Eeny, meeny, miny, moe

jericho x claire

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    Poggiò i gomiti sul tavolo, le palpebre pesanti su un paio d’occhi irragionevolmente blu. Le labbra, dipinte di un viola scuro e testardamente strette fra loro, potevano già dare un’idea dell’umore di Jericho Karma Lowell – ma in caso non fosse stato intuibile da quello, v’erano le arcuate e sottili sopracciglia castane a sottolineare quanto, la telepata, volesse morire.
    Se ve lo steste chiedendo, tanto.
    Non poteva credere che la sua vita si fosse ridotta a quello.
    Aveva iniziato la sua carriera al Ministero, in qualità di tirocinante Pavor, solamente un anno prima; si trattava perlopiù di portare caffè, ascoltare nenie degli adulti senza osare interrompere o lamentarsi. Fingere di non esserci neanche, sostanzialmente – cosa che alla Lowell, era andata più che bene. Da due mesi a quella parte, raggiunta ormai la maggiore età, aveva finalmente ricevuto ciò che aveva atteso tanto trepidante: il badge, il distintivo. La nomina ufficiale. Jericho s’era immaginata la vita da Pavor ricca di avventure, di sangue, morte, caos e distruzione; una valvola di sfogo per tutte le vite che, ahimè!, non poteva permettersi di spegnere solamente per capriccio, come con molto tatto Nathaniel le aveva fatto notare.
    Credeva che, in veste di Pavor, potesse finalmente essere sé stessa, e che i suoi colleghi l’avrebbero capita: ah, finalmente gente come lei, con i suoi stessi passatempi!
    Ma avrebbe dovuto immaginarlo, che non sarebbe andata così. Si era ingenuamente illusa, si era presa gioco di sé stessa con l’innocente speranza di chi, ancora un poco, aveva bisogno di crederci. Eppure, l’aveva saputo sin dall’inizio, quali sarebbero stati i suoi colleghi.
    Era stata molto stupida, a non aspettarselo.
    Però, andiamo: quello era materiale per i suoi incubi peggiori, nulla che la sua mente avrebbe mai potuto concepire da sé. C’era un limite a tutto. She didn’t see that coming.
    «dovete proprio?» sbottò, premendo con le dita sulle palpebre abbassate. Sentiva il principio di un emicrania a pulsarle dietro i bulbi, ed il suo continuo digrignare i denti, non aiutava affatto nella causa. La domanda era rivolta ai due uomini seduti dalla parte opposta del tavolino, i nasi infilati fra pagine di libri che, più di una volta, la Lowell aveva dovuto raddrizzargli poiché al contrario. Il solo sfiorare la copertina dei tomi, le metteva i brividi – ma tant’era. Come se bastasse spendere tre falci per diventare dei padri provetti.
    Perché sì, i suoi colleghi stavano (per l’infinita gioia di Jericho, davvero estasiata all’idea di altri esseri umani a violare la sua libertà ed i suoi spazi personali con il loro mero esistere) per divenire papà, una bionda ciascuno a sfornare palline mollicce ed urlanti chiamate neonati. Non poteva capacitarsi del fatto che loro, fra tutti, mettessero al mondo un’eredità.
    Aloysius Crane, poi, avrebbe dovuto capirlo dopo la primogenita di dover praticare l’orchiectomia.
    Lungi da Jericho Karma Lowell farlo (nuovamente) notare.
    Ed Eugene? A Jer il Pavor piaceva, motivo in più per sentirsi personalmente offesa per quel coito galeotto. In realtà, sia il Jackson che il Crane le andavano a genio: erano le famiglie, a non piacerle.
    Chissà perché.
    Si mosse a disagio sulla sedia, lasciando collassare la testa sulla scrivania quando la risposta dei Pavor le giunse alle orecchie, coordinata come il ciclo mestruale delle quattro amiche con un paio di jeans: «MANCA COSì POCO» Come se a qualcuno potesse essere sfuggito.
    Che vita di merda.
    «anche al lavoro?» tentò ancora, supplicante, soffocando la voce negli avambracci incrociati sulla superficie di legno. Non dico che fosse particolarmente propensa a fare conversazione, ma ecco, non le sarebbe dispiaciuto fare…. qualcosa, qualsiasi cosa, che non fosse guardarli apprendere i trucchi della paternità da qualche stupido libro scritto da qualche stupido nullafacente frustrato che aveva trovato il proprio giardino zen nel tiralatte della moglie.
    C’era un maledetto limite a tutto.
    «soprattutto» e quello fu il catartico momento in cui la neo Pavor decise di quittare, palmi rivolti in segno di resa ed occhi alzati al soffitto. «va bene, come vi pare. Però qualcuno, qui,» indicò sé stessa, sapendo che altrimenti avrebbe lanciato entrambi in un abisso di confusione da Paris Hilton alle prese con le divisioni in colonna. «vorrebbe lavorare. Devo andare da sola?» non che le dispiacesse lavorare da sé, quando mai: come detto e ripetuto all’incirca all’infinito, non era particolarmente affine al gioco di squadra.
    Però, insomma: aveva bisogno di un passaggio.
    Li vide finalmente alzare lo sguardo, colpevoli; si scambiarono un’occhiata, e vi fu un istante di silenziosa ma perfetta comprensione fra loro. Jericho, che non vantava quel rapporto privilegiato con nessuno, non potè nascondere l’irritazione, la gelosia, nel vedere in quell’intreccio d’iridi trasparenti una conversazione dalla quale ella era esclusa. Incrociò le braccia sul petto e si abbandonò sullo schienale della sedia, le sopracciglia corrugate che neanche ci provavano a celare il proprio disappunto. Possibile che fosse lei l’adulta responsabile, lì dentro?
    .
    «no, beh. Certo che no» Il biondo si grattò la nuca, visibilmente a disagio. Non aveva dubbi che se avesse proposto ad entrambi di andare a bere in qualche bettola, sarebbero saltati in piedi prima ancora che potesse concludere la parola Whisky. Assottigliò le palpebre, invitandolo con un cenno della mano a continuare – il ma aleggiava già nell’aria. Fu Eugene, neanche troppo inaspettatamente, a salvare in corner l’amiko: «MA NATHANIEL NO? Una bella gita fra fratelli!» Eccolo. Represse un singulto irritato in favore di uno sguardo laconico ma espressivo, mentre Al, felicemente sollevato dall’incarico, sorrideva come Mastro Lindo sulle confezioni di detergente. «TI FAREBBE BENISSIMO PASSARE UN PO’ DI TEMPO CON LUI, JER» Li osservò ancora una manciata di secondi, ma le loro manifestazioni gioiose da problem solving non accennarono a scemare; sospirò e scosse il capo, stringendosi poi nelle spalle. «ovviamente» fu il suo unico commento. Spinse la sedia all’indietro, premendo intenzionalmente sulle gambe di questa perché graffiassero fastidiosamente sul pavimento, ed un sorriso dolce le curvò le labbra. «sarete dei padri modello» La cosa triste, era che un po’ ci credeva. Evidentemente dovette trasparire, perché entrambi le rivolsero vaghi movimenti con le braccia e moine modeste. «ti abbraccerei» la Lowell gonfiò il petto di puerile e testardo orgoglio, gli occhi ridotti a fessura verso Al. «non ci provare» un ringhio basso e minaccioso, i piedi già ad allontanarla dalla scrivania. «E IO LO FACCIO COMUNQUE» Ecco, ritirava quanto pensato prima: Eugene Jackson non le piaceva poi così tanto. Mugolò infastidita cercando (inutilmente) di sottrarsi alle attenzioni dell’uomo. Quando riuscì a sgattaiolare a distanza di sicurezza, lanciò loro un’ultima occhiata killer e spinse il cappuccio della felpa sopra la testa, le mani affondate nella grande tasca anteriore.
