We all have our reasons

Elijah & Jade

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    tell me, would you kill to save a life?
    you are so brave and quiet i forget you are suffering
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    16 novembre 2016

    «Ah!» Piedi fasciati in un paio di anfibi neri consunti, fu con un calcio che Jaden Beech aprì la porta di casa sua; e , ovviamente aveva in realtà già girato le chiavi nella serratura socchiudendola perchè non voleva davvero sfasciarla, ma non per questo la sua entrata in scena nel piccolo salotto fu meno scenica. «Boom baby» Nessuno rispose.
    #headcanon: Jade non era solita entrare in una stanza in qualche modo particolare, cosa che solitamente lasciava ai suoi più stupidi amici ma #headcanon, aggiornato: vivendo con Euge e Run, certe cose diventato impellenti ed istintive.
    Buttò la lettera per Euge presa dalla cassetta delle lettere sul divano, avanzando poi nella ricerca del coinquilino, già molto offesa che si fosse perso la scena di lei super badass but also really cute. Indovinate chi sarebbe stato trattato male gratuitamente per questo?
    «Jackson? Jackson, sei in casa? Sei con qualcuno, posso entrare?» Si affacciò nella camera da letto, vuota. Girò l'angolo, dirigendosi al bagno. «Non ti giudicherò se hai di nuovo avuto un'erezione lavando T, anzi potrei anche cercare di non sfotterti a vita» Falso, non avrebbe mai smesso di ridere all'idea che lo stesso uomo con cui dormiva (letteralmente e non), una volta si era eccitato per un enorme mammifero di mille quintali viscido e provvisto di zanne e baffi («vibrisse!»), ma poteva illuderlo.
    Aprì la porta, aspettandosi il ragazzo e trovandosi davanti solo un tricheco dentro una vasca. Niente di strano, insomma.
    «La Beecha è tornata» c'era dell'astio nella voce mentale dell'animale, e Jade fece un piccolo sorriso ironico. Nel caso vi foste persi delle puntate, Jade grazie al controllo della luce poteva parlare con T-Jade, ma era raro le loro conversazioni fossero provviste di convenevoli.
    «La Beecha non se n'è mai andata davvero»
    Non è che le due non andassero d'accordo, anzi, ormai la bionda era così abituata alla presenza dell'omonima (omonimo?) che ne sentiva quasi la mancanza quando spariva senza motivo -spesso la sera, probabilmente un qualche scherzo della Eurun-, ma non per questo fra le due c'era vero e proprio feeling simile a quello del tricheco con Euge: patologico, morboso, e seriamente inquietante a parere della wizard («Guarda Jade, mi fa le carezze! Dice che mi vuole bene vero?» «Come diceva pilate dal profondo delle grotte, meglio il tuo culo vergine che cento fighe rotte» «ehm... in un certo senso»).
    C'era un patto muto fra le due di non belligeranza, dettato un po' dalla stima, un po' dal terrore: dove Jade pensava di essere magnanima e gentile a lasciar vivere il tricheco in casa REB per far felici Run e Jake, lo stesso pensava con sè protagonista T-Jade. Spoiler: nessuna delle due avrebbe mai scoperto chi lasciava vivere lì chi. Così come nessuna delle due avrebbe mai scoperto che l'altra era semplicemente gelosa delle attenzioni del Jackson alla diversa Jade.
    La bionda si appoggiò allo stipite della porta, le gambe accavallate, non più neanche l'ombra di un sorriso in faccia. «Sai dov'è Jackson?»
    «So dov'è tua mamma»

    «Non so neanche perchè stia parlando con te»
    Uscì roteando gli occhi e sbuffando, gridando poco dopo mentre si dirigeva in cucina e lasciava un sacchetto nel freezer: «TI HO PRESO DEI GAMBERETTI CON LA SALSA ROSA COME SOUVENIR». Perchè era una Beecha, ma era pur sempre la troietta di quello stupido tricheco.
    Mise il cellulare spento in carica e, sfinita, si buttò sul divano.
    "Jackson quando torni ti picchio", pensò offesa, rivedendo nella tua testa la loro ultima chiacchierata di due giorni prima, l'espressione preoccupata sul volto dell'uomo. Jade aveva fatto quello che poteva per trovare Run, aveva scoperto che se n'era andata, come pensavano, da casa REB volontariamente, che aveva avuto contatti con alcuni ribelli estremisti, ma era sparita completamente (probabilmente rapita, come diceva il Morsmordre) parecchio tempo prima della denuncia ai giornali riguardo al suo rapimento, e ora sembrava trovarsi in Galles. Quasi sei mesi di ricerca, ed era quanto di più simile ad un'informazione utile avesse mai avuto riguardo alla scomparsa di Run. E Eugene non era lì a condividerla con lei. "L'idiota sarà andato a bere o fare il coglione da qualche parte. Chissà se è con Lia, o con i suoi amici stupidi... se è con Elijah". Fermò il pensiero prima di perdersi all'idea di Elijah e sentire i soliti sensi di colpa, e afferrò il telecomando al suo fianco pronta a dilettarsi in un brillante zapping compulsivo... finchè non vide la lettera al suo fianco, e notò il mittente.
    Perchè il Morsmordre scriveva a Eugene?
    Forse lui l'avrebbe uccisa, ma Jade era stufa di non sapere le cose, troppo maniaca del controllo per certi segreti, troppo annoiata dall'assenza prolungata nella sua vita non di uno ma di due componenti della REB, e fregandosene del diritto della privacy (la privacy in casa REB era morta quando aveva visto Jake indossare il suo reggiseno preferito) aprì la busta come neanche Maria de Filippi, scorgendo rapida e curiosa le parole che c'erano scritte.
    Forse le ore successive sarebbero state più serene, se invece di farsi i fatti del ragazzo, non avesse semplicemente continuato a guardare un telefilm già visto.
    Forse sarebbe stato meglio se non l'avesse letta.

    “Volontari e volontarie di tutto il mondo magico
    I nemici hanno cercato di dividerci, di seminare il panico come briciole di pane in un parco. Credono che non reagiremo; credono di averci paralizzato, di averci tagliato le gambe.
    Non sanno, invero, di averci solo rafforzato.
    È il momento di combattere: è giunto finalmente l’atteso momento della resa dei conti, quello in cui potremo mettere mano alle armi per difendere ciò che è nostro: famiglia, amici, amanti.
    Mondo.
    Riprendiamoci ciò che ci appartiene di diritto, dimostriamo chi è preda e chi è predatore. Siete invitati a presenziare alle 21:30 all’ingresso di Brecon, o in alternativa alle 21:00 nei punti d’incontro precedentemente decisi - dei quali siete stati informati al momento dell’adesione alla missione.
    Per il bene superiore.
    -Cordelia Quinn, direttrice del Morsmordre”


    Si alzò di scatto, la lettera stretta in mano, mentre cercava un qualsiasi orologio (ma perchè in casa non ne avevano due che segnavano la stessa ora?) per guardare che ore fossero. Le nove, forse appena le nove e mezza? Magari poteva ancora... si fiondò al telefono in carica, accendendolo (sullo schermo l'avviso di mille chiamate senza risposte di Lienne) mentre rimetteva addosso la giacca tolta poco prima, tenendo stretto il cellulare fra guancia e spalla, le mani impegnate ad allacciarsi le scarpe.
    «Dai Jackson, non fare il coglione... non fare il coglione...»

    Con un grugnito esasperato agli squilli che suonavano a vuoto riafferrò il cellulare con la mano destra, notando solo in quel momento il messaggio in segreteria, che fece partire.
    "«Jade! Jade ho localizzato il cellulare di Run! Vado a prenderla con Euge ora lo chiamo tanto sicuramente risponderà a differenza tua… Prepara una torta e lo champagne per quando torniamo! Ti voglio bene passo e chiudo!»"

    «Ma merda!» Avrebbe buttato il cellulare a terra, se non se ne fosse poi pentita. Invece, con un grido di saluto a TJade, si fiondò alla porta, direzione ministero, alla ricerca di una passaporta per la cittadina, per la missione e per-

    Stocazzo. Già un'ora e poco più dopo, Jaden era di ritorno a casa, sconfitta.
    Ovviamente, al ministero le avevano detto di farsi furba, che non poteva aggiungersi ad una pericolosa missione in corso. Che non le avrebbero fatto raggiungere Brecon, ma che comunque i due membri della Pager squad che cercava probabilmente si erano presentati, e sarebbero tornati a casa entro la mattina successiva. "«A meno che-...»"
    A meno che non fossero tornati affatto, considerando che certo, i nemici erano babbani, ma ultimamente avevano parecchio preso in giro il ministero, pareva, lasciando ricordini di rapiti morti in giro. "«Se non si fanno sentire entro domani mattina, torni a chiedere informazioni»"
    Un'intera notte in ansia per loro.
    Un'intera notte passata a chiedersi se Eugene e Lienne e chissà chi altro sarebbero morti nel tentativo di salvare Run e altri innocenti.
    Nel frattempo, Run tenuta sotto tiro da un branco di pazzi. Jake in un bosco contro dei nemici che non conoscevano.
    E Jade da sola in salotto, inutile. Un'intera notte.
    Anzi, un'intera notte forse, perchè se non fossero tornati, sarebbe stata un'intera vita.
    Rannicchiandosi sul divano, le gambe strette contro il petto, Jade si coprì la bocca, cercando di soffocare un singhiozzo.
    Forse sarebbero morti. Quella notte perdeva Lienne, perdeva nuovamente Run, perdeva Eugene. Non aveva neanche voluto sapere gli altri iscritti alla missione, per paura di scoprire altri nomi conosciuti, e sapendo che comunque non avrebbe potuto fare niente per aiutarli perchè, senza magia, ci avrebbe messo quasi quattro ore a raggiungerli.
    Era andata avanti da giugno fino a quel momento solo sapendo che lui non l'avrebbe lasciata, che anche senza Run lui c'era, che soffriva come Jade, che avrebbero aspettato Run a casa insieme tenendo il letto caldo per la special muggle, per quando avrebbe fatto ritorno. Invece, quella notte, sarebbe stata forse la prima notte che avrebbe passato sola, da lì per sempre.
    «Vaffanculo, Eugene Jackson». Un borbottio zittito contro le ginocchia, il pensiero della loro chiacchierata due giorni prima a tormentarla.
    Aveva pensato fosse preoccupato che lei non sarebbe tornata, invece aveva sempre saputo che forse sarebbe stato lui a non tornare.
    Aveva pensato fosse un idiota adorabile, che quel ti amo significasse un non lasciarmi anche tu, non addio.
    Aveva pensato che Eugene non le avrebbe mai mentito, perchè lui non era così. Era sempre esattamente la testa di cazzo che pensavi di avere davanti, al contrario di Jade. E invece non le aveva detto che era andato ad una missione suicida per salvare la loro Run. «Vaffanculo vaffanculo»
    Non pensava sarebbe riuscita ad addormentarsi, e invece la stanchezza di due giorni passati a dormire per terra poco o niente vinse l'ansia e la paura; quando si svegliò a sorprenderla fu la semioscurità, quando era sicura di aver lasciato la luce accesa. E successivamente la sagoma scura sopra di lei.
    «AH!»
    Il primo pugno non fu al cento per cento intenzionale.
    Agì in fretta Jade, e prima che potesse riconoscere Eugene già glielo aveva tirato, cercando di allontanarlo da sè; mai sorprendere una abbastanza brava nel corpo a corpo da essere assistente a Hogwarts. Jade corse ad accendere la luce, sfuggendo alla sagoma e- «...Jackson?» Ammaccato, con l'odore addosso ancora di sangue, terra e di alcol. Una gamba fasciata male con la benda ormai sporca di rosso. Un graffio sulla guancia che non poteva avergli procurato lei.
    Jaden ebbe una stretta al cuore.
    «Cazzo, principessa» Eugene si portò allibito una mano al naso per controllare che non sanguinasse «Mi hai fatto male»
    Il secondo pugno fu decisamente intenzionale.
    Se lo meritava. Eugene si meritava di stare male, come lei quando aveva saputo quello che era successo e l'aveva visto così, come lei quando aveva pensato per ore che quella notte li aveva persi entrambi. Senza mai incrociare i suoi occhi, gli tirò contro il petto un pugno, due, cinque, dieci, con rabbia, gridandogli addosso, liberandosi con quegli insulti della frustrazione provata, l'ansia, il terrore che si era sentita addosso all'idea di perdere anche lui. «Ti odio!» Un altro colpo.
    «Ehi»
    «Sei un bugiardo! S-sei... sei un...»
    «Ehi. Ehi. Ehi» Eugene le prese il viso fra le mani, asciugandole la guancia col il pollice. Non se n'era neanche accorta delle lacrime che le scendevano sul volto, nè di avere la voce rotta da un pianto che aveva faticato non minuti, ma mesi a uscire, come se fosse stato sempre lì pronto a farsi vedere dalla scomparsa di Run, ma avesse aspettato fino a quel momento, a quell'apice, per farsi vedere. «Sei un coglione... sei... sei una testa di... io ti- ti odio... ti odi-»
    «Run è salva»
    Jade tirò su con il naso rapida, passandosi le mani sul viso, cercando, inutilmente, di darsi un tono, di non mostrarsi quella debole, la mente distratta dall'unico pensiero che avrebbe potuto trascinarla via dal suo sfogo su Eugene. Si inumidì le labbra. «S-sta bene?»
    «E' viva. Adesso è con il padre»
    Jaden annuì rapida. Capiva, in un certo senso. Accennò un sorriso, perchè era da Run non tornare a casa dopo essere sparita per mesi, ma farsi una vacanza; probabilmente era sull'Himalaya a sentirsi viva, o chissà dove, e il giorno dopo Jade si sarebbe svegliata e avrebbe trovato la notifica su instagram di una sua foto stupida.
    Non chiese di Lienne. Ovviamente, Eugene l'avrebbe informata, ora che erano in argomento, se alla sorella fosse successo qualcosa... invece, alzò lo sguardo su di lui, sulla barba lasciata crescere, sulle guance ruvide, sul naso dritto, le labbra dolci. E gli occhi. Aveva sempre pensato che gli occhi di Eugene fossero il contrario di imperscrutabili; che bastasse incrociare il suo sguardo per capire a cosa lui stesse pensando. Anche in quello, l'opposto di Jaden, che cercava in ogni gesto della sua vita di nascondere cosa davvero le passasse per la testa. Sempre ai poli opposti, la eubeech, apparentemente tenuti insieme solo da Run: lui espansivo e spontaneo, lei reticente e meditativa. Lei la bugiarda, quella che aveva raccontato solo menzogne, dove Eugene era il sincero, quello che viveva senza una maschera.
    Si era sempre fidata di quello che le dicevano gli occhi di Eugene, che fosse qualcosa di serio, come il «La riporteremo a casa», qualcosa, più frequente, di stupido. Qualcosa come «Ti amo».
    «F-fanculo», ringhiò, asciugandosi di nuovo le lacrime che continuavano imperterrite a rigarle il viso.
    Si dovette alzare sulle punte, ma ci era abituata. Prendergli il viso fra le mani, invitarlo ad abbassarlo perchè le sue labbra salate potessero arrivarci. «Vaffancculo, Jackson» Sulla guancia, sul mento, sul naso. Tanti piccoli baci intervallati da mugugni strozzati dal pianto che ancora non si era completamente arrestato, le mani agitate a riscoprire i tratti del giovane, le dita a cercare l'ormai familiare segno che Eugene aveva sul collo, nascosto dal tatuaggio, finendo poi per per incastrarle fra i corti capelli di lui, sulla nuca per attirarlo di più a sè, per sentirlo vicino con necessità improrogabile, mentre il bacio, disperato, raggiungeva la bocca. Immediatamente ricambiando il bacio, le mani del Jackson si posarono sul corpo piccolo di lei e lo tirarono a sè, mentre lui indietreggiava sul divano cercando di stendervici senza interrompere niente... ma Jade si fermò comunque al gemito di dolore del pavor, ricordando solo in quel momento (dopo quanto? secondi, minuti?) che era ferito.
    La bionda si staccò leggermente, gli occhi in quelli del ragazzo, ritrovandosi, sebbene non si fosse accorta di essersi mossa, in braccio a lui sul divano, le gambe intorno ai suoi fianchi. Spezzando il silenzio, con un piccolo sorriso timido disse l'unica cosa che avrebbe potuto dire in una situazione del genere: «Se dici a qualcuno che ho pianto, ti taglio le dita»

