angel face, devil thoughts

meara + cj | 2043

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    «Papi» Meara si avvicinò alle spalle del biondo incurante della panna che stava cercando di montare, picchiettando sulla sua spalla finché non lasciò uscire un verso esasperato, aka parla in fretta e lasciami fare cose «meh, sai cos’è Netflix?» anche se sapeva già come avrebbe risposto, voleva dargli una possibilità. Per il momento era il suo genitore preferito, non poteva deluderla così. «Ma cos’è, il concept dei poracci?»* «ma sei sce-» la ragazza dovette mordersi la lingua per impedirsi di continuare la frase, non stava parlando con Dominique o suo zio, insultarlo non l’avrebbe portata dove voleva «cioè, è una cosa per vedere film» e non pensò neanche di menzionare le serie tv, tanto non avrebbe capito, i vecchi non lo facevano mai. Aspettò che le rispondesse, facendo un passo in avanti per vedere cosa stesse facendo, non stupendosi quando lo trovò a mescolare cose a cui non avrebbe neanche saputo dare un nome; da quando un paio di mesi a quella parte il biondo si era messo in testa di essere un grande cuoco, e come tale dovesse far provare al suo mondo tutte le prelibatezze che gli passavano per la mente, indovinate chi ci aveva messo due settimane a rompersi le palle? Meara, sempre. Non era che non le piacesse cosa cucinasse, cioè oltre a quello, piuttosto il fatto che non era facile stare a dieta con un fottuto wannabe pasticciere in casa («hai rotto le palle, ma la smetti di cucinare?» «skatta la violenza»* «ma che cazzo?» «shh, sto parlando con Euge» indovinate chi non la stava ascoltando? William Barrow, come sempre) quindi non si poteva dire che la ragazza non ci avesse provato, solo che il padre non trovava mai due minuti per ascoltarla.
    Due fottuti minuti.
    Perché stava ancora lì a parlargli? Sapeva che non le avrebbe risposto seriamente, non si poteva distrarre, o avrebbe rovinato qualsiasi cosa stesse facendo. Aspettò altri due minuti lì, in piedi a fissarlo, finché non si stufò di farsi prendere per il culo «pa’?»
    «eh»
    «quindi? Me lo fai fare netflix?»
    «non so cosa sia» bugiardo
    «te l’ho appena spiegato»
    «no»
    «ma-» le bastò un solo sguardo alla faccia del padre per capire di aver perso la sua attenzione, non si sprecò neanche a finire la frase, preferendo voltarsi e ritornare in camera sua. Sbattendo i piedi sul pavimento molto, molto forte #fuckthisshit. Madonnaemanuele, ma perché le erano capitati dei ritardati come genitori? Non aspettava altro che il weekend finisse così da potersene tornare ad Hogwarts, col cazzo che la settimana dopo sarebbe tornata. Avete presente quando ho detto che sarebbe tornata in camera? Mentivo, perché poco prima di raggiungerla decise che stare sola a pianificare un omicidio chiedi a papi non le avrebbe fatto bene, così oltrepasso la sua porta, dirigendosi verso quella di Ronan: il suo partner in crime, l’unico che aveva tempo per lei. Neanche si preoccupò di bussare, era la camera del fratello, perché avrebbe dovuto farlo? Perché lo trovò avvinghiato a un ragazzo, ecco perché.
    C'erano cose che non ti aspettavi nella vita, questa era una di quelle. Si sporse oltre lo stipite della porta, da dove poteva vedere più chiaramente il secondo ragazzo, aveva bisogno di una conferma e quello era l'unico modo per ottenerla; piegando la testa di lato riuscì a inquadrare meglio il viso del giovane, e nonostante non riuscisse a porci un nome, era decisamente familiare. Non che le importasse, non se non era CJ a ricambiare i baci del fratello.
    Non ce l'avrebbe fatta a sopportare anche quello, un doppio tradimento. Stronzini.
    Richiuse la porta dietro di sé senza commentare, non doveva importare molto al fratello, se non si era neanche curato di seguirla fuori dalla stanza. Beh, quel giorno nessuno sembrava aver tempo per lei.
    Aveva dimenticato i problemi con il padre, aveva dimenticato la ragione per cui stava evitando Lynch: Ronan era l'unica cosa su cui voleva concentrarsi, prima o poi l'avrebbe dovuto fronteggiare e di conseguenza a dire qualcosa.
    Che il fratello fosse bisessuale, gay o pansessule (o quello che era), non le importava, il vero problema stava nel fatto che non le avesse detto niente. Perché sì, quelli erano anche cazzi suoi. Da quando non si dicevano più nulla? Meara pensava di essere abbastanza importante. Evidentemente non lo era.
    E no, non si era sprecata a parlargli di CJ. Il motivo era palese: non c'era niente da raccontare, quindi perché avrebbe dovuto sprecare fiato?
    «Che succede?» neanche si era accorta dei passi alle sue spalle, troppo impegnata a maledire il fratello. Ora che Lynch stava di fronte a lei, avrebbe voluto notarli, così da scappare prima che potesse rivolgerle la parola. Non voleva vederlo, non voleva parlargli, non voleva stargli vicino.
    Aveva bisogno di fingere che non esistesse, simple as that.
    Non avrebbe mai dimenticato le labbra del biondo attaccate a quelle del suo ex ragazzo, le mani di entrambi che esploravano più di quanto avesse voluto vedere. Suo fratello era una fottuta puttana e lei non l'avrebbe perdonato.
    Meara puntò gli occhi nei suoi, duri e freddi, privi dell' ammirazione con cui era solita guardare il Barrow «togliti» all'inizio era un semplice comando nella speranza che avrebbe capito che non era desiderato lì, eppure non si spostò, rimanendo fermo al suo posto. Sembrava voler dire qualcosa, come se negli ultimi mesi la bionda avesse ascoltato le sue suppliche, come se avesse tempo da perdere. Prima che potesse aprire bocca gli intimò ancora una volta di spostarsi, per poi spingerlo di lato quando non lo fece, un giorno di quelli lo avrebbe volentieri preso a pugni.
    Meara non dimenticava, e tantomeno perdonava.
    «Oggi usciamo, ci vediamo da Palmer» aspettò di sentire la conferma di CJ dall'altra parte della linea prima di chiudere, consapevole di non avergli dato realmente una scelta.
    A Meara, così come aveva fatto William, piaceva prendere l'Hamilton per esasperazione, ed era dannatamente brava.
    Ma guarda, finalmente c'era qualcuno che aveva del tempo per lei.

    La Beaumont sapeva chi era stato Harrison Palmer, spesso oggetto di episodi che la madre raccontava ai figli quando alzava il gomito, una volta capo dei cacciatori e ora dimenticato dal resto del mondo. Se non fosse stato per Akelei, Meara e la croan non avrebbero mai pensato di avventurarsi nella casa abbandonata dell'uomo, mai ne avrebbero fatto un posto dove passare i pomeriggi; oh, se a loro piacevano i posti creepy non gliene si poteva fare una colpa, c'erano luoghi peggiori dove trovarsi, casa della bionda uno di questi.
    Non era colpa sua se erano tutte teste di cazzo, quella volta gli unici che si salvavano erano sua madre e suo padre, forse perché non l'avevano vista abbastanza a lungo per averci una conversazione. Non pensava che sarebbe rientrata a casa prima di notte fonda, aveva bisogno di essere libera per poche ore, dimenticarsi di tutti i legami che la mantenevano legata alla sua famiglia, a ciò che diventava attorno a loro.
    Quella non era Meara Beaumont.
    La Meara che sapeva di essere non fuggiva dalle proprie battaglie, le pestava fino a non sentirsi più le nocche, le fronteggiava come se fossero state l'unica cosa per cui viveva.
    La Meara che sapeva di essere non avrebbe lasciato che suo padre la mettesse da parte, troppo impegnato per rendersi conto che la figlia cercava solo scuse per parlargli, per stargli un po' più vicino visto che lo vedeva pochi giorni al mese. Lo avrebbe tartassato, finché finalmente si sarebbe reso conto che esisteva anche lei.
    La Meara che sapeva di essere non era quella ragazza senza spina dorsale che diventava una volta tornata a casa, troppo stanca di combattere le sue battaglie ad Hogwarts per curarsi di qualsiasi altra cosa.
    Per qualche ora chiedeva solo di tornare se stessa e la sola persona che avrebbe saputo come portarla indietro era CJ, il suo nessuno.
    Lo sentì arrivare ancora prima che arrivasse alla porta della cucina, il legno scricchiolante che accompagnava ogni suo passo a tradirlo. «Sono in cucina» lo disse ad alta voce, in modo che il tassorosso potesse sentirla anche dall'entrata; uno stronzo era chiaramente sotto inteso alla fine della frase, sperava lo cogliesse.
    Meara si voltò verso la porta del cucinotto e andando ad incrociare lo sguardo del ragazzo dall' altra parte della stanza, un sorriso ironico a formarsi sulle labbra della bionda «vedo che almeno uno dei due sta sopravvivendo al weekend» giusto perché iniziare una conversazione non era il forte della Beaumont, almeno ci aveva provato.
    Almeno qualcuno aveva trovato il tempo per lei.
    give me one good reason to not push you off the side




    * purtroppo queste frasi sono state tratte dal buk dove tengo le cose più kul dette dai vecchi. Così, per farvi capire il disagio.