    Dubitava sinceramente che Nathaniel fosse in ufficio, ma neanche troppo: sapeva che il suo lavoro si svolgeva principalmente ad Hogwarts, ma da quando la Lowell minore era diventata Pavor, aveva visto Nate al Ministero sempre più spesso – ogni volta, a dir del fratello, per missioni importantissime che nulla avevano a che fare con il controllare che la sua sorellina fosse ancora viva, FIGURARSI, lui era un tipo kool e certe cose non le faceva mica DAI JER SONO IL BIG BRO KOOL VOGLIMI BENE. Dare un’occhiata non le avrebbe fatto alcun male, e qualunque cosa era meglio rispetto alla compagnia dei due neobabbi. E, dannazione, le serviva davvero un passaggio. Con il fascicolo sul ribelle del giorno stretto al petto, salì in ascensore diretta all’ultimo piano, quello riservato al dipartimento Muggle et similia. Essendo alta poco meno di un metro e sessanta, dovette alzarsi sulle punte per premere il pulsante: avrebbe dovuto esserci abituata, ed invece era imbarazzante quanto la prima volta.
    Quando le porte dell’ascensore si aprirono sul quinto piano del Ministero Magico di Londra, Jericho Karma Lowell rimpianse le (assurde e controverse) certezze del terzo piano.
    Sbattè le palpebre, un cauto e misurato passo all’interno della stanza. Perché. Perché tutti a lei.
    «ma qui nessuno lavora mai?» osservò i presenti a sopracciglia corrugate, le labbra strette fra loro. «no» beata sincerità. Gli occhi blu si soffermarono su Gemes e Rea, la lingua a guizzare sui denti superiori nel (vano) tentativo di ignorare ciò che stava accadendo al centro del grande ufficio dei cacciatori – forse, se avesse procrastinato ancora un poco, il panorama sarebbe cambiato: perché Al ed Eugene potevano anche trascorrere i pomeriggi a scambiarsi metodi per scaldare il latte, ma almeno loro non erano ancora arrivati a «twister? Davvero?». E dire che avrebbe dovuto immaginarselo. Rimase in piedi al centro del corridoio, lo sguardo fossilizzato sull’inconfondibile tappetino bianco a chiazze colorate; non le ci volle molto per riconoscere i partecipanti al gioco, ed ancor meno per decidere che quella di cercare suo fratello , a conti fatti, era stata un’idea di merda. «ci stiamo giocando il prossimo turno insieme a rea: ha il ciclo» Mantenendo le mani ed i piedi in posizione, Run si abbassò giusto in tempo per schivare il pugnale scagliato dalla Hamilton, una risata a brillare negli occhi verdi. Prevedibile. Jericho spostò la propria attenzione sull’altro uomo al Twister, Shia Hamilton; non lo conosceva, ma sapeva che, in qualche mistico modo che ancora le sfuggiva, si era legato a Jeezus Hansen ed Al- e, potete starne certi, si vedeva: esprimeva cous cous ricco mi ci ficco ad ogni giramento di ruota. Li guardò ammutolita ancora una manciata di secondi, la bocca a riempirsi d’aria ma priva di parole per esprimere il proprio disorientamento, quindi si avvicinò alla scrivania di Rea Hamilton. «hai visto nate?» da come inspirò profondamente, dedusse che la risposta fosse sì. Chiuse gli occhi, le lunghe dita affusolate a ticchettare sulla scrivania. «sfortunatamente» «è qui?» Jer alzò gli occhi, quasi potesse trovarlo sotto il tappetino del twister a fare il tifo per i giocatori – non sarebbe stato così sorprendente, a dire il vero. «è al parco con quell’ammasso di pulci» una pausa. «e natajah» wat. Non potè trattenersi, punta sul vivo da quel tono arrogante ed annoiato, dal ribattere con un: «e tu lo sai per via del mistiko legame da boyband di novembre?» Per un sincero, e sentito, momento, temette che Rea l’avrebbe uccisa. Un barlume di quell’istinto omicida effettivamente passò, nelle iridi cioccolato – ma appena un guizzo, così rapido che perfino Jericho, terribilmente attenta ai dettagli, avrebbe potuto farselo sfuggire. Invece, la Hamilton fece scivolare verso di lei uno smartphone, che istintivamente la Lowell prese al volo. «hashtag selfie del giorno» commentò la cacciatrice con densa ironia; sullo schermo, una foto di Nate, Elijah, ed il Labrador/Golden Retriever/Cosa, dove perfino il cane sembrava sorridere.
    A volte l’odio per Nathaniel era così sincero, da sembrarle credibile.
    Espirò drammaticamente, facendo tornare il telefono alla proprietaria – dalla monotopica conversazione di whatsapp che era riuscita ad intravedere, qualcuno era davvero felice dell’aggiornamento che permetteva di inviare middle fingers. Fu tentata di domandarle un passaggio, ma per quanto incredibile vi possa sembrare, perfino Jericho aveva un (sopito) istinto di conservazione. Si morse l’interno della guancia, dando le spalle alla Hamilton per appropinquarsi verso la scrivania dell’altro Hamilton: con la telecinesi ci si poteva trasportare, giusto? «ehi, gem-» «shhhh» Gemes Hamilton alzò un dito nella sua direzione, le sopracciglia corrugate sul display del telefono. Schioccò la lingua con disappunto, il capo scosso mestamente. «non capisco» ed il solo dirlo, parve costargli parecchio. «”sinonimi di bello”» digitò sulla tastiera, ripetendo ad alta voce le risposte: «gemes. Hamilton. gemes hamilton. MEH» Jericho non aveva idea che il cacciatore stesse giocando a Fightlist – beata innocenza – quindi si limitò ad attendere pazientemente che il telecineta si decidesse a prestarle attenzione. «questo gioco non funziona» dichiarò, abbandonando il telefono sul tavolo per intrecciare le dita dietro la nuca, i piedi sulla scrivania. Karma annuì solidale, decidendo di non porsi ulteriori domande. «puoi darmi un passaggio?» «non sono un taxi» «ma ho le gambe corte» sporse il labbro inferiore all’infuori, cercando di far leva sullo riscoperto istinto psycho!paterno del buon Fabio Hamilton, guru di fiducia e idolo d’oro della Pavor. «dove devi andare?» «a lavorare» il sibilo che seguì quelle parole, fu accompagnato da una sconsolata occhiata delusa del ventiseienne. «ma non ti ho insegnato niente? Lavorare significa…» «…trovare qualcuno che lo faccia per me,» completò, alzando gli occhi al cielo. «lo so. Ma mi annoio» Gemes portò le mani sullo stomaco, la testa reclinata verso destra. «camminare tempra lo spirito» aka non ho sbatti. «ma è lontano» «molto da apprendere ancora tu hai» Jericho inarcò lentamente le sopracciglia, il fascicolo sotto il braccio sinistro e la mano destra a reggere il mento. Aveva davvero… «…hai appena citato -» «no» «yoda?» «figurati.»
