrasse nel Quartier Generale d’urgenza perché c’era stato un nuovo attacco. Ci stavano rimettendo tutti, e dietro una maschera di raziocinio e consapevolezza il Campbell si doveva ripetere ogni volta che, in fin dei conti, doveva aspettarselo: dal momento stesso in cui era entrato nella Resistenza, decidendo di fare realmente qualcosa per quel loro mondo in dissesto, aveva compreso che ci sarebbero state perdite da affrontare, problemi da risolvere se non da creare - ciò non toglieva che facesse male, sebbene fosse preparato da sempre. Le accettava – tutte quelle morti, tutti quei rifugiati in cerca d’asilo, tutte quelle volte che doveva fingersi a testa bassa per mantenere un altrettanto basso profilo. Fingeva di passare sopra a tutto quanto, perché era ciò che era più opportuno fare.
    Quello che non riusciva a digerire, che mandava giù con meno facilità, era quando a rimetterci erano i suoi ragazzi – che fosse sua figlia stessa, i piccoli ribelli senza casa ad occupare in pianta stabile un posto letto nella sede della ribellione o i suoi studenti ad Hogwarts, poco cambiava.
    Timothy Barnet, tassorosso all’inizio del suo ultimo anno nell’istituto magico, era tra questi.

    «non ho bisogno di lei qui» Phobos sorrise morbido, le dita a scrostare un pezzo di tappezzeria dalla vecchia parete della Stamberga; si chiedeva davvero troppo spesso, ogni qualvolta il fugace pensiero andava a depositarsi sul ricordo dell’abitazione “infestata” di Hogsmeade, come era possibile che stesse ancora in piedi. Probabilmente era merito dei ragazzi, si diceva - erano stati tutti giovani: sapeva benissimo quanto quel luogo fosse la meta preferita di giovani coppie ed allegri fuorilegge, e magari c’era sotto qualche comitato studentesco che finanziava il mantenimento della catapecchia. Lui stesso, se solo tali ipotesi si fossero rivelate fondate, avrebbe contribuito come meglio poteva: era un monumento storico, la Stamberga Strillante, e come tale andava tutelato.
    Che poi per il professore fosse monumento storico qualsiasi cosa, era un dettaglio irrilevante.
    «davvero, può…» «non me ne andrò, tim» soffice come la piega a spaccare le labbra, amabile come sempre, il Campbell; tuttavia, la voce non ammetteva repliche. Una nota sottile ad increspare le parole, appena percettibile sotto al solito tono gioviale: niente di meno, qualcosa che di certo un orecchio meno attento non avrebbe saputo distinguere dal suo solito parlare leggero ed apparentemente superficiale. Era sempre aperto a repliche, sempre pronto a sentire critiche e ricredersi su quello che aveva già lasciato le proprie labbra, ma su certe questioni non poteva tollerare dibattiti. «è la tua prima luna piena» riprese, constatando un’ovvietà che non faceva piacere a nessuno dei due presenti in quella stanza. Il diciassettenne era stato morso, difatti, poco prima dell’inizio dell’anno scolastico: non aveva voluto indagare oltre, sebbene fosse carente di tatto ed incapace di farsi i fatti propri da sempre, conscio che rivangare l’accaduto avrebbe potuto far del male al ragazzo più di quanto le ferite non l’avessero già leso – ma l’aver voluto mostrarsi indiscreto agli occhi del Barnet non significava che non avesse studiato per filo e per segno ogni dettaglio dell’aggressione. Un lupo mannaro non identificato – che Phobos aveva voluto sperare fosse soltanto un povero disgraziato che non era riuscito a procurarsi l’Antilupo in tempo e pertanto era diventato irrequieto al precedente plenilunio, e non qualche fanatico estremista che voleva ricollegarsi agli attentati in maniera diretta – era riuscito ad entrare indisturbato nella dimora del Mezzosangue, attaccando i genitori babbani del giovane ed uccidendoli sul colpo; Timothy aveva tentato di difendersi con tutte le sue forze, e prima di costringere il licantropo alla resa era stato morso alla spalla: i guaritori avevano detto che era stato fin troppo fortunato a non essere morto, ma che non era riuscito a scampare alla saliva della bestia.
    Lui, aveva sperato con tutto sé stesso di raggiungere i genitori.