    16 gennaio 2017



    Dovette chinare appena la testa per infilarsi nel passaggio aperto sul muro, una piccola crepa apparentemente creata per permettere il passaggio di un bambino, o di una ragazza poco più alta di un metro e sessanta.
    Sguardo attento dove metteva i piedi, una mano davanti a sé pronta a attutire la caduta nel caso si fosse inciampata nelle pietre e nei vetri a terra, l'altra istintivamente sulla pancia in un gesto protettivo. A fare un po' di luce, c'era una piccola sfera magica fluttuante sopra la sua spalla.
    Jade camminava con il cuore in gola fra le macerie, la polvere e i lettini rovesciati, guardando qua e là i muri taggati con frasi volgari, i fogli sparsi, le bottiglie mezze vuote, le siringhe abbandonate. Teneva le labbra strette fra loro in una linea dura, e le ci vollero parecchi minuti in quel silenzio opprimente per riconoscere in quale zona del laboratorio si trovasse esattamente. Ex laboratorio, anzi.
    Si fermò vicino a quello che doveva essere stato l'archivio, ormai quasi completamente vuoto e defraudato dalle ricerche di una vita dei dottori estremisti; affacciandosi, vide solo cassetti aperti, fascicoli mezzi bruciati, una tazza una volta usata come portapenne distrutta a terra. Se non ricordava male, era appartenuta a Lena.
    Jade posò una mano sul muro, aspettandosi quasi di sentirlo fremere di vita propria, di sentire nella propria testa le risate che avevano popolato quel corridoio, le idee geniali, i dubbi, le grida dei pazienti... invece, era solo un pezzo freddo di cemento. Come si era aspettata, era rimasto poco o niente del laboratorio che aveva conosciuto e in cui aveva lavorato ormai quasi tre anni prima.
    "Non è per questo che ho rischiato la mia vita", pensò stringendo il pugno, le nocche contro il muro. "Non è per questo che sono diventata un mostro". Jade sapeva che i dottori, che lei, in un qualche momento imprecisato si erano spinti troppo in là, ma avevano avuto un obiettivo, uno scopo più grande, un ideale. Quattro anni dopo il suo primo "«segna: ora del decesso...»", non era quella distruzione che si aspettava. Era una guerra, ne era conscia, e la strada era ancora lunga prima di sistemare il mondo... ma quanto ancora? E cosa poteva fare per velocizzare il processo, quando quella che ora si chiamava ribellione altro non era che un gruppo di disorganizzati guerriglieri senza il coraggio di sporcarsi le mani?
    Fece un grosso respiro dal naso, gonfiandosi il petto, gesto che la aiutò a contenere il pizzicore agli occhi azzurri dettato dalla frustrazione e dalla rabbia.
    Un calcio alla pancia.
    Jade abbassò lo sguardo, la mano già di nuovo sul proprio ventre caldo. "Va tutto bene. Sto bene. Grazie, ragazzino". Sorrise, già più tranquilla nel ricordarsi che non era sola.
    Scoprire di essere incinta, non molte settimane prima, non era stato piacevole.
    Il primo istinto era stato abortire.
    Il secondo, non molto più nobile, scappare, per non doverlo dire a nessuno dei suoi conoscenti, partorire in qualche posto lontano e abbandonare il bambino a qualche famiglia che un figlio lo voleva davvero, una qualche famiglia vera, non composta da una bionda troppo giovane, un pavor incompetemte che conviveva con una ribelle, una Run, e un tricheco trans.
    Anche dopo che lo aveva detto a Eugene, senza sicuramente aspettarsi una reazione così paterna, l'idea di darsela a gambe era sempre rimasta a fior di pelle, il piano B ideale per quando l'idea di dover diventare madre la faceva troppo impazzire, a lei che non aveva mai voluto neanche solo pensare di sposarsi o avere una famiglia.
    Ma poi c'era stato quell'episodio con Run.
    il sorriso teso ma divertito di Jade mentre Lienne e Ego cantavano al pancione, Run caricata sul divano che faceva un video sotto ordine della Beech maggiore, chinata davanti alla sorella.
    «Lia, è imbarazzante, ti prego»
    «A lui piace»

    Jade si era voltata confusa verso Run. «Lui?»
    «Si il... cosino. che c- oh. Non sapevi fosse un maschio»

    La bionda aveva boccheggiato. Lui. Non esso, non il feto, non la creatura o il bambino, ma un lui. Un vero e proprio lui. Suo figlio. «Lo senti? Telepaticamente?»
    Spallucce «Qualcosa del genere. Lui sente voi, comunque»
    Da quel giorno l'idea di abbandonarlo non l'aveva più attraversata, se non in momenti di crisi notturni che, solitamente, finivano appena sentiva il braccio caldo di qualcuno a stringerla nel letto.
    Si accarezzò la pancia ancora una volta, poi guardò di nuovo il muro di fronte. immacolato, se non per una striscia di sangue appena sopra il suo sguardo che stanziava solitaria. Non era opera dei dottori quella, ma più probabilmente di chi aveva effettuato il raid. I dottori lasciavano sempre tutto pulito, impeccabile, ordinato. Credevano in un mondo migliore, non in un mondo di violenza e sangue.
    Usando uno degli elastici che aveva al polso Jade si legò i capelli mossi in una coda alta. Afferrò dalla borsa una bandana che annodò abilmente dietro il collo per coprirsi il viso dal naso in giù, e infine recuperò una bomboletta spray, che agitò rapida. Non faceva graffiti da quelli che gli sembravano secoli (indubbiamente, da prima di restare incinta), e aveva bisogno di riprendere la mano. Aveva iniziato a farne quando aveva quattordici, forse quindici anni; scritte lasciate sui muri, insulti ai politici e al mondo. Ancora non era nella ribellione, ancora non sapeva neanche dell'esistenza dei laboratori, e quello era stato il primo modo che aveva trovato per combattere, a modo suo, usando l'arte. Che lei sapesse, le persone a conoscenza di quel suo piccolo segreto si potevano contare sulle dita di una mano.
    Premette il dito sulla bomboletta, ispirando l'odore di vernice filtrato dalla bandana. Aveva bisogno di qualcosa di facile, per vedere se ancora aveva il tocco, qualcosa come una semplicissima frase scritta in rosso.

    "La rivoluzione non ha
    bisogno del perdono
    né di un permesso
    stiamo arrivando per voi
    #jointherebelside"


    Studiò la scritta poco soddisfatta, frugando poi nella borsa alla ricerca di un altro colore per qualche ritocco (probabilmente nessuno lo avrebbe mai visto, ma un laboratorio segreto gli sembrava un ottimo luogo di ritrovo per adolescenti insoddisfatti e sperava prima o poi qualcuno ci finisse), ma un rumore poco distante la fece immobilizzare.
    Si guardò a destra e sinistra, e mentre già spegneva la sfera luminosa su di sé, afferrava la pistola che aveva nascosto fra la stoffa e la schiena, le dita sul grilletto ma senza ancora togliere la sicura o pulire l'otturatore, per non farsi sentire.
    "Va tutto bene. La mamma ha tutto sotto controllo... sarà un topolino, o qualche drogato. Ci penso io a noi"

    In un altro momento sarebbe rimasta sconvolta da se stessa, da quel mamma che le era venuto istintivo pensare parlando a lui, ma lì per lì non ci fece caso. Indietreggiò attenta a non cadere, infilandosi nella prima porta aperta che le si paró davanti tirandosela subito dopo dietro, accostandola appena. Schiena contro il muro, rimase a guardare, sperava non vista, verso il corridoio quasi completamente buio attraverso il piccolo spiraglio.
    Jaden fucking beech
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    non so come scrivere le cose quindi eventuali flashback sul ritorno di Run, Natale, capodanno, festino a casa REB, spiegazioni sui lab, sul suo essere incinta, SUL RITORNO DI RUN... tutto rimandato alla prossima vita PERO' COMUNQUE ERA MOLTO FELICE DEL RITORNO DI RUN e mi sento malissimo e non sapere che scriverci al riguardo perchè non so come reagirà Run al pancione ohohoho