    «meara»
    «will»
    «lynch»


    Edited by cocaine/doll - 8/9/2017, 12:02
     
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    Fece roteare le bacchette fra le dita, una lentezza pigra ma affatto distratta, lasciando che la cenere della sigaretta cadesse sul pavimento grigio del Garage - un luogo a suo dire deprimente, con quel soffocante odore di deodorante per ambienti che Ade s’intestardiva ad usare per ammortizzare l’acre aroma del fumo, le scatole mai disfatte (e che senso avrebbe avuto, quando di lì a qualche mese avrebbero dovuto cambiare nuovamente dimora?) ai lati della stanza, e la luce tremula di un'impavida lampadina che, ronzando piano, pendeva sopra le loro teste. Quel basso edificio, poco distante da casa ma abbastanza da dare l’impressione di avere una certa privacy, era diventato il rifugio dei fratelli Hamilton.
    Probabilmente era quello il motivo che lo rendeva tanto deprimente agli occhi verdi di CJ, poco avvezzo alle riunioni di famiglia che tanto gratificavano sua sorella e quell’altro - dopo diciassette anni, ancora si rifiutava di credere che provenissero entrambi dallo stesso utero, come faceva spesso e volentieri notare a BJ («dio lillo, hamilton, neanche assomigli a coloro che hanno accidentalmente avuto la fortuna di combinare i loro geni per permettere a me ed ade di venire al mondo: accettalo, sei stato adottato. Non fai parte del nostro coito» «ti costa tanto chiamarli genitori? E siamo gemelli, cj» «così ti hanno detto quelle sgualdrine» «CJ.»). Fece guizzare la lingua fra le labbra dischiuse, continuando a far scorrere fra le dita i sottili bastoni della batteria, mentre Adelaide e BJ strimpellavano solo Dio sapeva cosa sulle corde delle loro chitarre, lo sguardo assonnato a veleggiare nel nulla. Il fatto che a loro piacesse suonare, e che CJ ne fosse perfettamente in grado, non implicava che dovesse necessariamente piacere anche a lui, o che lo facesse volentieri. L’unica cosa che amava far suonare, erano gli allarmi delle macchine a cui dava fuoco.
    Allora perché si trovava lì, direte voi? Che domanda sciocca, lettori.
    Seguì il ritmo dei fratelli, lasciandosi guidare dalla musica nel far scattare il bastone sui piatti, che fermava poi con due dita per impedire loro di vibrare oltre alterando l’armonia, o sui tamburi, a seconda dell'esigenza. Cominciò perfino, assorto, a piegare il capo accompagnando i movimenti delle mani, canticchiando a fior di labbra il motivetto che Ade e BJ andavano componendo con dita abili e veloci.
    Ed eccolo infine a scattare, il braccio. Più rapido di quanto avrebbe dovuto essere possibile, più secco e violento di quanto fosse richiesto; colpì con un deciso movimento del bastone il volto del babbano che aveva accomodato gentilmente al proprio fianco. Il ragazzo, probabilmente aveva meno di vent’anni, era a malapena cosciente: un occhio era così gonfio da costringerlo a tenerlo chiuso, le labbra dischiuse per permettere all’aria di circolare, dato che il naso non sembrava più in grado di svolgere la sua originaria funzione. Uno strillo disperato ed acuto rispose al taglio sul viso, laddove la carne s’era debolmente aperta lasciando scorrere un filo di sangue vermiglio. Crane Junior Hamilton, a quel suono angustiante, ribatté con un sorriso veemente e duro, i freddi occhi smeraldo fissi sul viso tumefatto del giovane. La crudele piega delle labbra decantava la gioia provata nell’infliggere dolore, ma lo sguardo intelligente che rivolse alla sua vittima, diede alla violenza una nota di controllata distruzione: era un ossimoro vivente, CJ. Una fredda rabbia divoratrice incapace di appagarsi, a vomitare sangue ed alcool sul pavimento cencioso di una vita sporca e grigia. Continuò a suonare, il Tassorosso; con ancora la gioiosa malignità gratuita a ringhiare dietro le costole, continuò a picchiettare le bacchette sul tamburi, lasciando scie vermiglie sulla pelle bianca della batteria.
    «era proprio necessario?» ignorò volutamente la nota drammatica, la richiesta implicita di smetterla, nel tono di suo fratello: l’unica reazione che si permise, fu quella di ampliare il sorriso, facendo intravedere i denti bianchi che le labbra sottili celavano. Non ebbe bisogno di guardarli, per sapere che si stavano scambiando l’occhiata: BJ supplicava Ade di fare qualcosa, di aggiustarlo, ed Ade replicava a quella richiesta ricambiando pacata lo sguardo del fratello. Avrebbe voluto irrompere in quel teatrino rombando come il primo dei fulmini in un cielo che di suo preannunciava tempesta, ma non avrebbe avuto alcun senso.
    Non avrebbero capito. Non l’avevano mai fatto - e non voleva lo facessero.
    Non capiva neanche CJ, cosa non andasse in CJ.
    «volevi passare un po’ di tempo tutti insieme, mh?» non si sprecò a distogliere l’attenzione dai piatti, ignorando il vuoto lasciato dalle chitarre: loro potevano anche aver smesso di suonare, ma lo show andava avanti. «con il tuo fratellone» il sorriso vibrò un’ultima volta, prima di venir inghiottito dai denti. Sollevò lentamente gli occhi sul gemello, specchi color giada dai contorni affilati. «questo è il prezzo» la piega delle labbra si accentuò, mentre CJ abbassava lo sguardo per tornare alla sua musica, un armonico rimbalzare fra i tamburi e la carne del babbano.
    Volete sapere la cosa esilarante? Quel ragazzo, in verità, non gli aveva neanche fatto un cazzo.
    Talvolta un po’ si odiava, CJ Hamilton.
    Poi si ricordava di non essere né il primo né l’ultimo, ad odiare CJ Hamilton: ed allora, se ne sbatteva altamente le palle. «cj…» «compromessi, bj» lo mise a tacere con un ringhio arido e spento, sporcato dalla malizia e l’ironia che da sempre gli impregnavano la lingua. «compromessi» non guardò Adelaide.
    Non la guardava mai. Sapeva che sua sorella disapprovava il suo comportamento; che sognava, per loro, una famiglia unita. CJ amava deludere le persone, davvero; ci si buttava a capofitto, cogliendo ogni occasione per tagliare alla radice ogni minima, infinitesimale speranza nutrita in lui. Godeva, di quel rompere le aspettative altrui come un sasso sulla piatta superficie dell’acqua. Lo faceva con suo fratello, con i suoi genitori, gli zii, i cugini, gli insegnanti, i compagni. Soprattutto, lo faceva con sé stesso - sempre, degradando il degradabile finchè non rimaneva più un cazzo di niente, da consumare.
    Ma non ci riusciva, con sua sorella. Non ci riusciva, vaffanculo.
    «per favore»
    «no»
    «per una volta, cj, non puoi semplicemente…» si morse la lingua, ma il danno era fatto. CJ si interruppe a metà nota, le sottili sopracciglia a schizzare verso l’alto. Riuscì a percepire il respiro trattenuto da Adelaide quasi che quel brandello di fiato, l’avesse sottratto a lui. «non intendevo…» ma era troppo tardi, e lo sapevano tutti. Lo sapeva l’aria immobile che gravava pesante sulle loro spalle, così giovani; lo sapeva la sigaretta che andava consumandosi fra le labbra dell’Hamilton, così come lo sapeva la pozza di sangue che andava ad allargarsi sotto al mento del babbano. «dillo» secco, umido quanto uno schiaffo su carne viva. «sai che non era quello che intendevo» «dillo e basta, hamilton» Adelaide Milkobitch rimase in silenzio, lo sguardo blu triste ed impotente. Il verde oceano di CJ si scontrò con la scura e confortante terra delle iridi di BJ.
    Così diversi, i gemelli Hamilton.
    Tradizioni di famiglia.
    Un sospiro arrendevole, la bandiera bianca a sventolare pregando per una tregua. «…essere normale» concluse infine, scuotendo piano la testa.
    Eccolo, qual era il punto. Eccolo, il problema.
    Ci si intestardiva, lui; si mostrava al peggio, radendo il mondo in fuoco e cenere, ed ancora ne rideva, sguaiato e screziato di languida disperazione.
    Folle, insano; disturbato, problematico. Un veleno, CJ Hamilton.
    Perché voleva, il diciassettenne, dare un capro espiatorio per quell’odio che fomentava i cuori altrui, ed i giudizi scagliati come dardi nelle menti di chi, all’esterno, gli volgeva i più dolci dei sorrisi. Poteva essere tante cose, ma non era un ipocrita del cazzo.
    Non era. Un ipocrita. Del cazzo.
    Avrebbe potuto dirgli che non lo era, normale, né che voleva esserlo. Che non gliene fregava un cazzo di lui, o di Ade, o dei loro genitori.
    Che CJ Hamilton, quella famiglia, non l’aveva chiesta, e non la voleva.
    Ma non era vero.
    Eccolo, qual era il punto. Eccolo, il problema.
    Non era fottutamente vero.
    Ed ho mentito, prima: non solo era un ipocrita del cazzo, ma anche l’incoerenza coerente fatta carne e sangue.
    Sorrise, gli occhi pigramente socchiusi.
    «potrei,» rispose, mentre affilando l’udito coglieva rumori di passi all’esterno. «ma non lo farò.» Gli sputò un po’ di quell’ostica sincerità che masticava fra una sigaretta e l’altra, il sorriso sghembo e folle a trovare la propria sanità nei fulgidi occhi primavera.
    Perché la verità era che li amava semplicemente un po’ troppo, Adelaide e BJ. Di certo, buon Dio, più di quanto non amasse sé stesso - più di quanto dimostrasse d’essere capace. Lo faceva in modo violento, impulsivo, incontrollabile. Era un incendio che divampava e non lasciava nulla: neanche ci pensavi, all'idea di contenere le fiamme.
    Neanche ci provavi, a spegnerle. Morivano solo quando non c’era più niente da corrompere.
    Quando l’allegria perseverò nell’espressione pacifica e falsamente innocente del telepata, Milkobitch ed Hamilton compresero che qualcosa non andava. Raramente, CJ, si mostrava così felice.
    Quando il campanello suonò, sobbalzarono entrambi: il Tassorosso, per tutta risposta, continuò a sorridere.
    «cj» sempre così quieta, Adelaide. Chissà chi fra i due era cambiato prima: era stato CJ a divenire violento per compensare l’indole tranquilla di sua sorella, o lei a calmare i propri nervi per rendere tollerabile la convivenza con CJ? «cos’hai fatto» non essendo una domanda, non rispose; si strinse nelle spalle, il sorriso a brillare di primordiale gioia sul viso giovane e glabro.
    Dio, con un sorriso del genere, ci si vincevano le guerre.
    «crane» un sospiro, il primo colpo contro la porta. «junior» rimase seduto sul pavimento, i fratelli già schizzati in piedi. «hamilton» allungò pigramente le braccia sopra di sé per sgranchirsi i muscoli, inarcando la schiena come un pigro, ma soddisfatto, gatto satollo. «ho invitato qualche amico» con quegli occhi verdi a luccicare in maniera primitiva e spregiudicata, l’irresponsabilità della piega dolce delle labbra. Una faccia da prendere a schiaffi, o per la quale prendere a schiaffi: o lo si seguiva, uno come CJ Hamilton, o lo si uccideva.
    Non esistevano mezze stagioni, fra il suo inverno e la sua estate.
    «ancora» proprio mentre il primo grido si levava al di là della spessa porta argentata del Garage: «HAMILTON, APRI QUESTA CAZZO DI PORTA» Poesia, per il cuore selvatico del Tassorosso. Anziché rispondere alle ingiurie, o dare una spiegazione altresì ovvia alle espressioni sbeccate dei fratelli, CJ fischiò fra i denti, piegandosi verso lo stereo posato fra loro. «ora ci siamo» con l’indice, picchiettò la rotella del volume fino ad estinguere le urla all’esterno, o il vibrare della porta sotto i colpi della folla ivi riunita.
    «quanti sono?»
    «cinque, credo»
    «sei» corresse distratto, piegando il capo verso destra. Si portò poi un dito alle labbra, intimando ad entrambi di tacere mentre la canzone iniziava il suo beat.
    Everybody, yeaaah.
    Chiuse gli occhi, inspirando profondamente prima di alzarsi in piedi.
    «lo sai che odio fare a botte» lo sapeva, ed era uno spreco – nonché una macchia sul suo curriculum: dio santo, perché non poteva essere un po’ più C e meno B? Era il suo fottuto gemello. Un cancro che si propagava di famiglia in famiglia; probabilmente era per quello che Ronan e CJ si trovavano così bene insieme.
    Dovevano compensare, per quel che il convento aveva passato loro con il sangue.
    Dal suo quasi metro e novanta, l’Hamilton sovrastava sia il fratello che la sorella -la sorella, anche di troppo; puntò gli occhi verdi sull’altro Tassorosso, avvicinandosi a lui abbastanza da invadere i suoi spazi personali. Quando si ritrovò ad un soffio da BJ, si abbassò appena per sussurrargli all’orecchio: «allora puoi anche levarti dal cazzo» con un sorriso sghembo e crudele di colpe che sapeva di meritarsi. «perché ti sforzi così tanto a voler morire?» osservò la mano del fratello stretta al suo polso, e lentamente, sillabando ogni parola, rispose. «perché ti sforzi così tanto a voler sopravvivere?» Punti di vista, scuole di pensiero; fogliame smeraldo a cercare una risposta sincera nella calda quercia.
    Rock your body, yeaaah.
    Con una scrollata si liberò della presa di BJ, un ghigno lasciavo verso Adelaide Milkobitch. «ti odio, cj» ma non era vero, e lo sapevano entrambi.
    BJ diceva di odiare la violenza, e Ade di odiare CJ; la verità? Probabilmente era vero, ma c’era qualcosa che odiavano di più, capace di annodare i fili che il resto del tempo andavano sfilacciandosi.
    Qualcosa che non erano disposti a perdere.
    Qualcuno.
    Si strinse nelle spalle, le sopracciglia arcuate e le dita a premere sulla bocca di Ade; alzò l’indice della mano sinistra, segnando il ritmo della canzone in sottofondo – ad un volume così alto da fargli vibrare anche la cassa toracica.
    Everybody, yeah, Rock your body right.
    Spalancò l’uscio poggiando la spalla contro lo stipite. Un vago cenno del capo in direzione dei sei londinesi fuori dal loro Garage, lo sguardo serio ed impettito a cozzare con la piega perversa delle labbra. «non abbiamo zucchero» fece l’occhiolino al kapo della gang, la testa poggiata sulla cornice del portone. «dove cazzo è jordy?» Li osservò qualche istante, valutando minuziosamente la situazione. Non vedeva alcun rigonfiamento, il che significava che non portavano armi da fuoco – fantastico – ma non avrebbe potuto notare eventuali coltelli finchè non li avesse avuti premuti sulla pelle.
    Tanto meglio.
    «hai guardato sotto il letto di tua madre?» così, per sapere. Si spostò facendo loro cenno di accomodarsi, ossequioso e formale nel mezzo inchino con cui diede loro il benvenuto nel Garage. Sapeva di avere gli occhi di Ade e BJ a pungolargli la nuca, ma non si sprecò a ricambiare lo sguardo. «cristo, quanto morirai male» non contestò.
    Era un dato di fatto, che CJ Hamilton sarebbe morto male: ma non quel giorno. La gang del bosco, sotto lo sguardo distratto di CJ e quello nervoso degli altri due, accerchiò il ragazzo a terra. Sentiva le domande di Ade pulsargli alla tempia, ma ancora optò per ignorarla: non aveva risposte adeguate alle circostanze, lui.
    A meno che essere uno stronzo con problemi di gestione della rabbia ed un tormentato quanto conflittuale rapporto con i guai, non valesse come scusa.
    Immaginava di no.
    Nessuno dei Jeys si mosse; i gemelli sapevano che la decisione ultima su come procedere sarebbe gravata sulle spalle della sorella maggiore, e silenziosamente attesero istruzioni dalla Corvonero di famiglia. Dalla linea serrata delle labbra, CJ dedusse –non senza rammarico- che avrebbe supportato il Tassorosso sbagliato.
    E l’avrebbe fatto, Adelaide Milkobitch. Era lì lì per farlo, permettere ai babbani di uscire con Jordy senza che venisse loro torto un capello.
    «tu, esci. Questi non sono affari per una donna»
    Bj sospirò, il capo chino ad osservare i propri piedi, e le spalle a cedere. CJ, lento ma inesorabile, tirò i fili della propria bocca nell’imitazione di un sorriso. Bingo. Adelaide, gli occhi blu ed i capelli corvini, reclinò il capo per poter guardare il ragazzo in faccia: era alta poco meno di un metro e cinquantacinque centimetri, il che la rendeva, apparentemente, l’avversario più abbordabile nella stanza.
    C’erano momenti in cui, Dio!, Crane JR amava i pregiudizi ed i cliché.
    Passarono un paio di secondi, prima ch’ella desse loro le spalle per avvicinarsi alla porta.
    «è l’ultima volta, CJ» il chiavistello scattò, chiudendo a chiave i babbani all’interno del Garage con la criminale compagnia dei tre fratelli Hamilton.
    CJ rise, una sigaretta ancora spenta a pendere dalle labbra sottili. «sicuro» ma lo sapevano tutti, che era una cazzata.
    Non era mai un’ultima volta, con gli Hamilton.
    Backstreet's back, alright!