    Ed era soprattutto per quello, che l’insegnante era lì. Non poteva permettergli di farsi del male - uno psicomago poteva impedirgli di farsene quando regnava il raziocinio, ma contro le unghie aguzze una seduta di psicanalisi non avrebbe potuto alcunché.
    Si avvicinò a passi lenti e misurati al tassorosso, estraendo la fiala di pozione dal trench chiaro. «non è mia intenzione lasciartela affrontare da solo – sono o non sono il tuo responsabile?» il ragazzo la accettò con estrema riluttanza, dipingendosi il più disgustato dei bronci sul viso glabro. «è disgustosa» «oh, andiamo» agitò la mano nell’aria come a voler fisicamente scacciare la frase dell’altro, il volto deformato da un broncio divertito. «non l’hai mai nemmeno assaggiata, non puoi saperlo» d’altronde, come poteva dirgli di avere ragione? Quella roba faceva davvero cagare. Vorrei qui dirvi che il docente poteva ipotizzare il sapore dell’intruglio perché l’aveva già visto in precedenza, per testimonianze dirette o perché, avendolo preparato più volte, ne aveva sentito l’odore e, beh, era terribile; tutto vero, ma ometterei il fatto che si parla di Phobos Xavier Campbell – ovviamente, una volta l’aveva bevuta.
    Nemmeno ci provo a dirvi che l’aveva scambiata per vodka o acqua o qualsiasi altra cosa: gli andava semplicemente di provare, perché era curioso di assaggiarla. Comunque, decise che era meglio tenerlo all’oscuro delle proprie conoscenze, continuando ad invogliarlo a bere. Dopo dieci minuti di combattuti tentativi, riuscì a fargliela ingurgitare – quasi a forza, ammettiamolo. «e comunque, è una settimana che la prendo»
    Ah, già.
    Le poche ore che precedettero il tramonto e lo spuntare della luna piena, le passarono in silenzio. O meglio, il più giovane dei due stette muto per praticamente tutto il tempo; d’altro canto, Phobos ritenne quella un’ottima occasione per raccontare di tutto al ragazzo – di come “sua sorella” («suvvia, vuoi davvero farmi credere che non conosci phoebe?, che non ha cercato di comprare erba anche da te?» «AAAAAAAH QUELLA, PHOEBE CAMPBELL» «già.») da piccola amasse rotolarsi nel fango che si creava nell’orto dietro casa loro, per poi fare la stessa cosa sul terriccio per fingersi una fettina panata; di tutti i lavori che aveva fatto prima di ricevere la cattedra di Combattimento Corpo a Corpo, dall’attivista ambientale (che aveva deciso di considerarlo un lavoro sebbene non venisse retribuito) all’autista di autobus; degli spoiler sulle sue prossime, grandi lezioni (quando non su serie televisive che nessuno dei due, stando ad Hogwarts e privi di Netflix, poteva vedere). Nel momento esatto in cui il primo spiraglio di luce lunare irruppe nella stanza, il trentenne aveva appena cominciato a parlare dell’allevamento di coccinelle che aveva iniziato a sedici anni.
    «va tutto bene» mentì alzandosi dal divano impolverato, la bacchetta in mano pronta ad ogni sfortunata evenienza. Non andava tutto bene: lo poteva vedere nelle pupille nere a prendere il sopravvento sull’iride cerulea, sentire nelle suppliche vane strozzate da gridi che non riuscivano a lasciare quello che iniziava ad essere un muso troppo lungo. La ragione insegnava e suggeriva che era meglio allontanarsi dal licantropo in trasformazione, che ogni movimento troppo brusco poteva diventare fatale per il mago; ovviamente, quindi, lo scozzese si avvicinò al giovane – mani tese in segno di resa, le labbra socchiuse a prendere anche i controllati respiri che il ragazzo non poteva più governare. «sono qui con te» divenne il suo mantra per quegli infiniti secondi che accompagnarono gli acerbi ululati, la schiena a piegarsi ed i vestiti a strapparsi; continuò a ripeterlo, anche quando delle sembianze umane del biondo non era rimasto che un ricordo.