    Edited by - as fuck - 22/12/2018, 00:00
     
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    Lo percepì sulla pelle, un brivido freddo ad insinuarsi tra le ossa, ad alzare appena i lembi di un indumento troppo leggero, sbagliato, prima ancora di udirne il fragoroso insinuarsi tra le crepe di un ambiente ormai ridotto in maceria. Un ululo sinistro e raccapricciante, in una notte che da quella stanza gli era impossibile vedere, pervase i sensi di Elijah Dallaire, invogliandolo ancor meno ad aprire gli occhi. Respirò a fatica, la gola arida incapace di sciogliersi a quel mero capriccio dei polmoni, scuotendo pigramente la testa su un cuscino basso, duro. Sbagliato. Qualsiasi cosa potesse sentire, su un letto che non era il suo, sussurrata da folate di vento gelido o raccontata dal tessuto sintetico del camice che i polpastrelli, delicati e timidi, andavano a sfiorare appena, era sbagliata. Qualsiasi cosa, soprattutto quel vuoto a perdersi nelle iridi verde acqua - nel petto, nella mente -, che infine si erano decise a porgere uno sguardo alla zona circostante. Mugugnò rumorosamente, e mentre l’eco di quell’unico suono si disperdeva tra le rovine, ancora pallide di una tintura recente, i bronchi riuscirono a liberarsi dell’intoppo, reclamando finalmente aria nuova. Razionalmente, nel tempo in cui lenta la testa si sollevava dal piano, e gli occhi cadevano sui particolari di cui era circondato, il venticinquenne sapeva perfettamente riconoscere cosa vi fosse di così incongruente in tutta la situazione, era capace di dire senza esitazione alcuna cos’era ad essere intrinsecamente errato. Il problema era che, assurdamente, non lo ricordava, mentre dal petto, da una terribile gabbia dorata, giungeva un grido che gli imponeva di aprire gli occhi - di aprirli davvero.
    Non riusciva a pensare, a vedere con asettica logica oltre i fili dorati che disordinati ricadevano sugli occhi; e non riusciva a capire dove fosse, perché si fosse svegliato su quel lettino, cosa potesse essere o da cosa potesse venire quel sottile pulviscolo, residuo di un crollo sconnesso nel tempo che andava a sporcare il camice e la pelle, incastrandosi tra i peli di una barba che non rimembrava di avere.
    Un sospiro gli serrò la mascella, una consapevolezza sbagliata a farsi strada nei meandri di una psiche turbata, sorpassando in una corsa sfrenata quell’urlo che cercava di imporsi sopra a qualsiasi altro pensiero - non è vero, non è vero, non è vero!, tentava di sussurrargli quella voce disturbante, fastidioso ronzio a riverberare nei timpani.
    Ma non riusciva a capirlo, e le mani premevano inutilmente sulle orecchie per isolarsi da qualsiasi altro rumore potesse soggiungere esternamente. Ma non riusciva a capirlo - e non riusciva a pensare, non riusciva a vedere.
    Elijah Dallaire non riusciva nemmeno, e nuovamente, a ricordare chi fosse.
    Quando si issò a sedere, le gambe penzoloni oltre il bordo del letto, staccò senza esitazione lo strabordante quantitativo di tubi insinuatisi sotto la pelle delle braccia, totalmente ignaro di dove l’altra estremità portasse: non aveva senso nemmeno seguirli, capire a cosa fossero collegati, conscio che avrebbe perso tempo a chiedersi cosa, effettivamente, fossero. Piuttosto, si focalizzò sulle piccolissime goccioline di un rosso sporco, apparse dove prima l’ago penetrava l’epidermide: nemmeno prudeva la carne quanto avrebbero dovuto, il minuscolo buco non bruciava com’era naturale facesse.
    Sbagliato, sbagliato, sbagliato; eppure, non sembrava rendersene conto.
    Si mosse con cautela, una volta posati i piedi a terra, vagando lo sguardo perso sulle crepe negli infissi, sulle spaccature apertesi nelle pareti – ferendosi, con quei macigni che ostacolavano il viaggio, lunghi tagli sui polpacci a grondare sangue che non percepiva scorrere.
    Chi era? Lo sai.
    Dov’era? Lo sai.
    Cos’era successo? Non è importante.
    Perché, era successo? Ma a tale quesito nemmeno quel bisbiglio, che caldo tra le costole riscaldava un petto che di quel torpore, in quel momento, non se ne faceva nulla, riusciva a dare una risposta. Non lo sapeva, ma non era il caso di alimentare un’amnesia che per due anni aveva cercato di sistemare, senza alcun successo.
    Eppure, avrebbe dovuto saperlo che era inutile tentare di farsi sentire. Non era la prima volta che le proprie, scarse memorie andavano mescolandosi con i sogni che la notte non lo lasciavano stare, impedendogli di riposare in maniera serena; avrebbe dovuto essere ormai avvezzo a quelle dita tremanti, che ignare di tutto andavano a spostare massi più pesanti del corpo trascurato e denutrito, lasciato in balia di macchinari che avevano misteriosamente smesso di funzionare destandolo da un sonno privo d’incubi. Lo era, ma non per questo rivivere quel preciso momento era più facile.
    Non per questo, avrebbe smesso di provarci.
    Orme scarlatte su candido linoleum seguivano un’andatura incerta, le braccia tese a sfiorare le pareti, le dita ad incastrarsi tra le fessure ed i polpastrelli a tagliarsi sulla superficie spigolosa; l’Elijah racchiuso nella gabbia dorata, consapevole di aver già vissuto quel momento e capace di indicare la strada tra i detriti, aveva però smesso di parlare, preferendo osservare le luminarie al neon staccatesi dal soffitto penzolare ancora accese ed illuminare ad intermittenza il buio corridoio, le iridi a soffermarsi sulle barre di ferro di celle ormai aperte ad intralciare il cammino, corpi esanimi accasciati lungo i muri. Non arrendevole, il Dallaire: non si era mai arreso, aveva sempre continuato a camminare fino alla fine– finché la stessa fine non l’aveva rifiutato. Spaventato, piuttosto. Non da quel dedalo di pallidi tunnel, costernati di uomini e donne senza vita, schiacciati da macigni troppo pesanti o uccisi da qualcosa, che allora, non sapeva cosa fosse. Dal Dopo, sempre dal dopo.
    Uscito da lì, avrebbe vagato per un anno intero, riuscendo a dare il termine “casa” ad anonimi cartoni gettati sotto i balconi per i vicoli di Londra, in mente un solo nome ed un solo viso che non sapeva a chi collegare.
    Uscito da lì, avrebbe deluso e ferito, avrebbe creduto di essere folle fino a quando non sarebbe realmente impazzito.
    Uscito da lì, sarebbe morto.
    Avvolse le dita attorno ad una barra d’acciaio, tirando la porta della cella verso di sé. Vi entrò, il capo chino a guardare il pavimento bianco sotto gli infissi, senza però curarsi dei piedi nudi che andavano a sbattere contro questi; senza davvero accorgersene, cadde a terra, il più vicino possibile al muro diroccato. Si rannicchiò, le gambe così strette al petto che dietro le ginocchia riusciva in parte a nascondere il viso, mentre gli occhi ancora sgranati cercavano di catturare, da quella prospettiva orizzontale, anche il più piccolo dei dettagli. Era a quel punto, ogni volta, che arrivava la fregatura.
    Perché voleva svegliarsi, andare avanti piuttosto che rimanere incastrato in quel sogno ridondante. Andava tutto bene, adesso. Andava tutto bene, non c’era bisogno di rivivere ancora - e ancora, e ancora, e ancora - lo stesso incubo, lo stesso ricordo.
    Perché non voleva svegliarsi, Elijah Dallaire. Voleva rimanere lì, per sempre, e non muoversi più, e non commettere più quegli errori che non avevano condannato solo la sua vita.
    Si strinse un po’ di più, il naso incuneato tra le ginocchia, scosso da tremiti che non avevano più a che fare con la fredda brezza. La gola, il petto gli chiedeva di urlare, più forte di quanto non avesse mai fatto in vita sua, ma la bocca annaspava alla ricerca di aria che i polmoni non sembravano desiderare. I brevi respiri tremuli erano l’unica fonte di rumore in quel mondo, il vento non ululava più tra le fessure, riecheggiando ove trovava superfici riflettenti il suono, fino a quando.
    Sollevò appena la testa, rimanendo comunque coricato, mentre lo scalpiccio di tacchi che avrebbe riconosciuto ovunque si faceva largo tra i ruderi. Non distante, la sinuosa silhouette della ragazza divenne nitida di fronte alle iridi chiare, e poté chiaramente distinguerne il contorno mentre si sedeva elegante su un masso, le gambe accavallate ed i morbidi capelli scuri a ricadere sulle spalle. Un elemento nuovo, in quel remake che l’aveva sempre visto come unico protagonista. Un nuovo elemento che, lì dentro, non voleva. Non perché era il suo spazio, non perché non lo trovasse confortante, non perché non voleva lei. Soltanto, perché era sbagliato, perché Rea Hamilton non si meritava di vivere i suoi incubi. E, tra tutti, non proprio quello.
    Ci fu un lungo silenzio, interrotto soltanto dalle unghie curate di lei ticchettare sul masso dov’era seduta, e dai brevi e tremuli respiri dell’ex grifondoro: il Dallaire non era mai stato capace di destarsi da quella situazione, aspettando che fosse il tempo, in un modo o nell’altro, a fargli aprire gli occhi su un soffitto sano, un grido rauco a sgusciare dalle labbra. Non aveva idea di come fare, non sapeva nemmeno se potesse farlo. «voglio uscire» sussurrò tra le gambe, cercando le iridi scure di Rea. Appena un fiato, ma parve un urlo tra quelle pareti. «non sei l’unico» «mi dispiace» continuò, chiudendo gli occhi per non sentirli bruciare, la testa a muoversi appena da un lato all’altro. Perché non sapeva cosa avesse dovuto sopportare lei, nel frattempo che lui non ricordava, tra le pareti di un sogno solido come pietra; perché non era giusto che li trascinasse, Rea e Nate, in quei posti; per tutto «mi dispiace» «smettila di farlo» calde e soffici come miele, le parole scivolarono sulla pelle del venticinquenne. Avrebbe dovuto, lo sapeva, ma quello che non sapeva era come farlo. «e svegliati, se vuoi uscire» lo disse con una semplicità, che per un attimo gli fece crede di poterlo fare. «non ci riesco, rea» «sì, invece» «no» ispirò, aprendo gli occhi mentre i tacchi risuonavano sul linoleum. Invece di osservarla chinarsi, rimase fisso sulle gambe di lei; fu quest’ultima, tuttavia, a costringerlo ad alzare lo sguardo, premendo con indice e pollice sulle guance. «ho detto di sì» Per qualche secondo, si dimenticò anche solo di respirare, le iridi verde acqua perse in quelle cioccolato della Hamilton; quando si ricordò come si faceva, annuì placidamente. «concentrati»
    Chiuse gli occhi.

    Quando si svegliò, era ancora notte fonda.
    Premette con più voga il viso tra le piume del cuscino, mordendo il tessuto e stringendo gli occhi con altrettanta forza. E spinse ancora, fino a quando non riuscì più a prendere fiato: solo a quel punto, quando il solito battito accelerato aveva smesso di scalpitare nel petto, acquietandosi, ed il desiderio di gridare a pieni polmoni si era dissolto, si rigirò nel divano letto puntando lo sguardo sul soffitto del salone di Nate. Senza nemmeno più pensare ai movimenti cui si era abituato, tante erano le volte che li ripeteva ad ogni risveglio, prese il telefono poco distante e ne accese lo schermo: quando si fu abituato alla luminosità, riuscì a vedere l’orario. 03.58. Lanciò il cellulare sul materasso, portandosi un braccio a coprire gli occhi. Avrebbe voluto essere contento: quindici minuti in più di sonno rispetto alla solita ora e mezza, erano un gran bel traguardo dopotutto; non riusciva ad esserlo, troppo stanco anche solo per pensarci davvero. Si alzò e si vestì con la meccanicità di un automa, non premurandosi nemmeno di controllare cosa si stesse mettendo – se era roba del migliore amico, sarebbe andata bene comunque; nel caso fossero stati indumenti di Aveline, credeva se ne sarebbe accorto. Sorrise, una piega appena tirata sulle labbra, quando affacciandosi oltre la soglia della camera del Lowell lo vide con le braccia strette attorno al corpo della rossa, e senza nemmeno avvisare uscì dall’appartamento nella fredda notte londinese; sarebbe bastato mandargli un messaggio quando si fosse svegliato – ossia, quando non lavorava, verso le tre del pomeriggio – per fargli sapere che stava bene, che non era di nuovo sparito o morto, che probabilmente era al parco a qualche isolato dall’abitazione, e che non si doveva preoccupare.
    Se già di consueto faticava a dormire, da quando era tornato Elijah Dallaire aveva praticamente smesso di farlo, riuscendo ad assopirsi per quella che era un’ora o poco più ogni qualche giorno, e solo quando non si trovava a casa sua - o meglio, quando a casa c’era Bells andava tutto bene: era nel momento in cui questa partiva per Hogwarts che non riusciva più. Erano davvero pochi i luoghi in cui riusciva a chiudere gli occhi, riposandosi per quel breve periodo di tempo prima che un nuovo incubo lo costringesse a puntarsi sul lampadario mentre il resto del mondo ancora era tranquillo nelle braccia di Morfeo. Ormai, non si faceva più problemi a chiedere a Nathaniel di ospitarlo, anche quando sapeva che l’amico aveva ospiti; lo stesso valeva per Eugene, sebbene il biondo fosse leggermente più reticente a chiedere al pavor: Elijah amava davvero, davvero tutti gli animali, altrimenti non si sarebbe spiegata la sua amicizia con i suddetti, ma le bestie che infestavano casa REB erano un discorso a sé stante. Per quanto potesse impegnarsi, per quanto con il Jackson potesse costruire i più architettonici fortini di coperte e cuscini, non era facile prendere sonno con un sadico bradipo che dava loro la caccia ed un perverso tricheco che tentava di stuprare l’amico. Il posto, però, in cui preferiva andare in quelle notti insonni, era un altro. Era un luogo in cui la mente gli suggeriva di non pensare nemmeno di andare, rimembrandogli che aveva deciso, si era ripromesso di non dare più fastidio se poteva evitarlo facilmente; un luogo, dove il cuore lo spingeva costantemente, aumentando il battito ogni volta che il pensiero vi ci soffermava per più di qualche istante, cercando il proprio stesso rintocco suonato da un’altra campana, ma sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda.
    Un luogo, che non era un luogo.
    Una persona, verso la quale già le gambe si stavano muovendo, mentre le case della periferia londinese cambiavano velocemente attorno all’unica sagoma che alle quattro del mattino vagava per la capitale inglese. Senza spiegare il fatto che già fosse in dirittura d’arrivo, aprì sul telefono la conversazione con Rea – costernata di immagini carine e casuali da parte di lui, ed emoticon minatorie da quella di lei. “posso venire?” scrisse, senza staccare gli occhi dallo schermo. Passarono diversi secondi, in cui il chiaroveggente poté solo limitarsi ad immaginare l’espressione della mora, prima ch’ella rispondesse. “meh”; sorrise, riponendo il telefono ed accelerando il passo.
    «sai» sussurrò, sorridendo appena divertito sopra un calice di vino, le iridi a cercare dall’altra parte del divano quelle della Hamilton. Non aveva nemmeno più idea da quanto tempo fosse arrivato lì, da quanto fossero in quieto silenzio sulla pelle del sofà, o di tutte le volte che, mentre credeva ella non guardasse, gli occhi si erano posati delicati sul profilo di lei. Era così piacevole anche solo la sua presenza, mentre la notte avanzava lenta verso un’alba tiepida, che non aveva bisogno di pensare a nient’altro. «prima, nel sogno… credevo mi avresti ucciso» e rise piano di se stesso, di averlo anche solo pensato: quando notò che lo sguardo di lei era più serio di quanto non si fosse aspettato, smise. «era il piano di riserva» entrambi rimasero in silenzio, prima che il Dallaire lo rompesse riprendendo a ridere. Non si era mai sentito così… bene, appagato da una sensazione nuova che aveva soltanto letto nei libri, intravisto nei film in televisione. «posso rimanere qui, stanotte?» domandò d’un tratto, poggiando la guancia contro lo schienale, il volto ancora rivolto a Rea. «rimani dove vuoi,» rispose, alzandosi. «io torno a letto» Elijah annuì, abbassando lo sguardo sul calice mentre la ragazza risaliva verso la propria camera. Attese qualche minuto nel salone, nella fioca luce di una lampada a terra posta nell’angolo della stanza, prima di salire anch’egli la scalinata. Richiuse cautamente la porta alle proprie spalle, avvicinandosi al letto.
    Gli aveva detto di rimanere dove voleva, giusto? «ti do fastidio?» chiese, ed il grugnito nascosto nel cuscino sembrava volesse dire di sì: lo interpretò nel modo contrario, sorridendo mentre si sdraiava di fianco all’Hamilton, cingendole il corpo con le braccia e nascondendo il viso nei capelli scuri.
    Quando si svegliò, diverse ore dopo, lo fece senza il bisogno di trattenere un urlo, di soffocare il respiro nel morbido cuscino. Lo fece, senza nemmeno ricordarsi di aver sognato.