    «la mia chitarra» CJ si terse il sangue dal labbro inferiore, un sibilo sofferente al respiro troppo profondo appena azzardato. Aveva incassato qualche colpo senza neanche provare a difendersi, ritenendo del tutto lecita l’offensiva nei suoi confronti – era stato lui a cominciare, era giusto che pagasse il suo debito. Non aveva alcun osso rotto, sperava, ma si sentiva comunque di merda, quasi che un treno gli fosse passato sopra.
    Eppure sorrideva, felice, di quelle nocche contuse e già violacee. Pericoloso ed un po’ insano, ma sempre pronto: perché non voleva morire, CJ. Voleva solo vivere un po’ più degli altri, a quel livello impossibile da sfiorare nella quieta sopravvivenza. «te la ricompro» esordì in un sibilo, osservando la chitarra spezzata a metà fra le mani disperate del fratello. «non è vero,» CJ sorrise. «ma grazie comunque» BJ ricambiò il sorriso, in uno di quei rari momenti di perfetta comprensione che, talvolta, perfino loro erano in grado di condividere. Erano entrambi stropicciati, le labbra gonfie e chiazze rosse laddove sarebbe presto nato un livido, mentre Adelaide sembrava appena uscita da una rivista, solo i capelli scompigliati ad indicare la rissa cui aveva appena partecipato. Sbuffò lanciando una ciocca corvina sopra gli occhi, incrociando aggraziata le gambe per riprendere il proprio posto sul pavimento. «pulisci tu, cj» il Tassorosso storse il naso, un’occhiata greve ai babbani sul pavimento. «ma sono stato bravo» tentò in un tono lamentoso, tamponando lo zigomo dove la carne s’era lacerata. «sono tutti vivi!» Ade si strinse nelle spalle, una disinteressata occhiata da sopra la chitarra. «pulisci tu» Che palle, i Corvonero. Scosse il capo, un sospiro flebile a rotolare sulla lingua. Accese la sigaretta, spiegazzata e sghemba quanto lui, con un lesto movimento dello zippo, prendendo il telefono dalla tasca posteriore dei jeans al primo accenno di vibrazione. Lesse il nome sul display, e fu tentato di rificcare il cellulare da dove l’aveva reperito. Alzò gli occhi verdi al soffitto, una smorfia a curvare debolmente le labbra. Aprì la chiamata senza alcun saluto, l’orecchio premuto sull’apparecchio.
    «Oggi usciamo, ci vediamo da Palmer»
    Il sorriso si ampliò, imbrattato d’ironia e languida malizia. Che ragazzina viziata ed indisponente, Meara Beaumont. La principessa di sto cazzo.
    Più o meno, letteralmente. «come la signora desidera» il tono più basso di un’ottava a grondare sarcasmo, ed una divertita promessa dal sapore bieco di parole sussurrate nel buio di notti prive di stelle, di forma, di gusto.
    Osservò ancora il display del telefono a chiamata conclusa, le labbra a bruciare dove l’acredine del fumo andava a mescolarsi alla carne viva. «chi era?» ruotò lo sguardo, freddo e distante, sul fratello: ora piano con le confidenze, Brandon JR. «inizia con la C, e finisce con Azzi miei. Fatti due calcoli» impastò al tono di voce dolce, un secco schioccare di labbra verso il gemello, il naso arricciato sulla bocca sottile. «meara.» rispose Adelaide. Che… subdola meschina, quando fingeva di farsi i cazzi suoi, ed invece sentiva ogni fottuta cosa. Le lanciò un’occhiata in tralice di puro disappunto, alla quale ella ribatté con il più mielato e denso dei sorrisi. CJ fece spallucce, cancellando la conversazione con un vago cenno della mano. Non era certo la novità del giorno, che l’Hamilton frequentasse i Beaumont-Winston. Tamburellò sulla sigaretta per far cadere la cenere sulla giacca di uno dei babbani. «vediamo di fare i fratelli: non sputtanatemi subito con la crane» «mamma?» ma perché a lui il gemello ritardato? Inspirò e chiuse gli occhi, passando la lingua sulle labbra contuse. «ne conosci altre, brandon?» BJ si strinse nelle spalle. Adelaide rise, lo sguardo blu a saettare su qualcuno, in quella stanza, che loro non potevano vedere: zio Todd sapeva, cosa significava avere un Heidrun shipper in famiglia. «ma ne sarebbe così felice» Corrugò le sopracciglia, uno sguardo allusivo a quell’autistico del gemello. A volte, Cristiddio, pensava che per far entrare le cose nel cervello di BJ, avrebbe dovuto spingergliele a forza su dalle fottute narici.
    «appunto»