    «ehi» rimase immobile davanti al lupo, l’unico movimento dato dal petto ad alzarsi ed abbassarsi lento; lo sguardo del ragazzo - in ogni forma, sarebbe sempre stato uno dei suoi ragazzi - si posò sulla bacchetta in bella vista, e di conseguenza arretrò. «mi riconosci» non era una domanda, la sua: si fidava dei suoi studenti, e se gli aveva detto che per tutta la settimana precedente aveva preso la pozione significava che c’era da stare tranquilli, che avrebbe mantenuto il controllo. «sono il professor campbell» nel dubbio, sapete. «non hai niente di cui preoccuparti, la metto via» sincero, ripose la stecca di ciliegio nella tasca posteriore dei pantaloni. «va tutto bene, tim»
    Erano giunti ad un tacito accordo – che d’altro tipo non poteva essere: Phobos non parlava il lupese. Ci aveva provato, eh!, ma un paio d’ululati e lo sguardo confuso dell’altro l’avevano convinto di non esserci riuscito affatto. Almeno per quella volta, non sarebbe potuto andare in giro per la Foresta a fare razzia di conigli e unicorni: sarebbe dovuto restare nella catapecchia, abituarsi a tutto quel nuovo mondo e a quel nuovo sé stesso. Dire che non c’era stato da discutere più di tanto sarebbe anche esagerato: annuì appena, e senza farselo ripetere due volte si era accucciato in un angolo della camera principale della Stamberga, emettendo di tanto in tanto guaiti frustrati ai quali il professore altro non poteva che rispondere abbaiando.
    Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato dall’inizio del plenilunio, quando un rumore troppo forte proruppe dal piano inferiore: era bastato a svegliare Timothy ed a far scattare Phobos sull’attenti, un fascio di luce pallida a splendere sulla punta della bacchetta. «resta qui» ordinò, il muscolo cardiaco a battere fin troppo forte contro la gabbia toracica. «sarà qualche animale notturno» e no, non ci credeva nemmeno lui.
    Scese le scale fin troppo lentamente, cercando il più possibile di non far rumore per i vecchi e cigolanti gradini di legno. «homenum revelio» sussurrò. Non ebbe alcun effetto, potente quanto poteva esserlo lo Splash di un Magikarp.
    Probabilmente, si trattava davvero soltanto di un animale selvatico.
    Un lamento accompagnò i suoi passi, mentre s’apprestava a risalire dallo studente. «sì, barnet, forse hai la cena – per le mutande di merlino, ma non vi danno da mangiare a sc-» un altro gemito dal piano superiore lo costrinse a chiudere la bocca, deglutendo terrore e agitazione, ed a correre per la parte di rampa che lo divideva dalla sua postazione iniziale. Recenti e fin troppo dolorosi avvenimenti avrebbero dovuto insegnargli che abbandonare un compagno in situazioni come quelle, non era mai una buona idea: ancora ci si svegliava madido di sudore, quando il subconscio di notte gli ripresentava quella spessa porta d’acciaio a sbarrargli la strada, ed Idem Withpotatoes persa dietro d’essa perché lui era andato a controllare altrove.
    «incarceramus!» evocò spesse funi a stringersi attorno al corpo della creatura non appena irruppe nella stanza, costringendola al suolo; al suo fianco, il tassorosso rotolò sul fianco per poi rimettersi in piedi. Non sembrava troppo malmesso, per essere appena stato aggredito da un lupo ben più grande di lui. «vai via» ma questo non significava che l’avrebbe lasciato rischiare. L’altro, già iniziava a liberarsi.
    Barnet, non voleva saperne di andarsene. «non costringermi ad usare la forza – scappa!» puntò brevemente la bacchetta su di lui: benché quel gesto bastò a convincerlo fosse una buona idea fuggire, probabilmente il Campbell non avrebbe potuto avere un’idea peggiore durante tutto l’arco della propria vita.
    Provò a Schiantare il licantropo più grande, che nel frattempo si era liberato, ma prima che riuscisse a lanciare l’incantesimo i suoi artigli gli graffiarono il braccio, facendogli perdere la presa sul legno.
    E forse combatté, forte degli allenamenti e degli insegnamenti che andava professando.
    Forse per un po’ provò a resistere, in tutti i modi che gli erano concessi per sopravvivere ad una Creatura con una massa ed una potenza mascellare decisamente più massiccia della sua.
    Prima del buio, ricordava soltanto di aver pensato che c’era qualcosa che non andava.