    Irritato, strinse tra le mani i capelli, le spalle contro un muro dissestato ed i gomiti poggiati sulle ginocchia. Non ci era mai tornato, sul luogo dove si era svegliato la prima volta da che ne avesse memoria, e credeva fosse una cosa saggia farlo prima o poi. Ora che ci si trovava, tuttavia, avrebbe solo voluto tornare a casa. O meglio, da Rea: era uscito di casa che ancora dormiva –almeno, così credeva il Dallaire -, dopo averle lasciato sul comodino una colazione preparata in quattro e quattr’otto dopo essersi accertato che nessuno (Orion) fosse nei paraggi; se fosse tornato presto, avrebbe potuto dire che era andato a fare la spesa. Quale spesa? Non lo sapeva, ma era sempre il momento più propizio per comprare qualcosa. Tornare nel Laboratorio era stata un’idea stupida. Credeva, Elijah, che potesse aiutarlo ad esorcizzare il demone che si annidava nella sua mente, relegandolo alla visita periodica di quel luogo nei sogni più asfissianti; credeva, che avrebbe potuto aiutarlo a ricordare - qualcosa, non tutto. Giusto dei frammenti, vaghi indizi sul motivo per il quale, senza alcuna memoria, aveva vagato quegli stessi corridoi due anni e mezzo prima. Perché ancora, a distanza di tutto quel tempo, non aveva idea di come rispondere a quella domanda alla quale ogni volta non riusciva a dare voce.
    Perché, era successo?
    Tuttavia, tutto ciò in cui era incappato erano stati gli stessi passi sui quali si era mosso nell’estate del duemilaquattordici, gli stessi residui di combattimenti lasciati a se stessi. Dei cadaveri, v’era solo il ricordo che ne serbava il biondo - qualcuno li avrà spostati, aveva pensato. Sarebbe dovuto tornarci con qualcuno, ma non voleva chiederlo davvero a nessuno; non a sua sorella, non a Nate, non ad Eugene, e di certo non a Rea. Era il luogo che l’aveva condannato, e che in tal modo aveva dannato anche loro: era chiedere troppo, era un peso che doveva trascinare senza di loro. L’unica persona alla quale aveva osato chiedere, era stata Sinclair. Non sapeva nemmeno perché avesse bussato alla sua porta: sapeva soltanto che lui avrebbe capito. Non era per l’aver condiviso giorni, settimane, mesi la stessa vita sul ciglio delle strade di Londra, ma per qualcosa di più: una sensazione, una di quelle. C’era mancato poco, però, che questo gli sbattesse la porta in faccia («mi dispiace eli, non è il momento» «ti prego» «scusami» - e non aveva insistito, notando un’ombra sul volto che mai aveva visto in quello di Sin: non era il caso di continuare).
    Era stato un errore, inutile. Si alzò, passando una mano sul volto stanco, le dita a perdersi nella barba incolta, e tornò sulla strada di casa. Ma c’era qualcosa di diverso. Qualcosa che di sicuro non aveva notato la prima volta, ma che nemmeno all’andata aveva attirato la sua attenzione come in quel momento. Passò le dita sulla scritta sul muro, sentendo la vernice appiccicarsi sui polpastrelli. Era fresca.
    C’era qualcuno.
    Passò la lingua sulle labbra, inumidendole appena, e lentamente si chinò a terra raccogliendo un masso abbastanza pesante da poter essere usato come arma contundente. Non aveva idea di chi si celasse nei paraggi, o quanto distante fosse: gli era bastato morire una volta, e non aveva intenzione di rifarlo. Di certo, non considerando quello che avrebbe comportato farlo nuovamente. «c’è qualcuno?» domandò non troppo forte, ma quel tanto che bastava a farsi sentire per gli antri desolati. Si voltò, guardandosi attorno: c’erano diverse porte, ma quasi tutte completamente spalancate o barricate. Una sola, lievemente accostata. Respirò profondamente, ricordandosi gli insegnamenti di Nate e la voce di Rea che, non troppe ore prima, gli diceva di concentrarsi. Poté percepire appena, frutto di sinestesia, fumi colorati traboccare oltre l’uscio; ciononostante, poteva essere qualsiasi cosa, non necessariamente una persona. «c’è qualcuno?» ripeté, avvicinandosi appena alla porta, senza però toccarla, spingerla per fare in modo si aprisse.
    Se nessuno avesse risposto, avrebbe potuto benissimo ignorare il tutto e proseguire il proprio rientro: semplice istinto di sopravvivenza, o voglia di non immischiarsi in altre questioni di cui poteva benissimo fare a meno.
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    Nel silenzio del laboratorio abbandonato il proprio respiro, sebbene reso tranquillo da anni di pratica a situazioni simili, rimbombava nelle sue orecchie, facendo ben più rumore di quanto la ragazza avrebbe voluto. Il cuore, quello sì che correva ancora più veloce, per quanto inutilmente Jaden provasse a imporgli di rallentare e darsi un contegno. C'era qualcun altro lì sotto, e non aveva idea di che intenzioni potesse avere. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che aveva seriamente rischiato la vita? Mesi, sicuramente, forse un anno o più. Era entrata nel ramo della resistenza più blanda con l'obiettivo di trovare uno scopo, di rendersi utile, ma era rimasta delusa dalla poca attività di guerriglia che ultimamente era stata svolta. Dopo la presa del Quartier Generale, i ribelli avevano paura. Paura per se stessi, per le loro famiglie, e paura di apparire i cattivi della storia. A Jaden non era mai importato di essere reputata un mostro, se il risultato era infine la pace.
    Jezuus, quella sensazione di adrenalina le era mancata. Quel "ora sono qui. Fra poco potrei dover lottare per la mia vita. Domani potrei essere morta" che l'aveva mandata avanti fino a quasi due anni prima, ricaricandola.
    La fece sentire viva, ma fu per poco. "Andrà tutto bene, so badare a me stessa" Pensò al pancione, al bambino che aveva dentro. "So badare a te". Il pensiero che non fosse sola in quella stanza, non fosse sola in quel corpo, smorzava l'eccitazione. Non si era mai sentita tanto responsabile per nessuno; era questo che provavano gli adulti badger come Mae? Come potevano lei, Idem, raccattare persone dalla strada, manco fossero gatti randagi, e badare a loro? Era un potere così grande, un impegno così grosso, che per un attimo la soffocò. Se fosse morta, lui avrebbe fatto la stessa fine.
    Non voleva permetterlo.
    «c'è qualcuno?» Una voce distante, una voce maschile, accompagnata da passi incerti. Jade strinse la presa sulla pistola, chiedendosi quale sarebbe stata la scelta migliore. Fingersi una ragazza qualsiasi, col rischio che fosse un mangiamorte e le facesse qualche domanda sgradevole, tipo sul perchè si trovasse lì, magari facendo due più due fra la scritta fresca e la puzza di vernice che si portava addosso? Ferirlo quando poteva essere semplicemente un ragazzo lì per errore o, chi lo sa, col suo stesso intento?
    "Non è detto verrà qui"
    Avrebbe potuto usare l'invisibilità per sparire, ma era una un potere che l'avrebbe resa solo difficile da vedere, non percepire, e non l'aveva mai usata da quando era rimasta incinta. In più, preferiva preservare le forze, già dimezzate fra lei e il piccolo, nel caso fosse dovuta arrivare ad uno scontro.
    Il cuore le batteva in gola, e pensò alla prima volta che aveva sentito il suo di battito. La paura che nell'ecografia qualcosa sarebbe andato storto, che avrebbe rovinato, come rovinava sempre tutto, anche quella piccola cosa dentro di lei che, a quanto pareva, rendeva tanto felice Eugene... e poi nella cassa del computer il rumore di quello sfarfallio veloce, il tum tum di un piccolo cuoricino che ha tutta la voglia di vivere e nessuna intenzione di arrendersi. Forse non era stato sconvolgente come scoprire da Run che sarebbe stato un maschio, ma era comunque indubbiamente stato uno dei momenti più bizzarri della sua vita, il rendersi conto che dentro di lei (proprio lei!) ci fosse effettivamente qualcosa di vivo, con un cuoricino tanto scalpitante. Glielo doveva, di nascere, perchè sapeva che lo volesse così tanto.
    Jaden teneva ancora la mano sulla propria pancia, in un istintivo gesto protettivo, e spiò attraverso lo spiraglio della porta ricordandosi quel battito, quel desiderio frenetico. Non avrebbe permesso a nessuno di fargli del male. Se avesse dovuto combattere, non avrebbe permesso che un dito fosse alzato su di loro.
    I passi si avvicinarono.
    Jaden si inumidì le labbra. Lo sentiva. L'uomo era solo a pochi centimetri da loro, anche senza usare la visione termica poteva percepirlo.
    Si chiese se sarebbe stata pronta a ucciderlo, e si rispose che sì, non ci avrebbe pensato troppo prima di premere il grilletto, ignorando che potesse essere il padre, il fratello, l'amico o l'amante di qualcuno. Era una teoria degna del regime in cui era cresciuta, ma prima di qualsiasi sconosciuto veniva il bambino che aveva in grembo, e quindi se stessa.
    Per sicurezza, iniziò a togliere la sicura dalla pistola.
    «C è qualcuno?»
    Per un attimo il tempo si fermò. Jade da una parte della porta, pronta a uccidere uno sconosciuto (non più sconosciuto) se si fosse rivelato un pericolo per lei, per il bambino, e dall'altra lui.
    Doveva essere lui. Aveva sentito quella voce troppe volte per mesi, per anni, e l'avrebbe riconosciuta ovunque.
    Sarebbe potuta rimanere in silenzio. Fingere di non esserci, aspettare che l'uomo o se ne andasse o aprisse la porta e eventualmente stenderlo col calcio della pistola... Ma non poteva farlo. Non quando l'uomo era Elijah.
    Infilò nuovamente la pistola fra i pantaloni e la schiena, e senza riuscire anche solo a pensare di fare altro aprì la porta, ritrovandosi davanti al ragazzo. In qualsiasi altro momento sarebbe stato un gesto stupido, ma era Elijah, e Elijah non le avrebbe mai fatto del male (non quando, in ogni caso, era incinta del suo migliore amico). Poteva aver perso la memoria, ma era ancora buono. Lo aveva visto, con Eugene, lo aveva visto sorridere sereno, felice della sua nuova vita.
    Ed eccolo davanti a lei.
    Le iridi chiare, la barba da fare, la curva gentile del viso, e quella bellezza particolare tutta sua che ti faceva fidare dei suoi occhi dolci a prima vista. L'ultima volta che lo aveva visto così da vicino era stato un secolo prima. E lei lo aveva obliviato. Negli ultimi due anni, pur avendo scoperto che era riuscito a ritornare dalla sua famiglia tutto intero, non gli aveva mai parlato, se non forse facendo un gesto apparentemente infastidito, in realtà imbarazzato, quando Eugene l'aveva presentata.
    Con espressione stupita, Jade portò lentamente la mano alla bandana ancora a coprirle il viso, abbassando il pezzo di stoffa e mostrando le labbra al ragazzo, gli occhi azzurri puntati in quelli di lui. «Eli...»
    Non poteva essere un caso che anche lui fosse li.
    Non poteva essere una coincidenza che fosse esattamente dove aveva lavorato per anni, quel laboratorio, quei corridoi. Forse aveva avuto dei flashback su quel luogo, o forse grazie ai nuovi poteri aveva sentito di dover andare lì, proprio mentre c'era Jaden. Proprio per lei, per parlarle, per vederla. «...sei qui per me?» Lo disse senza volerlo forse davvero fare. A pensare a ciò, sentì una strana fitta al cuore, la stessa che ti viene quando cammini, e non noti un gradino. Un salto nel vuoto. La stessa fitta confusionale e insieme bellissima che provava quando Run le scoccava il bacio della buonanotte, quando Eugene l'abbracciava da dietro nascondendo il viso nell'incavo del suo collo (anche se in questo momento, c'era qualcosa di ancora diverso... ah già, probabilmente perchè il Jackson era un coglione). Era solo una cotta, lo sapeva. Niente di simile al grande amore da cinema di Murphy per lui, e si diede immediatamente dell'idiota.
    «Tu... ricordi?»
    Per qualche motivo, era una domanda quanto mai urgente per Jade. Poteva sembrare (*essere) una beech senza cuore, con sentimenti solo quando le faceva comodo, ma si era effettivamente sentita in colpa quando avevano dovuto cancellare la memoria di Elijah, e altrettanto quando lo aveva abbandonato in coma in un laboratorio messo a fuoco e fiamme per assicurarsi di salvare Lienne. Quante settimane, mesi, aveva passato con Murphy chiedendosi se il ragazzo, scomparso nel nulla, fosse vivo o morto? Se Elijah avesse ricordato se non tutto o almeno qualcosa l'avrebbe odiata per avergli tolto tutti quei bei ricordi, per averlo allontanato dalla sua famiglia... o avrebbe capito? O aveva capito?
    Jaden fucking beech
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    cos'ho scritto meh CIAO vabbè dai rispondi ai dialoghi, evitati il post, davvero ciatelle preferirei non lo leggeste
    E VIA CHE SCADE LA PRIMA ROLE!1111
     