    Non che ci fosse qualcosa per cui essere felici, d’altronde. Fra CJ Hamilton e Meara Beaumont, non c’era nulla di concreto che potesse far fremere il cuore della madre.
    O che facesse fremere il proprio, immobile nell’abisso di alcool e droghe in cui l’aveva sedotto ed abbandonato. «Sono in cucina» E lui era già lì, la spalla poggiata allo stipite della porta, a studiarne silenzioso il profilo alla debole luce che filtrava fra le assi sconnesse della casa ch’era appartenuta ad Harrison Palmer. Aveva la bellezza minacciosa di sua madre, quella che premeva sull’istintivo pulsante dell’autoconservazione e spingeva l’adrenalina in circolo, facendo schizzare il sangue in gola: le spalle dritte, il ventre piatto, le curve appena accennate sotto i vestiti leggeri. I capelli erano chiari quanto quelli di Lynch, argento fuso all’oro nell’incorniciare un viso di pura perla, e le iridi verdazzurri parevano il frutto di un’artista che avesse mescolato le gradazioni dei genitori per creare una nuova tonalità. Aveva solo quindici anni, ma conteneva il frustrato e combattivo animo pungente di una donna, in quel contenitore da adolescente. Calcava per uscire dai bordi, scontrandosi con l’aspetto infantile e docile, il lato più maligno e sincero - quello naturale, e vero. Quello che faceva drizzare i peli sulle braccia, e lasciava sulla lingua l’amaro sapore dell’ozono di una burrasca in arrivo.
    Sapeva di pioggia, Meara Beaumont.
    Le sorrise, lento e sornione, sbattendo piano le lunghe ciglia scure. Sapeva di qualcosa di proibito ed irraggiungibile, così disinteressato da non esserlo affatto; sapeva di quell’attrazione che lo tentava di prenderla per le spalle e sbatterla al muro per sentire la sua pelle fra i denti, il suo profumo sulla lingua. Perché sapeva, CJ Hamilton, che lei lo voleva.
    Ma non poteva. Era la sorellina del suo miglior amico, e la famiglia, era off limits. Così, CJ giocava sul bilico del limite che s’erano imposti, provocando tacitamente la Serpeverde per il puro piacere personale di vederla fremere sotto il proprio sguardo. Ad ognuno, i suoi passatempi. «vedo che almeno uno dei due sta sopravvivendo al weekend» l’Hamilton adorava tornare a casa nei fine settimana. Ad Hogwarts era più complesso sfogare e limare i propri bisogni; una rissa come quella di quel pomeriggio, non sarebbe passata inosservata sotto lo sguardo di professori e preside. Londra, invece, era casa sua: ed a casa sua, CJ Hamilton faceva quel cazzo che voleva. Si strinse nelle spalle, socchiudendo le palpebre. «qualcuno qui sa come divertirsi, beaumont» commentò, facendo scivolare le parole sull’epidermide di lei come la più fuggevole delle carezze. Avanzò nella sua direzione, scoccandole un’occhiata ferina dai quasi quindici centimetri che li separavano. Si fermò di fronte a lei, la testa reclinata da un lato mentre un sorriso, il sorriso, storceva la sua bocca in una smorfia dall’amaro gusto di un bacio lasciato a metà. Si umettò le labbra e si chinò di poco verso Meara, un altro passo verso la bionda; erano così vicini, che poteva sentire il fiato di lei attraversare il tessuto sottile della sua maglia a lambire caldo la pelle del torace. «dovresti prendere esempio» bisbigliò, le labbra a sfiorarle l’orecchio in quell’accenno intramontabile di ghigno. Lasciò passare il tempo di un battito senza accennare a muoversi, il respiro ancora a spingere sul collo di lei, prima di allungare le braccia per arrivare al mobiletto alle spalle della Serpeverde. Lo aprì senza troppi complimenti, stringendo le dita attorno ad un posacenere, ed una bottiglia di vodka piena a metà.
    Era il loro posto da un pezzo, ormai. Scontata e necessaria, la presenza dell’alcool.
    «bisogno di qualcosa, principessa, o semplicemente ti mancavo troppo?» un sopracciglio inarcato, la sigaretta a pendere dalle labbra tese in un sorriso sghembo.
    CJ sapeva che la risposta era affermativa ad entrambe le domande, che le mancava, e che aveva bisogno di lui, ma voleva sentirglielo dire. E sapeva che non l’avrebbe fatto, allora voleva sentirla mentire.
    Voleva sentirla e basta, Meara Beaumont, CJ Hamilton.
    Perché funzionava così, fra loro. Funzionavano così, loro.
    Non facendolo affatto.
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    LE CREATURE -caps, ma ci stava

    «CJ»

    «ADE»

    «BJ»
     