    Qualcosa che andava troppo, capite. Qualcosa di familiare, quando le fauci del licantropo si strinsero attorno alla carne.

    Provò a parlare, ma non ci riuscì; provò a respirare - ed invece di incamerare ossigeno, sputò sangue sul proprio petto. Soltanto al terzo tentativo, quando le ferite iniziarono a bruciare ancor di più in seguito ad un incantesimo curativo, riuscì a prendere aria – ed a gettarla subito fuori in un grido di dolore strozzato, incapace di trattenersi dietro i denti stretti. Socchiuse appena gli occhi, ma prima che le iridi verdi potessero riconoscere le sagome attorno dovette passare qualche secondo; la voce familiare faticò a farsi strada nel suo cervello, giungendogli ovattata e lontana nonostante la distanza non dovesse essere poi così tanta. Buon Dio, nemmeno nelle missioni ribelli più pericolose si era ritrovato a perdere così tanto sangue, o privo di conoscenza per… quanto? A giudicare dalla timida luce del primo sole a far capolino dalle finestre, forse troppo.
    Lo sentiva ovunque, il sangue ad appiccicargli i vestiti – probabilmente anche dove il fluido cremisi non aveva intaccato la pelle. Del dolore, nemmeno a parlarne: lo percepiva partire dal fianco, pulsante come fosse vivo sotto l’epidermide che cercava di cicatrizzarsi, spandersi per tutto il fottuto corpo. Non era suo solito essere pessimista, ma ad ogni secondo che passava sentiva le forze venire un po’ meno. Dovette prendere tutte quelle che gli restavano per alzare un po’ di più le palpebre, per riconoscere il volto amico vicino al proprio. «keanu» biascicò tra un rivolo di sangue e l’altro, giusto per far capire al Larrington che era vivo - per ora. «che ci fai» qui; ma non concluse la frase, le spalle a vibrare contro la parete della Stamberga.
    Si disse che non doveva essere così strano, trovarlo da quelle parti: dopotutto non erano così lontani dalla Testa di Porco, ed era stato un plenilunio anche per il suo migliore amico. «stai-» «andiamo al quartier generale va bene? lì sarai al sicuro» annuì debolmente, Phobos. In quel preciso istante, ed in realtà come in ogni altro frangente nel quale a prendere la parola era il capo della Resistenza, gli parve un’ottima idea – d’altronde, tra i due era sempre stato lui la testa: Corvonero mica per sport, oh.
    Il secondo successivo, scosse la testa. «timothy»
    La lingua a sporcare le labbra d’altro sangue, nel vano tentativo d’umettarle. Il respiro a farsi più strozzato, mentre ancor più inutilmente cercava di mettersi su di sua sponte. Avrebbe dovuto essere lì, Timothy Barnet - ma del tassorosso, non c’era alcuna traccia.
    «devo trovarlo» tentò ancora; e di nuovo l’avrebbe fatto, se solo parlare non gli costasse più fatica di quanto gli piacesse ammettere.
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    Non era ancora riuscito a realizzare concretamente quello che stava accadendo, forse era per questo motivo che Keanu Larrington sembrava persino a sé stesso così freddo. Difficile da realizzare una situazione del genere, stringeva gli occhi sia ancora doloranti per la trasformazione sia per cercare di mettersi in contatto con la realtà effettiva, quello che stava stringendo in condizioni critiche, era Phobos.
    Quello che stava cercando di dimenticare era che quelle ferite erano praticamente inconfondibili, non poteva essere stato uno scontro tra maghi, né un duello a mani nude, quelli erano i segni di una bestia e nel mentre che le sue parole intimorite uscivano dalla sua bocca, la sua mente era già altrove.
    Era stato lui? Probabile, Keanu non sentiva graffi addosso, sentiva il solito bruciore e l'inconfondibile intorpidimento del corpo ed una strana fitta al petto, probabilmente era stato lui, era stato Phob, si era difeso mentre egli tentava di ucciderlo. Di certo non aveva lottato con un altro lupo in quella sera, e di certo non avrebbe mai fatto branco per una preda comune, avrebbe sentito l'odore di umano a chilometri di distanza e così era stato e non potendo frenare la fame animale, si era gettato a capofitto sulla sua preda, strano il fatto che non l'avesse ucciso, probabilmente quella fitta, era un chiaro segno di una ritirata probabilmente e con sua fortuna, di una sconfitta.