    Figurati.

    «beh,» beh. Guardò il mago, un giovane tirocinante censore, fuggire non appena misero piede al suolo. Era stato lui, dopo il gentilissimo, persuasivo, e nient’affatto minaccioso invito di Shia Hamilton, a smaterializzarli a Diagon Alley, dove Jericho avrebbe dovuto iniziare le sue ricerche. «non era proprio quello che intendevo» continuò alzando gli occhi blu sul suo accompagnatore, la barba ben curata a nascondere una piega soddisfatta delle labbra. «però grazie» abbozzò un sorriso imbarazzato verso l’uomo che poco prima si era offerto di portarla a Diagon Alley, e quello rispose con un pacato cenno con il capo. «il primo giro lo offre la casa, ma al prossimo si paga pegno» Lecito. Non capiva se le piacesse, o se la terrorizzasse; sembrava un hipster appena uscito dal locale cool della New York che conta, con quelle camice da boscaiolo che un albero non l’avevano mai visto neanche in cartolina. Annuì greve, le sopracciglia corrugate e la certezza, nel profondo del suo piccolo ed ispido cuoricino, che non avrebbe mai più chiesto nulla a Shia Hamilton. «immaginavo» perché aspettarsi sempre il peggio dal genere umano, era una dote da sempre insita in Jericho Lowell. «grazie della…compagnia?» Evidentemente si faceva qualunque cosa per evitare di rimanere al Ministero, come accompagnare una neomaggiorenne malgrado non ne avesse alcuna legittima necessità. Si strinse nelle spalle ed aprì il fascicolo che diligentemente si era portata appresso, focalizzandosi sul volto sfocato delle foto scattate a tradimento da qualche altro Pavor; l’immagine era poco chiara, ma Jer era certa di poterlo riconoscere. Non provava alcuna pena per quel ragazzo senza nome, sapete. Per quel presunto ribelle. La telepata credeva davvero in quel che faceva, nel suo lavoro – nel dover estirpare i traditori prima che togliessero altre vite, o che mettessero in pericolo qualcuno a cui teneva. Non aveva scelto di diventare Pavor solamente per il caos e la violenza: a suo modo, anche lei aveva dei principi. «ci si vede» agitò brevemente la mano in direzione dell’Hamilton, ignorando le sue richieste sul poterle portare le borse dello shopping (COME SE JERICHO FACESSE SHOPPING) o sacche per i cadaveri (assai più probabile: si tenne in promemoria di chiamarlo, se fosse capitato di dover uccidere il ribelle. I cadaveri pesavano, e lei era davvero troppo piccola per trascinarselo appresso senza sembrare un Elfo privo del suo Babbo Natale).
    La luce del tardo pomeriggio rendeva l’atmosfera densa e pesante, ma il sole era ancora alto nel cielo. Decisamente una temperatura troppo elevata per giustificare la spessa felpa nella quale la Lowell nascondeva il corpo giovane e sottile, ma ehi, non era ancora pronta ad affrontare i raggi solari in tutto il loro splendore. Tenne il cappuccio calato, il fascicolo arrotolato nella tasca, ed i coltellini da lancio ben assicurati alle guaine sulle braccia. Il respiro era lento e regolare, il battito moderato; mentre cauta si spostava per Diagon Alley, adocchiava ogni via secondaria alla ricerca del Ribelle, il quale –secondo i documenti- indiceva le proprie riunioni in quella zona.
    Un presunto leader, un agitatore di masse. Un problema.
    E lei, sarebbe stata la soluzione.
    Aprì la mente, sfiorando con la telepatia ogni pensiero del circondario – e subito l’emicrania si fece più forte, costringendola a stringere i denti fra loro ed a soffocare un gemito di dolore. Cosa dirò a mio marito?
    Dovrei prenderla quella cuccia per Aristotele?
    Non ho fatto i compiti.
    I miei genitori mi uccideranno.
    Sono tutti morti.

    Finchè non si schiantò contro un muro impenetrabile, pensieri foschi e nebbiosi a galleggiare in un abisso oscuro. Occlumante. Non era raro che un mago sviluppasse quella capacità, anzi, e non sempre si trattava di traditori: tutti volevano proteggersi dalle possibili intrusioni di legilimens o telepati, non era certo indice che fosse la persona che la Lowell stava cercando. Eppure. Eppure, lenta e moderata quanto un predatore, seguì quel filo d’ossidiana fino a trovare il proprietario dell’Occlumanzia.
    Un cappellino da baseball, una giacca di moda negli anni ’60. Visto dal vivo, il ragazzo sembrava essere ancora più giovane rispetto alle foto catturate nel fascicolo – forse, perfino più piccolo di lei – eppure era certa che fosse lui. Era l’adrenalina in circolo a suggerirglielo, una reazione dettata dall’istinto e da tempi in cui l’uomo era in grado di cogliere il pericolo prima ancora di conoscere il significato del termine nemico. Cominciò a seguirlo cercando di non farsi notare, mischiandosi alla fauna che quel pomeriggio abitava la via magica – ma, evidentemente, non bastò. Quando Jericho comprese che il giovane aveva capito di essere pedinato, fu troppo tardi.
    Sempre troppo, fottutamente, tardi.
    Dio, che sbatti correre.
    «ehi, EHI! FERMATI» ho già detto quanto odiava correre? Si morse il labbro inferiore e cominciò a scattare fra i civili, spostandoli con poco aggraziate gomitate ed imprecazioni strette fra i denti. Preso il proprio distintivo da Pavor, Jer cominciò a sbatterlo in faccia a chiunque fosse stato troppo lento dal togliersi dalle palle, grugnendo minacce che poco ci avrebbero messo a divenire semplice dati di fatto, se non l’avessero ascoltata. Guizzò attraverso la folla senza mai perdere di vista il ribelle, incapace di usare il proprio potere per imporglielo.