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    Chiuse gli occhi, Elijah Dallaire, il respiro calmo che cercava di non far scivolare dalle labbra altro se non una serenità che, il biondo, non avvertiva realmente, i piedi ad allontanarsi istintivamente dalla porta socchiusa, con la stessa lentezza con cui poco prima le si erano avvicinati – la mano a coprirsi il volto, a premere sulla pelle e sulle palpebre; la presa sul sasso più serrata ed umida, un istinto di sopravvivenza che non aveva mai provato davvero a lottare con un principio di crisi nevrotica, con una sudorazione fredda che poteva avvertire sui polpastrelli mentre pigra sembrava voler lasciar cadere l’unica difesa del chiaroveggente. Non diede nemmeno tempo, a quel fantomatico qualcuno, di rispondere ai suoi quesiti: subito, si convinse di essersi immaginato tutto - da quella scritta sul muro a lasciargli vernice sulle dita, a quella sensazione che dietro l’uscio ci fosse qualcuno in agguato, pronto a colpirlo qualora fosse stato necessario. Di certo, quella non sarebbe stata la prima volta; solo, l’ennesima allucinazione di una mente che faticava a riposarsi, spossata da una stanchezza che nemmeno il sonno, qualora fosse stato presente negli ultimi mesi, avrebbe saputo mettere a posto – ed il murales era di certo lì da tempo, l’aveva visto ma trascurato passandoci davanti in precedenza; l’energia, fasci di luce colorata del più opaco degli arcobaleni, odori e suoni incomprensibili ai sensi del Dallaire nient’altro che miraggi costruiti come castelli di sabbia asciutta, destinati a svanire col primo colpo di vento. E se riaperti gli occhi quelli fossero stati ancora lì, presenti e pulsanti di vita propria, avrebbe potuto liberamente relegarli all’azione distruttiva della propria immaginazione, o al movimento di un innocuo ratto che passava per quelle stanze. Respirò ancora, più profondamente, cercando di udire nella testa la voce di Nathaniel – che c’era un modo, per governare quel potere, per evitare che questo prendesse il sopravvento di continuo, anche nelle situazioni meno opportune; tutto quello che sentiva, che poteva quasi vedere uscire dalla bocca dell’amico come denso fumo ad offuscare la vista ed appesantire l’ossigeno che inspirava, erano quelle parole che lo informavano, in maniera del tutto amichevole e disinteressata, di persone danneggiate: Esperimenti che, usciti dai Laboratori, perdevano il senno. Che semplicemente, non ce la facevano - a tornare alla normalità, a sopravvivere, a convivere con se stessi. L’aveva sempre messa su un piano così lontano dalla loro realtà, che Elijah stesso si era convinto col tempo che fosse un argomento che non poteva in alcun modo toccarlo personalmente. Eppure, espirando aria e preoccupazione, era solo quello che riusciva a tornare a galla da quel mare di ricordi troppo vaghi.
    Che fosse sbagliato, Elijah Dallaire lo sapeva – voleva soltanto persistere nella vaga convinzione di non esserlo così tanto. Poteva convivere, lo aveva sempre fatto, con gli errori che lo caratterizzavano, fintanto che questi non influivano sugli altri – sui suoi, altri -; ma se invece fosse stato uno di quei progetti finiti male, alla deriva in un mare infinito e profondo, lontano da una spiaggia sicura e sana? Non voleva davvero pensarci, il francese, e convincersi un po’ di più, ogni giorno un po’ di più, che ci fosse qualcosa ancora di buono in lui che fosse valso la pena salvare, nello scorso novembre – di essere relativamente normale, soltanto carico di un bagaglio di vuoti traumi a scuotergli i polmoni e a tenerlo sveglio la notte; negando con tutte le forze, che era ormai ben lontano dal poter essere salvato.
    Se l’era solo inventata, quella vernice ad appiccicare le dita, e forse era venuta via solo perché la chiaroveggenza necessitava, più di quanto non facesse il biondo, di conoscerne la storia, di sentire cosa avesse da narrare quel posto dimenticato dai più – quali scalmanati teppisti v’erano passati, distruggendo quel poco che era rimasto del Laboratorio, imbrattando le pareti con frasi che magari nemmeno capivano, inculcate loro da qualcuno che voleva soltanto prenderli in giro; quali mani ferite ed insanguinate si erano appoggiate a quello stesso marmo, lasciando scie scarlatte nel loro triste trascinarsi per quei corridoi; quali occhi l’avevano osservato per errore, quando ancora era all’apice del proprio splendore e funzionamento. Aveva bisogno di dormire, il Dallaire, anziché passare notti insonni ad aggiornarsi sulle vicende in Medio Oriente o a recuperare le ultime serie televisive di Netflix, quando non a rifugiarsi nel garage della villetta a schiera di Inverness, a battere incessante il martello sui chiodi di mobili che probabilmente non avrebbero mai usato in casa – era solo quello, non c’era di che avere paura in quel rudere: anche perché, in fin dei conti, chi poteva aver voglia di arrivare fin laggiù? Sorrise, da solo e di sé, quando dovette convenire che l’unico che avrebbe potuto averla inutilmente era stato lui.
    Non se n’era reso conto che la porta era stata aperta, mentre già pensava di tornare a casa e lasciar scivolare la roccia a terra, ignorando l’eco del sasso a perdersi nello spazio vuoto – ignorando l’eco di quel sogno a riportarlo lì ogni notte: se non poteva farlo in quelle poche ore, tanto valeva provarci nella veglia. Abbassò lo sguardo, le iridi verde acqua a sfiorare il volto familiare della ragazza sotto la bandana, una titubante curva tremula a piegare il volto irsuto dell’ex grifondoro. Prima ancora dello stupore nel riconoscere Jaden Beech in quel luogo, sovvenne un certo senso di felicità a scivolare come caldo miele nei polmoni del ragazzo, a bruciare lo stomaco – che aveva ragione a non avere paura, e che tra quelle mura alla fine non si nascondeva una minaccia, non per lui almeno; che non era pazzo, che aveva avuto ragione a credere fino a poco prima che ci fosse effettivamente qualcuno. Eppure, non poteva che essere inevitabilmente confuso da quella presenza; cosa ci faceva, Jade, lì? Soprattutto, nella sua situazione: poteva non essere stato lui, dietro la porta – allo stesso modo, in cui avrebbe potuto esserci chiunque altro, al posto della bionda. «Jade?» domandò, accompagnando al sorriso sul viso un paio di sopracciglia corrugate, prima di lasciare la presa sull’arma situazionale – e prima ancora di lasciarla, la strinse più forte tra le dita: un movimento così estemporaneo da lasciarlo basito, un riflesso che non aveva potuto capire. Fece per muoversi nella sua direzione, diminuire la distanza che aveva preso poco prima, ma quando la ragazza riprese a parlare scoprì di non riuscire più a muoversi – il sorriso più largo e confuso sul volto, il cipiglio più accentuato, gli occhi chiari puntati sull’esile figura della Beech. Cosa intendeva dire? «no, io…» avrebbe voluto dirglielo, perché era lì, ma probabilmente aveva meno senso della domanda che gli aveva rivolto lei. «non avevo idea tu fossi qui» continuò sincero, sottintendendo quel “perché sei qui?” che non riuscì a pronunciare. Perché c’era qualcosa, di quella situazione, che non gli tornava affatto – per quale motivo, credeva fosse lì per lei? «ma non penso che questo sia un posto sicuro-»per te, per il bambino: non era sua intenzione sottovalutare la bionda, nemmeno la conosceva così a fondo da poter dire che sapeva cavarsela tranquillamente senza i suoi inutili consigli, ma era preoccupato. Impossibile, per il Dallaire, non esserlo. Non ebbe modo, comunque, di finire la sua frase.
    «Tu… ricordi?» «cosa…»
    Un passo indietro, il sorriso a scemare – pietrificato sul posto, l’aria pesante sulla lingua.
    Non aveva dubbi ch’ella fosse a conoscenza del piccolo inconveniente riguardo la sua memoria, ma una domanda del genere non solo era inopportuna, fuori luogo: era sbagliata.
    Perché non ricordava nulla, Elijah Dallaire – era lì solo per un sogno, era lì perché aveva deciso di essere lì. Perché voleva credere, che quell’incontro fosse una coincidenza - eppure. «cosa dovrei ricordare?» Non lo sapeva, di conoscere Jaden più di quanto non ne fosse consapevole, di aver condiviso con lei segreti che non erano più impressi nella sua memoria – non sapeva, cosa voleva che si ricordasse. Non voleva saperlo, perché qualcosa gli diceva che non gli avrebbe fatto piacere – e che se era lì, forse, era per un motivo che gli era sfuggito fino a quel momento. «non… non ti seguo, davvero»
    Forse, era solo la gravidanza a farle enunciare pensieri sconnessi tra di loro – una possibilità, alla quale non credeva nemmeno lontanamente. «cosa ci fai qui?» tentò, riportando la conversazione su un piano più sicuro. «forse è meglio tornare a casa, non mi sembra proprio un posto sicuro – vuoi che chiami euge? Ci metterebbe sicuramente poco» propose, un sorriso più incerto e timido a fare la sua comparsa. Ma non mise mano al telefono, non si mosse di un centimetro – perché voleva tornare a casa, lui, eppure era abbastanza certo che non era quello che avrebbero fatto da lì a poco. Non era certo fosse quello che voleva fare, senza prima capire almeno qualcosa di ciò che Jaden andava blaterando.
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    Distolse lo sguardo da Elijah per posarlo sulla pietra da lui lasciata cadere a terra con un tonfo, le sopracciglia alzate e un minuscolo sorriso a curvarle le labbra prima di tornare a guardare lui. «Cosa avresti fatto, con quella?»
    Il nuovo Elijah, come il vecchio, non era un combattente (secondo i racconti di Euge e Run era morto a Brecon); certo Jade non si poteva aspettare che girasse armato di fucile, pronto a far fuori i cattivi come lei, un vendicatore della notte dai paradossali capelli caramellati e il sorriso morbido, ma per qualche motivo quall'arma improvvisata la divertiva. Se Jade avesse avuto intenzione di fargli del male quella pietra non avrebbe certo potuto fermarla (non volle considerare l'idea che se non fosse stato Eli, ma qualcun altro, Jade difendendosi avrebbe comunque potuto rischiare di far male al bambino). Provò un nuovo moto di affetto sincero per lui, per quel ragazzo altissimo e muscoloso eppure fragile e gentile. Immaginava che in quella missione di salvataggio aveva dovuto pur uccidere qualcuno dei babbani estremisti, tuttavia la ragazza aveva serie difficoltà a immaginarsi Elijah Dallaire attaccare davvero qualcuno in modo cattivo e di violenza. Con un masso, poi. Chi era l'idiota che lo lasciava girare da solo? Euge e quel suo altro amico deficiente non riuscivano a controllare che il loro mom friendtm non finisse in postacci come quello disarmato?
    «no, io… non avevo idea tu fossi qui»
    Ah.
    Ricacciò indietro la bile di rammarico e delusione, annuendo leggermente mentre si umettava le labbra. Ovvio. Ovvio che Elijah non era lì per lei. Era stata una domanda stupida e non ragionata; il fatto che elijah potesse vedere il futuro, non voleva dire che l'avesse vista entrare lì dentro. In ogni caso, restava la questione che fosse nel laboratorio, proprio in quel loro laboratorio.
    Tu... ricordi?
    «cosa…»
    Avrebbe voluto sperare che l'ex grifondoro stesse bluffando, per cercare di capire se effettivamente Jaden ricordasse di essere stata una dottoressa, visto che anche lei aveva detto di aver subito un oblivion nei laboratori... ma gliela leggeva negli occhi, la verità, e lo aveva fatto prima ancora che lui potesse prendere fiato per risponderle. Lo aveva capito dal leggerò movimento delle sopracciglia, dalle iridi inquiete, da quelle tacite domande pronte a prendere forma che non le aveva ancora fatto, ma sarebbero forse arrivate. Cosa intendi dire? Perchè pensi questo? Sono già stato qui? Ci conoscevamo?
    Jade si rese conto che aveva fatto un errore terribile ad aprire bocca. Dio, possibile che avesse davvero creduto che Elijah- che lui-... assurdo. Era stata davvero stupida e infantile, incredibile fosse sopravvissuta tanto a lungo pur essendo alla strenue di un terrorista per il governo britannico.
    Eppure non se ne pentiva completamente.
    «cosa dovrei ricordare?»
    Forse era giusto aver tirato fuori l'argomento. Era da sola con Elijah per la prima volta da anni, ed era nel posto giusto, in quella che per tanto era stata una specie di casa.
    E lui chiaramente voleva saperlo.
    Come poteva sentirsi completo, se nei suoi ricordi mancavano i sorrisi di Fitz, le pacce sulla spalla di Sin, le guance arrossate di Murphy...
    L'avevano obliviato perchè era una minaccia per tutto quello in cui credevano e per cui aveva lottato, ma l'attuale Elijah non avrebbe avuto più motivo di tradirli, ora che il laboratorio era stato smantellato. Non aveva segreti di valore da spiattellare ai quattro venti, se non l'identità dell'equipe con cui aveva lavorato fianco a fianco per mesi o addirittura anni, equipe che era diventata sua amica... e che si era ritrovato anche in questa nuova vita, per lo più. Se avesse saputo la verità, Elijah non li avrebbe traditi, ne era sicura. Forse li avrebbe odiati, ma era così sbagliato dirgli la verità? Lasciargli sapere che la prima volta che si erano visti non era stato a quella volta volta ad una festa a cui Euge e Run l'avevano portata, e che c'era stato un tempo in cui aveva lottato per qualcosa di più grande, e c'era stato un tempo in cui avrebbe affidato a loro altri ribelli la propria vita?
    «non… non ti seguo, davvero» Jade si rese conto di essersi messa a fissare il vuoto, la nostalgia a stringergli lo stomaco, e tornò con lo sguardo sul biondo. «cosa ci fai qui? forse è meglio tornare a casa, non mi sembra proprio un posto sicuro – vuoi che chiami euge? Ci metterebbe sicuramente poco»
    chiamare euge.
    La sola idea la mandò per qualche istante nel panico.
    Eugene, lì? Nel laboratorio? Mai. «Non ce n'è bisogno» Eli era fatto di un altro materiale rispetto all'ex serpeverde; Eugene non avrebbe mai capito, non l'avrebbe mai capita, e Jade non avrebbe rischiato tanto mettendolo davanti a tale scelta, fra l'accettare il fatto che fosse stata una dottoressa o non voler avere più niente a che fare con lei o con il bambino che portava in grembo. E se Euge l'avesse escluso dalla sua vita? Se avesse escluso lei? Si ritrovò con le dita sul pancione, protettive. Quel bambino non sarebbe mai stato solo, questo era sicuro, ma non era neanche pronta al pensiero di negargli un padre, per quanto un euge, solo perchè lei aveva fatto delle cose che lui non avrebbe approvato.
    Il Jackson non poteva e non avrebbe mai dovuto scoprire del collegamento di Jaden con gli estremisti. «Anzi, non sa che sono qui. Preferirei non gliene facessi parola» Lo guardò con sfida. , teneva segreti al padre del suo futuro figlio, e allora? Non erano quelli gli affari di Elijah.
    Era tutto il contrario.
    Dove Euge era parte della vita dell'attuale e nuova Jade, Eli apparteneva a quella vecchia. Il Dallaire sì che avrebbe capito... e lei aveva una dannato voglia di vuotare il sacco.
    Poteva proporgli di fare un tuffo nel passato, senza però compromettere la propria attuale e perfetta modesta vita
    Distolse lo sguardo, perchè non era sicura che sarebbe riuscita a mentire altrettanto bene parlando mentre affogava in quel mare che erano i suoi occhi, e posò leggera una mano sul muro crepato accanto a sè.
    «Ricordo di essere già stata qui... ma non come prigioniera... non solo almeno» Parlava lentamente, soppesando le parole, e sperò che agli occhi di Elijah apparisse confusa, solo qualcuno senza memoria che scava a mani nude in un passato che non è sicuro di avere e non è sicuro di riconoscere come proprio. Sperò che Elijah cogliesse quella nota, del tutto vera, di nostalgia. «...camminavo libera per questi corridoi, felice» Alzò gli occhi finalmente su di lui. Non era una bugia, tecnicamente, solo omettere parte della verità. «C'eri anche tu, Elijah, e non eri un esperimento. Tu stavi con Loro» Una pausa, l'ultimo attimo che si prese per decidere se tirarsi indietro. "No. Glielo devo; ha bisogno di sapere... io ho bisogno che sappia". «Con noi»
    Deglutì, sentendosi più nervosa di quanto avrebbe voluto.
    Sarebbe facile fare marcia indietro.
    Scoppiare a ridere, o agitare una mano in aria dicendo che si stava sbagliando, che era solo la trama di un vecchio film che doveva aver visto da ubriaca. Che non erano sicuramente i ricordi precedenti al duemilaquattordici.
    Jaden tuttavia era sempre stata un po' egoista, per quanto riguarda le persone che la circondavano. Era disposta a vendere la propria anima, a essere la cattiva, per il prospetto di un mondo migliore, ma non era pronta a rinunciare completamente a quello che era, erano, statinei laboratori. Non era pronta a rinunciare all'Eliljah poco più che vent'enne e buono, che raccontava degli episodi dei suoi amici, che preparava dei panini in più per i picnic perchè non si sa mai, che faceva il proprio lavoro tutto sommato crudele restando umano.
    «Non vorresti ricordare cosa c'era prima? Chi eri prima?» Sussurrava, Jade, le proprie parole che raggiungevano Elijah timorose, in punta dei piedi, preoccupate di una reazione violenta del biondo (in fondo, di questo ragazzo la special sapeva ben poco). Chissà se era inquietante, nella semioscurità, chissà se sembrava solo una tentazione troppo pericolosa.
    Si chiedeva Elijah avrebbe accettato quell'offerta. Era un chiaroveggente, no? Sarebbe bastato fagli toccare gli oggetti gusti, le macerie giuste, e sarebbe stato di nuovo il dottor Dallaire che lei aveva conosciuto e adorato.
    «Non devi rispondermi subito», precisò, sperando di aiutarlo nella decisione. «Però sappi che credo che questo» indicò intorno a sè. «Sia il tuo punto di partenza per capire»

    Jaden fucking beech
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    cos'è, idk, ciao