    Il solo pensiero era tremendo e per quanto egli cercasse di tenerlo lontano, ripiombava a capofitto ogni volta che, sbattendo le palpebre, ad ogni ripresa della visione, c'era il corpo dell'amico sanguinante, stringeva la sua schiena saldamente ma le mani gli tremavano e sperava che egli non si accorgesse di ciò, impossibile nascondere quella concomitanza di paura, quel mesto stringerlo con le sue mani, come a volerlo rinfrancare.
    Non aveva mai fatto male a nessuno nelle sue trasformazioni, aveva sempre preso le giuste precauzioni, ma quella volta era andata male, troppo male, non solo aveva agito, non solo aveva ferito un uomo, ma quell'uomo, in quel caso, era proprio il suo migliore amico.
    -che ci fai-, la frase arrivò spezzata, così come il suo respiro, che venne strozzato da quelle parole, gli avrebbe detto la verità prima o poi, egli era conscio di cosa gli fosse accaduto, nonostante il brusco tramortimento, non era difficile dimenticarsi di un lupo mannaro, ma al momento, non sis sentiva di rispondere a quella domanda, non sapeva in realtà cosa ci facesse egli lì.
    Doveva rimanere a casa quella sera, dove braccia innocenti ma allo stesso modo immeritevoli delle sue bugie lo attendevano, avrebbe dovuto prendere la sua pozione ed invece stolto, aveva preso quella decisione ed ancora più stolto era andato a trovare una qualsiasi sorta di sollievo alla Stamberga, fortuna che aveva trovato lui, non avrebbe risposto di sé probabilmente, se il giorno dopo avrebbe letto sulla Gazzetta del ritrovamento del corpo di Phob, esanime, dissanguato, un pensiero macabro che al momento necessitava un rimedio al quale egli doveva provvedere.
    Voltò la testa altrove, mirando alla sgangherata finestra che emanava uno strano e fastidioso bagliore, scusa, solamente le sue labbra si mossero per pronunciare quelle parole, non trovava il coraggio al momento, non ci riusciva proprio, singhiozzò, strozzando la volontà di confessare l'accaduto piangendo.
    Parlava, per quello che gli era possibile, riusciva a comprenderlo, ad annuire, ad acconsentire al suo piano, comprendeva quello che stava accadendo, Phobos era ancora tra i vivi, ma doveva muoversi.
    Gli scappò un breve sorriso, la gioia di saperlo ancora vivo, il ricordo di un simile evento si palesò nella sua mente.
    Il largo spazio verde di Hogwarts brillava sotto i raggi del sole, un caldo quasi atipico a spezzare quelle dannate giornate di pioggia, erano i primi giorni di vacanza, di riposo dalle lezioni e Keanu e Phobos, allora tredicenni, avevano deciso di cogliere la palla al balzo. Keanu aveva preso la sua scopa e aveva obbligato Phobos a prendere la sua, letteralmente un pezzo di legno con qualche ciuffo alla sua estremità, non amava particolarmente il quidditch. Keanu al contrario era davvero portato per questo e pregava perché i due si allenassero insieme, anche se Phob il più delle volte rifiutava le sue richieste, ma quel giorno lo aveva incastrato.
    -: Avanti, giù le spalle, schiena leggermente ricurva... diamine Phob, lascia le gambe leggere non irrigidirle... Phob se ti sporgi ancora a destra rischi di cadere... Phob no, no, nooo..-.
    Una bella caduta di qualche metro, di certo non piacevole, Keanu gli andò subito incontro, accertandosi dell'accaduto, Phob aveva gli occhi chiusi,
    non si muoveva, Keanu si preoccupava che nemmeno respirasse. Lo scosse e quello riprese coscienza, :- Ti avevo detto di fare attenzione, potevi spezzarti il collo e poi come avresti fatto a contare quanti nuovi ciuffi d'erba sono cresciuti nell'aiuola del tuo giardino, stupido Tassorosso?-, risero, Phob gli rispose a tono
    .