    Quando arrivarono ad Inferius, la Lowell era certa di non possedere più né polmoni né milza – ed odiò visceralmente quei due stronzi ingrati di Al ed Euge, che con un movimento della bacchetta o un fottuto rastrello creato con la luce, avrebbero potuto fermare il fuggitivo molti metri prima. «senti, vaffanculo» sbottò infine, fermandosi di colpo. Estrasse veloce un pugnale, e rapida e precisa lo scagliò verso il ragazzo. «potevi almeno smaterializzarti, che diamine,» lo accusò, traendo un respiro profondo, quando la lama lo colpì di striscio al braccio. Senza attendere oltre, prese un altro coltello e lanciò anche quello – più vicina, più precisa. Si conficcò nella coscia, obbligando l’altro a rallentare l’andamento.
    Ed ancora zoppicò, ma non si fermò. «almeno avrei avuto una scusa per non poterti seguire, e mi sarei risparmiata una corsa»
    Il terzo pugnale, si conficcò nei reni - fu lì che cadde, il volto rigato da lacrime.
    Ed allora, una volta che gli si fu avvicinata abbastanza, capì perché non si era smaterializzato.
    E perché fosse stato così facile trovarlo.
    Non era più grande di lei. Dio!, al massimo poteva raggiungere i quindici anni. Dovette guardarlo negli occhi per capire quanto fosse giovane, ingannata dall’aspetto maturo dato dal feroce sviluppo adolescenziale.
    Non poteva essere vero.
    Gli schiacciò una mano sotto al piede destro, e premette l’altro sul fianco ferito - la ferita a sanguinare, la smorfia sofferente a distorcere la bocca dalle labbra sottili. Un moto di disprezzo verso sé stessa le scosse le viscere, eppure fu con un sorriso greve d’ironia che osservò il ragazzino a terra. Non è colpa tua, si ripetè incessantemente, se ha fatto la scelta sbagliata. Stai solo facendo il tuo dovere. «coda di paglia?» ringhiò, mostrando anche a lui il proprio distintivo, mentre il petto s’alzava ed abbassava troppo rapidamente. Lo odiava, per averla messa in quella posizione. Lo odiava, per essere troppo piccolo in un mondo troppo adulto.
    E si odiava, Jericho. Più spesso di quanto non volesse ammettere.
    Ma andava così, la vita - male, e distorta.
    «non ho fatto niente di male» bugia. Inarcò entrambe le sopracciglia, premendo con la suola della scarpa sull’elsa del coltello ancora conficcato nella carne. «gli innocenti non scappano» «non ho detto di essere innocente,» dovette dargli merito che non abbassò lo sguardo, né la supplicò di lasciarlo andare. Lo vide invece stringere i denti, un respiro tremulo a gonfiare le spalle. «ho detto che non ho fatto niente di male» «sei un ribelle» lo accusò, corrugando le sopracciglia. «per definizione, sei il male» «non io. Tu. voi. Tutto quanto»
    Tu
    Voi
    Tutto quanto.
    Chiuse gli occhi, Jericho. Se non avesse detto quelle parole, se l’avesse smentita, avrebbe potuto far finta di niente. Si sarebbe ripresa i pugnali, l’avrebbe lasciato tornare a casa con una semplice ammonizione, ed avrebbe archiviato il suo fascicolo. Perché ne avrebbe avuto tempo, quel ragazzino, di cambiare idea. Di tornare dalla parte dei Giusti.
    Così, non le lasciava altra scelta. «hai tradito la società in cui vivi» si accorse di non volerlo fare, Jer. Non lo voleva fare. Ed avrebbe potuto non farlo, avrebbe potuto fingere di non aver sentito, ma sarebbe stata una traditrice anche lei. Deglutì e riaprì gli occhi, un sorriso amaro a bruciare nelle iridi cobalto. «dura lex sed lex» prese un quarto pugnale, argento a luccicare nella gialla luce di un pomeriggio qualunque. «lex malla lex nulla» Coraggioso, o forse soltanto stupido.
    Fece scattare la lama nello stomaco del ragazzino, gli occhi fissi in un punto imprecisato sopra la testa di lui – codarda, fino all’ultimo. Ignorò il singhiozzo disperato di quel petto giovane, il filo di sangue sulle labbra. Ignorò la sensazione della carne umida sotto i polpastrelli, mentre pragmatica riprendeva le proprie armi, pulendole distrattamente sulla felpa.
    Li reinfilò nelle guaine.
    Non era morto. Lo sentiva respirare, soffrire. Pregare di esserlo, ma continuare a vivere.
    Avrebbe potuto mettere fine al suo dolore, ed alla sua vita, in maniera molto più rapida.
    Non l’avrebbe fatto. Non lo fece.
    «è andata così» commentò, costringendosi ad ingoiare la saliva, mentre senza guardarlo si allontanava dalla zona del crimine.
    Vigliacca, e insensibile - e stupida, lo sapeva. Nel modo sbagliato, ma nel mondo giusto.
    Era andata così.
    fuckthis
    jericho KARMA lowell
    hello, my name is
    you probably won't like me anyway
    18 y.o.
    10.04.17
    pavor
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    CITAZIONE
    SHIA disponibilità per un giorno intero come porta borse e cameriere personale JERICHO

    sì niente, ho citato la cosa del girl power #wat


    Edited by mephobia/ - 14/1/2018, 17:13
     
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    *toc toc*
    Una ragazza bussò alla porta. Era forse la terza o quarta volta in quella settimana. Come se non avesse da fare, per giunta. Lei che poi non voleva avere a che fare con il mondo della magia si ritrovava sempre lì, a sbattere sulle stesse cose e per le stesse persone, e talvolta, anche a sostituire un bastoncino di legno con il cuore di qualcosa, lungo qualche pollice e tre quarti, semirigido. Ma nonostante questo, Claire voleva bene a suo fratello. Non condivideva la maggior parte delle cose che faceva, non erano d’accordo su nulla, amavano cose diverse, avevano caratteri diversi, eppure erano fratello e sorella e quando lui chiamava, lei rispondeva. Quasi sempre.
    «Ti ho dato le chiavi l’altra settimana, perché non ti apri da sola?» ad aprirle la porta fu un ragazzo, seminudo, che non aveva alcun tipo di problema a camminare in mutande in mezzo alla strada.
    «Perché me le hanno rubate. E comunque me le hai date ieri, non “l’altra settimana”?» «CHE HAI DETTO?»
    «Ma che fai?! Non si esce in mezzo alla strada così! Vai dentro!» Era così facile prendere in giro Shane che Claire ne approfittava ogni volta che poteva ridendo segretamente sotto i baffi che non aveva. In realtà non era così credulone come si poteva pensare, anzi, il ragazzo sapeva il fatto suo. Ma davanti alla serietà della sorella ogni certezza veniva meno. E forse era per questo motivo che spesso e volentieri Claire gli faceva sia da sorella che da madre. Entrambi, una volta finita la scuola, avevano chiesto l’indipendenza e l’avevano ottenuta. Ma al contrario della sorella Shane non sapeva badare molto bene a se stesso. «Sei seria?»
    «Sono serissima. E poi qual è il problema? Tu mi dai le tue chiavi e tu ti apri muovendo il bastoncino, facile no? Lo saprei fare pure io.» Claire si chiuse la porta alle spalle, trascinando il fratello dentro casa, ancora allibito, e sbattendogli in faccia una copia della ‘Gazzetta del profeta’ che aveva raccolto davanti la sua porta.