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    Se quella era stata un’ idea di merda, non l’ aveva realizzato finché CJ non aveva oltrepassato la soglia di quella casa. Prima di chiamarlo, non ci aveva pensato più di tanto: in quel momento odiava l’ intero genere umano, l’ Hamilton un po’ di meno. Voglio dire, non poteva reggerlo già nei giorni normali, alla fine non faceva molta differenza; era più facile concentrarsi sull’ odio che le corrodeva le interiora ogni qual volta muoveva un passo di troppo, che sul fottuto bisogno di sentire i suoi denti sulla pelle, le labbra a lasciare una scia rovente sul collo. Era un bruto, CJ, l’ ennesima testa di cazzo che non riusciva a fare a meno di distruggere tutto ciò che si trovava sulla sua strada, una forza inarrestabile da cui Meara era attratta come una falena dalla fiamma. Voleva farsi male, non le importava delle conseguenze.
    Lo osservò sbattendo lentamente le ciglia, un tentativo di ostentare calma, quando invece ogni centimetro della sua pelle sembrava rovente sotto lo sguardo del ragazzo. Potrei dirvi che odiava avere i suoi occhi addosso, quando invece era tutto ciò che chiedeva. Se non gli era concesso toccare, che almeno si godesse lo spettacolo. Aprì la bocca per chiedergli se volesse una foto o un fottuto autografo, sentendosi morire le parole in bocca quando iniziò ad avanzare verso di lei «qualcuno qui sa come divertirsi, beaumont» lei sapeva divertirsi, solo che non avevano gli stessi passatempi: il Crane suonava il bongo con la testa della gente, lei preferiva spendere i soldi del padre. CJ non si arrestò dove la bionda avrebbe voluto: abbastanza lontano da permetterle di respirare e così vicino da farla imprecare sotto i denti. Violò il suo spazio personale come se neanche fosse stato lì, ignorando lo sguardo guardingo che gli intimava di fermarsi, l’ ennesimo passo indietro che muoveva. Il gioco del gatto e del topo, dove Meara ricopriva un ruolo che non le apparteneva: di solito non era la preda, ma con l’ Hamilton sembrava andare tutto a puttane, non importava che certezze pensasse di avere.
    E lui avanzò ancora, affamato di qualcosa che non poteva avere. Si chinò verso di lei, il suo fiato caldo come una carezza sulla sua pelle «dovresti prendere esempio» e forse lei l’avrebbe potuto prendere a schiaffi finché non avesse imparato il concetto di spazio vitale «potresti farmi vedere come si fa, lo sai che imparo in fretta» fece aderire i loro petti, andando a stuzzicare ulteriormente l’ autocontrollo di entrambi. Sperava indietreggiasse, anche se sapeva non l’ avrebbe fatto: il tassorosso non si tirava mai indietro. Alzò lo sguardo fino a incrociare i suoi occhi, sopracciglia inarcate in attesa che cogliesse quella muta sfida –quella volta non c’era nessuno a guardarli, voleva sentire fino a dove avrebbe avuto le palle di spingersi, lei non l’ avrebbe fermato. E invece CJ aprì la cazzo di anta dietro di lei, ignorando le parole della bionda per prendere la bottiglia di vodka che Ronan aveva portato l’ultima volta. E così voleva che fosse la prima a cedere, a mostrarsi disperata come lui pensava che fosse? Lo era, peccato che gliel’avrebbe data vinta solo quando l’ Inferno sarebbe ghiacciato. Meara l’ aveva sempre vista come una sfida, quel gioco del topo e del gatto a cui continuavano a giocare senza sapere che nessuno ne sarebbe mai uscito vincitore: avevano già perso in partenza. «Bisogno di qualcosa, principessa, o semplicemente ti mancavo troppo?» un sorriso divertito andò a curvare le labbra della bionda, mentre alzava gli occhi al cielo «è difficile sentire la tua mancanza quando la tua ragazza parla sempre di te» e con ragazza, intendeva Ronan. Non erano chiamati The ambiguously gay duo a caso, dopotutto. La bionda non aveva ancora capito le dinamiche di quell’ amicizia, né pensava l’ avrebbe mai fatto – Gesù, non era neanche sicura di voler sapere cosa facessero quand’ erano da soli. «E sei l’ unico che non aveva un cazzo da fare» mantenne il suo sguardo, lasciò che la menzogna scivolasse dalle sue labbra com’era solita fare, sfidandolo a contraddirla. L’ Hamilton non aveva bisogno di usare la telepatia per sapere cosa passasse per la sua mente, non l’ aveva mai dovuto fare. «Prendi la bottiglia e ti togli di dosso o rimaniamo così tutto il giorno?» era un ossimoro vivente, Meara Beaumont, divisa costantemente tra quello che doveva fare e ciò che avrebbe voluto, senza mai riuscire a mantenere un briciolo di coerenza. Se fosse stata un po’ più come Ronan, se ne sarebbe sbattuta il cazzo delle conseguenze; se fosse stata un po’ più come Lynch, sarebbe andata dritta al punto, evitando di prendere tutti per il culo. Peccato che fosse Meara, un bel faccino dietro a cui si celava la più totale anarchia.
    Fece un passo indietro cercando di passare letteralmente sotto il braccio del ragazzo, forse l’ avrebbe lasciata scappare dalle sue grinfie, forse l'avrebbe fermata prima. Ma come si sfuggiva a Satana in persona? Sospettava non lo si facesse. Aspettò che avesse la vodka in mano per sfilargliela, sapeva che l' aveva presa per lei, non perché volesse bersela. E poi non aveva una sigaretta da finire? «Grz CJ, trpp gentile» gli lanciò un bacio a mezz'aria -l' unico che avrebbe avuto- svitando poi il tappo della bottiglia e prendendone un abbondante sorso (due? Tre? Lei puntava al coma etilico), dopotutto l' alcool era la migliore soluzione che i Barrow avevano, suo padre glielo ripeteva sempre. «Hm, te lo sapevi che a Roan piacciono anche gli uomini?» chiese al ragazzo mentre si sedeva sul tavolo in mezzo alla stanza, socchiudendo gli occhi per pesarne la reazione. Voleva vedere se era l' unica che non l' aveva ancora capito, o se Ronan che limonava ragazzi era una cosa frequente. Probabilmente non avrebbe dovuto andare in giro ad outare lingua italiana, facci un piacere e aggiornati suo fratello, non erano cazzi suoi e non ne aveva neanche parlato con lui. Non che ci fosse qualcosa fa discutere in sé, non gliene poteva fregare di meno con chi se la facesse il Barrow e poi per lei l' amore era libero (?), era solo un po' ciatella dentro. Prese un' altro sorso di vodka, il bruciore del liquido a infiammare la gola e a scaldare il mortorio che aveva dentro, uno che neanche il più potente degli alcolici avrebbe potuto svegliare.
    I’ve been dead for seven years, that’s as warm as they get.
    Tese la bottiglia verso il ragazzo, un tacito invito a prenderla e a lasciarle la sigaretta che teneva tra le labbra -non avevano davvero bisogno di comunicare, CJ sapeva cosa la serpeverde volesse. «Gesù, non mi dire che state insieme. Lo so che vi chiamano The ambiguously gay duo, ma mi sentirei davvero tradita» una finta smorfia si andò a dipingere sulle sue labbra, per ghiacciarsi sulle stesse quando processò quello che aveva appena detto. Perché avrebbe dovuto sentirsi tradita? Le era semplicemente scivolato dalle labbra, non sapeva neanche lei cosa volesse dire. Solo le ennesime parole a cui nessuno badava più di tanto, anche CJ avrebbe sorvolato.
    Intanto, un prurito insistente continuava a supplicare sollievo sulla clavicola (sinistra) della ragazza, ogni volta che Meara provava a grattarsi una nuova bestemmia partiva dalle sue labbra, sopra di lei il cielo e la Madonna. Stava vedendo le stelle. Strinse la lingua fra i denti, evitando accuratamente lo sguardo dell' Hamilton, poteva già sentire il sapore metallico del sangue in bocca e la voglia di morire tornare, ma si impose di rimanere immobile. Non voleva davvero sapere cosa ci fosse di sbagliato con la sua spalla, poteva aspettare finché non fosse arrivata a casa.
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    Edited by cocaine/doll - 22/9/2018, 12:47
     