    Edited by selcouth - 11/9/2017, 00:20
     
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    Avrebbe voluto non esserci abituato, così da poter sorridere e meravigliarsi dello sguardo di Jade, di quel sorriso lasciato cadere con la più sincera innocenza – ed avrebbe voluto che, quel suo esserci ormai troppo avvezzo, gli permettesse di lasciarsi scivolare quelle occhiate di dosso, una scrollata di spalle ed un sorriso più ampio ad ignorare le attenzioni altrui. Avrebbe preferito non seguire gli occhi chiari della bionda posarsi sulla pietra a terra, cogliere quel piccolo cambiamento nell’espressione di lei; non sentire quella domanda serpeggiare nello spazio che li separava, le labbra secche nell’incapacità di darle una risposta sensata - «cosa avresti fatto, con quella?» la gola stretta in una morsa, le iridi verde acqua fisse sul pavimento mentre quelle di lei lo squadravano. Era patetico: se avesse avuto un minimo di autoironia a spalleggiarlo in quel momento, avrebbe con piacere ricambiato quella piega sulla bocca, arresosi all’evidenza. Non era credibile, Elijah Dallaire – che mai aveva davvero creduto nelle proprie capacità, per quanto poteva ricordare, e quella non era che l’ennesima conferma per sé e per gli altri. Non era utile, il chiaroveggente, né riusciva ad essere d’aiuto come avrebbe desiderato - non sapeva badare a se stesso, si ritrovava a pensare ogni volta che gli arrivavano a casa le simpatiche foto in cui Bells si congratulava con lui per non essere morto, ogni volta che Eugene e Nate lo chiamavano o si presentavano ad Inverness per accertarsi fosse ancora vivo e vegeto, ogni volta che Rea lo faceva entrare nella sua stanza. Lui per primo non si fidava, come poteva sperare lo facessero gli altri per lui? Li aveva già delusi una volta, troppe volte. Il fatto che non potesse biasimarli, tuttavia, non lo aiutava a stare meglio. Si armava di buoni intenti, il francese – della convinzione che potesse farcela da solo, e che potesse farcela per loro: era tutto quello che aveva sempre voluto, in un sempre che scavava nei liquidi meandri di una memoria perduta. Privato di quello, non era più nulla: un soprammobile di cristallo da assicurarsi non cadesse mai, che con la propria rottura ne avrebbe spezzati altri. Suscitava compassione il Dallaire, con lo sguardo perso ed il facile sorriso morbido ad illuminargli il volto senza apparente motivo, quando di motivi ce n’erano sempre in abbondanza; faceva tenerezza, ed avrebbe voluto fingere di non saperlo.
    Cosa voleva farci, con quella pietra? «niente» biascicò scrollando la testa, lo sguardo fisso sul pavimento prima di volgerlo alla bionda. Era stanco di irradiare innocenza ad ogni suo passo, conscio che tuttavia non gli era possibile fare altrimenti. Era fatto così, Elijah – che non avrebbe dovuto, che innocente non lo era affatto. Aveva senso dire che l’avrebbe usata per difendersi, quella pietra? Gli avrebbe creduto? Iniziava a dubitare, e forse anche prima che cominciasse lei a farlo, che sarebbe stato in grado di aggredire qualcuno con quell’arma situazionale. Di altri sguardi pietosi, non ne aveva bisogno: perciò tacque la bile ad ardere nella gola, i respiri misurati.
    Dire che fosse confuso da quella situazione, oltre che ad essere inutile e ridondante, sarebbe un sincero eufemismo: non era più certo del perché, in primo luogo, fosse andato in quel laboratorio; non capiva perché Jaden Beech, la futura madre di suo nipote, fosse lì; non riusciva a concepire quelle domande lasciate appese, a creare nell’aria satura di polvere e ricordi svaniti castelli dalla forma incerta, le basi cedevoli – non se l’era aspettato un risvolto del genere per quella giornata ma, per quanto per uno che poteva leggere il futuro avrebbe dovuto essere un trauma, non era rimasto stupito dalla sorpresa; non troppo. Ciononostante, la cosa che lo aveva lasciato più basito era stata la consapevolezza che il Jackson non sapesse di quella gita fuori porta della ragazza: non aveva ben chiare le dinamiche di quella coppia, come non era certo di poter definire i due in tal modo, né era nessuno per poter dire cosa l’uno dovesse sapere dell’altro, ma… era sospetto. «preferirei non gliene facessi parola» Inarcò un sopracciglio, incrociando le braccia al petto: gli stava chiedendo di tenere dei segreti con il proprio migliore amico? Davvero? Stava, seppur lentamente, cercando di rimediare a qualsiasi errore avesse mai fatto in vita sua, partendo dall’aver dimenticato ventitré anni della sua esistenza: non era certo che un’omissione del genere avrebbe giovato ai suoi buoni propositi. Deglutì, ed istintivamente annuì: che di menzogne, ai suoi amici e alla sua famiglia, ne aveva già dette - più di quante potesse saperne; aveva sempre mentito per loro, per non farli soffrire, e per loro aveva sempre sbagliato. «non sono io a doverglielo dire,» constatò, districando la presa sul petto: sì consolò per quel segreto, sapendo che non avrebbe mai potuto minare la felicità del serpeverde – e, chissà perché!, sentiva che un’informazione del genere avrebbe potuto farlo. «ma non penso per lui sarebbe un problema saperlo» lo credeva davvero: era un Eugene.
    «Ricordo di essere già stata qui... ma non come prigioniera... non solo almeno ...camminavo libera per questi corridoi, felice» Elijah scosse la testa, le sopracciglia corrugate mentre lo sguardo seguiva il movimento delle dita di lei. Non sapeva dove volesse andare a parare, non voleva capirlo. «C'eri anche tu, Elijah, e non eri un esperimento. Tu stavi con Loro. Con noi» inconsapevolmente, si allontanò dalla ragazza – le spalle contro il muro, la stessa espressione confusa e turbata a scrutarla; un mezzo sorriso, mentre di nuovo scuoteva la testa, lasciandosi scivolare verso il pavimento.
    Poteva non crederle, poteva ignorarla: sapeva già quello che gli stava dicendo, l’aveva già scoperto a sue spese ma lo aveva sempre lasciato sospeso in un limbo d’ignoranza. Non aveva mai avuto certezze, il biondo, sul suo essere stato un Dottore Estremista – solo quel cartellino, solo quei ricordi opachi indotti -; quella poteva essere la sua conferma, quanto una presa in giro ben congeniata.
    Poteva non crederle, poteva ignorarla, ma non sarebbe stato Elijah Dallaire se lo avesse fatto.
    Non riuscì nemmeno a concentrarsi su quel noi, in quel momento: quanto sapeva, di Jade? Poco, troppo poco – eppure sapeva di potersi fidare di lei, delle sue parole. Lo aveva sempre fatto. «Non vorresti ricordare cosa c'era prima? Chi eri prima?» rise aspro, le dita a cercare nella tasca quel badge che temeva sempre, e che di continuo portava con sé – la speranza di un ricordo nuovo sulla carta plastificata, il terrore di scoprire più scheletri nell’armadio ogni giorno che passava. «so chi ero prima» esagerò, fisso lo sguardo sul tesserino, amara la voce sulla lingua: dire che sapesse qualcosa, era sempre un’esagerazione per lui. So chi ero prima - anche lì supposizioni, basate su regali di Natale indesiderati e reminescenze di un passato sfocato: un fratello, un amico, un grifondoro, un mago; un ribelle, un soldato, un estremista, un dottore - «un mostro» piegò acido l’angolo della bocca, incapace di alzare gli occhi sulla bionda. Aveva parlato prima ancora di pensare a quel “noi”: era così che li aveva sentiti descrivere, era quello che la gente credeva fossero – non aveva prove, per dimostrare il contrario. Anche lei era stata una dottoressa? Probabilmente sì, per questo non voleva che Eugene non sapesse delle sue gite; per lo stesso motivo, non voleva che i suoi amici e sua sorella sapessero di quelle memorie. «non… non intendevo quello» sussurrò affranto, cercando supplichevole gli occhi chiari della Beech: l’aveva offesa? Non voleva offenderla. «mi dispiace, è che io…» respirò profondamente, cercò di fissare lo sguardo altrove: non era sua intenzione giudicarla e giudicarli, per quanto potesse averlo sconvolto quella mezza confessione. «non ci capisco più niente»
    Lasciò scivolare quella confessione, perdendosi ad ascoltare le parole di lei. Se quello era il suo punto di partenza? Era andato lì apposta: forse era lei, il suo punto di partenza. «ci conoscevamo, jade?» domandò, il sorriso sul volto – ingenuo, in quella domanda che d’innocenza era appena macchiata. «ti prego, dimmi che sai spiegarmi qualcosa» non chiedeva tutto, solo un po’. Quanto bastava. «dimmi che sai perché non ricordo» che era stanco, di brancolare nel buio.
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    Sentì salirle una punta di irritazione vedendo Elijah incrociare le braccia, sguardo quasi accusatorio verso di lei. Come si permetteva di giudicarla, quando non sapeva niente di lei o della sua relazione con Eugene? Poteva stargli chiedendo di tenere il segreto con il Jackson perchè stava organizzando una sorpresa all'ex serpeverde, potevano essere cazzi suoi e basta. Elijah cosa ne sapeva? Jade e Euge non era una felice coppia sposata che aveva giurato fedeltà eterna, niente segreti, quindi Eli non poteva pensare di intervenire credendo di fare chissà quale favore al suo amico. Chi era lui per decidere per Jade come vivere la sua vita? Quasi per ripicca, Jade imitò la posizione e l'espressione di lui, una bambina che gioca a copiare un adulto solo per fargli perdere le staffe. «non sono io a doverglielo dire» «No. Decisamente no» convenne con lo stesso tono. «ma non penso per lui sarebbe un problema saperlo»
    Aprì la bocca per rispondere, la richiuse. Sospirò. Certamente Euge non avrebbe trovato un problema scoprirla lì e basta, e Jade non poteva avercela con Elijah per il suo essere così un Elijah, ma dire all'uomo di essere andata in un laboratorio dismesso avrebbe potuto fargli sorgere delle domande, e Jade non voleva ne trovasse le risposte. Poteva non pentirsi delle proprie scelte di vita, poteva essere certa che, avendo una seconda possibilità, avrebbe rifatto le stesse cose di nuovo... ma la sua nuova vita, tutto sommato, le piaceva. Euge, le piaceva, e sapeva fin troppo bene come sarebbe finita fra loro se avesse scoperto che era stata una dottoressa ribelle. «Fammi questo favore», chiese ugualmente. «Tieni questo incontro fra noi» un tempo non ci sarebbe stato bisogno di pregarlo per mantenere un segreto; un tempo, Elijah avrebbe - e aveva - mentito al suo migliore amico fidandosi e basta della parola della Beech. Se avesse continuato a farlo, invece che iniziare a farsi venire i dubbi, ora non si sarebbero trovati entrambi lì. Ora Elijah non l'avrebbe guardata come un'estranea. Ora Elijah non l'avrebbe guardata come se gli avesse appena raccontato una storia assurda, sbagliata. "E' la tua storia, Eli. La nostra. Devi credermi" Avrebbe voluto gridarglielo, scuoterlo per le spalle. "Perchè non mi credi? Una volta lo facevi"
    Si appoggiò al muro opposto a quello dove Elijah era scivolato, studiando l'espressione dell'uomo. Incredulo, confuso. Jade immaginò di vedere nei suoi occhi una sorta di ammissione, ma era possibile fosse tutto nella sua testa, il desiderio scottante di avere il vecchio Elijah indietro così forte da farle vedere cose che non c'erano.
    Alla sua risata aspra, Jade si strinse di più le braccia al petto, questa volta una sorta di gesto protettivo. Elijah, nessun Elijah, poteva farle paura, ma c'era qualcosa di sbagliato in quel riso ironico. Davvero odiava così tanto l'idea di quello che Jade stava cercando di fargli capire? «so chi ero prima» Non seguì subito il suo sguardo, persa a guardarlo negli occhi, a cercare risposte nelle iridi chiare convinta di essere in grado di leggerlo meglio di quanto lui leggesse se stesso. La vista del tesserino poco dopo le fece immediatamente accelerare il battito cardiaco, e istintivamente si abbassò, accovacciandosi per vedere meglio. Aveva visto talmente tante volte quel badge, talmente tanto tempo fa, che gli sembrava di star guardando la reliquia di un santo persa da tempo immemore. «Dove-...?» «un mostro»
    Alzò rapida gli occhi cercando quelli di lui, sopracciglia aggrottate, sguardo esterrefatto. Ferito. Un mostro? «No» Era stato Elijah a parlarle per la prima volta dei laboratori, quando l'aveva trovata a spargere volantini sulle malefatte del governo. Era stato lui a fargli vedere la via per una vita migliore per tutti, a darle qualcosa in cui credere. Sì, era stato difficile accettare anni dopo che lo stesso Elijah volesse rinnegare quei credo, ma Jaden non aveva mai pensato che il Dallaire potesse ritenere i dottori mostri; visionari, fanatici, sognatori, non certo mostri. Alzò una mano, ma prima che le sue dita potessero andare a sfiorare quelle del ragazzo sul tesserino restarono sospese in aria qualche istante, dubbiose, finchè non le ritirò umettandosi le labbra. Si mise in ginocchio di fronte a lui,
    le mani in grembo. «Non sei-.. non eri un mostro. Chiameresti mostro chi vuole un mondo migliore? Chi vuole la pace, chi vuole uguaglianza?» Aveva scoperto quasi subito, lavorando nei laboratori, che non tutti avevano i suoi stessi ideali, che non tutti ricercavano nella creazione e sviluppo degli special un nuovo ordine mondiale, la risposta a decenni di guerre e ingiustizie... ma Elijah, lui era sempre stato fra i buoni. In un mondo che non poteva essere diviso fra bianchi e neri, una giovane Jade aveva trovato nel dottor Dallaire un paladino della giustizia, un ragazzo migliore di quanto lei sarebbe mai potuta sperare di essere. Se Eli aveva voluto tradire i loro ideali, se aveva voluto tradire lei, era stato solo perchè addirittura troppo buono (o troppo ingenuo, a seconda dei punti di vista), e incapace di sopportare il senso di colpa di un sacrificio necessario per i fini di un bene più grande.
    «non… non intendevo quello» intendeva esattamente quello. Intendeva esattamente quello che pensavano tutte le persone che partecipavano ogni giorno alla caccia alle streghe contro i dottori estremisti, intendeva esattamente quello che avrebbe pensato Eugene. Quando Elijah tornò a guardarla non abbassò lo sguardo, reggendolo fiera finchè non fu di nuovo lui a distoglierlo «mi dispiace, è che io… non ci capisco più niente»
    Odiava vederlo così.
    Voleva bene a questo Elijah, la faceva ancora ridere quando andava a casa REB, le faceva ancora spuntare un sorriso essendo semplicemente se stesso, ma non era il ragazzo che aveva conosciuto anni prima. Forse non quel ragazzo non sarebbe mai tornato. Si illudeva, Jaden, di aver fatto la conoscenza di un Dallaire diverso rispetto a quello con cui avevano avuto a che fare sua sorella o Euge; si illudeva che il Dallaire vero fosse stato il suo. Dinamico, sicuro, audace, un leader nato, un combattente della libertà. L'Elijah dei suoi ricordi era un eroe agli occhi della ragazzina che Jade era stata, e a volte, e in quel momento, non riusciva a sovrapporre quell'immagine all'Elijah attuale senza trovarle troppo diverse per fondersi. Ugualmente non aveva potuto a fare a meno di chiedersi, in quei mesi, se il nuovo Elijah - più adulto e più maturo - non avrebbe forse di nuovo sposato la causa degli estremisti; a volte si era detta che il gioco non valeva la candela; altre volte si era illusa di si.
    «ci conoscevamo, jade?» E poi lui sorrise, e il dottor Dallaire per qualche istante tornò in superficie. Con lui, i sensi di colpa per quello che Jade aveva fatto, per quello che Jade l'aveva reso. «ti prego, dimmi che sai spiegarmi qualcosa. dimmi che sai perché non ricordo»
    Jaden stava mettendo a rischio tutto solo stando lì, e rispondendo alle domande del Dallaire avrebbe reso impossibile tornare indietro. Non si sarebbe giocata solo il rapporto con Elijah, ma l'amore di Rea, la stramba relazione con Eugene e con il loro futuro figlio, la possibilità di vivere serena cercando di dimenticare tutto quello che era successo prima di quel dannato luglio duemilaquattordici. E per cosa? Sensi di colpa? La speranza che Elijah capisse? "No, perchè è quello che voglio. Perchè voglio che lui sappia, voglio che lui torni quello che era, torni a credere in quello in cui credo io. Perchè non mi farebbe mai del male"
    ci conoscevamo, jade? «Sì», mormorò. Guardava Elijah, impedendosi di abbassare lo sguardo. dimmi che sai spiegarmi qualcosa «E sì» dimmi che sai perché non ricordo «E sì»
    si chiese cosa sarebbe stata disposta a fare se Eli assurdamente avesse deciso, dopo le parole che Jade avrebbe detto, di tradirla o di dirlo al Jackson. "Se mi denuncerà, negherò. Dirò di aver recuperato insieme a lui, grazie al suo potere, la memoria. Non tradirò gli altri, neanche sotto tortura" Normalmente avrebbe pensato che sarebbe stata disposta a morire pur di parlare, ma il pensiero andò al bambino che portava in grembo, l'amore incondizionato per lui, la voglia disperata di vederlo nascere, crescere felice e senza alcuna mancanza. "La cosa giusta. Se mi denunciasse, sarei disposta a fare la cosa giusta"