    «Shane, stai calmo. Non mi hanno rubato nessuna chiave. Volevo solo darti fastidio. E poi non fai mai niente, abbi almeno la decenza di aprire la porta a tua sorella quando viene.» Un sopracciglio si inarcò sul volto del fratello ovviamente contrariato. «Magari stavo facendo una cosa importante.» «Conosco le tue cose importanti… almeno ti ho dato il tempo di spicciarti visto che stavo dietro la porta.» Shane sembrò quasi offeso da quella affermazione, ma in fondo sapeva che aveva ragione, anche se quel giorno, almeno, era innocente.
    Poggiando il giornale sul tavolo, Shane si accertò di metterlo con molta nonchalance con la prima pagina rivolta contro il tavolo, in modo tale da non vederla, cosa che però destò dei sospetti nella sorella. «Che dice stamattina il giornale?» Quella era esattamente l’unica domanda che sperava non gli facesse ma che invece.. Anche se Claire diceva di volersi fare i fatti suoi, la verità era che non sempre ci riusciva. Doveva cacciarsi nei guai pur di fare quello che la testa le diceva di fare. Non aveva un suo credo, nel senso che non sempre quello che era giusto era sempre giusto e quello che era sbagliato era sempre sbagliato. Era incerta. O semplicemente non le importava. E tutte le buone intenzioni di evitare maghi e streghe finivano vane se poi c’era qualcosa che a lei puzzava. «Le solite cose. Ministero qua, ministero là. Le persone non sono mai d’accordo su nulla.» «Sei sicuro? Non hai nemmeno letto la prima pagina.» Claire, avvicinandosi al tavolo, riuscì solo per pochi secondi a sollevare il giornale, prima che il fratello lo rimettesse giù in malo modo. «Sono sicuro.» «E perché stai facendo tutte queste storie? Non posso leggere il giornale?» «No, perché non ti importa niente di quello che accade qui, ricordi? Lo hai detto tu stessa.» Per una volta suo fratello aveva ragione. Claire lo aveva detto più e più volte. Perciò alla fine si arrese, almeno davanti all’evidenza che così non avrebbe ottenuto nulla. Lo guardò male, forse anche un po’ arrabbiata, ma a lui bastò per sperare che non avrebbe indagato oltre. Ma inutilmente. Claire attese che Shane si fosse distratto per rubare dal tavolo la gazzetta e leggere la misteriosa prima pagina scappando da un lato all’altro della casa. A quel punto Shane non poteva più nulla. «Sei sleale!» «Suvvia Shane! Quante storie per un articolo di giornale.» Alla magonò bastò leggere il titolo gigante stampato sulla copertina per capire di cosa si trattasse, e già quello non le piacque.
    Con gli occhi fissi sul giornale, Claire non riusciva a credere a quello che leggeva. Dei ragazzi venivano uccisi in mezzo alla strada e il ministero giustificava queste aggressioni accusandoli di essere dei traditori? Lei sapeva chi fossero quei ragazzi, perché i loro genitori erano come loro, facevano parte della resistenza, e lei, per quanto ne dicesse, sapeva che se gliene fosse importato un po’ di più sarebbe stata anche lei un membro di quella fazione, a differenza, probabilmente, di suo fratello. «E’ vero quello che c’è scritto qui? Quanti altri ragazzi sono stati uccisi così?» Shane sfilò via il giornale dalle mani di sua sorella e andò a buttarlo nella spazzatura in cucina, ma non rispose a sua sorella. Sapeva ormai quello che pensava. «Allora? Succede spesso?» «Andiamo Claire! Ora non fare l’eroina! Accade ogni tanto, così come quando ci sono certe sparizioni. Non ci puoi fare niente.»
    Non ci puoi fare niente. Come poteva Shane dire una cosa del genere? Lui, i cui genitori erano dei ribelli e avrebbero potuto trovarsi al posto di quei ragazzi. Come poteva rimanere impassibile? E soprattutto, perché a lei importava così tanto? Se c’era una cosa che la ragazza non sopportava era il sentirsi impotente. Dirle che non poteva fare qualcosa era come insultarla, bestemmiarla o umiliarla, e quella sera Shane ci andò molto vicino. Il problema però, era proprio questo. Claire si intrometteva in qualunque cosa se solo aveva deciso che la faccenda la riguardava e questo la diceva lunga. «Dove stai andando?» Era già quasi fuori dalla porta quando suo fratello tentò di fermarla. «Non lo so.» Sbagliato. Lei lo sapeva. Voleva solo che suo fratello non si intromettesse, dato che gli riusciva bene. «Non cacciarti nei guai.» «Tanto ci sarai sempre tu a salvarmi, giusto?» E lasciando quella frase sospesa, lì, con un filo di ironia, Claire si allontanò da quella abitazione, dirigendosi chissà dove. Quel giorno aveva deciso che avrebbe dovuto fare qualcosa, anche solo capire che cosa stesse succedendo nonostante sapesse quanto fosse pericoloso per una babbana come lei intrufolarsi nelle faccende dei maghi. E di quali maghi poi..
    Casa di Shane non era lontana da Diagon Alley perciò non fu difficile perdere il senso del tempo e ritrovarsi nel centro di quella cittadina in piena serata. Ma non un anima girava a quell’ora. Sembrava fosse notte fonda. L’unico rumore era quello dei passi della ragazza che riecheggiavano in tutta la strada. A un certo punto Claire si fermò davanti a un bivio. Poteva decidere se proseguire nel centro del paese o svoltare ed entrare in uno dei quartieri meno raccomandabili per una magonò e conosciuto come ‘Inferius’. In realtà lei sapeva cosa fare, e non era certamente rimanere lì a fissare il vuoto o lanciare una monetina per aria e fare ‘testa o croce’.
    Svoltò. Che quel quartiere fosse diverso dagli altri si notò all’istante: abbandonato a se stesso così come le povere anime che vi ci vagabondavano nascondendosi tra le macerie. Inquietante a tal punto da essere dimenticato da Dio e dal mondo. Ma non poteva farci nulla. Era lì che più di una volta erano stati uccisi dei ribelli come il ragazzino riportato sul giornale. Ne morivano spesso tra quegli angoli abbandonati, chissà se quel giorno sarebbe stato diverso. Del resto voleva solo dare un’occhiata, non era certa che avrebbe trovato qualcosa.
    Ma, per fortuna o sfortuna, non ci volle molto per trovare, invece, delle tracce. Il quartiere era buio, ma Claire notò che per quanto facesse freddo era impossibile che l’umidità avesse lasciato delle pozzanghere scure in mezzo alla strada. Sentì il suo piede perdere contatto sull’asfalto fin troppo bagnato e si piegò per vedere di cosa si trattasse. Con la punta delle dita toccò per terra e dall’odore ferroso capì che stava camminando su piccole pozze di sangue. Da dove iniziassero non lo sapeva, o non lo vedeva, ma decise di seguirle. Iniziò a correre. Il sangue era fresco e non ci voleva certamente un medico per capirlo.