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    Tutto il nostro male viene dal non poter stare soli. CJ non era un grande ammiratore delle teorie fatalistiche o morali, o di quegli estratti d’opere che i cinesi infilavano nei loro biscotti della fortuna. Non credeva, l’Hamilton, nelle vacue parole d’altri che s’imponevano di descrivere anche la sua vita: con quale arroganza presupponevano di poter parlare per lui? Di poter, in poche righe, racchiudere rappresentazioni dell’esistenza umana stessa, leggi indelebili ed inalienabili per tutti?
    Non ci credeva, CJ Hamilton. Non poteva: creature come il Tassorosso, nate nel bianco per essere chiazze di nero inchiostro, non potevano accettare che qualcun altro la pensasse come loro, o che la lingua di un perfetto sconosciuto potesse formulare una propria certezza – quella più rinnegata, quella che sulle labbra dipingeva malizioso e dolente sarcasmo. Il peccato originario della sua stessa famiglia, una condanna che malediceva generazione dopo generazione; la debolezza che andava artigliandosi nella carne aprendo squarci più profondi ogni qual volta venisse ripudiata, strappandoli all’ombra per mostrarli nudi e vulnerabili alla luce del sole. Quello a cui si aggrappavano con disperazione, il biasimo su cui far cadere le proprie colpe: il perfetto capro espiatorio per giustificare il bisogno, dannatamente umano, di avere qualcuno al proprio fianco.
    Tutto, pur di non ammettere il primordiale timore di rimanere da soli. Tutto pur di dar la colpa delle proprie miserabili scelte ad altri, al loro vivere che non era mai quieto quanto il proprio: era più facile, se il male nasceva dall’esterno e non da sé stessi. Era sotto controllo; dava la sensazione di potersene liberare in qualunque momento, ed al tempo stesso lasciavano il margine d’errore ch’era il tutto personale non esserne in grado. Non ci riusciva proprio, gente come CJ, a rimanere sola – non avrebbe saputo chi essere, contro chi riversare la propria rabbia. Per quello, malgrado avesse cercato per anni di allontanarsene, era silenziosamente grato che la sua famiglia non si fosse mai arresa, con lui. O i suoi amici. Non era certo facile andare d’accordo con un Hamilton, e CJ in particolare pareva incarnare tutti i risvolti negativi di quel sangue a scorrergli nelle vene: era brutale, ed offensivo, ed odiarlo era dannatamente più facile che non amarlo. Affascinare era sempre stata una costante, nella vita del telepata. Quel mondo ti cresceva per amare ciò che distruggeva più di quanto non t’insegnasse ad apprezzare ciò che t’aiutava, rendendo vetri affilati come CJ Hamilton una delle mete più ambite. La ferocia folle che guizzava nelle iridi giada, attraeva proprio per il suo essere un oggetto rotto in partenza, a cui bastava avvicinarsi per sentirne i bordi scheggiare una pelle altrimenti perfetta: avevano bisogno di CJ, per sentirsi vivi. Non si trattava d’altro che di un mezzo, un’arma stretta in partenza dalla parte della lama. Era eccitante vedere i lividi screziare l’avorio delle sue mani, e sentire che quelle dita avrebbero facilmente potuto spezzare un osso, ma non l’avrebbero fatto. Era la decantata ed antica passione per il pericolo, la drammatica scarica d’adrenalina nel sentirsi eccezioni in un mondo fatto di sangue e frammenti di tibia. Non si amava, gente come CJ Hamilton. La si usava finché non dissanguava.
    E CJ lo sapeva, ma non poteva fare a meno di sviluppare una contorta dipendenza dai propri dipendenti – la loro attenzione, il loro famelico voler soffrire. Tutto il nostro male viene dal non poter stare soli.
    Meara Barrow Beaumont non faceva certo eccezione. Come ogni Principessa che si rispettasse, non puntava al Principe: non voleva la corona, Meara. Voleva qualcuno che, spingendola contro al muro, le ricordasse con la propria bocca che del trono, non se ne fregava un cazzo nessuno – qualcuno che senza pensarci, si sarebbe accontentato della bianca carne lattea di lei perché Meara, non perché portasse un gingillo dorato fra i capelli color del grano.
    State pur certi che CJ non aveva alcun bisogno di un castello, nella sua vita mortale: s’era già costruito un regno negli inferi, pietra dopo fottuta pietra. Capite? Non avevano nulla da guadagnare, quelli come lui. Per quello piacevano tanto: non esigevano, e davano tutto - In senso poco plateale, ovviamente, e molto più concreto. Signore, se Meara voleva quel tutto. Non aveva bisogno di usare il proprio potere per percepire il desiderio di lei, elettrico e bollente, nel poco spazio che li divideva – nulla di nuovo, per CJ. Un ragazzo debole alle tentazioni, l’Hamilton, incapace ed inabile a resistergli: così si faceva stuzzicare dall’idea di mettere realmente in pratica ciò che vedeva nella mente di lei – i denti a saggiare la carne, la mano di lui a scivolare sotto la gonna -, la pigra distrazione di un momento che tendeva a prolungarsi anche quando lei non era più presente.
    Gli aveva insinuato il seme del dubbio, ed oramai anche CJ Hamilton voleva sapere cosa si provasse, a sentirla fremere sotto le proprie dita. Pura curiosità.
    «Prendi la bottiglia e ti togli di dosso o rimaniamo così tutto il giorno?» Era una proposta?
    Indubbiamente. Il sorriso di CJ divenne una ferita a cielo aperto, sanguinante ed ancora in grado di far male. Socchiuse i quieti occhi verdi nella sua direzione, il capo reclinato verso il basso. «dipende.» rispose vago, lasciando che le ciglia chiare adombrassero lo sguardo di cristallo. Un dipende assai interpretabile, che avrebbe potuto suonare innocente sulla bocca di chiunque, ma che assumeva un denso sapore osceno sulla bocca di CJ. Un dipende che, rotolando sulla lingua dell’Hamilton e sgusciando fra le labbra dischiuse in un ghigno, sembrava aver già sussurrato tutte le cose sporche che avrebbe preferito fare con lei al calar del sole, quando tutto diventava buio e l’oscurità una seduzione possibile. Arricciò il naso con disappunto quando lei si spostò d’un passo all’indietro, lasciando il posto che prima aveva occupato inevitabilmente vuoto e freddo. Senza opporre resistenza, la sigaretta portata nuovamente fra i denti, le lasciò prendere la bottiglia che aveva stretto fra le mani sino a quel momento, osservandola con interesse ingurgitare più vodka di quanto una creatura così giovane avrebbe mai dovuto conoscere. Impressionato? Non più. Conosceva da troppo tempo la famiglia di Akelei e William, per porsi problemi morali del genere.
    Soprattutto, era il figlio di Heidrun Ryder Crane, ed il nipote di Aloysius Angus Crane. Si tendeva ad essere flessibili, su certi argomenti. «Hm, te lo sapevi che a Ronan piacciono anche gli uomini?» Inarcò entrambe le sopracciglia, la testa piegata di lato mentre anche lui si allontanava d’un passo, mettendo ancor più distanza fra sé e la giovane Beaumont. «per favore, principessa» grugnì a denti stretti, lanciandole un’occhiata di puro biasimo. Era una domanda davvero sciocca da fare a CJ Hamilton, che conosceva Ronan meglio di quanto non conoscesse sé stesso: erano CJ e Ronan, Ronan e CJ. Non c’era nulla che non sapesse, e di certo non poteva essergli sfuggita la passione del Barrow nel ficcare la propria lingua in bocca a qualunque essere vivente gli capitasse a tiro. «non essere ridicola.» la liquidò con un distratto cenno della mano, gli occhi alzati al cielo. Ovvio che lui lo sapesse, così com’era ovvio che lei non ne fosse a conoscenza: non era certo un segreto che Ronan amasse più CJ che non la sua sorellina. Era semplice questione di chimica quantistica. «Gesù, non mi dire che state insieme. Lo so che vi chiamano The ambiguously gay duo, ma mi sentirei davvero tradita» Ma davvero? Il sorriso dell’Hamilton si fece, se possibile, ancor più pronunciato, gli occhi ridotti ad una pensosa fessura. Tradita! In quel momento, se Meara avesse potuto leggere nella mente di CJ, avrebbe potuto vedervi quanto inappropriato fosse quel termine – o quell’idea in generale.
    E quanti inappropriati, in risposta, fossero i pensieri del Tassorosso.
    Non sapeva proprio resistere, CJ, alle sfide perse in partenza.
    Si umettò appena le labbra, lasciando che un denso silenzio li ombreggiasse. Quando allungò la mano per prendere la bottiglia di vodka dalle dita della Serpeverde, indugiò in quella posizione un poco più a lungo del necessario, la testa piegata sulla spalla a riflettere su tutto ciò che non avrebbe, davvero, dovuto fare. Ossia, quello che faceva meglio. Anziché rispondere alla sua domanda, bevve un sorso dell’alcolico con la cupidigia di un assetato nel deserto, il familiare bruciore della vodka a infiammargli la lingua e i pensieri. Non che avesse bisogno, uno come CJ, di coraggio liquido - ma almeno, aveva una scusa valida per poter fare il cazzone. Prese la sigaretta dalle proprie labbra fra indice e pollice, poggiò la bottiglia per terra, e si avvicinò alla bionda. Creatura rara, l’Hamilton, quanto pericolosa: nessuno avrebbe dovuto lasciarlo uscire incustodito. Le infilò la sigaretta in bocca, aiutandosi con le dita a creare uno spiraglio fra le labbra di lei dove infilare il filtro. «mi hai chiesto di farti da insegnante in un’arte nella quale eccello, ossia divertirmi, ed io prendo molto sul serio questo genere di responsabilità.» non sorrise, CJ, ma lasciò che quel barlume di divertita malizia brillasse nelle iridi chiare, ultima ancora di salvataggio perché la Beaumont potesse tirarsi indietro.
    Poteva ancora farlo. Potevano ancora farlo.
    Innocentemente, si rotolò nell’ingenua convinzione che non ci fosse nulla di sbagliato, nella lezione che intendeva impartire alla sorella di Ronan, anzi: avrebbe dovuto essergli grato, il fratello di lei, proprio perché si trattava di lui e non di qualcun altro – una persona davvero molto, molto affidabile. Meglio CJ Hamilton di qualunque altro ragazzo, in quel genere d’apprendimento.
    O no.
    Che buon Samaritano.
    Senza interrompere il contatto visivo, si lasciò cadere in ginocchio di fronte a lei, il tonfo sordo delle ossa contro il pavimento a curvargli le labbra nel più bieco dei sorrisi. Chi credeva che non ci fosse dignità nel mettersi in ginocchio di fronte ad una signora, aveva indubbiamente i passatempi sbagliati. «è piuttosto semplice, a dire il vero.» abbassò la testa cercando con gli occhi i piedi di lei, la fronte a sfiorare distratta ma intenzionale il tessuto leggero che le copriva lo stomaco. Le mani, le stesse dita che poche ore prima avevano spaccato la carne dei babbani, si strinsero attorno alle caviglie di lei con delicata fermezza. «devi puntare a qualcosa di…» fece scivolare i polpastrelli sulle gambe nude di Meara, tracciando linee invisibili dalla caviglia a metà del polpaccio. «discretamente innocente» sorrise a sé stesso, sorrise di sé stesso, avvicinando quello stesso ghigno alle gambe di lei, dove seguì il tratto delle dita con soffi caldi d’aria espirata, le labbra talvolta a sfiorarla senza soffermarsi. «ne studi i…» ed allora portò direttamente la bocca sul retro del ginocchio, dove morse gentilmente la cavità. «limiti sussurrò, facendo guizzare brevemente la lingua sulla pelle calda di lei. Le mani proseguirono verso l’alto, scivolando inebrianti ma leggere - di quella violenza controllata che voleva imprimersi nella carne- fin sopra il ginocchio, saggiando delicate la morbidezza delle cosce. Il respiro di CJ rimase perfettamente quieto e controllato, al contrario del battito prepotente dietro le costole, la peculiare estasi del proibito a rendere tutto più eccitante e squilibrato. Chiuse gli occhi, il palato improvvisamente asciutto. «ponderi quale sia il modo migliore per …» il tono roco e denso, il sottile auto controllo di CJ a rendere il tutto più divertente: non era fatto per le partite leggere, CJ Hamilton. «superarlo.» le dita ad arrampicarsi poco oltre l’orlo della gonna, i polpastrelli a stringersi maggiormente sulla tenere carne delle cosce fino a sfiorare, solamente con la punta delle falangi, l’elastico dell’intimo. Accompagnò il movimento rialzandosi in piedi, così da avere la testa all’altezza del seno di lei, gli occhi a ruotare verso l’alto fino a che non incontrarono i pozzi zaffiro dei suoi. Le sorrise sghembo, un sopracciglio arcuato. «e poi te lo prendi.» e con quella saggia quanto pragmatica conclusione, tolse le mani dalla loro posizione avvantaggiata e si rialzò in piedi, stringendosi nelle spalle.
    Aveva talento, CJ Hamilton. Si riprese la sigaretta, inspirando finchè il filtro non gli ustionò le labbra. Con le sopracciglia corrugate, il fumo a scivolare pigro dalla bocca dischiusa, indicò la spalla di lei. «cos’hai, ti ha punto qualcosa?» domandò, il tono leggero e disinteressato che pareva non aver memoria di quanto appena accaduto.
    Oh, ma lo ricordava perfettamente, CJ. E con quella sopita consapevolezza, la osservò nuovamente, lasciando che l’empio sorriso s’ampliasse.
    Malsano e malfunzionante, l’Hamilton.
    E lo faceva così bene, da rendere l’errore nel sistema un fottuto capolavoro.
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    Edited by #epicWin - 20/6/2017, 04:04
     