    E il ricordo si dissolse, così come il suo sorriso, una goccia di sudore gli rigò la guancia, per poi finire sul suo collo, :-Avanti, so che sarà faticoso mettersi in piedi, ma dobbiamo farlo, coraggio...-
    Stava per sollevarlo prendendolo con delicatezza dal busto quando egli pronunciò ancora parole:-timothy.. devo trovarlo-, Keanu si gelò per un istante.
    : -Chi? Chi è thimothy?-, lo sconforto prese il sopravvento, se era qualcuno che stava con lui adesso era in pericolo, oppure, il lupo che era dentro di lui aveva già pensato a farlo fuori.
    Avrebbe aiutato chiunque, in qualsiasi situazione, sempre, ma adesso una sorta di egoismo stava prendendo il controllo, non aveva tempo purtroppo, non aveva tempo per nessun altro se non per Phobos.
    Aspettò qualche secondo per rispondere, cercando di non far trapelare la sua ansia e allo stesso tempo il rassegnarsi della sua voce:- Ci penso io,
    ci penserò dopo, dopo averti portato in salvo, andiamo alla Testa di Porco, ti metto al sicuro e andrò a cercarlo, te lo prometto.. ma adesso un bel respiro.
    .
    Doveva essere doloroso, una ferita che ancora spingeva sul suo fiato, non sapeva se al momento avesse qualcosa di rotto, ma era tempo di andare via, e dopo aver pronunciato quelle parole, prese a sollevarlo, lo avrebbe retto sulla sua spalla, cercando di farlo camminare e se non ci fosse riuscito allora lo avrebbe preso di peso, dovevano andare via.
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    16.09.2017 | h: 01:00
    Sorrise, involontario e stupido, alle prime parole del migliore amico che riuscì a distinguere con effettiva chiarezza; una risata, quella di Phobos Campbell, smorzata sul nascere da un gorgoglio di sangue ad inumidirgli il palato, un violento colpo di tosse a far morire ogni possibile risposta da parte del responsabile dei Tassorosso. Sorrise allo stentato e sincero tentativo del leader ribelle di mantenere la sua solita calma, quell’imperturbabile alone di tranquilla serenità che lo aveva sempre caratterizzato in ogni momento della sua vita, cercando in quel precario e debole gesto di infondergli lui stesso una pace che, lo sentiva, non riusciva a dimostrare come avrebbe voluto – e divertito, in parte, il professore lo era davvero.
    Aveva sempre guardato Keanu Larrington come si potrebbe ammirare un idolo dorato incastonato in un’antica grotta, un archetipo d’essere umano che chiunque avrebbe dovuto prendere in considerazione di seguire: altruista, gentile, capace di tenere i nervi saldi persino quando il mondo stava per - e per poco non letteralmente - crollare sulla sua testa; lo aveva visto gestire ogni situazione avversa con un sorriso cordiale a rassicurare i più timorosi, ed un cipiglio più severo rivolto verso l’ennesimo ostacolo che calava dinnanzi alla sua strada – sempre concentrato, attento, geniale ancor più che impavido. Gli era sempre rimasto affianco, aveva affrontato con lui tutte quelle battaglie (personali e meno) che lo richiedevano a guardargli le spalle. Era una delle poche persone, Phobos, che poteva dire di conoscere Keanu un po’ di più, rispetto a chi lo incrociava al Quartier Generale o andava a scambiare due chiacchiere con lui alla Testa di Porco; mai si sarebbe azzardato a dire di conoscerlo a trecentosessanta gradi, consapevole che anche per i suoi amici più fidati sarebbe sempre rimasto un punto interrogativo che non voleva spiegarsi del tutto – gli si voleva bene anche per quello.
    Ma vederlo così, tremante e sull’orlo di un’evidente crisi di panico, era sempre un’emozione non da poco. Non che fosse eccessivamente esilarante la situazione nella quale si trovavano entrambi, eh, ma il Campbell era incredibilmente portato per enfatizzare gli aspetti più leggeri e divertenti della propria vita e di quella altrui, piuttosto che focalizzarsi su quanto di merda andasse tutto quanto il resto. Perché, di grazia, avrebbe dovuto prestare più attenzione a quell’enorme graffio sul fianco che l’avrebbe portato a bramare carne cruda per la maggior parte del tempo e che lo stava facendo agonizzare, tra l’essere vigile ed il perdere i sensi, nel su stesso sangue, quando avrebbe più tranquillamente potuto marcare a fuoco nella propria memoria l’angoscia del proprio migliore amico, così da prenderlo per il culo nei giorni, mesi, anni a venire?