    Si inoltrò parecchio nel quartiere prima di trovare qualcosa. A qualche decina di metri più avanti, nell’oscurità si intravide una sagoma stesa per terra. Il primo istinto della magonò fu quello di correre verso la persona, ma prima si guardò intorno per vedere (o provarci almeno) se ci fosse qualcuno. Ovviamente sembravano essere soli. E allora raggiunse il ragazzo o la ragazza e quello che vide fu..scandaloso.
    Poteva avere la sua età, anzi, forse era addirittura più piccolo di Claire. Aveva ferite profonde su molte parti del corpo causate probabilmente da armi da taglio, ed era completamente ricoperto di sangue. Si chinò su di lui, sperando non fosse morto. «Resisti! Solo qualche minuto ma resisti!» Il ragazzo non era ancora morto ma boccheggiava. Ancora pochi istanti e sarebbe morto. Claire si chiese da quanto era lì. Chi l’aveva ridotto in quel modo non l’aveva ucciso intenzionalmente seduta stante, al contrario gli aveva riservato una fine lenta e dolorosa. A finirlo del tutto sarebbe stato il dolore, il freddo e la perdita esagerata di tutto quel sangue che ancora scorreva via. La ragazza sapeva che il suo potere avrebbe potuto salvarlo ma non era mai sicura di quello che era in grado di fare. Sapeva che in altre situazioni avrebbe potuto risucchiare via la vita a quel ragazzo, o peggiorare la situazione. Già poteva fare anche questo, ma non era quello il caso. Non riusciva a spiegarsi cosa accadeva quando la magia si manifestava, non sempre la controllava e questo a volte la spaventava.
    Con una mano afferrò quella del ragazzo, fredda, mentre l’altra la poggiò sulla sua guancia. Passarono dei secondi prima di vedere accadere qualcosa. Fu quando lei pensò che ormai era troppo tardi per salvarlo che sentì la linfa vitale scorrere all’interno di quel contatto, e il viso del ragazzo tornò a prendere colore e calore. Era salvo. Poi il suono di alcuni passò le gelò il sangue. Cercò nell’oscurità una presenza ma non la vide. Evidentemente non erano soli.
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    Si sentiva sporca, Jericho. Fare il proprio dovere, al contrario di quanto si era aspettata, non era affatto gratificante: era mortificante, stancante, estenuante. Non si trattava solamente di sfogare la propria vena, ormai non troppo sopita, sadica e violenta; non si trattava di lacerare la pelle, o i delicati tessuti emotivi, di persone che le avevano fatto un torto personale. Si trattava, nella migliore delle ipotesi, di perfetti sconosciuti: andava bene quando si trattava di adulti, o di ragazzi poco più grandi di lei con nulla da perdere, ma uomini e donne di famiglia? Ragazzini? Lo faceva comunque, la Lowell, perché a suo modo seguiva una propria etica. Sbagliata, corrotta, ma pur sempre etica.
    Sapere di star svolgendo un lavoro per un bene più grande, non la faceva sentire meglio. Amava il caos e la distruzione, il nero pece e lo scarlatto del sangue. Amava spingersi oltre i propri limiti, osare laddove nessuna diciottenne avrebbe dovuto azzardarsi. Le piaceva essere la ragazza cattiva, quella dal sorriso truce e gli occhi freddi – qualcuno di cui aver paura, qualcuno dal quale stare alla larga. Si era creata un immagine ad uso e consumo altrui, così da permettersi un libero spazio vitale nel quale poter respirare: si era creata una sagoma, Jericho, per convincersi di non aver bisogno della sua famiglia.
    O di Jack.
    O di chiunque altro.
    Si umettò le labbra, le mani infilate nella tasca della felpa ed il cappuccio calato sui capelli chiari, le sfumature rosa ancora visibili sulle punte. Vuota, ecco come appariva, e com’era, Jericho Karma Lowell – giorni come quello, erano in grado di svuotarla completamente, lasciandola mera involucro di carne che neanche si sforzava di formulare pensieri propri. Si chiudeva in sé stessa con un tale ardore, di modo da evitare di inciampare casualmente nelle menti altrui, che si scordava perfino come esistere.
    Forse, neanche lo faceva.
    Quando udì dei passi alle proprie spalle, si fermò di colpo. La testa ancora abbassata, i pugni a stringersi attorno al tessuto sottile della maglia. I passi divennero ben presto una corsa, parole smozzicate al nulla che andarono perdendosi fra le macerie di Inferius: qualcuno aveva trovato il ragazzo. Non voleva voltarsi, Jericho. Voleva fingere di non essersene accorta, proseguire per la sua strada, e lasciare che fosse qualcun altro a farsi carico di quello morte – o che quella morte, la evitasse. Se non ne avesse saputo niente, non sarebbe stata complice. Non avrebbe aiutato un confermato Traditore a continuare a perorare la sua causa, giusto?
    Sbagliato.
    Smise perfino di respirare, imprecazioni strette fra i denti e sulla lingua. Passò le dita sulla felpa scura, così da cancellare ogni traccia di sangue, e sollevò il profilo verso il cielo: vattene, Jer. Poteva dire al Ministero di aver fatto il suo dovere – stanare la vittima, metterla fuori gioco. Non era davvero necessario che quel K.O. fosse permanente, no?
    Di nuovo, sbagliato.
    Non andare. L’ultima supplica di quel briciolo di buon senso che aveva conservato, di quell’umanità che andava affievolendosi ad ogni morte. La sua coscienza aveva la voce di Dakota Wayne, di nuovo: incredibile, non era forse vero? Come a Brecon, quando sparando al ninja, riuscì a rimembrare la conversazione avuta con il Grifondoro anni prima.
    Vite prima, Jericho prima.
    Avrebbe potuto essere un Dakota, quello corso al capezzale della sua vittima. Cosa avrebbe fatto, in quel caso? Avrebbe ucciso anche lui?
    Era quello, che il mondo le chiedeva. Ed era quello che, gelosamente, ancora non era disposta a dargli.
    Eppure.
    Un sorriso amaro, arreso all’evidenza di una situazione priva di via di fuga, le piegò le labbra dipinte di un fosco prugna. Inspirò, espirò. Si volse, tornando sui propri passi. A bussare alla sua porta, era indubbiamente il karma – come al solito. Aveva voluto lasciarlo in vita? Bene, complimenti, Jericho: ora c’è la possibilità che le vittime diventino due.
    Bel lavoro.
    E secondo i Pavor, lo sarebbe stato davvero.
    Aveva creduto per quasi diciott’anni che il mostro fosse Brandon, in famiglia: quale menzogna s’era narrata, Jericho, nel nascondersi dietro il matricidio di suo fratello. Era lei, l’abominio - quel corpo esile, basso, insospettabile.
    Il diavolo era nei dettagli.