    Non voleva raccontare a Elijah di come la prima volta fosse entrata in contatto con lui, dei resoconti che Rea in estate di ritorno da Hogwarts le faceva; non voleva raccontargli la prima volta in cui l'aveva visto in sala grande, riconoscendolo dalle foto della sorella, e di come avesse deciso di stargli alla larga, gelosa che Rea potesse preferire un altro biondo a lei o alle gemelle; non voleva neanche raccontargli di come sotto lo sguardo feroce e ribelle avesse in realtà avuto paura che quel ragazzo ormai diplomato la portasse al ministero per farla torturare quando l'aveva beccata con tutti quei fogli pieni di invettive contro il governo, nè di come, invece, l'avesse studiata attento, invitandola per una cioccolata calda. «Ci conoscevamo... ma lo sai già» e no, non perchè era quello che aveva detto Euge ridendo la prima volta che li aveva "presentati". Lo sapeva, perchè nonostante stesse cercando di tenerlo nascosto a sè stesso anche senza Jade era molto più vicino alla verità di quanto gli piacesse ammettere.
    «Lavoravamo entrambi per cercare di costruire un posto diverso, un posto dove quelli come Rea, come-» abbassò lo sguardo verso la propria pancia «come lui, potessero camminare a testa alta, potessero avere il diritto di valere qualcosa come tutti gli altri senza bisogno di doverselo conquistare con i denti» Si umettò le labbra, lo sguardo ancora basso. «So cosa ti è capitato» deglutì. "Glielo devo", pensò "Lo devo a Euge, a Rea. A quello che hanno passato" «Non sarebbe dovuta andare così» precisò rapida, le parole a scivolare lente sulla lingua mentre si prendeva i suoi tempi per confessare. «Non... l'oblivion, quello era l'unica soluzione. Intendo... il coma. Quello che se ne è seguito. Avremmo badato a te, avevamo un piano...» Alzò lo sguardo, rendendosi conto che tergiversare non l'avrebbe portata da nessuna parte, e Elijah non avrebbe comunque capito. Poteva solo sperare che sarebbe stato ad ascoltarla abbastanza a lungo per sentire le sue motivazioni, per convincersi a tenere il segreto.«Sono stata io. Ti ho lanciato io l'oblivion»
    Jaden fucking beech
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    Non aveva ritenuto opportuno muoversi, Elijah Dallaire, o di parlare; se solo non fosse costata la vita di altre due persone, seduto su quello che di un pallido linoleum conservava solo l’opaca memoria probabilmente avrebbe evitato persino di respirare – le spalle contro al muro, la testa china ed i limpidi occhi a studiare lo stesso cartellino di quella che sembrava essere una vita intera. Assente, in quello ch’era stato un Laboratorio dell’estremismo ribelle, aveva iniziato ad esserlo nell’esatto istante in cui Jade gli aveva chiesto se lì, lui, ci fosse andato perché ricordava: se gli era sembrata assurda dall’inizio, a partire dal fatto che si fosse trascinato fino a quel luogo senza starci a rimuginare sopra troppe volte, quella situazione aveva iniziato a scadere nell’allucinante di parola in parola.
    Presso quei ruderi, il francese ci era tornato con uno scopo – un movente a spingerlo in ogni passo tra la frenesia di una Londra in ordinario subbuglio, un fine ultimo che sapeva di non conoscere, ma non per quello sentiva limitarlo. Aveva creduto sinceramente, con ogni fibra sgualcita di un cuore che non era più il proprio, che ivi avrebbe potuto trovarci qualche sorta di risposta. Sotto quale forma, non gli era dato saperlo; a quante domande ad affollargli la mente credeva di trovare una spiegazione, non ne era certo – di sicura, ne aveva solo una ed era sempre la stessa: perché si era svegliato lì, da solo e privo di memoria.
    Eppure, più passava il tempo tra quelle mura, più si pentiva di averci messo piede dapprincipio. Ad ogni secondo che ticchettava sul vecchio orologio regalatogli dal padre, rimpiangeva di non essere rimasto a Villa Hamilton. Lo sapeva dall’inizio, perché era evidente che altrimenti non sarebbe potuto essere, che niente di ciò che gli serbava quel luogo lo avrebbe portato a stare meglio – allora perché?
    «no» non alzò gli occhi sulla lumocineta, il fantasma di un sorriso già spento in partenza a farsi più tristemente marcato sulle labbra, le dita a stringere ancora più forte il tesserino che lo identificava come dottore. Inutile dire che non si era aspettato alcun altro tipo di risposta, Elijah – e solo perché era Elijah, capite. «Non sei-.. non eri un mostro. Chiameresti mostro chi vuole un mondo migliore? Chi vuole la pace, chi vuole uguaglianza?» Avrebbe potuto dire a chiunque ciò che si sentiva d’essere – in quel momento come in tanti altri prima di quello -, eppure sentiva che nessuno lo avrebbe mai preso sul serio. Lui stesso, non si prendeva più sul serio da troppo tempo: poteva effettivamente non essere, o non essere stato, un mostro, ma avrebbe preferito che qualcuno gli confermasse quei dubbi. Che qualcuno gli dicesse che lo era, in realtà. Che era un terribile fratello, un pessimo amico; un bugiardo, un traditore; colpevole.
    Non voleva essere il capro espiatorio di colpe che nemmeno ricordava, o di peccati che non aveva potuto fare a meno di commettere: era andata così, avrebbe sempre provato quel peso al petto a biasimargli rammarichi che lo avrebbero tenuto sveglio la notte ancora a lungo. Ma buon Dio, buon Dio!, era stanco di non essere niente, Elijah Dallaire; di non poter essere nemmeno il peggiore degli esseri umani a marciare su quella terra, l’ex grifondoro.
    Di esser vuoto, e che nessuno avesse il coraggio di dirglielo una volta per tutte. Non volevano si sentisse responsabile per un mondo che andava allo scatafascio giorno dopo giorno, sebbene avessero le prove o presunte tali a dimostrargli che in parte lo era? Volevano continuare a ripetergli che non era stato un cattivo fratello per Bells, e che come amico non era stato il più stronzo, nonostante li avesse abbandonati per un anno e mezzo - nonostante li avesse dimenticati completamente?
    Avrebbe potuto fingere di andargli bene, se solo tutti loro non avessero sentito il bisogno di guardarlo in quel modo. Come si guarda l’urna con le ceneri di un caro passato a miglior vita, per intenderci: sai che c’è qualcosa al suo interno, rimasugli carbonizzati di una vita che avevi amato, ed al contempo sei consapevole del fatto che non sarà mai più di quello. Non potrà mai esserlo, perché semplicemente non c’è più - e allora la cosa migliore da fare, ripeti a te stesso, è quella di guardare quel contenitore pieno nemmeno per metà di un passato che il vento potrebbe soffiare via da un momento all’altro.
    Lui poteva avere gli stessi movimenti e la stessa voce, iridi verde acqua identiche ed il medesimo sorriso pulito e solare a splendere tra le labbra: ma per quanto ci provasse, per quanto lo volesse, non sarebbe mai stato l’Elijah Dallaire che altri ricordavano al posto suo.
    E da qualche tempo a quella parte, dubitava di esserlo mai stato – persino prima degli Esperimenti, prima della perdita della memoria.
    Quindi si strinse appena tra le spalle, il sorriso a perdere quel poco d’intensità sulle labbra sottili. «probabilmente no» rispose soltanto, ed unicamente per rimarcare il rammarico verso le sue stesse parole. Era vero che non intendeva etichettare i Dottori, Jaden Beech in primis, nel modo in cui aveva appena fatto, e l’ultima cosa che voleva era offendere qualcuno – qualcuno in generale, inteso come “qualsiasi individuo appartenente al genere umano”: figurarsi un’amica come la bionda. Che fosse stata una dottoressa anche lei, non significava nulla; come aveva appena detto, se lo era stata lo aveva fatto per un mondo migliore – chi era lui, per dirle di essere un essere spregevole per quel motivo?
    Tutta la rabbia e la frustrazione che nutriva il Dallaire, era e sempre sarebbe stata per sé stesso.
    Quando la ragazza prese a rispondergli, in quegli assensi che sembravano raschiargli il timpano ed il petto, la convinzione che quella di passare il pomeriggio a visitare quel posto fosse stata un’idea pessima tornò ad incrinargli il respiro, a torcergli l’intestino in maniera quasi concreta.
    Aveva bisogno di qualcosa che colmasse quell’empietà che nemmeno le ceneri del suo passato volevano abitare, anche a costo di sentirsi confermare tutti i propri peggiori sospetti. Ciò non significava in alcun modo che fosse pronto a sentire la verità. Si alzò in piedi piano, strusciando sul muro piatto così come aveva fatto per accasciarsi a terra poco prima; la bocca socchiusa a prendere più aria nel caso fosse venuta a mancare improvvisamente, il palmo della mano che non si appoggiava alla parete a stringere con troppa veemenza il cartellino dei Laboratori – disse a sé stesso, il chiaroveggente, che si era preparato al peggio.
    Che qualunque cosa, non gli avrebbe fatto più male di quanto aveva previsto. Al massimo, lo avrebbe lasciato così com’era.
    Ma ad ogni secondo in cui la Beech rimaneva in silenzio, l’agitazione saliva: non sapeva nemmeno perché, poi. Sapeva che le sue parole sarebbero state la verità, se lo sentiva sotto la pelle; non soltanto perché anche lei era a conoscenza del fatto che era stato un Estremista, o perché ella stessa si era esposta dicendo d’esserlo stata a sua volta – quale persona sana di mente, andrebbe a dire in giro di essere coinvolta in qualcosa di così illegale? Jade era una persona intelligente: non l’avrebbe fatto, se non fosse stato vero. La sua era più una certezza: come se fosse stata una sorta di premonizione a metà ad incoraggiarlo nel sentire tutto quello che avesse da dire la bionda, ad assicurargli che non avrebbe mentito.
    Disse a sé stesso, il chiaroveggente, che si era preparato al peggio – ed ancora, ed ancora: ma non aveva idea, di quale fosse il peggio che si aspettava davvero.
    «Ci conoscevamo... ma lo sai già» «non è vero» scosse rapido la testa più volte, avvicinandosi cauto. Credeva forse stesse mentendo, sul non ricordarsi di nulla? O forse come molti prima di lei pensava d’avere un posto privilegiato nei fumi informi ed incolori ad inondargli il cervello? Poteva aver detto tante bugie in vita sua, Elijah, ma non aveva mai mentito sul non ricordarsi di niente e nessuno prima del luglio del duemilaquattordici – c’era stata soltanto Bells ad accompagnare il suo risveglio, soltanto lei era rimasta del proprio passato, e nemmeno in maniera completa. E faceva male ogni fottuta volta che, ripetendo un gesto evidentemente comune, Nate ed Eugene storcevano la bocca in una smorfia dispiaciuta quando lui gli diceva che no, non aveva memoria di quando lo facevano; adombrava gli occhi ed il sorriso, ogni qualvolta Rea si riferiva ad un particolare evento in cui aveva tentato, invano, di ucciderlo, sorridendo maliziosa e melensa in quel non ti ricordi? che sfuggiva dalle labbra senza prestarci troppa attenzione. «non è vero che lo so già, jade» fu poco più di un sussurro, il suo. Non aveva intenzione di interromperla, e non lo fece mentre ribadiva il fatto che lì sotto, loro due, ci avevano lavorato insieme alla ricerca di un perfezionamento.
    Non aveva intenzione di chiederle alcunché, nessuna spiegazione, mentre continuava a parlare; ma avrebbe voluto, Elijah Dallaire. «Non sarebbe dovuta andare così. Non... l’oblivion, quello era l'unica soluzione. Intendo... il coma. Quello che se ne è seguito. Avremmo badato a te, avevamo un piano...»
    Avevano un piano.
    Era l’unica soluzione.
    Non capiva se facesse troppo freddo lì sotto, o se semplicemente avesse iniziato a tremare per altri motivi. Non poteva comprendere la necessità dell’Oblivion, né era certo di volerlo fare, ma lo aveva sempre messo in preventivo: in qualche modo, dopotutto, la memoria aveva dovuto andarsene. Nemmeno si era accorto del prurito agli angoli della bocca, a forzargli le labbra nell’accenno di un riso pregno d’isteria e privo di suono; nemmeno si era accorto di aver mosso altri passi verso di lei, lenti e misurati. «dove vuoi arrivare?» un flebile sibilo.
    Inutile, del resto. «Sono stata io. Ti ho lanciato io l'oblivion»
    Forse non era trascorso un solo istante, prima che Elijah Dallaire iniziasse a camminare nella direzione opposta, le dita ad intrecciarsi nei capelli dorati. Forse era passato troppo tempo, immobile mentre sulle labbra rimaneva lo spettro dello stupore, e le iridi cangianti a scurirsi avevano fissato Jaden Beech così a lungo da lasciarle l’orma offesa a riflettere nello sguardo azzurro di lei.
    Sentiva il nevrotico istinto di ridere a crepapelle, soltanto perché in quel modo avrebbe liberato i polmoni di un peso acre a bruciarli – e per lo stesso motivo, voleva urlare. Non ingiurie, né nulla di simile: soltanto gridare finché non avesse più avuto voce per farle altre domande, per farsi spiegare ancora di più.
    «mi hai lanciato tu l’oblivion» ripeté invece, atono; si sorprese a guardare il soffitto, il venticinquenne, e quando sentì gli angoli degli occhi iniziare a prudere comprese il perché. Respirò piano, la voce a morirgli secondo dopo secondo.
    Sentiva che doveva chiederle perché fosse stato necessario, chi erano quei loro ad avere un piano – ma non gli importava più, sapete.
    Se non a Brecon, Elijah non aveva mai fatto del male a nessuno – non fisicamente, almeno: voleva ancora sperare, lui, di essere una persona buona. Non ci credeva più da troppo, ma la speranza era sempre stato convinto fosse l’ultima a morire. Eppure, nel pugno chiuso ad accartocciare il badge, dovette ripetersi che era intima con Eugene, Jade – che era incinta del figlio del suo migliore amico, e che non avrebbe mai potuto farle del male.
    Fargli, del male.
    Perché non aveva mai preventivato quello, il Dallaire – e forse non era nemmeno suo quell’istinto inibito a supplicarlo di spingerla addosso alla prima parete e di lasciarla lì, senza più preoccuparsene, che magari era una sfaccettatura di quell’anima spaccata a metà che non gli apparteneva. «mi hai cancellato la memoria» si costrinse a voltarsi, solo quando la prima lacrima prese a rigargli il volto. Avrebbe voluto gridare, avrebbe voluto tuonare in quel luogo dimenticato da Dio – ma non lo fece, e si avvicinò con fin troppa calma alla ragazza. «mi hai tolto tutto quanto, jade» più lo ripeteva, più si faceva vero - più faceva male. Non aveva mai pensato di incontrare la persona che gli aveva strappato ogni brandello di ciò che era prima; non aveva mai nemmeno ipotizzato, potesse essere una persona così vicina a lui. «mi hai praticamente ucciso – e mi dici che non c’era altra soluzione,» alzò l’indice in sua direzione, calmo nonostante bruciassero le tracce sul viso, la gola in fiamme – nonostante ogni nota della voce fosse distorta, e lui non riuscisse a fare nulla per impedirlo. «che avevate un piano»
    Lo avevano ucciso, ed avevano lasciato il suo spettro a marcire lì dentro per chissà quanto tempo: credeva all’incantesimo, glielo si leggeva negli occhi che era la verità; sul piano in questione, aveva tutte le riserve del mondo. Sarebbero potuti tornare a prenderlo, se gli fosse interessato.
    Ma non gli importava - non più.
    Elijah Dallaire era semplicemente, ed irreparabilmente, distrutto: lo era da sempre, e dirsi che ormai il danno era stato fatto non aiutava a farlo sentire meno rotto. Il fatto che non era così che sarebbe dovuta andare, non lo faceva stare meglio. «vattene.»
    Arretrò, il fiato a farsi più pesante. «vattene, per favore» arretrò ancora, ed avrebbe continuato a farlo se il muro non glielo avesse impedito; allora cadde a terra, le gambe a stringersi al petto e lo sguardo perso.
    «non dirò nulla ad euge» non la guardava, non ce la faceva. Nuovamente, non avrebbe saputo quantificare il tempo passato in silenzio, gli occhi lucidi fissi sulla parete di fonso: non riusciva nemmeno a pensare, il fu grifondoro. «ma giuro su dio, jade,» inspirò, espirò – la voce non tradiva più alcuna emozione: solo le lacrime a raccogliersi nella fitta barba bionda, parlavano per lui. «se solo osi a fare del male al mio migliore amico - in qualsiasi modo, non mi interessa il come -,» voltò brevemente lo sguardo su di lei, rapido nel trovare le iridi chiare della ragazza. «gli dirò tutto quanto»
    Ci avrebbe rimesso anche lui, lo sapeva - che avrebbe compromesso i suoi rapporti con i Casta, che il Jackson l’avrebbe odiato per sempre per aver tenuto quel segreto tanto a lungo; che niente sarebbe stato più lo stesso.
    Ma Elijah Dallaire, di voce per dire quanto poco gliene importasse in quel momento non ne aveva più.
    Per dire quanto sempre gli sarebbe interessato, e che in quel modo sarebbe stato meglio per loro, non ne aveva più.
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    Edited by zugzwang. - 15/3/2018, 04:14
     