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    Il problema con Meara Beaumont-Barrow era che quando voleva una cosa, di solito la otteneva. Una bambolina viziata da due genitori che tendevano a dare troppo, non conosceva il significato della parola “no”, e non l’aveva fatto fino a che non aveva incrociato lo sguardo di CJ Hamilton anni prima. Mentirei, se dicessi che non l’aveva odiato sin dal primo momento. Non riusciva a capire come fosse possibile detestarlo così tanto, eppure non riuscire a stargli lontano. Cos’era, una fottuta calamita?
    «dipende» Meara inclinò il viso, gli occhi a studiare il viso dell’Hamilton tentando di comprendere i meccanismi complessi dei suoi pensieri, anche se a quel punto le era chiaro che non ci sarebbe mai riuscita. Gliel’avevano mai detto che aveva una faccia da schiaffi? Si chiedeva come avesse vissuto diciassette anni senza mai beccarsi un pugno - ah no, skerzava, le prendeva (e dava) dalla mattina alla sera. Forse era proprio per quello, perché aveva una faccia da schiaffi. «per favore, principessa» quante volte gliel’aveva detto, che avrebbe fatto meglio a non chiamarla in quel modo? Troppe, abbastanza per continuare a far affiorare quel nome in ogni conversazione, era incredibile di come ogni parola sembrava essere distorta, una volta scappata dalle labbra dell’Hamilton «non essere ridicola» lei, ridicola. Si scaldava facilmente, Meara, e quel giorno non era nel mood per essere presa per il culo dalla vita, né da CJ – aveva sempre invidiato il legame che c’era tra Ronan e il Crane, l’essere l’uno l’estensione dell’altro, il capirsi meglio di se stessi e chiunque altro. Cristo, CJ lo conosceva più di quanto avrebbe sperato di fare lei, non importava quanto la Barrow fosse vicina al fratello, non avrebbe mai potuto competere. Prima di quel pomeriggio non l’aveva disturbata più del solito, ora, tuttavia, l’invidia aveva tornato a scorrere densa, marcia nel sangue, il volto dell’Hamilton di fronte a lei uno spiacevole ricordo.
    A meno che non decidesse il contrario.
    Lasciò scivolare dalle dita la bottiglia di vodka prodotta nelle peggiori prigioni slave, sentendone già la mancanza fisica, come avrebbe impegnato le mani senza di lei, come avrebbe fatto a tenerle a bada? Aveva un labile autocontrollo, Meara Beaumont, e veniva sfidato con ogni secondo in cui passava in quella stanza; aveva bisogno di avere il controllo, di poter essere sempre un passo avanti, la vita della bionda era una continua partita a scacchi, dove una pedina mossa nel modo sbagliato avrebbe potuto significare fallire. E quando si trattava di CJ, non aveva nessuna garanzia, l'incognita di cosa sarebbe potuto essere l'unica ragione per cui si prendeva la briga di stare dietro ai capricci dell'Hamilton.
    Accolse la sigaretta tra le labbra, mantenendo lo sguardo cristallino su quello del ragazzo mentre egli cadeva sulle proprie ginocchia «mi hai chiesto di farti da insegnante in un’arte nella quale eccello, ossia divertirmi, ed io prendo molto sul serio questo genere di responsabilità» sì, gliel'aveva chiesto, ma non si era aspettata la prendesse sul serio, non l'aveva mai fatto. Un biondo sopracciglio si sollevò, uno sbuffo di fumo soffiato dritto sul volto del Crane «stupiscimi, Hamilton» non importava quale fosse la sfida lanciata, Meara non si tirava mai indietro, anche se questa fosse stata una pessima idea: viveva per sbagliare, per sentire l’adrenalina infiammare ogni cellula del suo corpo «è piuttosto semplice, a dire il vero, devi puntare a qualcosa di…discretamente innocente» le percepì sulla pelle ancora prima di vederle muoversi sulla caviglia, dita affusolate a saggiare la pelle, a salire più di quanto sarebbe stato normalmente permesso loro. Poteva sentire il pulsare furioso del proprio cuore sulla punta delle dita, rimbombare fino alle tempie, quasi non se ne accorse quando le labbra del ragazzo sfiorarono delicate il polpaccio, quasi non si accorse di aver trattenuto il respiro per un attimo. Inclinò la testa, portando la sigaretta e le mani sul tavolo, da quella posizione aveva decisamente una vista migliore – mentirei, se dicessi che alla Beaumont non piaceva portare le persone ai propri piedi. Non aveva idea di dove volesse arrivare il tassorosso, al suo contrario, lei non era in grado in entrare nei pensieri degli altri – sapeva solo che se quelle dita avrebbero continuato a salire, non si sarebbe preoccupata di fermalo. Un morso sostituì le labbra bollenti del Crane, l’ennesimo respiro tremolante lasciato scappare da Meara, se quel giorno non fosse stata seccata con il fratello, avrebbe probabilmente sentito i suoi occhi giudicarla – ma non era quello il caso, e Ronan poteva andare a farsi fottere. «e poi te lo prendi» non poté fare a meno di rimanere contrariata, quando CJ si fermò all'improvviso, le dita così vicino all'elastico del suo intimo da portarle alla mente cosa sarebbe potuto succedere se solo si fossero portate oltre, prendendosi quello che era disposta a dare. «non essere timido, nessuno ti avrebbe fermato» chiaramente doveva suonare come una frase sensata e sensuala, ma Elisa non dorme da troppo e non conosce più l'italiano. «quindi se volessi prendermi una cosa, che di innocente non ha un cazzo» sporse il busto in avanti, invadendo ulteriormente lo spazio dell'Hamilton, quello era il momento dove l'alunna decideva di mettere in atto ciò che le aveva mostrato il maestro. Alzò la mano facendola posare sulla guancia del ragazzo, pollice ad accarezzare il suo labbro in un movimento così lieve da non essere nemmeno lì – Meara si chiedeva come sarebbe stato saggiare quelle labbra, baciarle finché non fossero diventate gonfie a causa sua. Spostò la mano sul collo del ragazzo, chinando la testa così da sfiorare appena la pelle, labbra peccaminose a succhiare e la lingua a muoversi come aveva fatto quella di lui poco prima, imparava in fretta. «potrei semplicemente prendermela così» parole sussurrate all'orecchio, dita che si erano infilate silenziose sotto la maglia di lui, dita che scivolavano bollenti sul suo addome, facendo quello che avevano bramato sin da quando Meara gli aveva messo gli occhi addosso.
    «cos’hai, ti ha punto qualcosa?» la bionda si limitò a scrollare le spalle, non lo sapeva neanche lei quello che aveva, sarebbe potuta essere la peste così come una puntura di insetto. Le mani abbandonarono momentaneamente la loro posizione per andare ai bottoni della camicetta della ragazza, sbottonando quello che bastava per far scivolare la spallina «non ne ho idea, a te cosa sembra?» e quella, signori e signore, non era ironia: Meara non aveva davvero idea di cosa fosse, o di cosa avesse fatto.

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    Era stato CJ a sancire l’inizio dei giochi, avrebbe dovuto aspettarsi che la situazione gli sarebbe, inevitabilmente, sfuggita di mano – e forse l’aveva fatto, ma non gliene importava abbastanza: anche perdere il controllo era una forma del mantenerlo, quando nascevi CJ Hamilton. «non essere timido, nessuno ti avrebbe fermato» il sorriso del telepata divenne oro liquido, i polpastrelli ancora a bruciare della pelle di Meara pulsando a ritmo del febbrile battito dietro lo sterno. Si era imposto di non superarli mai, quei limiti; s’era detto che Meara Beaumont Barrow, per quanto interessante, non fosse affar suo: che di ragazze come lei, ne era pieno il mondo.
    Ma chiunque fosse come lei, non era lei. Non aveva gli stessi sottili occhi cerulei, né il medesimo modo di sorridere capriccioso ed ostentato con il quale mostrava al mondo che non solo poteva averlo in uno schiocco di dita, ma già ce l’aveva - e CJ, nel sapere di non far parte di quel suo mondo, si sentiva un forestiero in terra straniera. Un privilegiato, nella consapevolezza che in quella realtà poteva entrarci quando voleva, quanto voleva, e non sarebbe comunque mai stato cosa sua - che gli Hamilton, ne avevano abbastanza solo per sé stessi. Un potere meschino e subdolo dal fresco sapore di fragole e panna, mentre lo sguardo di lei a pungergli la nuca gli ricordava che se avesse voluto, che se avesse potuto, avrebbe potuto fottersi la Regina e continuare a sbattersene il cazzo di quel Regno, perché lui lì c’era solo di passaggio. Di ostinato passaggio: i CJ erano la muffa di quei muri, dovevi abbatterli e ricostruirli dal nulla per sperare che se ne andassero – e non averne mai la certezza. La parte razionale dell’Hamilton, continuava a ripetergli che lei fosse la sorella del suo migliore amico; che fossero simili, ma troppo diversi; che i loro universi, l’uno con l’altro, non ci azzeccassero poi molto. Che lui era un soldato, e lei la strategia d’attacco. Che erano cresciuti insieme, che quei respiri densi e cremosi a dilatarsi nel piccolo spazio fra loro non avrebbero avuto ragione d’esistere: che CJ Hamilton, diciassette anni, non avrebbe dovuto domandarsi quanto morbida fosse la pelle del suo seno sotto le dita, o quanto ci avrebbe impiegato a strapparle il primo gemito senza neanche avvicinarsi all’orlo della gonna. La lingua premuta contro un palato asciutto, continuava ad interrogarsi su cosa si provasse a tracciarne i fianchi e lo stomaco; gli occhi socchiusi di CJ, lame di giada color oceano, ad immaginare l’arcuata schiena di lei fra le sue mani, i capelli d’oro a scivolargli sulla pelle lasciandovi impresso il dolce profumo di lei.
    Si era prescritto dei confini, CJ Hamilton.
    E Dio, non c’era nulla che preferisse al valicarli.
    Specialmente se, facendolo, avrebbe potuto udire il tono basso di lei graffiargli l’orecchio ripetendo il suo nome, incidendolo in quei brandelli di memoria che il tempo non portava mai via del tutto.
    «quindi se volessi prendermi una cosa, che di innocente non ha un cazzo» La osservò sporgersi verso di lui, il viso a forma di cuore diviso da un respiro dal proprio petto – e CJ valutò l’idea di non lasciarla concludere la frase, spingendola contro al muro per metterla a tacere con lingua e labbra. Ma non sarebbe stato un gioco, ed agli Hamilton le partite piacevano un po’ tutte. Seguì la mano di Meara sul proprio viso, trattenendosi a stento dall’allungare pigramente i denti per afferrarle un dito da succhiare all’interno della bocca; le sorrise sul pollice, le ciglia a battere lente ed intenzionali su cupi occhi turchesi. Quando il fiato di lei divenne umido sul collo, labbra e lingua a scivolare dense sulla parte più tenera della carne, reclinò appena il capo facilitandole il lavoro, un istintivo mezzo passo nella sua direzione. Uno svago perverso al limitare del controllo, una tentazione che s’era spinta troppo oltre perché potesse essere ignorata dall’uno o dall’altro – o perché uno dei due lo volesse. Smise di sorridere sentendo i muscoli flettersi istintivi sull’addome laddove le dita della Barrow andavano, innocentemente, aprendosi una strada verso il busto – a contrarsi guidandola, reagendo in maniera puramente fisica. Si morse il labbro inferiore, un impari in fretta soffocato dal ghigno con cui ricambiò l’intensa occhiata di lei. «potrei semplicemente prendermela così» brutale e priva di romanticismo, Meara. L’Hamilton non si sarebbe mai definito romantico, ma sicuro come il fottuto oro era dannatamente bravo con i preliminari, indipendentemente dalla situazione: amava tirare i lembi del tempo per osservare l’istante dilatarsi, assaporandolo con la punta della lingua prima di ingoiarlo intero. «potresti,» la provocò invece di rimando, arcuando un sottile sopracciglio biondo. «ma non sarebbe più divertente» sollevò maggiormente l’angolo destro della bocca, un’occhiata di sottecchi verso la bionda, trovando più semplice respirare senza annaspare privo delle dita di lei sul torace. «non ne ho idea, a te cosa sembra?» Guardò affascinato il tessuto sottile della camicetta lasciare posto ad un pallido lembo di pelle, e provò il viscerale bisogno di tracciare con la lingua il profilo della clavicola. «fammi dare un’occhiata» rispose, pragmatico e distratto, nell’avvicinarsi ancora a lei.
    E CJ Hamilton, delicato, non ricordava d’esserlo stato mai – un provocatore, un aizzatore, il seme del dubbio ad insinuarsi maligno senza essere notato, ma mai delicato. Senza alcun preavviso, si chinò abbastanza da poter stringere le natiche della Beaumont fra le mani, spingendola contro di sé nel sorreggerla in modo che gli occhi potessero essere alla stessa altezza. Le dita affondarono morbide nella carne di lei, il respiro di CJ a solleticarle le labbra mentre la sollevava a sedere sul tavolo, la lingua ruvida sull’interno della guancia nel sentir pulsare il basso ventre – che di quei giochi non se ne faceva un cazzo, e voleva solo sentire il tessuto sfregare fino a che di tessuto, non ce ne fosse stato più. Chiuse gli occhi un solo istante, inspirando lento dalle narici. Fece scivolare le mani sulle cosce di lei, portandole poi alle ginocchia per aprire un varco nel quale potesse trovar’egli il proprio posto; le dita, l’Hamilton, le lasciò vagare lì. «sembra…» un poco più roco ed un poco più basso, CJ. Aiutandosi con i denti, abbassò maggiormente la spallina della bionda – e probabilmente se ne sarebbe sbattuto, di quel prurito, ed avrebbe continuato ad abbassare, se.
    Se. Sopracciglia corrugate, CJ Knowles, quando l’inchiostro sulla pelle di lei andò infine a formare una linea concreta; quelle pennellate, lui, le avrebbe riconosciute ovunque. Un segno piccolo, quasi invisibile, ma che invisibile non avrebbe mai potuto esserlo.
    Non in quella vita, almeno.
    Si prese un secondo per osservare il tatuaggio di Meara, prima di ruotare gli occhi verdi a cercare quelli di lei. Dato l’arrossamento della pelle intorno, doveva trattarsi di un marchio recente. Non avrebbe potuto impedirsi di sorriderne neanche se l’avesse voluto, e solo Dio sapeva quanto poco in quel momento non volesse. «un tatuaggio» la malizia a mescolarsi al divertimento soffocando la voce in gola, le mani ancora strette sulle ginocchia di lei. «una lettera» specificò, cercando di rimanere impassibile, riflettendosi pigro negli occhi di lei.
    Era un piccolo bastardo, quel tatuaggio, ma doveva ancora bruciare come l’inferno CJ, a summary.
    Ovviamente, la questione non l’avrebbe fermato: Meara Beaumont Barrow aveva a che fare con Crane Junior Hamilton, avrebbe dovuto aspettarselo che il piacere della sua compagnia non arrivasse mai privo di prezzo – e che di quel liquido dolore, CJ, aveva fatto una nuova passione. «vuoi giocare a indovina quale?» ormai roco, e privo di alcuna intenzione di celarlo. Senza darle il tempo di rispondere, annullò ancora la distanza fra loro premendosi contro di lei, il capo reclinato perché la lingua potesse seguire i contorni del tatuaggio lasciandole un’umida scia calda sulla clavicola sinistra.