    Tornò lentamente indietro, ed una volta svoltato l’angolo, vide una figura china sul ragazzo che aveva appena risparmiato; si costrinse ad andare avanti, le scarpe da ginnastica che quasi non facevano alcun rumore contro i ciottoli dissestati della strada. Ogni metro bruciato sotto quelle suole, era un rimpiangere il voler avuto così disperatamente lavorare, quel giorno: non poteva rimanere a farsi una cultura sulle gravidanze con Al e Eugene? Perfino giocare a twister con Shia e Run sembrava un’alternativa preferibile, in quel momento.
    No okay, magari il twister no.
    Quando fu abbastanza vicina da farsi vedere, da dare ancora la possibilità di fuggire, si schiarì la gola, attirando così su di sé l’attenzione della… ragazza? Si, indubbiamente una ragazza. E sì, anche lei indubbiamente giovane. What a time to be a Pavor. Cosa stava facendo, poi, per l’amor del cielo? Se avesse dilatato il proprio potere, avrebbe facilmente potuto scoprirlo.
    Non le interessava così tanto.
    Incrociò le braccia sul petto, la spalla destra poggiata al muro di quella che, un tempo, doveva essere stata una villetta a schiera. «qualunque cosa tu stia facendo…» inarcò un sopracciglio, la maschera di arrogante noia a dipingerle apatia sui tratti dolci del viso, un contrasto a dir poco drammatico. «non farla più.» suonò definitiva, in quella buia strada di Diagon Alley. Aveva l’amaro sapore della minaccia, malgrado non ci fosse nulla, nella Lowell, che apparisse anche solo lontanamente intimidatorio: alta appena un metro e sessanta, con una felpa più grande di lei ed un paio di jeans strappati, era assai poco credibile.
    Per quello era dannatamente brava, in quello che faceva.
    «è un traditore,» reclinò il capo, l’ombra di un sorriso affatto divertito a piegarle la bocca. Non mostrò ancora né armi né il proprio distintivo, preferendo farsi scambiare per una patriottica passante, piuttosto che per una Pavor autorizzata: non si sapeva mai con chi si aveva a che fare, meglio non svelare subito le proprie carte. «e tu ti stai rendendo complice.» slacciò un braccio per allungare un braccio verso di loro, un vago cenno della mano ad indicare l’ovvietà della situazione, quindi lo strinse nuovamente al petto.
    Non darmi un motivo per ucciderti.

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    Claire aveva sempre odiato la politica. La reputava sporca, corrotta, falsa, bugiarda. Odiava la politica perché, alla fine, tutti mentivano. Già era difficile decidere da che parte stare, avere a che fare pure con certe menzogne non rendeva il lavoro più facile. Eppure non doveva essere così. La politica doveva servire a chiarire le cose, renderle trasparenti. Perciò, non è che odiasse proprio la politica, odiava più che altro i politici. Quelli sporchi, corrotti, falsi, bugiardi. Quelli che alla fine, affamati di cose vane e passeggere, mentivano. Mentivano a tutti. Per questo se n’era sempre infischiata di tutto il mondo magico, perché non era come lo voleva, o come lo immaginava. Ma allo stesso modo non faceva niente per cambiarlo. Ormai era così. Inutile anche provarci. Si sarebbe inventata qualsiasi scusa pur di non ammettere che in realtà tutto questo non la faceva stare tranquilla, pur di non ammettere che, volente o nolente, lei ne faceva parte. Comunque finiva per mettere il naso dentro faccende che non la riguardavano, comunque andava a caccia di guai per fare la paladina della giustizia, ma di cosa? Non sapeva neanche per chi patteggiare, non ufficialmente almeno. Cosa poteva fare? Probabilmente con i suoi atteggiamenti l’unica cosa che faceva era mettere in pericolo altre vite a causa della sua incoscienza. Ma tutto questo perché? Perché non schierarsi da qualche parte e battersi fino alla fine come prometteva fin da bambina? Perché?


    «Presto! Arriva un’altra emergenza! Liberate i corridoi, dobbiamo portarlo in sala operatoria! Via! Via tutti!» Claire stava spingendo il lettino insieme ad altri medici, babbani ovviamente. La sala operatoria era al primo piano. Stavano per prendere quell’ascensore che di colpo si liberò da tutti gli operatori sanitari che ne stavano usufruendo. Nel giro di un paio di minuti il primario del reparto stava già con i ferri alle mani nel tentativo di rimuovere tutti i pezzi di vetro che si erano conficcati nella carne dell’uomo. Non poteva avere più di trent’anni. La barbetta, capelli folti, un fisico più o meno piazzato. Un perfetto sconosciuto come tanti altri che passavano sotto quei ferri. Alla fine dell’operazione l’uomo era fuori pericolo anche se rimasto in coma farmacologico. Le sue condizioni comunque promettevano bene.
    Tuttavia, la presenza di alcuni poliziotti insospettì la magonò che iniziò ad origliare nel momento in cui questi si avvicinarono, insieme al medico legale, al primario che aveva appena operato. «L’uomo come sta?» «E’ fuori pericolo » «Sa.. Ha ucciso sua moglie e il bambino prima di buttarsi dal balcone e finire sul parabrezza di una macchina » «E’ un miracolo che sia vivo allora » «Un uomo che uccide e rimane in vita lo chiama un miracolo? » Claire immaginava cosa stessero pensando. Quei medici avevano appena salvato una di quelle vite che non erano innocenti. A saperlo prima.. cosa? Cosa avrebbero fatto? Si sarebbero tirati indietro solo perché era un assassino. Ovviamente no.
    Come si fa a rimanere inermi di fronte a una vita che sta morendo? Chi decide chi è giusto salvare? Eppure è giusto salvare chi ha ucciso o chi ha tentato di farlo? A chi spetta decidere questo? Quando Claire Donovan tornò a casa quella sera, se lo chiese migliaia di volte ma non seppe rispondersi. Alla fine rimanere neutrale ti permetteva di salvare vite, indifferentemente dal fatto che fossero buoni o cattivi, mangiamorti o ribelli, santi o peccatori. Non avevi preferenze. Non sceglievi a chi dare priorità. Era questo che la magonò aveva giurato di fare quando decise chi diventare. Se fosse quella la cosa giusta da fare non lo sapeva, ma era ciò che aveva deciso, almeno per ora, almeno per quel giorno.



    «qualunque cosa tu stia facendo… non farla più » l’oscurità si mosse, e dal nero più totale uscì una sagoma tanto minuta quanto minacciosa. Ma forse non abbastanza. Non riusciva a vederla bene, come poteva del resto? Non voleva neanche farlo, comunque. A dispetto di quelle parole la magonò non lasciò il contatto con quel ragazzo che ancora non riusciva a riprendere conoscenza. «Perché? » non sarebbe cambiato nulla anche se avesse avuto la risposta e anche se fosse stata più o meno convincente, ma il gusto di sentirla non voleva toglierselo. «è un traditore, e tu ti stai rendendo complice. » Claire sorrise. Complice di cosa?