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    «mi hai lanciato tu l’oblivion»
    Si era alzata lentamente in piedi nel momento in cui Elijah l'aveva fatto, guardandolo senza sapere cosa fare mentre lui, mani fra i capelli, faceva avanti e indietro elaborando la notizia. Quando lui si fermò, lo sguardo andò subito alla sua mano, al pugno chiuso violentemente, e prima di poterselo evitare Jade aveva assunto una posizione difensiva, una mano pronta a scattare a prendere la pistola ancora nei pantaloni e l'altra aperta, per usare il suo potere per creare uno scudo di luce. Quando si rese conto di quanto fatto, si sentì immediatamente una stupida: non importava quanto sconvolto, quanto arrabbiato; era Elijah, e non le avrebbe fatto nulla... non quando portava in grembo il figlio del suo migliore amico, almeno. Senza contare che era sciocco mettersi sulla difensiva: ai suoi occhi era lei la malvagia della situazione; lei il lupo cattivo. Passava ancora di più dalla parte del torto, se si mostrava a quel modo. Rapida, si strinse le braccia al petto.
    «Posso... spiegare» voleva davvero farlo. Non avrebbe potuto fare nomi, descrivere nel dettaglio la situazione del laboratorio di quattro anni prima (ci sarebbe stato così tanto di cui parlare), ma era certa che anche solo con un'infarinatura generale prima o poi Eli avrebbe compreso, avrebbe capito. Renderlo quello che era ora era stato necessario; il male minore. Per quanto comunque Jaden sapesse di non essere nel torto (era grazie a quell'incantesimo se lui era vivo in primo luogo), era difficile non sentirsi male vedendo l'espressione dell'uomo, la lacrima che gli scivolava lungo il viso. Difficile non percepire la rabbia che prendeva forma, lo sgomento, l'odio. Il Dr Dallaire che aveva conosciuto avrebbe annuito; aveva sofferto, non sarebbe stato d'accordo, ma non li avrebbe odiati.
    «mi hai cancellato la memoria» si irrigidì sotto il suo sguardo, resistendo alla tentazione di fare un passo indietro quando lui si avvicinò. Avrebbe sempre potuto usare il proprio potere per creare uno scudo fra loro, se il suo presentimento sulla bontà del ragazzo fosse stato in verità infondato e l'avrebbe fatto, per difendere suo figlio. «mi hai tolto tutto quanto, jade» deglutì, incapace di muoversi ulteriormente. «mi hai praticamente ucciso – e mi dici che non c’era altra soluzione, che avevate un piano»
    Un po' lo odiò, in quel momento. "Non sono stata io a farti diventare un dottore", quasi sentì la necessità di giustificarsi, "Conoscevi i rischi". Elijah non sapeva la situazione (non la ricordava), e la stava giudicando prima ancora di ascoltare l'intera storia. L'avevano salvato, obliviandolo, da un destino ben peggiore di qualche mese passato a vagabondare per Londra; aveva fatto pressione sulla direzione del lab, per quella soluzione, aveva messo a rischio se stessa, aveva garantito con altri per la riuscita del piano andando contro tutti... perchè lo amavano, perchè era loro amico, perchè era Elijah, e lui arrivava a conclusioni affrettate? Sbuffò una risata amara, la bionda, gli occhi che le pizzicavano per un pianto che cercava di frenare. Non era certa neanche lei se fosse dovuto al senso di colpa arrivatole nel vedere Eli in quello stato, o dal rammarico e dalla delusione per la reazione di lui. «Sai cos'è peggio di essere "praticamente ucciso"? Essere letteralmente ucciso. Ora sei qui, no? Te lo assicuro, poteva andarti peggio»
    Aveva subito esperimenti, certo, era stato tenuto prigioniero... ma era vivo. Dannazione, non poteva riconoscerle almeno quel merito? Se il laboratorio non fosse stato trovato dalla task force di volontari, lei, Murphy, Sin, avrebbero potuto continuare a tenerlo lì nascosto finchè, dopo qualche settimana quando le acque si fossero calmate, lo avrebbero potuto lasciare in una zona di Londra dove erano certi un suo amico o la sua famiglia lo avrebbero ritrovato e portato a casa, insegnandogli tutto sulla propria vita. D'accordo, la seconda parte del piano era andata a puttane, lo avevano perso per un anno, si era ritrovato con un potere che non sapeva controllare e nessuno a insegnargli come gestirlo... ma ora era lì, aveva ritrovato Bells, aveva ritrovato tutti. Era felice.
    «vattene.»
    Così com'era arrivato, il risentimento di Jade se ne andò. Trattenne il fiato, le labbra strette fra loro mentre immobile fissava il ragazzo. Andarsene? Prima di potergli spiegare altro? Prima di potergli dire perchè? Ce lo aveva, un perchè. Era valido, era reale. Aveva bisogno che lui lo sapesse, arrivata a quel punto.
    Aveva bisogno che lui la perdonasse.
    Si portava quel peso nel petto da più di tre anni. Quell'eterno dubbio sul come lui l'avrebbe presa, se lui l'avrebbe capito, e ora che la questione era uscita e sapeva che Elijah non era d'accordo, non poteva pensare di non avere la possibilità di fargli capire che era stato per il suo bene.
    «Elijah...»
    «vattene, per favore»
    Deglutì, guardandolo indietreggiare spaventato, sperso. Si rese conto che lo preferiva irato, che in quello stato. Deglutì, restando ferma sul posto, una prima lacrima a scenderle finalmente sul viso. «Eli, guardami», pregò in un mormorio sull'orlo dell'isteria. «Posso-... c'è una ragione»
    «non dirò nulla ad euge» il nome del Jenkins la scottò, facendola sobbalzare leggermente. Non aveva neanche pensato a quell'eventualità, negli ultimi secondi, ormai certa che avrebbe potuto negare qualsiasi cosa detta dal Dallaire... si rese conto che non era così. Se Elijah avesse deciso di raccontare quella chiacchierata a Euge, a Rea, la vita di Jaden così come la conosceva sarebbe finita. Non serviva la certezza che il Dallaire stesse dicendo il vero; anche solo insinuare il dubbio che Jade fosse stata invischiata con la storia dei laboratori, che ne fosse a conoscenza, le avrebbe distrutto la famiglia.
    Gentilezza di eli o no, comunque, non faceva meno male.
    «ma giuro su dio, jade,» Scosse la testa, cercando le parole da dire. «se solo osi a fare del male al mio migliore amico - in qualsiasi modo, non mi interessa il come -,» «Non-» "lo farei mai".
    Che cazzata. Lo stava già facendo, non dicendogli la verità. Si illudeva di poter vivere per sempre in quella favola di friends with benefits senza che Euge scoprisse mai il suo passato (e, sperava, il suo futuro), ma ora convivevano, avevano un bambino in arrivo, e forse non lo amava - perchè in quelle cazzate non credeva -, ma provava ugualmente qualcosa per lui... ovviamente prima o poi avrebbe dovuto dirgli la verità, o comunque la avrebbe scoperta da sè. Più passava il tempo, peggio era. Poteva solo sperare davvero non venisse mai a saperlo, o sarebbe tutto finito. «-gli dirò tutto quanto»
    Non avrebbe dovuto dirglielo.
    Perchè l'aveva fatto? Per minacce da parte di Elijah, per la cosa più lontana possibile dalla chiacchierata a cuore aperto che aveva sempre sperato? Aveva messo a rischio la propria felicità. "No, glielo dovevo. E' stata... è stata la cosa giusta, doveva capitare. Capirà. Se solo mi ascoltasse-"
    Ma, si rendeva conto, non era nello stato mentale adatto per sentire la propria storia. Scoprire di essere stato un dottore era già abbastanza per una giornata, probabilmente.
    Prese un grosso respiro, si passo il dorso della mano sotto le guance. Non poteva stare ancora lì sotto; non sapeva come Elijah avrebbe in verità preso la storia, poteva non prenderla come avrebbe fatto il Dr Dallaire che aveva conosciuto, e se anche Jade fosse stata d'accordo nel rischiare la propria vita, c'era il bambino a cui pensare; aveva la sua vita e il suo futuro sotto la propria responsabilità. «Ti lascio pensare» mormorò. Si schiarì la voce, e continuò con un tono di voce più alto «Ma se vorrai sapere cos'è successo davvero, se vuoi sapere chi eri... sai dove trovarmi. Eugene e Rea non devono venirne a conoscenza, ma tu... te lo meriti, Elijah. Potresti scoprire che non eri così male come ora ti stai immaginando»
    La promessa di una porta aperta e un viso amico con cui sfogarsi, era il massimo che poteva offrirgli, al momento. Se Elijah avesse voluto sapere, lei ci sarebbe stata per lui, per se stessa, per chiudere quella storia. Non poteva toglierle l'Oblivion, ma poteva fare qualcosa di simile e ugualmente doloroso.
    Quando se ne andò, non guardò indietro.
    Jaden fucking beech
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    WOW A MERDA MA CHIUSA!!!!!!!!
    madonna qui jade è incinta, e l'11 uran ha compiuto un anno . era ora


    Edited by mephobia/ - 22/6/2018, 19:24
     
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8 replies since 16/1/2017, 17:51   550 views
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