    Tralasciando il fatto che, con la Resistenza, si era trovato in situazioni ben peggiori di quelle, il trentenne non aveva alcun dubbio sul fatto che quella spiacevole esperienza si sarebbe risolta nel migliore dei modi: avere quel biondo lì, al suo fianco, scansava ogni timore che sarebbe potuto sorgere altrimenti. Si fidava ciecamente di lui, non l’avrebbe lasciato morire lì. Non era di certo in una delle sue forme migliori, ma stava bene.
    Non così tanto da potersi permettere movimenti bruschi e certamente non richiesti, ma al Campbell non poteva interessare meno – di sicuro, tuttavia, di lì a pochi istanti avrebbe rimpianto ogni gesto compiuto, costato aria e sangue che avrebbe altresì dovuto risparmiare. Si allungò cercando di aggrapparsi alle gambe dell’altro, sebbene quello che riuscì a fare fu soltanto far scivolare il palmo della propria mano sulla coscia di Keanu, in quello che in altri frangenti avrebbe potuto sembrare come un avances di natura più sessuale che non disperata ricerca di un supporto – e che, ne erano consapevoli entrambi, a posteri avrebbe raccontato come tale. «timothy» ripeté, passando la lingua sulle labbra. «un mio studente, ero-» qui con lui. Chiuse gli occhi masticando quelle parole tra i denti serrati, abbandonandosi leggermente alla presa più salda dell’amico. «era la sua prima luna piena». Quando socchiuse le palpebre, andò istintivamente a cercare le sue iridi azzurre, più serio di quanto non fosse mai stato fino ad allora. «devo trovarlo, devo…» portarlo al castello.
    Poteva sembrare sciocco, uno sprovveduto, uno che di quel posto di lavoro non si meritava nemmeno la menzione, che avrebbe di certo lavorato meglio in un parco giochi per bambini (e l’aveva fatto, ma il suo passare più tempo nella piscina delle palline anziché a sbrigare noiose pratiche più burocratiche l’aveva fatto licenziare diversi anni addietro) – ed in parte, okay, lo era; ma era anche leale, responsabile dalla punta dei capelli biondo cenere all’unghia dell’alluce. Non poteva sopportare di essersi perso un suo ragazzo in quelle condizioni. Era suo dovere, suo obbligo morale, trovarlo e riportarlo a casa.
    Triste, dover convenire con Keanu che non fosse esattamente la sua priorità in quel preciso istante. O meglio, lo era comunque, ma sarebbe probabilmente morto dissanguato sulla strada del suo ritrovamento. Fece passare qualche secondo dalle parole di Keanu, la testa contro la parete polverosa della Stamberga e gli occhi verdi a cercare una risposta nel logoro soffitto, prima di doversi arrendere ed acconsentire alla sua proposta. Si fece forza, trattenendo un grido di puro dolore tra i denti stretti sulle labbra mentre si faceva sollevare – letteralmente: «dovresti prendermi in braccio più spesso, kenny» – su due piedi, poggiando il braccio sulle spalle del migliore amico.
    Chissà se poteva svenire, a quel punto, e svegliarsi lindo e pinto sul bancone della Testa di Porco. Avrebbe voluto, ma si trattenne. Stenterete a crederci, ma anche Phobos Xavier Campbell, di tanto in tanto, faceva finta di avere una dignità.
    «non sei costretto» mugugnò, deglutendo saliva e sangue mentre si incamminavano verso l’uscita. «a cercarlo» una precisazione superflua, ma meglio mettere le carte in tavola: fosse mai capiva che non era costretto ad aiutarlo e lo lasciava di punto in bianco a ruzzolare tra la polvere. Razionalmente lo riteneva impossibile, ma aveva perso tanto sangue - il cervello funzionava un po’ a cazzo, in quelle situazioni. «helena sarà preo-» sibilò a mezza bocca, la ferita a premere sui polmoni ed a spezzare la frase. «posso… posso cercarlo io… tra poco»
    Idealmente dopo una dormita, ecco; praticamente, gli bastava una benda a far finta che non fosse successo nulla.
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