    «Non sono una complice. Semplicemente faccio il mio lavoro. » Lentamente le ferite si stavano rimarginando, ma il sangue che il ragazzo aveva perso era molto e con i poteri della magonò ancora in crescita ci sarebbe voluto un altro po’. «Salvo la vita, quando posso. Sono complice di questo, se vuoi. Non so quale sia il tuo di lavoro ma non vedo nulla di male in questo. » se era preoccupata? Beh, un po’ sì. Non tanto di quella presenza in particolare quanto della circostanza, e dell’aria che tirava. In fin dei conti si trovavano ad Inferius, con un ragazzo ricoperto di sangue e una ragazza che dal nulla spuntava e accusava di tradimento. Poteva andare peggio, o forse meglio.
    «Davanti a me non vedo un traditore, vedo solo un ragazzo. Probabilmente anche più piccolo di me e.. » la guardò, per quel che poteva. Era bassa, abbastanza minuta per avere chissà quanti anni. Del resto anche Claire non scherzava in quanto a statura. Ma lei..non poteva avere più di vent’anni «.. di te. » Chi era quella ragazzina per parlare con una tale sicurezza? Possibile che l’avesse ridotto lei in quello stato?
    Quando il ragazzo però cominciò ad aprire gli occhi, la prima cosa che vide fu la ragazzina in piedi di fronte a loro e istintivamente fece per alzarsi e scappare, ma le poche forze che aveva lo abbandonarono all’istante lasciandolo al suolo. «Sta’ fermo! Dove vai? » Si poteva quasi percepire la sua paura. I suoi occhi puntati su di lei, sbarrati.
    «Lui ha paura di te. Cosa può aver fatto di tanto grave da meritarsi questo? »

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    Non le ci era voluto molto, per capire cosa le piacesse del suo lavoro – ancor meno per comprendere quale parte di sé fosse soddisfatta dal suo lato sadico: a Jericho Karma Lowell piacevano gli omicidi, perché amava i corpi privi di vita delle sue vittime.
    Ed amava i cadaveri, perché non parlavano. Non era necessario sostenere conversazioni superficiali ed abusate, convenevoli che annoiavano al primo interrogativo; non obbligatorio sorridere e fingersi compiaciuta di una vita che, a dirla tutta, le andava sempre un po’ stretta: poteva farsi i cazzi suoi, la telepata, circondata da carne marcescente e sangue ad imputridire il suolo. Un motivo egoista, senza dubbio.
    Mai detto che fosse una ragazza generosa. «Non sono una complice. Semplicemente faccio il mio lavoro. » ed ecco, ecco perché preferiva i morti ai vivi. Non rispose al sorriso della giovane chinata al fianco del ragazzino, tornando invece ad incrociare le braccia sul petto. L’unico movimento che si permise, fu una cinica sollevata di sopracciglio. «Salvo la vita, quando posso. Sono complice di questo, se vuoi. Non so quale sia il tuo di lavoro ma non vedo nulla di male in questo. » No, vabbè, le era capitata un Elijah Dallaire al femminile? Il mondo doveva avercela davvero tanto con la Lowell, per costringerla a quel supplizio. Sollevò gli occhi al cielo inspirando dalle narici, il piede sinistro a picchiare impaziente contro il selciato: davvero non vedeva nulla di male nel salvare la vita di un Traditore? Vivevano forse in due mondi differenti? Perché in quello di Jericho, il suo…lavoro era considerabile tradimento verso il Ministero stesso, la forma d’ordine e controllo per il quale lei, in quanto Pavor, vigilava. «forse sei cieca» commentò in tono apatico, mantenendo il capo reclinato all’indietro e lo sguardo fisso sul cielo. Una considerazione valida e legittima. «ma sono buona, quindi propendo per il sorda» sottolineò, volgendo ora le intense iridi blu sulla donna: le stava lasciando una via di fuga, l’ennesima possibilità di andarsene e mantenere la propria fedina penale intatta – nonché la sua vita. Perché la gente si sforzava tanto a voler morire? Si piazzavano di fronte alla rivoltella carica, ed imploravano perché la Lowell premesse il grilletto: se si aspettavano comprensione e benignità, avevano evidentemente sbagliato essere umano con il quale tentare la sorte. Jericho faceva fuoco anche per noia, figurarsi quando le davano effettivamente motivo per farlo. «Davanti a me non vedo un traditore, vedo solo un ragazzo. Probabilmente anche più piccolo di me e... di te. » Non sarebbe stata la giovane età a far da attenuante al ribelle: anche Jericho era una ragazzina, eppure si rendeva utile alla società, non collaborava per distruggerla. Rimase immobile mentre il Ribelle, convinto d’essere ormai indistruttibile ed al sicuro, tentò la fuga: non si sprecò neanche a muovere un muscolo, Jericho, mentre quello cadeva pateticamente al suolo come un burattino privato dei fili.
    E non ne fu affatto impressionata. «Lui ha paura di te. Cosa può aver fatto di tanto grave da meritarsi questo? » Arcuò entrambe le sopracciglia, spostò il peso da un piede all’altro: cos’era tutto quello stupore nella voce di Madre Teresa di Calcutta? Certo che aveva paura di lei - ed aveva tutte le ragioni di averne. Non era colpa di Jericho, se la sua struttura ossea le impediva di essere esteriormente minacciosa quanto un Marcus Howl – ma era tutto da biasimare alle vittime, quando di lei vedevano la pelle perlacea e non il pugnale stretto fra le mani. In sostanza, cazzi loro. «ha smesso di essere solo un ragazzo quando ha scelto la Resistenza» ribattè secca, spostando pigramente la propria attenzione al fanciullo in questione – ancora pallido, ma stava riprendendo colore a vista d’occhio. Gli rivolse l’accenno di un sorriso poco piacevole, labbro superiore arricciato e palpebre socchiuse: peggio per te. «è un ribelle.» continuò, armeggiando pigra nelle tasche della felpa. Estrasse il proprio distintivo, indubbiamente la cosa più bella di quel mestiere, e lo sbattè senza troppi preamboli di fronte agli occhi della Samaritana: «pavor, bella.» richiuse il distintivo e lo rimise al proprio posto, rivolgendo loro la medesima espressione annoiata che curvava alle televendite di spolverini. «e questo, è il mio lavoro» senza alcun preavviso, estrasse un coltellino da lancio e lo scagliò in direzione del Ribelle a terra – veloce, troppo rapida perché chiunque fra loro potesse reagire. La lama si conficcò nella spalla del ragazzino strappandogli un gemito.
    Strike uno: ora, per colpa di Ghandhi, sarebbe morto due volte. Complimenti. «se non ti levi entro due secondi, prendo il tuo nominativo per aggiungerlo alla lista dei sospetti resistenti» sollevò due dita, ed a quelle aggiunse anche le altre mostrandole l’innocuo pugno aperto. «e ti concedo cinque secondi per tornare a casa, altrimenti il prossimo coltellino è per te» fu in quel momento che la telepata sorrise sincera, curvando languida gli angoli della bocca verso l’alto.
    Ah, ma che bella giornata.

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