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    «non ne ho idea, a te cosa sembra?» fosse stata più furba, non avrebbe provocato CJ oltre a un limite che sapevano di non poter superare. Fosse stata più furba, neanche si sarebbe mai avvicinata a lui – lo sapeva, che non poteva finire bene con due come loro. Eppure insisteva, insisteva sempre un po’ di più perché era abituata a ottenere tutto ciò che voleva, e l’Hamilton rientrava nella sua lista. Era come una bambina capricciosa: quando adocchiava qualcosa, doveva averlo. «fammi dare un’occhiata» non ricordava di averlo mai avuto così vicino, ma sarebbe stata una menzogna dire di non aver mai immaginato le sue labbra a solleticarle la pelle, le mani a scivolare sotto l’orlo della gonna e oltre, fino a strapparle i primi mugolii di piacere. Sarebbe stato più facile se non si fosse trattato del Knowles cranemort, a summary, ma di qualsiasi altro ragazzo sconosciuto.
    Poggiò le braccia attorno al collo di CJ, i denti ad affondare nel labbro quando la sollevò in aria nel sentire le sue mani premute sul sedere - sarebbe stato così male ammettere che non le dispiacesse affatto quel contatto? «sembra…» abbassò brevemente lo sguardo, gli occhi limpidi a vagare per qualche momento sulle mani dell’Hamilton – Dio, se non avesse avuto ancora un briciolo di dignità l’avrebbe implorato di fotterla lì e subito, e a fanculo tutto il resto. Affondò i denti nella guancia, domandandosi cosa potessero fare quelle lunghe dita, se fosse così bravo come andava millantando con Ronan – non avrebbe voluto, ma i due amavano farla partecipe delle loro esperienze. Dovette stringere le dita sul legno del tavolo quando i denti di CJ si strinsero sulla spallina del reggiseno, il cuore a pulsare sempre più prepotente dietro la stoffa leggera «un tatuaggio» corrugò le sopracciglia, aveva per caso capito male? «un tatuaggio?» ripeté dopo qualche secondo, occhi a trovare quelli divertiti dell’Hamilton – la stava prendendo per il culo, vero? Decise di stare al gioco, tanto per vedere dove li avrebbe portati. In quel momento non le importava delle parole del ragazzo, voleva solo tornare a sentire le sue labbra bruciare sulla clavicola a lasciare il proprio marchio. «una lettera» piegò la testa di lato per poterlo osservare meglio, tentando di capire dove stesse andando a parare. Un tatuaggio, una lettera. «vuoi giocare a indovina quale?» curvò le labbra in un sorriso malizioso, CJ non aveva idea di quanto amasse i giochi, e di quanto fosse fottutamente brava a vincerli. Neanche fece in tempo a rispondere, che l’Hamilton si premette contro il suo corpo senza lasciarle possibilità di tirarsi indietro, o in caso contrario si sarebbe trovata distesa sul tavolo alla mercé del ragazzo. Se l’idea la stuzzicasse? Troppo, per lasciare che corrompesse i suoi pensieri – dopotutto, non era l’unica a poterli leggere. Inclinò il capo all’indietro, incapace di trattenere un gemito misto a dolore e piacere quando la lingua dell’Hamilton scivolò lungo la sua pelle «CJ» un sussurro scappato dalle labbra, troppo debole perché potesse udirlo. Fece scivolare la mano fino alla spalla di CJ, mentre con gli occhi andava a cercare l’attenzione del ragazzo «è CJ, no?» sollevò un sopracciglio biondo, le labbra a distendersi in un ghigno – gliel’aveva detto che vinceva sempre. Era stato così scontato ed egocentrico che se lo sarebbe dovuto aspettare, dopotutto. Tolse la mano dalla sua spalla, usandola invece per sventolarsi «non pensi che faccia caldo?» forse era per quello che le sue guance si erano fatte più rosee del solito, l’Hamilton ovviamente non c’entrava niente. Portando le dita alla camicetta, iniziò a sbottonare quello che era rimasto, lo sguardo divertito puntato su quello del ragazzo – gli avrebbe chiesto se quello che vedeva era di suo gradimento, ma a giudicare dal cavallo dei suoi pantaloni non ne aveva bisogno. Lasciò scivolare la stoffa dalle spalle e senza prestarci più di tanta importanza la accantonò vicino a lei, prendendo a tamburellare con le dita sulla sua gamba, mentre squadrava l’Hamilton «ora però non vale, sei troppo vestito» Meara, che di innocente non aveva neanche la punta dell’alluce, non si fece problemi a insinuare le piccole dita sotto la maglia del ragazzo, carezzando quella striscia di pelle per qualche secondo; ci volle tutto l’auto controllo che possedeva per impedirsi di invertire le loro posizioni e salire a cavalcioni su di lui, mostrandogli quando poteva essere brava con altro, oltre che con le mani. «alza le braccia» una frase muy caliente una volta sfilata la maglia, la buttò da qualche parte vicino alla sua - non aveva tempo, per curarsi anche di quelle cose. «possiamo fare un altro gioco, che ne dici?» il gioco che aveva in mente gli sarebbe piaciuto, ne era certa - peccato non poter fare strip poker, era uno dei suoi preferiti. Aspettò che CJ decidesse, prima di svelargli cos’aveva in mente «stavo pensando a obbligo o verità, ma non in versione tradizionale» chiaramente, o dove sarebbe stato il divertimento? Quello che aveva in mente lei era decisamente più stimolante «quindi, obbligo o verità?» dopo che l’Hamilton fece la sua scelta, Meara ci mise qualche secondo a pensare a un obbligo adeguato per lui, quando le bastò abbassare lo sguardo sulla propria camicetta per trovarne uno soddisfacente «ti sfido a slacciarmi il reggiseno e a togliermelo con una sola mano» un sorriso furbo andò a curvare le labbra, lo sapeva che non ne sarebbe stato in grado, per i ragazzi sembrava più fottuta fantascienza che altro.

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6 replies since 31/3/2017, 01:42   574 views
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